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XIII

Continua il diario di Bruno: 

«Roma - maggio 1919 

«La zia Anna à deciso di venire a Roma a raggiungermi. Ha colto una felice occasione di affittare tutto il villino, il mio villino, villa Alba, come l'avevamo battezzato quando era ancor viva la mamma. Nientemeno che diecimila lire per un anno, a un ex carbonaio di Termini diventato milionario, deciso a stabilirsi a Palermo con la famiglia. Io ò dato il mio consenso e ò preso ora un quartierino in via Sistina, a cinquanta passi da Trinità dei Monti: cinque camere, uno stanzino, cucina, bagno; cinquemila lire. Me ne restano altrettanto per andare — se ci riesco — a New Orleans... 

«E' arrivata la zia. Mi accorgo di volerle bene. E' sorprendente, a settantaquattro anni, pel suo aspetto e per la lucidità del suo cervello. Si è sbrigata a puntino da sé, o con l'aiuto dell'avvocato Geraci e di una serva, in ogni circostanza: i suoi affari, che non so bene quali siano, i miei, che conosco purtroppo, il trasporto dei mobili, parte a Roma e parte in un magazzino di deposito. Il fallimento dello zio Giovanni, grazie a lei, si è risolto per me in un utile, pagato l'avvocato Stagno e le spese, di seimila lire impiegate per riparazioni nella villa. Tutto quel che mia madre e io avevamo approntato ai Collebrina sono andati in fumo, senza speranza di recupero. Essa vorrebbe che io rivendicassi il mio credito, presso i nuovi proprietari della fabbrica. Ma non è andata in fumo anche Alba? 

«Chi sa! La zia mi à rincorato, assicurandomi che la ritroveremo, che essa ritornerà prima o poi. «Il console di New Orleans non mi risponde. Ma io sono deciso a partire ugualmente. 

*** 

«Il mio incontro con Sahib è valso a ridarmi una di quelle gioie che ieri mi parevano ormai impossibili. Il mio cane, arrivando a Roma con la zia, appena mi à scorto è rimasto un pezzo immobile a fissarmi, col muso finissimo teso, le orecchie erette. Poi mi à annusato, tremante, fra l'andirivieni della stazione, quasi col terrore di sbagliare, d'ingannarsi. Finalmente à dato un urlo e mi si è slanciato al collo gemendo, convulso, impazzito, frugandomi con le narici nel petto, sotto le ascelle, quasi per penetrarmi, per entrare in me, con una furia che mi diede le lagrime. 

«Molti si fermarono a guardarci. E io pensai che valesse ancora la pena di vivere se mi restava accanto la bontà di una creatura che non conosce la civiltà, le leggi degli uomini, Dio, ma che sa ciecamente e disinteressatamente amare. 

«Anche Ciccio, il gatto persiano, mi à riconosciuto. Ma è melanconico. Dice la zia che per più mesi, dopo la partenza della sua padroncina, andò d'ora in ora dietro la porta della camera di Alba a miagolare. Ora si aggira sospettoso e muto per la nuova dimora romana, fiutando ogni angolo; poi balza sul davanzale d'una finestra e vi rimane a lungo accovacciato a guardare nella strada. 

*** 

Giugno 

«La risposta da New Orleans è venuta. Il console scrive che effettivamente nell'agosto 1918 arrivarono, con un piroscafo spagnolo, i coniugi Guttierez accompagnati dalla figlia di primo letto Alba Collebrina e da un bambino di sesso mascolino dell'età di circa diciotto mesi, ma che si trattennero poco tempo soltanto a New Orleans, da cui proseguirono poi alla volta di una fazenda di uno stato al confine messicano, località però rimasta imprecisabile. 

«Per tentare d'ottenere senz'altro il passaporto, accompagnato dal senatore E., direttore amministrativo del mio giornale, mi sono rivolto al Ministero degli Esteri adattandomi anche a pregare Ricchieri che vi occupa un posto ragguardevole e degno della sua serietà. Molto riservato, ma gentile, ha promesso di occuparsene. 

«Ho avuto buone nuove al Ministero della Guerra. Sormani mi è stato utilissimo. E' riuscito a interessare anche il generale Albricci che à scritto dichiarandosi pronto ad attestare il vero in favore mio, ma sopratutto in favore del tenente Foresi Giuseppe. E' stata ordinata l'inchiesta e sospesa ogni pratica giudiziaria contro di me, pratica del resto annullata dalla recente amnistia. Ma io non voglio essere un amnistiato, amnistiato di una colpa che non ho commesso, e ho preteso che si andasse in fondo e che si desse corso al mio reclamo per il mancato riconoscimento degli alti meriti di Peppino Foresi. Mi sono messo in capo che gli debbono dare la medaglia d'oro e ci riuscirò, con l'aiuto di Sormani e dei suoi amici. Lo considero un mio dovere verso Peppino, sempre ammalato e debole di mente in un sanatorio di Varese. 

«Per me… Per me, mi basterà se mi rilasceranno il nulla osta per il passaporto. 

Luglio 

«Come mai è saltato in mente alla zia Anna di tenersi in corrispondenza con quelli di Augusta, Aura e suo marito, ai quali non avrei mai pensato? Pare che i coniugi Corbelli, dopo la fugace apparizione in casa nostra, nel viaggio di nozze, mandassero a me, alla mamma, ad Alba, cartoline illustrate a cui Alba e per noi la zia risposero. La zia li informò poi della morte della povera mamma, ed essi mandarono una lunga ed affettuosa lettera di condoglianze, della quale ricordo di aver guardato allora soltanto la busta. Continuarono poi a scambiarsi, per le ricorrenze, cartoline e saluti. La zia ci prese gusto. Scrisse qualche volta anche di me, della mia presunta morte, provocando nuove condoglianze fierissime. Mi ha dato a leggere una lettera di Aura che sarebbe molto commovente se io fossi morto davvero. Alla partenza da Palermo, La zia comunicò a quei parenti (in che grado non saprei dire) il nostro indirizzo di Roma. 

«Ecco ora che mi arriva un espresso del mio quasi cugino o quasi nipote, comunicante il suo nuovo e improvviso trasloco alla capitale e chiedentemi che, per favore, gli procuri subito un appartamentino così e così, di pigione non superiore alle tremila, con tante stanze, esposto a mezzogiorno, non più basso di un secondo piano né più elevato di un terzo, ecc. ecc. Naturalmente non ne ho fatto nulla. Mi son limitato a telefonare a talune agenzie, sollecitato da zia Anna; ma tutte all'unisono mi ànno spiegato che, data la penuria di case, la crisi mondiale degli alloggi, il fenomeno dell'urbanesimo, è difficilissimo trovare su due piedi la fenice degli appartamenti pretesa dal cav. uff. Corbelli, divenuto anzi comm. Qualche quartierino, qualche villino più grande del desiderato, sì; ma pigioni da fare arretrare economisti meno intransigenti di quel tipo. 

«Ho risposto or ora in questo senso. Spero che il parente trovi una soluzione da sé; io ho altro da fare. Ricchieri, inderogabilmente ipocrita, mi à fatto sapere che non gli è possibile ottenermi un passaporto per gli Stati Uniti, perchè quel governo a disposto di non accogliere più nessuno straniero se non dietro invito e mantenimento o lavoro assicurato da parte di qualcuno già residente nella Confederazione. Ma non è vero: capisco che è un trattamento riservato a me, dal vecchio compagno del consolato di Tunisi. L'inchiesta, d'altra parte, procede lentamente. 

«Ma, dovessi anche nascondermi a bordo d'un transatlantico, io finirò coi partire.

Settembre, 

«Scrivendo mi pare uscire dalla mia solitudine. E' come se raccontassi a Nino Guevarra, o come se continuasse le mie lettere a Peppino Foresi, discreto confidente entusiasta degli episodi della mia vita. Non so rassegnarmi ad avere per solo amico Sahib. Gino Arguti e Giulio Esperia, miei colleghi al giornale, son diventati troppo scettici e non m'in-vogliano alle confessioni intime. Quanto a Carlo Quilici. con la sua follia comunista, il suo fanatismo per Lenin, non prende sul serio niente altro. 

«Nemmeno io prendo più niente sul serio, oggi; tranne lo strano male di cui all'improvviso mi son trovato infermo. 

«Godi! diceva Nino. E aveva ragione. Io voglio godere oggi e domani. Doman l'altro venga pure il diluvio. Tutto attorno a me grida queste stesse parole. 

«Storia di quest'ultimo mese: 

«Fui sorpreso a Napoli, mentre tentavo nascondermi sul piroscafo Trafalgar in partenza per l'America. Due fochisti inglesi mi consegnarono a due carabinieri italiani. Fui trattenuto ventiquattr'ore dietro i cancelli finché un commissario di pubblica sicurezza non credette accogliere le mie spiegazioni: un errore, la curiosità di penetrare nelle stive, nelle carboniere. Frattanto erano arrivati anche da Roma telegrammi sulla mia identità, il direttore del mio giornale aveva spiegato di avermi mandato a Napoli a intervistare un gran finanziere americano, reduce da un'inchiesta economica nell'Oriente europeo e viaggiante giusto sul Trafalgar... 

«Tornai a casa dopo tre giorni di assenza, irridendo e insultando me stesso per l'esito, al solito, nullo di questa mia ennesima avventura, così bene e certo meglio delle precedenti, preparata. Trovai che la zia aveva ricevuto dal parente di Angusta un telegramma-lettera, tra lo sgomento e il risentito, che imponeva questo formidabile problema: «Possiamo restare sulla strada? tanto, io, con una signora e una bimba, all'hotel non ci vado». 

«La zia, convinta che io fossi partito per mancare chissà quanto, aveva risposto mettendo a loro disposizione una parte della nostra casa, finché essi non avessero trovato di meglio. Subito, da Angusta, telegramma annunziante il prossimo arrivo. 

«E così la sera dopo me li trovai sulle braccia, marito, moglie e bimba (Dorotea, nome della nonna paterna, faccia da schiaffi del padre). Io e la zia li collocammo alla meglio tra il mio studio è una camera attigua di cui il comm. Donato ebbe l'alta degnazione di mostrarsi soddisfatto. Io ho passato i miei libri nella mia camera da letto, che sta a sinistra della sala da pranzo, con quella della zia Anna, mentre la camera coniugale, lo studio e il bagno stanno a destra. La cameriera, Erminia, una toscana alta sì e no cinque palmi, entra benissimo anche distesa nello stanzino angusto accanto all'ingresso. Debbo dire che l'economista à accettato l'offerta della zia Anna dei pasti in comune, ma pretendendo dividere a meta le spese giornaliere dato che «è già troppo oneroso il disturbo che egli e i suoi ci recano». Parla cosi. 

«Il lavoro del giornale mi tiene occupato in redazione buona parte del pomeriggio e tre volte la settimana anche della notte, sicché passo poche ore del giorno insieme coi miei ospiti, i quali del resto non mi pesano affatto, tranne lui con la sua sufficienza e la infallibilità da capo ufficio, applicata a tutte le questioni del mondo. Ci si ritrova due volte al giorno a tavola, ove io siedo tra marito e moglie, di fronte alla zia. La bimba prende i suoi pasti a parte, e in altre ore, e dorme abitualmente anche di giorno, dalle tredici alle quindici. La mattina va a passare un paio d'ore al Pincio, con la madre o con la cameriera o con la zia, che in tanta compagnia si adatta anche meglio di me. Adesso zia Anna adopera un cornetto acustico, che le permette di udire i gravi discorsi di ufficio del suo nuovo nipote in terzo o quarto grado. E con che gravità risponde sempre a tono e cava la sua opinione nelle questioni finanziarie! Io non parlo quasi mai. 

«Alcuni giorni dopo il loro insediamento, Erminia — la cameriera — mentre mi serviva il latte nella mia camera, ridacchiava piano per attrarre la mia attenzione. 

« — Che hai? — le chiesi, tanto per secondare la sua voglia di confidarmi qualche cosa. 

«— La signora Aura — mi disse piano — ha fatto subito separare i lettini. 

«— Ah! — feci io senza guardarla. 

« — Ne ha ben ragione! — continuò. — Quel signore, quando dorme, russa. E poi, specialmente di mattina, gli puzza il fiato. 

«E sbottò a ridere. La guardai: i suoi occhi, stando io seduto, mi fissavano di sotto in su, ma così acuti che parevano succhielli. E' una strana creatura, quasi asessuale, più simile a un eunuco che a una donna, e di età indefinibile, fra i venti e i quarant'anni. Mi seccò e non le risposi. «Una sera, mentre eravamo a tavola, involontariamente i miei piedi urtarono quelli di Aura; mi volsi a lei per scusarmene, e la sorpresi a guardarmi con un sorriso tra ingenuo e scherzoso. che non le avevo mai visto, anzi mai supposto. La fissai, ammutolito, e mi accorsi che i suoi occhi sono meravigliosi. 

«Ho cominciato da allora, a considerarla con una certa curiosità. Non è più l'insipida adolescente del maggio 1915, ma una giovane donna slanciata, armoniosa nelle linee e nelle movenze. Somiglia molto alla zia Flavia, ma, ora che è meno magra, il naso è diventato normale; se non fosse pel pallore quasi olivastro, direi che ha pure una prossima somiglianza con Myriam Stefanovich. Che noia, però, questo ricordare ancora quella donna! 

«L'ho giusto riveduta da pochi giorni. Ogni volta che c'incontriamo, ora, mi pianta in faccia gli occhi provocatori e ridenti. Occhi che paiono scambiati tra lei e questa Aura. Ma la piccola Corbelli (toh, non ho mai saputo il cognome di nascita di questa nipote della mia procugina. Flavia non ce lo disse mai: Aura, e basta) ha, quando non guarda un uomo, un'aria buona che non ò mai visto nelle due che le somigliano. 

«Non sa, però, acconciarsi con gusto. Giorni fa, per andar fuori, sfoggiò una sua toelettina verde Nilo che, sotto quel suo pallore, le dava toni verdastri fino alle orecchie. Non mi aveva più guardato, dalla sera dell'incontro dei nostri piedi; ma questa volta, notando forse la mia attenzione, alzò gli occhi su me e mi sorprese evidentemente atteggiato a sgradevolezza. 

« — Che cos'ho? — mi chiese imbarazzata. 

« — Mi pare, — le risposi — che cotesta tinta non ti si adatti. 

« — E' una tinta di moda — s'affrettò a spiegarmi. 

« — Sì, di moda, ma non pei tipi bruni e di colorito pallido come te. 

Non disse più nulla. Uscì a occhi bassi, un po' urtata. La mattina dopo, al solito, Erminia venne a farmi una delle sue confidenze: 

« — La signora Aura, ieri sera, è stata un pezzo chiusa in camera a piangere. 

«— E perché? — le domandai, con una vivacità di cui dopo mi stupii io stesso. 

« — Diamine, perché lei l'ha trovata brutta con quel vestito. 

Volli rimediare; e più tardi che ci trovammo un momento soli (c'era la zia, ma quando non ha all'orecchio il cornetto acustico non conta) le dissi: 

« — Perché non provi anche tu, oggi che lo fanno tutte le signore, ad avvivarti un po' il viso? 

«Aura rispose soltanto con una spallucciata, ma nell'andar via, passando dinanzi a uno specchio, vi si guardò. Due giorni dopo me la vidi apparire, di ritorno dal parrucchiere, con le mani curate, arricciata a dovere e abbondantemente imbellettata. 

«Sentii un acre compiacimento di quella sua metamorfosi, provocata dalla mia suggestione. Ci trovammo un momento soli nella sala da pranzo, e le dissi: 

« — Vedi come stai meglio? Lascia che ti guardi bene. 

«— Per che farne? — si schermi lei, scontrosa; ma un sorriso le balenava negli occhi che sfuggivano i miei. 

« — Non si gode forse a guardare le cose belle? — la trattenni pei gomiti e la fissai. Ella si decise, sorridendo incerta, ad alzare i grandi occhi. Notai che l'abbellitore mercenario le aveva passato anche la matita nera sotto le palpebre — Un po' meno di rosso sui pomelli e più diffuso. Così è un po' troppo da palcoscenico. E, vedi, gli occhi non dovresti farteli toccare: sono già belli, al punto massimo, di per sé; di più si strafanno e si guastano. 

« — Piace a me così, e basta! — esclamò lei, scostandosi, con la durezza della zia Flavia. Ma poiché mi vide rimaner male, quando fu sulla porta scoppiò a ridere e tornò indietro. — Sei incontentabile. Se tutti giudicassero come te, povere donne! 

«— Già — risposi. — Ma non si tratta delle donne: si tratta di te. Perché non mettere in valore i tuoi pregi? Tuo marito ne sarà contento. Ella avvertì la perfidia nascosta in queste parole. Concluse seccamente: 

« — Mio marito non capisce nulla — e mi lasciò. 

«La sera infatti il comm. Donato fu di malumore. Ma Aura aveva addolcito con uno strato di cipria il soverchio rossore delle guance e cancellato il nero sotto le palpebre. I suoi occhi si levarono due o tre volte su me, serii e abbaglianti: alla luce falsa sono nerissimi, di giorno verdi con pagliuzze d'oro fulvo — precisi quelli di Myriam, ma forse più grandi e con ciglia più lunghe. Non ci sono che gli occhi di Alba a esprimere cose più immense. Ma questi promettono molto di ciò che mi manca da anni, ecco la verità: m'interesso a questi occhi più che alla situazione europea del dopo-guerra. 

*** 

«Ho rivisto ancora Myriam, sempre con la solita compagnia. Non capisco come tolleri anche la vicinanza di Orazio Puccio e di altri della stessa risma che le fanno visibilmente la corte. Puccio mi à riferito che lei e il suo considerevole sposo prendono a cuore le sorti di Peppino Foresi e contano farlo destinare a un istituto di cura romano. 

«L'atmosfera di pervertimento che traspira dalla moglie di Casazza, da colei che per un caso che ancora non so definire non fu mia moglie, giunge fino a me, mi penetra come un veleno lussurioso. Mi accorgo che passo ora giorni interi senza pensare più ad Alba, e se la penso è per convincermi che anche lei non è stata che una meteora passeggera nella mia vita abbandonata al vento.

 *** 

«C'è una stupida cosa che ogni tanto trema in fondo alle mie fibre, al posto del diaframma, presso il muscolo cardiaco. Non è l'anima, che non esiste: è una debolezza organica, un'insufficienza del sistema nervoso, che mi obbliga a non dissimulare mai quello che provo; mi ha, anche, questa debolezza, ieri fatto porgere la mano e sorridere ad Annie Catalano, che ho incontrato per via, grassa, pressoché deforme, benestante, e piena di moine. Il suo decadimento fisico mi ha fatto tanta pena che non ò saputo rifiutarle un'ora di passeggiata a Villa Borghese, come la più cordiale amica. Ho pensato che essa fu, infatti, assai gentile e buona, certe volte, pure se a lei in parte dovessi il fallimento di un'impresa che mi avrebbe permesso di mutare, forse, la faccia del mondo. Forse anche m'illudo ancora; ma credo sempre che io avrei potuto, senza lei e senza il tremore del mio diaframma al cospetto di Stefanovich, mettermi al posto di Wilson, con una diversa guerra e una pace diversa. 

«Ma, in fondo, che importa? E' abbastanza orribile quello che è stato. Poteva, l'altro, essere più orribile. Annie mi à detto: 

«Que tu es jeune encore, mon ami! Que des jolies femmes eneore pour toi! ».

 

XIV

Novembre 

«Altri due mesi sono trascorsi. Quante cose, in una sola, sono avvenute! Avevo perduto il gusto di scrivere, per me stesso, per te, Ninì, morto, per Peppino Foresi forse prossimo a ritrovare. 

«Mi si assicura che Peppino ha ora, nel suo sanatorio, momenti lucidi; e anche la tisi che gli rode il polmone ferito sembra arrestata. Lo trasferiranno qui, da Varese, quanto prima. Al Ministero della Guerra, ove un giorno ritornai per parlare di lui, mi si disse che la sua posizione si è chiarita e che ora e in corso la pratica per assegnargli la medaglia al valore. Quanto alle cose mie, esse procedono più lentamente. 

«Io non ho fatto altri tentativi, dopo, perché il mio destino mi allontana ormai da tutto ciò che non sta a contatto con la mia epidermide. 

«Per continuare il mio gioco delle rassomiglianze, dissi un giorno ad Aura: 

« — Un altro particolare io correggerei in te. I tuoi capelli neri sono bellissimi ma sui tuoi lineamenti sì adatterebbe ancor meglio una specie di casco fulvo, dei capelli rosso-tizianesco, tirati indietro, tagliarti corti e appena arricciati alle punte. 

«Descrivevo i capelli di Myriam, quali li avevo visti acconciati quella mattina. Aura scrollò il capo sorridendo: 

« — Ma sono neri; e bisogna prenderli così. 

« — Chi lo dice? — replicai. — Quante signore non danno ai propri capelli la tinta preferita? 

Essa non mi rispose. Ma il giorno dopo mi mostrò varie ciocche di posticci: biondo cenere, biondo oro, rosso mogano. 

« — Il mio parrucchiere — disse ridendo — da un pezzo tenta indurmi alla pazzia di cui anche tu mi hai parlato. Egli insiste per questa tinta oro vecchio. Non ti pare brutta sulle mie sopracciglia nere? 

« — Certamente, — risposi interessandomi come a un grave quesito d'arte — e mi accorgo con piacere che tu acquisti il gusto dei toni. 

« — Oh, oh! — fece lei, mezzo risentita. — Sono, insomma, così provinciale? 

« — No, sei una sensibilità trascurata. Ma già la vita nella grande città ti trasforma. Gli ultimi tuoi abiti sono elegantissimi. Vediamo: io direi che questa tinta mogano, un po' attenuata, e meno opaca, ti si adatterebbe a meraviglia. 

«Gliela provai sulla fronte. 

« — Vedi? vedi? Il colorito della tua pelle si avviva, le sopracciglia nere si intonano coi capelli e gli occhi spiccano come se dentro avessero accese lampade elettriche. Tuo marito non ti ha mai detto che ài gli occhi più belli della terra? 

«— Parole — rispose Anna, guardando a di. stanza la ciocca rossa, il capo inclinato su una spalla. — Voi uomini siete abituati a ripetere simili frasi a tutte le donne. 

«E scappò via. Ma il giorno dopo venne a trovarmi nella mia stanza, ove stavo intento a scrivere. La sentii alle mie spalle, chiedermi: 

«— Ti disturbo? Venivo... 

«Mi volsi e la vidi quale l'avevo voluta, coi capelli corti e tinti d'un bel rosso fulgido, ramei, la bocca dalle linee incomparabilmente belle atteggiata a un sorriso timoroso, le lunghe ciglia battenti nell'emozione su gli occhi immensi, con un apparire e sparire di luci verdi e gialle. Mi parve Myriam di otto anni fa, ma ancora più giovane, e più traspirante una strana e ingenua sensualità, un bizzarro fascino per tanta semplicità contaminata da sì raffinato artifizio. 

«Come sei bella! — esclamai. — Ti ho plasmata a nuovo! 

«Non potemmo scambiare altre parole, perché sopravvenne la zia, esprimendo le sue meraviglie, ma senza scandalizzarsi. La zia Anna ha respirato e assimilato anche lei l'aria del dopoguerra. 

«Al contrario di Donato Corbelli che, a dire di Erminia, fece quella sera una scenata, a voce bassa, alla moglie. 

«Ecco i frutti della grande metropoli! — le disse. — Vergognati! lo domanderò immediatamente il trasloco per la Cirenaica. Mi si offre un posto a Bengasi. Lì meriti finire, tra le beduine. 

« — Provati! — pare abbia risposto Aura. — Ci andrai da solo, perché basterebbe questo a determinarmi a piantarti! 

«Così Aura-Myriam mi piacque e, senza averla fino allora amata né presa sul serio, mi trovai improvvisamente a desiderarla. Ho cominciato a farglielo capire in varie occasioni. Sere fa, al cinematografo, ove la zia e Donato hanno voluto che li accompagnassi, ci siamo trovati accanto. L'oscurità, quel danzare di luci sullo schermo, quel fascio di raggi che attraversa il buio, quell'artificio di notte e giorno che si fondono in una sala gremita, i contatti, i respiri prossimi, eccitano la fantasia e i sensi. Io le ho stretto una mano e lei ha lasciato fare, le ho carezzato le braccia e lei ha finto di non accorgersene. 

«Ma un'altra sera che tutti, zia Anna per prima, ànno voluto provare pure l'emozione di un cabaret ove si danza, sono andato più oltre. Lo spettacolo di tutta quell'umanità agitata, in pose che ricordano l'accoppiamento, con quell'ossessionante tango dalla musica che pare il gemito della copula, dalle movenze ondulanti che sembrano sforzi convulsi dei sessi per cercarsi e per trovarsi attraverso gli abiti, mi ha eccitato. E ho voluto ballare anch'io per avere il pretesto di sentirmi Aura tra le braccia e, per maggiore eccitazione, con l'incoraggiamento e sotto gli occhi di suo marito. Tutta la mia persona ha sentito la sua, nell'aderenza autorizzata. Ma debbo averla stretta un po' troppo, senza accorgemene; dopo due giri, turbata, à voluto smettere. 

«Anche lei prova quel che io provo. Non avrò, dunque, che da coglierla? ». 

*** 

Dicembre 

«Eventi decisivi sono avvenuti. 

«Ero rincasato tardi, una notte, pel servizio al giornale. Ma invece di levarmi circa alle undici la mattina dopo, come son solito in tali casi, lasciai il letto prima delle dieci per fare un bagno. La zia Anna era uscita con Dorotea, Erminia tornava allora dal mercato. In pijama e pantofole mi avviai al gabinetto, spinsi l'uscio socchiuso e feci per entrare; ma mi accolse un piccolo grido. 

«Aura era là, eretta nella vasca, nell'atto di uscire dall'acqua odorosa, le carni stillanti e madreperlacee, in un'atmosfera umida, opaca e calda di vapori. Mi ritrassi dopo un momento stordito, quando ella si raccoglieva tutta in se stessa, nell'atto pudico di certe Veneri che tentano nascondere le bellezze più compromettenti. Dalla soglia della cucina Erminia sogghignava con aria sorniona. 

«Il desiderio proruppe in me con inaudita violenza. Provai un'ira irragionevole contro quel Donato Corbelli che si era goduta senza intenderla, senza esserne e farla felice, una simile creatura. Mi parve che la bellezza carnea di Aura dovesse poter dare tutte le gioie che io avevo cercato altrove; la bellezza di Aura-Myriam, quella perduta un giorno e che adesso mi si ripresentava sotto una forma meno enigmatica ma più odorosa di semplicità primitiva. 

«Non seppi, dopo quell'apparizione, più vederla vestita. I miei occhi la spogliavano ed essa se ne accorgeva; e ne fu sulle prime confusa, poi smarrita. La stessa sera, a pranzo, sotto la tavola, i miei piedi raggiunsero i suoi e li strinsero. Ella alzò gli occhi sui miei, con un sorriso di sgomento, e fece per liberare i piedi dalla mia stretta; ma io strinsi di più e la fissai in modo così eloquente che impallidì sotto il belletto e non ardì fiatare. Suo marito mangiava con compostezza, lodando parcamente l'arrosto. 

«Io non avevo ormai più pensiero a null'altro. Il lavoro al giornale m'infastidiva. Passavo quasi l'intera giornata a casa, per vederla sia pure in presenza degli altri. Una volta c'incontrammo, da soli, nella sala da pranzo. Senza parlare, senza riflettere, le presi il capo fra le mani e la baciai su una gota. Aura non mi respinse, non disse nulla, passò via come se niente fosse avvenuto: ma ciò mi parve un invito ad andare più oltre. E quando mi ritrovai ancora solo, un momento, con lei, le cinsi la vita e le dissi, con voce rauca pel desiderio: 

«— La tua bocca è un tormento tanto è bella! sorridi una volta per me solo. 

«Aura si liberò e fuggì via con due sole parole: 

« — Sei pazzo? 

«Pazzo? Eh sì, probabilmente! Io, l'uomo di ieri, l'uomo che ha, non è molto, tentato battere fino alle porte del cielo, fatto prigioniero, ora, in pochi metri quadrati d'una casa modesta, chiuso su tutti i lati dall'ossessione di un desiderio. Di tutto il mio passato non esistono più che le sensazioni della cuba di Mareth, rese più acri e bestiali dall'impossibilità di ogni altra cosa, dall'assenza di ogni pensiero addolcente, come erano allora gl'ideali, il dovere, la volontà di agire, la mamma e Alba. Non sopravvive più nulla di tutto ciò: sono una fiera, uscita da cataclismi terrificanti, spruzzata del sangue della guerra, riaffiorata alla semiluce su da fosse macabre, ghermita più volte dalla Morte, certa del nulla, prossima tra un anno o tra un'ora alla fine come Nino o come l'ignoto che uccisi, ma posseduta ora tutta dalla bramosia d'una gioia carnale immediata, certa, senza artifizi cerebrali, istinto! Istinto che prometti la felicità, prima dell'annientamento, sei tutto! «Godi!» mi grida il tuo ricordo, Nino; e me lo ripete la bellezza di questa creatura riluttante, che vorrebbe sfuggirmi ma che mi attrae furiosamente come l'affamato è attratto dal frutto pendulo dall'albero in un campo non suo! 

*** 

«Colsi ogni occasione per sorprendere Aura, non visti. A ogni incontro l'afferravo, la stringevo fra le braccia fino a farle male, la coprivo di baci, cercavo la sua bocca. Una volta la sua bocca, irresistibilmente, rispose al mio bacio. 

«Un giorno uscimmo insieme, per accompagnare Dorotea al Pincio. Tutti gli uomini si voltavano a guardare Aura, le lasciavano gli occhi addosso. 

« — Aura, — le dissi, camminando accanto senza guardarci — sai ora la ragione sola della mia vita! Aura, ho bisogno di sentire più miei i tuoi occhi, la tua bocca, la tua pelle. Vorrei annientarmi nelle tue viscere, Aura! 

«Altro le dissi, parlai tutto il tempo che fummo insieme, e lei smarrita, senza alzare mai gli occhi, a rispondermi sempre: 

«No! no!... è impossibile! Ti prego... no! no! 

«La sua resistenza mi ha reso pazzo, disposto anche a un delitto. Soltanto suo marito non ha visto nulla. La bimba sì, che mi guarda sempre trasognata; anche la zia, che ci sorveglia con accortezza senza lasciar trapelare nulla; ma soprattutto Erminia. 

« — Come soffre la povera signora Aura! mi sussurrava costei ogni tanto. Un giorno mi disse: — L'uscio del bagno è sempre senza paletto. Quando lei vorrà, bisognerà farcelo rimettere. 

«Io la guardai: i suoi occhi furbi mi bucarono la fronte. 

«Ieri mattina, mentre ancora dormivo, Erminia e entrata in camera senza bussare per dirmi con discrezione: 

« — Badi, signorino, che ho una commissione da fare in piazza Vittorio. Mancherò almeno un ora. Sua zia è uscita con la piccina un momento fa e non rincaserà prima di mezzodì. La signora Aura è nel bagno e se viene qualcuno, non c'è chi vada ad aprire. 

« — Chi vuoi che venga? — le ho chiesto; ma lo chiedevo a me stesso. 

« — Dico così, per avvertirla. Lei può, se crede, continuare a dormire tranquillo. Ha bisogno di me? 

«Ho capito anche questo. Sono balzato dal letto e ho preso dal mio portafogli cento. lire. 

« — Prendi, ho dimenticato per la tua festa, giorni fa, di regalarti anch'io. Comprati quel che ti piace. 

«Appena ho sentito la porta delle scale chiudersi dietro di lei, sono entrato improvvisamente nel bagno. Aura ha tentato ancora respingermi, sussurrando affannosamente: 

« — No! No! non dobbiamo!.. ascoltami, è impossibile!... Ti dirò una cosa che non sai... No, no! 

«Ma io l'abbrancavo famelico. 

*** 

«Vado per via, tra i passanti, specialmente nelle grandi strade popolose, ove i veicoli inseguendosi mantengono rigorosamente la propria destra, e i pedoni seguono i marciapiedi, regolati dai metropolitani, e mi accorgo di essere una particella di quella massa, un pezzo non necessario della gran macchina, ove gli altri pezzi, come me, contano solo perché formano un tutto. E mi sento spersonalizzato, spossessato di me. 

«Mi riprendo nella mia casa, fra quattro pareti, anche fronte a fronte oggi con Aura, come ieri con Alba, come un tempo con Katscha o con Myriam, o col console, o con Stefanovich, o con Casazza, o con l'agente tedesco. Ho, allora, la sensazione forse esagerata di me, sento che attorno a me gira il mondo. Sento che quel che mi avviene è insolito e sovrasta alla macchina umana o sociale ove per via mi anniento. 

«Chi, di quella turba che va e viene, sa, immagina che cosa sia passato in me, fra le quattro pareti di pietra d'una casa o fra le quattro pareti di carne della mia persona fisica? Chi saprà mai che cosa sia, per esempio, questo uno amorazzo per Aura? Lo ho sentito dalla bocca di lei una cosa che un pare atroce. 

« — Bruno, non ti ò sfuggito finora, non ti ò respinto per un capriccio... No! La ragione era orribile, Bruno! Io ti amavo, io desideravo ciò che tu ora hai voluto e nello stesso tempo lo temevo, fin da quando ero bambina. Da quando, Bruno, ti sorpresi in un atto violento che non capii bene sopra la zia Flavia, ricordi? La faccia di lei, che in quel momento esprimeva ai miei occhi di bambina, sotto la tua faccia avida, una gioia così grande da somigliare a un tormento, io non la dimenticai più. E desiderai da te, convinta che tu solo potessi darla, quella stessa sensazione che per anni non seppi cosa fosse. Orribile, Bruno! Maritata, mi convinsi di più che da te solo potesse venirmi... E intanto ne sentivo orrore perché... Perché, Bruno, io non sono la nipote della tua congiunta Flavia. Io non ho mai conosciuto mio padre, passato avventurosamente nella vita di mia madre scacciata dalla sua e dalla tua casa, ma mi fu insegnato da piccola a tacerlo... come mi fu insegnato a chiamare sempre zia... lei, la mia mamma! «Ora quest'amore, ch'è in me una bassezza e un po' quasi un incesto, mi pare in lei un male che ha qualche cosa di sinistro e qualche cosa di sacro. La figlia della mia prima amante, di colei che era la cugina e voleva diventare la moglie o l'amante di mio padre! A saperlo in tempo, l'avrei evitato? Chissà. In fondo, le passioni più attraenti e tenaci sono quelle che sanno d'incesto: pel giovane con la donna matura e quasi materna, come furono per me Flavia ed Edmea, o con la donna che ci fa da sorella come Annie, o più tardi con la piccola vergine che fino a ieri si è considerata con tenerezza filiale, come quella che ho perduta».

 

XV

Sotto le finestre degli uffici di redazione, perfino sotto quelle della sua casa, nella placida via Sistina, Bruno sentiva spesso, in quei giorni, Roma tumultuare. Come nei mesi che precedettero la guerra, peggio anzi, crocchi, assembramenti, discutevano animatamente, urlavano, lanciavano grida sediziose. 

Bruno non partecipava a quel fermento diffuso, si astraeva anzi chiudendosi sempre più fra le braccia di Aura. 

Un giorno incontrò Carlo Quilici, scalmanato, in compagnia di altri tre o quattro, noti per le loro figure di tribuni, ostentanti lunghe zazzere, barbe incolte, cravatte svolazzanti e abiti mai spazzolati. 

— Ehi, Bruno! — gli gridò Carlo. — Tu dovresti essere dei nostri. 

— Perché? — chiese Bruno, svogliatamente. 

— Oh bella, noi siamo per la rivoluzione. Si è fatta la guerra per l'idea umanitaria. 

— Eri tu a crederlo. 

— Ce lo promisero, ci mandarono al macello per questo, bisogna ora con le buone o con le cattive che mantengano. Tu eri contro l'imperialismo inglese e francese, al quale ora si è aggiunto quello americano... 

— E se altri di coloro che hanno combattuto non sognassero come voi la repubblica sociale? Se il livellamento che voi vorreste non fosse per tutti i gusti? 

— Allora — interloquì uno dei barbuti — cominceremmo da loro! Abbasso i reprobi, anche se sono i combattenti di ieri! 

— Abbasso chicchessia! — urlarono gli altri. 

Bruno sentì dentro di sé come una frustata, che cacciò via l'indifferenza e l'indolenza. 

— Abbasso prima di tutto gl'imbecilli! — gridò guardandoli in faccia. Quelli rimasero interdetti: uno solo fece una mossa di reazione; ma Carlo se lo tirò dietro allontanandosi con una risata. 

— Eh, Bruno, Bruno! Finiremo col picchiarci! 

«La repubblica sociale! il comunismo! — pensava Bruno — vale a dire lo stato di guerra, l'organizzazione militare, senza soldati, estesa però a tutto un popolo; tutti eguali e razionati, tutti a fare le esercitazioni per avere rancio alle undici e rancio alle sedici, il letto, le uniformi, la ricreazione che vogliono i superiori. Cittadino tale, invece di soldato tale. Il più furbo, il più servile, il più favorito avviati più presto a caporali, sergenti, ufficiali, generali, insieme coi più bravi, coi più intelligenti, coi più onesti, se non peggio. E io? cosa sarei io? Soldato, cioè semplice cittadino, e magari tenente di fronte a Orazio Puccio capitano, a Tommaso Casazza colonnello, ad Andrea Stefanovich generale. Ma perché? se io sono di più? perché? se li ho fatti già tremare, impallidire, se mi hanno riverito, temuto, posto più in alto soltanto per quel che leggevano sulla mia fronte? Uno ha ucciso, un altro ha strisciato, un altro ha truffato, all'in grande, sì... Ma perchè tutti adorano Dio, mettono sull'altare Gesù Cristo, e riproducono eternamente il fariseo, Giuda, Pilato, Caifas, Erode, Tiberio? » 

Pensieri inutili. Si acquietava, in un voluttuoso annientamento, prendendosi Aura fra le braccia. 

— Bruno, che faremo noi? 

— Non so; quello che tu vorrai. 

— Donato comincia ad avere dei sospetti. Insiste per il suo trasloco: ha chiesto Rodi. 

— Tu ci andresti?

— Io? Ma io non ti lascio più! La bimba, ecco il mio tormento! Se non fosse per Dorotea, gli avrei già detto di andarsene per la sua strada. 

Un giorno Gino Arguti portò in redazione una grande notizia: 

— Indovina, Bruno, chi ho visto. 

— Chi? 

— Peppino Foresi. 

— Peppino? — esclamò Bruno, sorpreso e lieto. — E' qui? Dove? 

— L'ho incontrato. Era con Tommaso Casazza, con la signora Myriam e con altri. Ha ottenuto la medaglia d'oro, c'è già sull'ultimo numero del Bollettino. E' stralunatissimo, però. Non capisce bene, non riconosce. Mi ha detto, sì, che ricordava il mio viso, ma era sicuro, figurati! d'averlo visto tra i cadaveri di una trincea. Ho toccato ferro e mi sono affrettato a svignarmela. 

— Ma dove sta? dove potrei vederlo? — insisté Bruno. 

— Non so: i Casazza pare che se lo tengano a loro uso e consumo. Tommaso, certo, conta farci sopra qualche speculazione di carattere politico-elettorale. 

— Cioè? 

— E' una mia sensazione, non posso affermarlo. Casazza, coi denari della moglie, prepara una lista sua di combattenti e mutilati, per le prossime elezioni. Lascio immaginare a te che combattenti, con Casazza alla testa! Ma ancora non osa dichiararsi, quanto al programma, perché non sa se gli umori dei votanti tendano più verso i conservatori e i nazionalisti o verso il socialismo e il comunismo. Vorrebbe orientarsi a tempo e sfoderare il programma più opportuno. Ha sentito che la teppa insulta e bastona per via gli ufficiali isolati che incontra, e comincia, io credo, a pensare se non sia il caso di avere con sé un ufficiale comunista che, appunto perché non ragiona, potrebbe essere Foresi. 

— Che schifo! — disse Bruno, irato. E non volle sentire altro. 

Ma ebbe presto, da Gino, notizie più precise. 

— Sai? pare che Foresi stia proprio in casa dei Casazza che ora hanno un appartamento principesco in via Bocca di Leone. 

Per andare agli uffici del giornale da casa sua, Bruno passava più volte al giorno da via Condotti; gli fu facile individuare il palazzo che Gino Arguti gli aveva indicato. Volle informarsi presso il portinaio, classicamente alto, grosso, fedine grigie e berretto gallonato. 

— Abita qui il tenente Foresi? 

Il portinaio stava ritto in mezzo all'androne, con le gambe slargate e le mani dietro la schiena. 

— Chi? — domandò avanzando il capo di sbieco e increspando la fronte, l'occhio, il naso e la bocca dal lato che tendeva l'orecchio. 

Bruno fu paziente e ripeté la domanda, aggiungendo che forse era ospite dei signori Casazza. 

— Dei signori Stefanovich, vuol dire — chiarì il portinaio guardando diritto nella strada e sollevandosi e abbassandosi ritmicamente, sulle punte dei piedi. — Il signor commendatore Casazza sta col signor grande ufficiale Stefanovich. Che stia con loro chi avete detto voi non mi risulta. Quei signori pagano ad annata anticipata, non danno disturbo nel palazzo, e hanno il diritto di tenersi in casa anche quel tenente là, se credono. A me, ripeto, ufficialmente non risulta. Se lei conoscete il commendatore Casazza, monta su e domanda al cameriere. 

Bruno preferì andarsene senza rispondergli. 

Ogni volta che passava per via Condotti, si soffermava a guardare verso il palazzo di via Bocca di Leone. 

Una di quelle volte, circa a mezzogiorno, notò all'angolo delle due strade un gruppetto di passanti, i più donne e ragazzi, attenti e fissi, come spaventati da uno spettacolo che egli non vedeva ancora. Accorse e vide anche lui. 

In mezzo alla via un assembramento di energumeni, vocianti e gesticolanti, in atto di colpire, non si capiva chi. Sulla soglia del noto palazzo, accanto al portinaio che si affaccendava a chiudere il portone, Myriam, pallidissima, con una mano agitava il suo ombrellino gridando: 

— Soccorreteli ! ... chiamate gente!... Carabinieri! 

Di qua, Orazio Puccio disarmato veniva di corsa verso via Condotti, stravolto, giallo in faccia, inseguito e strappato ora per la giubba ora per un braccio da quattro furibondi, e urlava: 

— Carabinieri! Carabinieri! Agenti! A me! 

Bruno si cacciò tra la calca, lì dove vedeva un corpo buttato a terra, sul quale infierivano a calci altri quattro o cinque, mentre si udiva una voce supplichevole protestare: 

— No, no... sono dei vostri! non sentite che sono dei vostri? 

Trovatosi fra i percuotitori, Bruno nel supplicante riconobbe Tommaso Casazza, lacero, sanguinante dal naso, e annaspante con le braccia e le gambe, come un grosso granchio, per parare i colpi. In quel momento ricordò il loro ultimo colloquio, a Gabes. ricordò gli occhi freddi che sfuggivano il suo sguardo sotto le lenti. 

— Soveria! gemé una voce querula, da bambino o da vecchio che stia per essere sgozzato. — Non lasciarmi ammazzare! Fallo per la mia vecchia mamma! 

Era la voce dell'amico d'un tempo, che tornava a invocarlo dopo otto anni, dopo mille eventi, l'uomo che egli stesso avrebbe voluto un giorno schiacciare e far sanguinare così. Un'altra pedata raggiunse Casazza alla fronte, lasciandovi una traccia di fango, da cui spicciò altro sangue. Bruno si rivolse, senza riflettere, a una scossa quasi galvanica che gl'indurì tutti i muscoli, fece fronte agli assalitori, alzò il bastone e colpì, tan! tan! tan! teste, spalle, braccia. Si levarono urla di sorpresa e di dolore. Un istante, Bruno si compiacque delle rapide giravolte del suo bastone e delle tonfate che faceva picchiando, mentre qualche cosa di ilare gli destava nel cervello certi nomi: Artesi, Astolfo, Stagno... Uno dei colpiti gli tirò un pugno in faccia: furioso e cieco egli lo colse con una randellata a una tempia e quegli indietreggiò barcollando, con occhi che fissavano in alto pieni di bianco, e ruinò. Bruno saltò alle spalle di un secondo gruppo d'indemoniati lì accosto, accaniti su un altro isolato che teneva testa a cazzotti e calci. Se ne vedeva il berretto da ufficiale, più alto degli avversari che tentavano invano atterrarlo. Bruno sentiva angoscia e furore a guardare quel berretto ondeggiante, sbattuto qua e là nella mischia, e urlava: 

—Via, vigliacchi! Carogne! Contro uno solo! 

Altre grida, clamore, calpestio d'ogni parte, accorrere di rinforzi, fuga degli aggressori. Sotto il berretto Bruno ravvisò gli occhi sbarrati di Peppino Foresi. 

— Peppino! Peppino! — E si abbracciarono, palpandosi bene, forte, come amanti, col petto pieno di singhiozzi e urli fermi sotto la gola serrata. 

Quando si volse per ritornare indietro cingendo con un braccio alla vita l'amico, Bruno si trovò a passare fra due ali di spettatori, donne, ragazzi, uomini, qualche militare, qualche agente. Uno batté le mani, imitato subito da tutti gli altri. Ci fu chi lo riconobbe: 

— E' Soveria, il giornalista... l'ex vice-console, quello che fu accusato perfino di diserzione... Altro che! Tutte calunnie!... E' un combattente anche lui!... E' un uomo di fegato! 

— Soveria! Soveria! Evviva Soveria! 

Li presero, lui e Peppino Foresi, sulle braccia a viva forza, li portarono per parecchi passi in trionfo, tra battimani entusiastici e croscianti. Bruno, pallido e trasognato, guardava attorno. Gli parve vedere anche Myriam sorridente, immobilizzata in una sorpresa estatica. Vide, chiaro, Orazio Puccio che aveva sbattuto contro il muro un giovinetto di quindici o sedici anni e ora lo tempestava di pugni, vomitandogli addosso ingiurie da trivio. Sentì un repentino moto di pena e di disgusto e gli gridò: 

— Lascialo ora, basta! — e poiché Puccio insisteva e lo sciagurato, sanguinante dal naso e dalla bocca domandava invano pietà, egli perdette la testa. Non portava più la divisa, ornai. Si liberò dalle braccia dei suoi ammiratori, e accorse. — Finiscila, beccaio! 

Il capitano delle fiamme rosse si rivoltò, inferocito: 

— Era tra quelli che gridavano contro di noi. Non rompermi le scatole tu pure! 

— E' un ragazzo debole che fuggiva, come fuggono certi eroi dinanzi ai più — replicò Bruno piano guardandolo negli occhi; e, a voce più bassa, alzando un dito e puntandoglielo sotto gli occhi. — E ti proibisco di darmi dei tu! 

Sentiva, lì, dietro di loro, sbigottita ad assistere, Myriam, Myriam amante anche di quest'uomo; ne ebbe in quel minuto la certezza improvvisa e anelò il selvaggio piacere di piantare le dita negli occhi lattiginosi, nei capellacci rossi del ragazzaccio che gli pareva rivedere come un giorno, col suo grembiule sozzo di sangue. Pure sapendosi inerme e fisicamente meno forte, strinse i denti deciso a tutto, conscio, di fronte al sanguinario, di mettere in ballo ancora una volta la propria vita per un atto di volontà e di orgoglio. 

Puccio diventò di brace, aprì la bocca per reagire, ma balbettò una frase incomprensibile; mise una mano in tasca come per cercarvi qualcosa. I vicini, che facevano cerchio attorno a loro ed erano rimasti muti e sconcertati, mentre più in là la folla che non vedeva, che non capiva, continuava ad acclamare, si posero in mezzo. Due condussero via Orazio Puccio, facendogli intendere sottovoce la ragione, per calmarlo; gli altri ripresero Bruno sulle braccia. E fra applausi ed evviva, egli e Foresi furono accompagnati all'Aragno. 

La sera i giornali romani misero tutti al posto d'onore quel gran fatto di cronaca. La stampa italiana da un capo all'altro della penisola fece riecheggiare il nome illustre di Soveria. 

*** 

Peppino Foresi dalla trincea sul fronte della Champagne aveva ritrovato la coscienza di sé nella zuffa coi comunisti di via Bocca di Leone. Di nuovo, finalmente, accanto al buon fratello della sua giovinezza, gli descriveva come sbalordito le sue sensazioni: 

— Lì, sparavo e sparavo all'impazzata perché mi pareva che fosse l'unico mezzo per non essere ucciso come tutti i compagni che mi cadevano ai fianchi. Volevo a ogni costo impedire a quegli altri di arrivare fino a me... Ma non capisco, non ricordo come e perché mi trovassi in trincea. 

— E poi, Peppino? e poi? Che cosa ài provato, dopo? — domandava tormentosamente Bruno. 

— Non so. Ogni tanto vedevo qualche cosa... Ma non riuscivo mai a mettere accanto, dentro di me, due immagini. Mi è sembrato, più volte, di essere due occhi, due orecchie, due mani, sensi e sensi indipendenti, fatti per guardare, udire, toccare; ma niente altro. Credo che mi abbia condotto sempre l'istinto. 

— Ma la tua anima? che cosa credi ne sia stato di essa? 

— Oh, l'anima.., e Peppino sorrideva, sorpreso e incerto. — Non so. Quel che ne rimaneva, forse, era sulle punte delle dita, nelle pupille... Ogni cosa, ti dico, si fermava a mezza strada. 

«E' così — pensava Bruno — ed è terribile! Come me. Dunque, l'anima non esiste, non si distacca dai morti, non resta nei vivi offesi nelle facoltà cerebrali. L'anima è una chiacchiera, una immaginosa invenzione degli uomini che hanno avuto paura. Che cosa è allora il tremore che ho sentito tante volte, fino a poche ore fa, quando il macellaio massacrava quel ragazzetto incapace a reagire?». 

Fu, da quel giorno, distratto e taciturno. Neanche gli altri, a casa, erano loquaci; la zia accusava capogiri, un generale malessere; Aura aveva l'aria evidentissima di nascondere qualche cosa, era sempre distratta, io sguardo fisso e perduto dietro un pensiero; se Bruno le domandava che avesse, si scoteva e confessava di essere preoccupata, ma risoluta anche a separarsi dal marito col quale non scambiava più parola. Donato, a tavola ove soltanto s'incontravano, mangiava appena, guardando raramente di sfuggita ora la moglie ora lo zio-cugino. Ma, adesso, lo guardava con altri occhi: occhi che si dilatavano e diventavano vaghi e un po' smarriti, come per soggezione o per sgomento. Pareva che si accorgessero ora di lui, quegli occhi, e che lo vedessero anzi crescere di giorno in giorno e minacciosamente invadere il loro orizzonte. 

L'avvocato Geraci scrisse una volta da Palermo — rimettendo un assegno alla zia Anna che Gaetano Bonsignore era diventato il proprietario dell'hotel dello zio Giovanni e che gl'inquilini del villino Alba avevano disdetto l'affitto pel prossimo anno, sicché tra un mese sarebbe venuto a cessare, se non si trovassero altri pigionali, questo cespite. 

Anche la bimba e le due bestiole, Sahib e Ciccio, erano tristi. Non c'era che Erminia a tentare degli spunti allegri. 

— Oh, signorino! diceva a Bruno — se veramente quel commendatore Corbelli facesse fagotto. Sa che ora s'è messo anche a parlare nel sonno? 

Invece, no, ora Bruno non lo detestava più, avrebbe voluto anzi colmarlo di premure, e soffriva a vedergli quel viso lungo e cascante da cavallo stanco, Cercava, ma senza trovarlo, un mezzo di accontentare tutti, anche Donato. 

Al giornale gli si erano richiesti articoli vibranti, rispondenti alla situazione e ai contrasti attuali: la sua firma interessava moltissimo, veniva citata spesso da altri giornali anche all'estero, le sue parole suscitavano vasti echi e consensi. 

«Unirsi! Unirsi! — egli scriveva — pacificare i sentimenti, più che gli Stati Maggiori. L'intesa fra coloro che per una grande generale follia hanno combattuto. ieri, deve avvenire da coscienza a coscienza e non da banca a banca. Le grandi industrie, i trusts e i cartells sono quelli che stabiliscono e che mantengono questa détente fra i popoli; il maledetto ferro, il maledetto carbone, le dogane, le tariffe, rendono la civiltà più inumana del cannibalismo dei maori. Che importano la Sarre e la Renania, a confronto della tranquillità di due popoli, dell'accordo tra la Francia e la Germania che, unite, rappresentano il più formidabile baluardo alla vera civiltà del mondo? Che cosa significa questo spezzettamento dell'Europa Centrale e dei Balcani, baraonda senza meta, cibreo di energumeni, adulazione alla barbarie che da un secolo scatena continue guerre cd altre ne va maturando? Perché l'Europa non dovrebbe prendere tutta nome dai suoi maggiori popoli, da quelli che l'hanno illuminata e hanno illuminato il resto del mondo nelle ère passate? Il diritto non è che ricchezza di pensiero, forza di spiritualità, non è che arte, letteratura, scienza: Italia, Francia, Germania, Inghilterra sono le nazioni che hanno dato le cose più belle alla vita di questo travagliato e furente pianeta che è la Terra. Voi sbagliate se misurate la loro grandezza dalle guerre che hanno combattuto, dalle battaglie che hanno vinto. Anche Attila e Maometto II vinsero battaglie. Qualunque popolo bruto può imporre l'effimero dominio delle armi al mondo; ma nessuno sarà grande quanto la nazione che lo dominerà col canto di Wagner o di Bellini, con la parola ardente di Dante, di Shakespeare, di Goethe, con l'ideale fraterno di Hugo, di Beccaria, di Mazzini; con le macchine di Fulton e di Sthepenson, col raggio etereo di Marconi». 

Dal Ministero gli venne l'offerta di rioccupare il suo posto, facendogli pure intendere che avrebbe avuto accordata qualsiasi destinazione preferita. Ma colleghi e amici lo esortarono a rifiutare ormai, perchè si contava su lui per capitanare nelle prossime elezioni un nuovo movimento rigeneratore. 

« Soveria! Soveria! Gli avversari osavano appena attaccarlo. Un deputato comunista lo sfidò, per un articolo che ritenne offensivo, e ne rimase ferito.

 
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