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VII

Bisognò che di nuovo accadesse loro di baciarsi perché un altro tema entrasse nelle loro conversazioni. E fu la sera del ventisei settembre, che si trovarono in giardino dopo cena: una di quelle sere calde, ma dolci e ricreate da profumi vegetali, di cui Palermo sola sa la magia. 

Passeggiavano sotto i pergolati, presso la vasca garrula, con una luna enorme che si affacciava di sulla terrazza a mare del Mongerbino. E parlavano lentamente, un po' distratti, di cose lontane che non li interessavano troppo: della guerra, dei fratelli, di mamma Collebrina clic aveva compiuto cinquant'anni e di Stella che toccava già i trentuno. 

E io soggiunse Alba sai che io fra tre mesi compirò quindici anni? 

Questo numero, buttato lì a caso, fece trasalire Bruno. Infatti. Quindici anni! Stava per diventare la signorina da marito. Qualcuno, da un momento all'altro poteva presentarsi per portargliela via

La trasse a sé, quasi violentemente, la strinse un po' sgomenta contro il suo petto e la baciò sulla bocca a lungo, sostenendole il capo per premerla meglio contro le proprie labbra, finché ella, ansimando, non balbettò più smarrita della prima volta: 

Mau mio! Mau mio!.., muoio! 

Bruno la lasciò sconvolto e contrariato. Malcontento di se stesso e di quell'ansia nuova che sorgeva tra loro, restò ancora a passeggiare, rispondendo a monosillabi alle poche frasi imbarazzate di lei che tentavano vagamente riattaccare un dialogo purchessia. 

Si ritrassero più presto nelle proprie stanze e, quella sera, Alba lo aspettò invano alla finestra. Egli non poté chiudere occhio in un letto di brace, e la mattina dopo sentì chiamarsi di buon'ora dalla cara voce. Si affacciò ancora stranito, con gli occhi gonfi, e scorse Alba in giardino, volta a guardare in sù, con un sorriso tremulo. 

Sei in pace? gli domandò. 

Bruno sarebbe saltato dal balcone per abbracciarla, tanto gli parve graziosa. Sorrise, rispondendo: 

Piccola, io non sono in guerra che con me stesso. 

Non voglio neppure questo replicò lei, resa tosto vivace e festosa dal suo sorriso. Vieni giù presto, che debbo parlarti. 

Le parole che gli disse sonarono gravissime all'orecchio di Bruno. 

Stanotte non ho potuto dormire. Forse ti ho offeso iersera, quando mi hai baciata. Sono stata cattiva, se ti ho dato un dolore, se ti ho fatto tornare in faccia quella tristezza che non ti vedevo da quindici giorni è stato più forte di me: se ti è parso che ti respingessi è perché provo una grande gioia, ma così grande che fa male. Non importa, però; purché tu non abbia più quella tua aria buia... 

Bruno sentì salirsi un'onda di commozione agli occhi. Odiò se stesso per aver appannato un momento quella purità: possibile che egli non potesse passarle accanto senza insozzarla, come già aveva fatto undici anni prima, baciandola con la bocca ancora appestata da sentori di vizio? Le prese le mani, muto, e cominciò a baciarle piano, dolcemente, sul dorso, sulle dita, nel cavo dove i baci s'annidano e restano meglio. Ma poiché erano seduti di fronte ed egli stava un po' chino, i suoi occhi caddero involontariamente sui piccoli piedi, calzati questa volta di babbucce leggere, sicché le forme impeccabili delle caviglie e dei polpacci trasparivano dalle calze sottili. 

Il sentimento torbido ritornò. Acremente compiaciuto di quanto gli aveva confessato Alba, egli promise a se stesso che quelle bellezze non sarebbero mai state d'un altro. 

*** 

Una mattina Bruno vide venire in istudio Alba, tutta sconvolta. 

Che c'è? 

Ah Bruno! La mamma da parecchie sere mi nascondeva una cosa... s'era messa tante volte per dirmela, ma poi tornava a inghiottirla... 

Che cosa? 

Finalmente stamane non ha potuto più farne a meno: dice che il ragioniere della fabbrica le ha detto chiaro che gli affari vanno male, perché non c'è un uomo a capo dell'azienda... 

Bruno sentì un formicolio alla radice dei capelli. La interruppe per domandare con aria trascurata: 

Il ragioniere chi è? Quell'Enzo Guttierez? 

Sì, quello. Non lo può soffrire nessuno degli operai e degli impiegati. Ma mamma lo ritiene una gran mente... 

E allora? 

Allora le ha proposto di mettercisi lui, a patto di sposarmi. 

Bruno scoppiò a ridere; ma diventò così giallo che Alba lo fissò impaurita. 

La mamma si affrettò a concludere gli ha risposto che io ancora sono troppo giovane, che non è il caso di parlarne... Che lui però badi di più agli affari nostri e poi... Ma io non voglio, le ho detto che non vorrò mai! 

E gli si attaccò al collo, piangendo. Bruno la rassicurò e uscì, per andare senza indugi a discorrere con la signora Collebrina. 

Giunse alla piccola fabbrica ove, dal cancello spalancato, non si vedeva nessuno nell'ampio cortile fangoso. Un po' di fumo veniva fuori, stentato, da un solo degli alti comignoli, umile sotto le nuvole basse. Il portinaio gli domandò, dal suo stambugio, chi cercasse e, riconosciutolo, gli venne incontro mesto e cerimonioso. Era il vecchio Salvatore, a suo tempo un po' lacchè un po' uomo di fiducia del povero Collebrina. Lo scortò zoppicando pel reuma sino all'ufficio ove stava la signora. 

Ah, cavaliere mio, che peccato! gli veniva dicendo non doveva morire quell'uomo. Qui i denari vanno via come fiumi dalla finestra, mentre dalla porta entrano a gocce. Non si capisce niente di quel che succede. Tutte le fabbriche, con la guerra, fanno soldi a palate; questa sola no. Nessuno cerca accaparrarsi qualche buona fornitura per lo stato, anche a costo di trasformare la produzione... La signora è un pulcino nella stoppa. E quest'altro, guardi... 

Chinò il capo e proseguì fra i denti, avendo scorto Enzo Guttierez, che veniva incontro a loro, zoppicando anche lui. 

... quest'altro mi ha l'aria di voler tirare un brutto colpo. 

Cos'ha? gli chiese Bruno è diventato zoppo? 

Otto giorni prima di passare la visita al distretto, al richiamo della sua classe, cadde dalla motocicletta e si fratturò un piede. Che motocicletta intelligente, eh? La signora non vede più che per i suoi occhi: avesse qualche anno di meno direi che ne va matta. 

Guttierez passò loro accanto, con una fattura in mano; guardò Bruno, lo sbirciò, lo salutò in silenzio e, trascorso oltre, si soffermò a guardargli dietro sospettoso. 

Oh, signor Brunetto! fece la signora Matilde, quando vide Bruno presentarsi inatteso che succede? Dio mio! 

Niente; rispose Bruno, appena furono soli.So di certe sue intenzioni... di preoccupazioni... di proposte che le fanno... 

Come? Come? esclamò la Collebrina; e notando la sua aria accigliata si allarmò maggiormente di che cosa mi parla? 

Mi dica la verità, abbreviò Bruno, accendendo una sigaretta per provare ad essere più calmo quanto le occorre ancora per sistemare l'azienda, trasformarla e farla produrre?... 

Non sapeva trovare altri verbi: erano quelli suggeritigli dal ricordo di precedenti discussioni e dalle querimonie di Salvatore. 

Ma perché? domandava la signora Matilde così d'un tratto? Cos'è? mi ci vuole molto, certo mi ci vogliono sopratutto dei piazzisti, degli uomini pratici del mestiere... Poi venticinque o trentamila lire... 

Bene. Io sono disposto a prestarle, ad anticiparle le venticinquemila lire. 

Oh! mio Dio! E come mai? Chi lo ha detto? 

A patto, però, che lei... qui Bruno non poté più dominare la sua eccitazione che lei lasci tranquilla Alba.., e metta a posto quello scalzacane... o lo metterò a posto io!

Ma Bruno... Bruno... Ah Madonna santa!... Ma scalzacane no, non lo dica! è una persona seria, un caro giovane, affezionato a noi... Io ho detto per ischerzo a Alba, che crede?... La cosa è diversa. Ma lei mi fa paura e nello stesso tempo... che so?... mi fa pensare... 

Alba, finì Bruno non deve essere toccata... Dopo la morte della mia mamma, voglio esserci io a occuparmi di Alba. 

La signora Matilde scoppiò in lacrime clamorose, levò le braccia al ciclo e lo Lasciò ricadere sulle spalle di Bruno, al quale si appoggiò con tutto il suo peso. 

Oh, quale felicità! Dio sia glorificato! La Madonna benedetta ha esaudito la sua povera mamma... Lei non lo sa che una volta essa mi aveva confidato che questo sarebbe stato il suo voto... L'unione delle nostre famiglie... Oh Bruno! oh Brunetto! 

*** 

L'unione delle famiglie? Quale unione? Cosa c'entravano la paralitica, quest'altra mattoide, Titì, Tetè, Tatà e Cavour? Perché mai Alba doveva significare anche tutti questi ceppi fastidiosamente borghesi? 

Già, evidentemente non si poteva pensare che a un matrimonio tra lui e Alba. Forse era vero che anche mamma sua l'avesse auspicato. Ma Alba, così diversa da tutte le altre donne che egli aveva conosciute, Alba conquistata attraverso il sindaco o il parroco? Fare del loro amore un accoppiamento palese, autorizzato, con le firme, i bolli, l'acqua benedetta o i confetti, con gli invitati che sanno tutti cosa avverrà la sera fra i due, con la prima intimità consumata in una cabina di piroscafo o in una camera di albergo? Era odioso! Lasciar dire, piuttosto e portarsela via, sottrarla a tutti, fuggire. Partire una mattina con lei - venduto all'insaputa di tutti gli altri quanto gli rimaneva - andare a imbarcarsi a Messina per la Grecia, il canale di Suez, il Mar Rosso, l'India.., da Alba, lo disse con faccia scura che sua madre non parlerebbe più di quell'Enzo Guttierez; e da canto suo la signora Collebrina cominciò, dalla fabbrica, .a strombettare a tutti i venti la notizia del fidanzamento della sua ultimogenita con l'avvocato cavalier Bruno Soveria, giovane molto intelligente e abbastanza ricco

A vedere Bruno così taciturno e imbronciato, però, Alba si sentiva diventare piccola piccola. Avrebbe preferito che non se ne fosse fatto nulla del fidanzamento, una volta che questo lo teneva così seccato. Ci fece su dei gran pianti, senza che lui se ne accorgesse, perché dinanzi gli sorrideva sempre. Certo era il pensiero delle altre donne, di quelle ch'egli aveva amato prima, tutte bellissime, tutte buonissime e bravissime; e donne, non ragazzette sciocchine come lei, che in fondo era capace soltanto di strimpellare un po' il piano. 

Questo pregio, in parte, Alba se lo riconosceva soltanto perché s'era sempre accorta che mentre ella suonava egli si metteva attento attento ad ascoltarla. Adesso erano passati appena tre mesi dalla morte di mamma Vittoria, e non era giusto ancora riaprire il piano e suonare. Ma un giorno Alba volle interrogare i presagi e sentire dal suo povero babbo e della sua povera madrina se permettevano, se credevano utile che ella, per rischiarare un po' Bruno, commettesse la grave infrazione di fare musica in una casa ancora in lutto stretto; naturalmente nel suo appartamento, non in quello di Bruno. Stabilì d'ascoltare il primo suono che si sarebbe prodotto: se voce di persona, sarebbe stato segno di sì; se rumore di cosa, segno di no. Di lì a poco si udì dalla strada lo strillo di un venditore ambulante e Alba in cuor suo lo benedisse; le anime del babbo e della madrina davano il loro consenso! 

Zitta zitta andò al piano e lo aprì. Aprì anche le finestre perché Bruno, rimasto crucciato a passeggiare in giardino, udisse meglio. E attaccò l'Appassionata

Fu un colloquio tra la sua volontà e lo strumento, nel linguaggio beethoveniano, colloquio che traboccò per la finestra aperta nel giardino e risonò sillaba per sillaba nell'anima perplessa dell'invocato. Bruno, alle prime note, si fece attento. Sentì che si parlava di lui e a lui. 

Un bisbiglio, un mormorio interrogativo, a mezza voce, una sommessa evocazione. Alba domandava di Bruno. Bruno rispondeva: si udì la sua risposta, la sua voce un po' malcerta d'adolescente che parlava di sé; Bruno che ritorna da locali d'amoracci e dà ad Albetta un bacio impregnato di muschio. Ma fin da allora Bruno ha una tenerezza per Alba, che non è la stessa che può avere per tutte le altre bambine; e Albetta lo sente, come ora lo sente anche lui. Alba interroga ancora e Bruno risponde, turbato e distratto, dalla spiaggia ove i piedi di Flavia passano sulla sabbia e sui suoi sensi; i piedi di Flavia, la passione di Flavia, note roventi, che aprono le porte della sensualità di Bruno, la scatenano, ingagliardiscono la voce di Bruno che afferma nel piano ad Alba la sua volontà di cercare piaceri, gioie, dominio. Alba fruga ancora nella selva musicale e sempre Bruno risponde, più alto, più alto, sempre più alto, da Annie ad Edmea, da Zakya a Myriam, dalla festa in casa Margueritte al duello di Tunisi e all'inseguimento di Mareth, dalle ambizioni e dai comizi di Roma alla lite con Bonsignore, proclamando la sua volontà di prendere, di godere, di imporre la sua forza, la sua superiorità! E Alba stessa se ne inebbria: il canto, il motivo di Bruno che si afferma su tutto, che si fa quasi metallico e solare, la esalta fino a dare a lui ragione di ogni cosa, a fare del passato di lui un capolavoro di prodigalità vitale, pure con le ombre, pure col sangue, pure coi lutti... Pure con la mamma che ne è rimasta uccisa? No. Per quella comincia una preghiera, larga e ondosa, che Bruno sente rivolta alla mamma per placarla e a se stesso, per placarlo. E su quella preghiera egli sente la voce di Alba mescolarsi a quella inattesa - oh, perché? - di Ibrahim ben Kassar, dei muezzin che cantavano a Tunisi e a Duirat, delle campane che squillavano nel sole delle mattinate romane. 

Tutto ciò l'attraeva; ed egli volle andare accanto ad Alba e salì. Salì al prorompere e dilagare di una promessa immensa, in cui pareva che tutte le cose si addensassero, tutte le cose belle e labili, diventando armonia quasi palpabile che lo investiva. Egli salì sulle scale delle note, di scala in scala più leggero ed aereo, fra questo ondeggiare denso di nuvole canore, che promettevano un'ascesa infinita, in un'atmosfera incognita ma ricreante. Alba era seduta e contro il nero del piano sfolgorava l'aureola dei suoi capelli e biancheggiavano le sue braccia volanti sulla tastiera come ali. Ella assaltava il forziere musicale con foga, con violenza quasi guerriera, e le sue mani scavavano e spandevano la musica ch'era tutta la storia delle anime d'Alba e di Bruno. 

Quando Alba cessò di suonare, si sentì prendere fra le braccia di Bruno. Egli la sollevò come quando era bambina e le parlò quasi come allora: 

Piccola! Come sai essere così eloquente? Bambina, quanto ti voglio bene! Sei tutto per me, ora: lo capisci? Sei tutto! 

E si baciarono, labbra su labbra, molto, troppo. 

Bruno balbettò lei, come affannata dopo una lunga corsa non ti pare che tutte le cose belle del mondo si pongano qui apposta, fra la mia bocca e la tua bocca? 

Egli non seppe tacere. Le disse fra i capelli: 

C'è di più! 

*** 

Ma sentirono il pericolo della musica e della solitudine in cui inconsciamente tutti di casa li lasciavano. Erano fidanzati, allo spirare dell'anno di lutto si sarebbero sposati: vivevano palesemente l'una per l'altro con un'intolleranza, un senso di assoluto che incuteva rispetto e quasi paura agli altri. Andate a seguirli, a sorvegliarli! Sarebbe parso ridicolo e piccino. 

Furono essi stessi a decidersi a uscire, a star fuori di casa quanto più fosse possibile. Alba non aveva ancora visitato nessun monumento, non conosceva della città che le strade più battute e i giardini. Ma non Monreale con le gemme della sua basilica e con la sinfonia del suo chiostro; non la Zisa, col chioccolìo della sua fonte terrena; appena, sì, Santa Maria della Catena col suo portico che incornicia il cielo e le antenne della prossima Cala. 

Amarono molto attardarsi nelle chiese: l'Annunziata col suo soffitto di legno a riquadri dipinti, irregolarmente illuminati dalle strette ogive; S. Cataldo, tutta nuda con la tripla cupola rossa; S. Giovanni degli Eremiti dalle pietre impregnate di sole sotto la romantica veste di verzura. 

La gente si voltava a guardarli: lei snella e lieve, quasi aerea nei suoi abiti chiari, col suo aspetto da forestiera, attaccata al braccio di lui sempre un po' corrucciato e spavaldo. I conoscenti li salutavano. Uno, una volta, tentennò il cavo dietro di loro, malcontento che un giovane così ben piantato come quello non fosse al fronte mentre tanti figli di madri ci lasciavano la pelle. 

Un giorno, per via, furono fermati da un uomo grosso, taurino, in maniche di camicia e dal grembiulone insanguinato. Era il macellaio Carmelo Puccio, che li aveva scorti dalla soglia della sua bottega. 

Congratulazioni e auguri, signorina.., signor Cavaliere... 

Grazie, Carmelo rispose Bruno, che lo conosceva da quando la sua mamma accompagnandolo a scuola, ragazzino, si fermava ogni tanto in quella bottega a commissionare la carne. Come va? 

Eh, bene no, di certo. Io non ci ho figli come lei, o come la signorina, che danno soltanto consolazioni in famiglia. 

Perché, che è accaduto? 

Come, non sa? Non legge neppure i giornali? Quel malacarne di mio figlio, l'hanno messo dentro per un ferimento in rissa... in un locale che non nomino. 

E, per la vergogna e il dolore, gli salirono le lagrime agli occhi. 

Beh, disse Bruno per fargli coraggio vedremo di accomodare le cose... 

Dicono che se fa la domanda per andar volontario nei reparti di assalto che ora si debbono formare, gli condonano il carcere... 

Venite a trovarmi e scriverò io la domanda... e lo raccomanderò al Procuratore del Re. 

Quest'impegno gli diede da fare e lo costrinse un po' a distrarsi. Carmelo Puccio fu più volte dietro la porta di casa, per ottenere la domanda, e poi la raccomandazione, e poi consiglio per questo e quello. Finché non si seppe che effettivamente Orazio Puccio era stato cavato dal carcere e avviato coi primi reparti d'assalto. 

*** 

Ma quando pioveva non si poteva uscire: e febbraio e marzo 1916 furono piovosi. 

Alba e Bruno allora restavano tutto il giorno in casa, vicini, vicinissimi. Avevano con loro la musica; ma essa li invogliava a baciarsi. Leggevano insieme bei libri; ma anche questi finivano sempre con l'indurre ai baci. E anche i progetti per l'indomani. 

Tutte le cose belle del mondo si pongono qui, fra la mia bocca e la tua bocca. 

C'è di più! 

Egli lo fece balenare altre volte, questo vago miraggio, agli occhi della fanciulla. Finché, di bacio in bacio, non vi giunsero, non lo colsero quasi impensatamente, con un tripudio folle. Bruno sentì davvero, come se l'era ripromesso, che in fondo a quella gioia suprema per la prima volta egli assaporava anche un anima, si spingeva oltre i limiti della terra. 

Credette in tutto allora, ritornò come a quindici anni, quando non s'aspettava che cose belle e grandiose dalla vita. Benedisse tutto quel che era stato, tutte le ore, i minuti delle sue vicende trascorse, poiché ognuno era servito a preparare queste nuove ore, questi nuovi minuti. Tutto era giusto, tutto ben fatto. 

Giusto e ben fatto anche quel che Alba, impensierita, gli confidò un giorno di giugno, dopo tre mesi di quella nuova vita? 

Egli restò di pessimo umore più giorni. 

Come con Katscha Graberg! Ricordo e analogia che lo atterrivano. Ma pure no, non c'era nulla di analogo. Alba non somigliava a nessun'altra. Quanto a lui, se aveva avuto delle colpe, se era stato complice di un delitto, di cui ora comprendeva tutto l'orrore, aveva espiato, era diventato ben diverso, non avrebbe commesso più falli o debolezze. Un figlio? era naturale e giusto. Era anzi un premio e una benedizione! 

E ad Alba, piangente per l'inatteso, spiegò che questo avrebbe anzi accelerato il loro matrimonio. Mancavano solo due mesi allo spirare dell'anno del lutto, per sposarsi come avevano divisato; quel termine si poteva anche abbreviare. 

Ma una mattina al cancello del villino rustico sul viale alberato fuori porta bussarono due carabinieri. 

Chi cercano? domandò fra intimorita e sgarbata la serva dei Collebrina. 

Dov'è chiese uno dei militi leggendo su un foglio il nominato Soveria Bruno fu Cesare e fu Vittoria Armellini? 

Sono qui rispose Bruno dalla finestra. 

Favorisca. 

Bruno scese, sgomento. Alba lo seguì ansante, pallidissima. La zia s'affacciò, muta. Sahib latrò, balzando sul davanzale. 

Lei disse il carabiniere deve seguirei subito. 

Perché? 

Lei è dichiarato renitente alla chiamata della sua classe. Doveva presentarsi fin dal dieci luglio. Sono trascorsi otto giorni. Noi dobbiamo immediatamente condurla al Distretto o, se resiste, al carcere militare. 

Non sapevo... - balbettò Bruno, fulminato. - Il tempo di risalire in casa... 

Mi dispiace, ma neppure un minuto... Tornerà dopo. 

Alba! Alba! I baci della separazione furono dolorosi e puri come i primi scambiati dopo la morte della mamma. 

Bruno, io vengo con te! 

No, Alba, tornerò.. ti giuro che tornerò... Farò intendere la necessità di sposarti... 

Allontanandosi, in carrozza coi carabinieri, vedeva Alba impietrita, ritta dietro il cancello, che con una mano salutava e con l'altra carezzava il cane, affacciato sul muretto ad abbaiare furiosamente. E le gridava: 

Tornerò... prima o poi... a qualunque costo... 

All'atto di svoltare l'angolo della strada si volse e non la vide più e fu contrariato che ella non l'avesse seguito ancora con gli occhi, avesse rinunziato a salutarlo ancora. Non si accorse e non seppe che Alba era distesa sulla ghiaia del viale, incapace a farsi più forza, stroncata dal dolore selvaggio.

VIII

Lettera di Bruno ad Alba: 

"La tua disperazione è in me, moltiplicata cento volte dall'impotenza a esaudirti. Da sei mesi siamo inesorabilmente separati e non sono riuscito ad ottenere quel che è così facile ad altri, ai protetti, ai benveduti: una licenza, di soli otto giorni, magari, appena il tempo di sposarci e di sottrarti alle rampogne di tua madre che lo intendo - inacerbisce le tue amarezze. Io non sono più nulla, un numero, una molecola della massa scaraventata contro la massa avversaria. Sono anzi - peggio - un numero da tener d'occhio, un soggetto pericoloso, dichiarato avverso politicamente al ministero, dipinto forse come un ex-agente nemico, designato col marchio di renitente e di probabile disertore. So adesso che debbo questo trattamento speciale ad alcune lettere anonime di miei amabili concittadini alle autorità militari. 

"Ho finito il corso per ufficiale, come già t'ho scritto, e avevo domandato di essere ammesso alla scuola di aviazione ove mi trovo. Senonchè mi è giunta una lettera di Nino Guevarra che mi offre di andare a raggiungerlo in Francia, ove è aiutante di campo di un generale di brigata. Dice che si cercano ufficiali che conoscano bene le lingue e preferibilmente che siano già stati in Francia o in colonie francesi. Vi andrò, anche per uscire da questa inazione e dallo stato monomaniaco in cui mi sorprendo. Effettivamente non penso che a te, a raggiungerti, a fuggire. Ogni tua lettera, ogni tuo appello disperato, è un nuovo richiamo prepotente, che mi rende folle. La mia anima, il mio cervello sono in uno stato di continua tensione: occhi, occhi, occhi azzurri, gli occhi di Alba, volteggiano attorno a me, come farfalle; ogni figura femminile che intravedo da lontano sei tu; ogni albero è un'acacia dei giardino; ogni gorgoglio d'acqua è la vasca; ogni latrato è Sahib. 

"Se penso, poi, che fra due mesi sopraggiungerà il fatto nuovo che ci consacra l'uno all'altra, che sboccerà dalle tue dolci carni di bimba il fiore e frutto della nostra passione, che tu, - sorellina e amante mia e divinità mia - ti troverai a un tratto fra le braccia una piccola cosa sacra da portare pel mondo senza avere ancora chi porti te - piccola cosa immensa mia, che vorrei tenere fra le mie braccia per involarla lontano da ogni bassezza e da ogni abbominio - allora, per non scapparmene, bisogna che io mi ricordi ogni momento di averti giurato di non morire e di tornare a te per sempre. Tornerò, tornerò, Alba, non morirò: è l'impegno decisivo che io prendo con te, in faccia alla morte e alla vita. Tutte le energie impiegate un tempo in cento cose che non ho compiuto, si radunano ora in questa sola volontà di vivere con te e per te. - Ad ogni modo, disporrò, perchè tu non abbia più dissapori in casa, che il nostro matrimonio avvenga per procura, al più presto, e colui che nascerà sia riconosciuto nostro legittimo figlio. 

"Mi allontano adesso da te ancora di più per conservarmi a te più sicuramente, per sfuggire alla tentazione che mi spinge senza indugio a rivederti sia pure per un solo giorno e che potrebbe anche costarmi troppo. Accetto la proposta di Nino e lo prego anzi di farmi richiamare dal suo corpo, al più presto. A rivederci, mia!". 

*** 

Nevicava ininterrottamente da quarantotto ore al fronte francese, dallo Chemin des Dâmes alla frontiera svizzera. Una di quelle nevicate più moleste perché fuori stagione, quando si aspetta invece il buon tepore che cominci a sciogliere le nevi sulle cime e le membra intorpidite nelle trincee guazzose. 

In una baracca delle seconde linee, presso una batteria di grossi calibri, dove il corpo italiano si trovava spalla a spalla con un corpo senegalese, di. scorrevano il tenente di fanteria Soveria cavalier Bruno e il tenente osservatore d'aviazione Foresi signor Giuseppe. Qualche rombo lontano, stanco e annoiato, era ogni tanto come uno sbadiglio nella parte del fronte. 

La moglie di Tommaso raccontava Peppino con voce afona e scolorita, il capo tra i pugni, gli occhi fissi dinanzi a sé mi trasse sempre più nel vortice. Io non so se ella perseguisse un intento o se la sua raffinata civetteria si esplicasse nei riguardi miei naturalmente, come verso un altro uomo qualsiasi. Certo io ho visto che gli stessi sorrisi, le stesse occhiate sinuose e avvolgenti essa aveva per altri come per me. Ma con tutto ciò io non seppi sottrarmi al suo fascino, mi abbandonai ad esso anzi, volontariamente, se pur di volontà io possa essere capace. Tu già lo sai, Bruno: io giunsi al matrimonio troppo giovane e senza avere quasi nulla goduto di quel che gode di solito anche il più modesto fra i giovani del nostro rango. I miei tutori vollero queste nozze premature per salvaguardare, secondo il loro criterio di borghesi provinciali di pasta antica, il patrimonio ereditato dai miei genitori di cui potevo cominciare a disporre uscendo di minorità. Sicché quando divenni, per affettuosa violenza altrui, il marito della giovinetta uscita di collegio, più inesperta e più inetta di me, che conoscevo appena, mi trovai faccia a faccia coi miei istinti che non sapevano dove appagarsi. Dopo avere in pochi anni perduto tutto nelle bische, unico passatempo a cui ci abituiamo noi semiricchi oziosi di provincia, Myriam Stefanovich mi sorse dinanzi, nel secondo periodo del mio ozio, per farmi intendere che oltre il benessere terra terra del matrimonio, oltre il piacere mediocre e a ora fissa, c'era anche la passione. Sicché mi abbandonai... Comprendo che queste confessioni non ti fanno piacere. 

Perché? domandò Bruno, che ascoltava con aria un po' assente. 

Io ti ricordo la donna che tu amasti e che doveva diventare tua moglie. 

Ebbene? 

Tu stesso mi avevi fatto quasi un divieto di occuparmi di lei, ricordi? a Roma. 

E' vero. Ma ora io posso ascoltarti tranquillo. 

Ma Bruno mentiva: non era tranquillo. Lo assaliva una malsana curiosità di sapere. Il ricordo di Myriam gli destava un'inquietudine fisica, uno strano desiderio di averla dinanzi nuda per fustigarla. 

Rimasto privo di mezzi a Roma, proseguì Peppino senza neppure più la piccola paga al giornale che avevo abbandonato dietro le rampogne di Myriam e di suo marito, in attesa di entrare al Corriere Italiano, come Tommaso mi prometteva, io mi provai a chiedere denaro a casa. Mio suocero mi mandò un piccolo aiuto, ma a titolo di semplice viatico, perché mi affrettassi a rientrare fra le pareti domestiche. Quel centinaio e mezzo di lire sfumò in due giorni. Vivere nel luminoso alone di lei, non abbandonarla ovunque la spingesse o mi spingesse il suo capriccio, costava caro. Giocai e perdetti. Mi rivolsi a un usuraio per lo sconto di una cambiale: mi fece aspettare per assumere referenze e dopo tre giorni mi rispose che per accettare l'effetto occorreva un avallante solvibile, per esempio mio suocero... E io infatti ripresentai la cambiale con la firma desiderata... 

Peppino! esclamò Bruno sussultando. 

Peppino tentennò il capo con gli occhi gonfi di Lagrime. 

Eh si, Peppino è uno straccio di persona per bene. Quando giunse l'ora della scadenza, mio suocero pagò, ma mi proibì di rimetter piede in casa sua e di rivedere mia moglie e i miei bimbi. Poi venne il giorno della mia chiamata alle armi. Myriam era partita con un reparto della Croce Rossa. E così è finita la mia grande avventura d'amore. 

Bruno più che addolorarsene, sentiva una sorda soddisfazione. Avrebbe voluto disapprovare dentro di sé questo sentimento; ma l'immagine di Myriam, risorta nel suo pensiero quale l'aveva avuta fra le braccia nella casa di Mareth, superava ogni senso di equità verso l'amico. Peppino lo irritava fisicamente quasi quanto Tommaso Casazza. Pure riuscì a superarsi e a dire: 

Non è nulla, Peppino. Queste crisi violente sono spesso necessarie nella vita di un uomo. Sono malattie gravi, di cui si guarisce per rinascere e rifarsi a nuovo. Io stesso, vedi, mi sento già diverso da quello d'un tempo, quando pure mi pareva di sapere dove andassi e che cosa volessi. Ora non so cosa voglia e dove vada, ma mi sento più prossimo alla serenità e, lasciami dire la grossa parola, alla verità. 

*** 

Cominciava a far sera, quando smise di nevicare. Il cielo si ripulì e le sue ultime luci azzurre riflesse dal biancore diffuso della terra prolungarono indefinitamente il crepuscolo. Bruno e Peppino, usciti a passeggiare sotto gli scheletri dei pioppi, videro un sergente sopravvenire di corsa, preoccupato. 

Che c'è? gli domandarono. 

Sono stati fermati due uomini sospetti, rispose il sergente dandosi importanza e vado ad avvertirne l'aiutante. 

Chi sono? dove sono? domandarono ancora i due tenenti. Era infatti, quello, un avvenimento diverso dal solito tran-tran di sparare e ricevere colpi di cannone in quella parte abitualmente tranquilla del fronte, e degno quindi di una certa attenzione. 

Due uomini senza carta d'identità rispose ancora il sergente, malcelando l'impazienza di dovere ritardare la sua missione. Sono, insieme con un altro uomo e con la donna fermati ieri per la stessa ragione, nella baracca attigua all'ospedaletto. 

Di lì a poco il sergente ritornò, accompagnando l'aiutante di campo, capitano Nino Guevarra. Passarono in fretta. 

O Bruno, disse Nino, discosto, senza fermarsi ci sono novità per te. Aspettami o vienimi incontro: torno subito. 

Lettere forse? notizie? domandò Bruno, scosso. 

No, no. Servizio. 

Seguiamolo; propose Bruno a Peppino sono curioso di sapere. 

Lettere no. Da parecchi giorni non ne riceveva da Alba. Cosa poteva esserci d'importante? Sulla porta della baracca attigua all'ospedaletto trovarono un assembramento di soldati e sottufficiali, che stavano a sentire da due senegalesi come avessero sorpreso gli uomini sospetti. 

Moi diceva uno dei negri vouloir tuer vite vite... Mon compagnon arreter... Souvenir ordre mon sergent: ne tuer pas bourgeois desharmés... Fusiller plus tard, tonte regularitè. 

Si aprì un finestrino attiguo alla porta, vi si affaccio un sottotenente irato, gridando: 

Cos'è questa porcheria di lasciare le lampadine fuse? Piantone, dove sei? idiota! Porta una lampadina nuova, che siamo qui al buio. 

Le lampadine di ricambio sono state chieste, signor tenente; rispose una voce fessa ed esitante ma non sono ancora giunte. 

Pigliane una qualunque altrove... Porta una lanterna, un moccolo qualsiasi, ma presto, che ti venga un accidente! 

Bruno e Peppino entrarono. L'interno della baracca, difatti, era quasi al buio, e vi si intravedevano appena cinque o sei tra soldati e graduati, il sottotenente e Nino che parlavano con un gruppetto di borghesi fra i quali, agli abiti, si notava una donna. Nel sito di poca pulizia e di acido fenico dell'ambiente si avvertiva anche una nota sottile e smarrita di profumo femminile. Dalla porta entrò, finalmente, un po' di luce: una lanterna portata pendula non si vedeva da chi, che proiettava quattro raggi a croce, illuminanti nell'avanzare scarponi, mollettiere, gambali lucidi, due stivalini e due gambe ben fatte interrotte dall'orlo di una gonna. 

Vediamo in faccia questi signori disse la voce gaia di Nino. 

La lanterna fu sollevata, i quattro raggi guizzarono dall'impiantito sudicio lungo gambe, giberne, cinturoni, bottoni, bandoliere, canne di fucili, facce abbronzate, torve, stupite, spaurite; si soffermarono tremolanti di qua sul profilo aquilino e ilare di Nino di là su quello del piantone anziano dalla bocca semiaperta e nera per due denti mancanti, di dietro sugli occhi di Bruno che si socchiusero un momento, offesi dalla fiammella viva. Quando gli occhi di Bruno si riaprirono, nel tremulo Lascio di luce di fronte scorsero, emersa dall'ombra, la testa di Katscha Graberg. 

Emersa dall'ombra, dal tempo e dai ricordi, con l'aria sbattuta di una naufraga galleggiante appena in un mare buio. Anche lei, evidentemente, lo aveva ravvisato, poiché i suoi occhi chiari e luccicanti si fissavano su lui, dilatati dallo stupore. Già il viso stravolto e gonfio dal pianto recente si contraeva e le labbra livide si schiudevano a un sorriso o a un imprecazione, quando il tremulo faro girò improvvisamente e il buio cancellò di nuovo l'immagine d'incubo. Apparvero, ai due lati opposti dell'angolo luminoso, due visi d'uomo, l'uno glabro, smunto, contorto, da decapitato, l'altro barbuto, cigliuto, ombrato e sinistro. 

Che facce, però! bisbigliò Peppino all'orecchio di Bruno. Ma costui non udiva più nulla, non badava più a nulla. Attorno a lui le voci di Nino che interrogava e degli arrestati che rispondevano, il chiacchierio che giungeva di fuori, erano un ronzio che rispondeva più debolmente a quello dentro le sue orecchie. Nino, quando ebbe finito l'interrogatorio, uscì mettendosi in mezzo ai due amici, a braccetto. 

Per Apollo! esclamò con un riso forzato. Queste cose mi mettono a soqquadro il sistema nervoso. Quella gente poteva andare a farsi pigliare altrove, invece di venire fra i piedi giusto a noi. 

Credi che siano proprio spie? domandò Peppino. 

Non so dirti... Bruno qui, sarebbe più abile di me a decifrarle, lui che ne ha già incontrate. 

Bruno involontariamente trasalì. Domandò: 

Che pensi di fare? 

Credo di essere già d'accordo col generale. E' meglio non avere impicci: li manderemo al comando superiore d'annata e penseranno i francesi a sbrigarsela. Se c'è da lasciarli liberi e tanto meglio, se c'è da fucilarli, facciano loro. A me certi spettacoli non aggradano. Certo non mi convincono. Rispondono in modo troppo evasivo. La donna specialmente, che ha dato quel nome francese, mentre dalla pronunzia si sente lontano un miglio che è tedesca. Ti pare? 

Direi anch'io rispose Peppino. Bruno, dopo un momento chiese: 

E allora? 

Allora, vado al comando e propongo senz'altro al generale di farli scortare a Chalons. 

Scortare da chi? 

Un ufficiale e quattro soldati basteranno. Potresti andare tu, Peppino, che per ora non hai altro servizio. 

Bruno si soffermò, obbligando anche gli amici a sostare. Sentì un impeto improvviso di gridare, di raccontare ogni cosa, di far capire quel che avveniva in lui e nella sua vita. Ma si dominò a tempo e disse soltanto: 

Non potrei invece andare io? Sono qui fermo da tre mesi, fra trincea e riposo, e non ho girato un poco... 

Ti farei mandare volentieri, Bruno, rispose Nino sorridendo se non me lo impedisse la novità che ti ho preannunziata poc'anzi. 

Quale novità? 

Stanotte tu sei designato a rientrare in trincea, per sostituire un tenente malato: e non ce altri disponibili. 

In silenzio, Nino si fece accompagnare fino al comando. 

Il tempo di farmi dare i fogli di via dal generale, e ritorno. Pazienza, Bruno, tu devi essere sul posto per la mezzanotte. Ti farò riavere il turno di riposo anticipato: tanto, qui in trincea ci si sta per una lustra; da due mesi non si tira una fucilata. Tu, Peppino, dovresti portar via quella gente col treno delle quattro. 

Rimasti soli, Bruno risolutamente disse a Peppino: 

Lasciami andare in vece tua. 

Volentieri. Ma, osservò Peppino impensierito se ci fregano? 

Senti: quella donna, rammenti? è Katscha. 

Che ne dici? 

Peppino, non ti ho mai chiesto nulla. Sostituisci me in trincea: io tornerò subito. Lasciami andare, ho bisogno di parlarle, di sentire se è possibile.., con testimonianze, non so... contribuire a salvarla.... 

E Nino? potremo ingannare Nino? 

No. Lo diremo anche a lui. Renderà la cosa più semplice e più facile. 

Anche Nino, dopo lunga perplessità, acconsentì, ma purché si fingesse essere egli all'oscuro della sostituzione. Bruno accompagnò Peppino sino all'imbocco del camminamento che conduceva alla trincea. Lì si abbracciarono.

***

Quattro soldati, quattro prigionieri, un ufficiale, montarono nel treno che conduceva verso il sud. L'ufficiale ordinò che i soldati coi tre uomini restassero in terza classe; egli, con la signora, cercò e trovò due posti in uno scompartimento di seconda, occupato soltanto da una suora, un infermiere e un ferito. 

Alla luce più chiara, Bruno guardò intensamente in faccia la donna, che ricambiò il suo sguardo senza batter ciglio. 

Katscha! le disse piano, dal suo posto ad angolo, curvandosi verso di lei, seduta di fronte. Credette notare, esaminandola bene, che fosse incinta. 

Siete proprio voi? esclamò essa, sempre pallidissima e stravolta dal pianto e dalla disperazione che duravano da chissà quanto. Era dunque destino che anche in questa occasione doveste essere voi il mio carnefice? 

Egli risentì, come alla distanza di un solo giorno, ma più acuta, la stessa profonda tenerezza accompagnata da un'inspiegabile irritazione e quasi da repugnanza che quella creatura gli aveva ispirato nel secondo periodo dei loro rapporti, circa otto anni prima. 

Perché, Katscha? Se ebbi un giorno delle colpe verso di voi, vi giuro di averle espiate. Per una strana fatalità, da quei giorni, le avversità, talvolta le sventure, hanno colpito, interrotto e frantumato qualunque mio atto, qualunque tentativo, qualunque miraggio di felicità appena iniziato. 

Certo furono gli effetti delle mie preghiere a Dio sibilò Katscha. 

E' così cattivo il vostro Dio da accogliere le suppliche di mali? Il mio, io ve l'ho sempre augurato più buono. 

Katscha si portò rapidamente un fazzoletto agli occhi e sussultò a lungo, in silenzio, ai moti del treno e dei singulti. Bruno guardò verso gli altri viaggiatori, s'avvide che non badavano a loro, e avanzò una mano per carezzarle le ginocchia. 

No, no, singhiozzò Katscha, scotendo il capo con forza non mi credete: non ho pregato che per me stessa. Io non pensavo più a voi. Del resto, allora, il male sono stata anch'io a volerlo... sorda a ogni vostra parola. Voi aveste, anzi, delle parole buone per me: le nodo in questo momento! Ma esse scivolarono sulla mia anima come gocce d'acqua su grandi foglie. Ricordate le belle piante acquatiche nelle vasche dei parchi ove andavamo a passeggiare? Eppure c'è stata qualche dolcezza e molte belle ore fra noi. Perché ora vi prestate a perdermi? 

A perdervi? Che cosa supponete? 

Voi non avete rivelato il mio vero nome e la mia origine? 

No, Katscha. 

Non mi conducete, come ,asserivano i miei compagni, a un giudizio sommario, forse alla fucilazione? 

Bruno guardò ancora verso i tre che sonnecchiavano, abbassò il vetro del finestrino, e nel colpo secco che questo diede ricadendo rispose: 

No. 

Katscha balzò in piedi asciugandosi nervosamente gli occhi, gli si addossò di fianco, come per guardare con lui fuori del finestrino, e gli domandò pianissimo: 

Dove andiamo, allora? nella sua voce serpeggiavano brividi d'ansia e di speranza. 

Rispondetemi, Katscha, e ditemi la verità, vi prego, come se foste, per la seconda volta accanto a me, prossima alla morte: disse Bruno, colpito anche lui dalla gravità delle proprie parole che cosa venivate a fare presso le nostre linee? 

Venivo, rispose ella precipitosamente, a cercare mio marito. 

Vostro marito? Un tedesco prigioniero? 

No... un francese... che attualmente è militare. 

Il nome francese che voi avete dato, dunque?... Sì... è il nome di lui.., è la verità. 

Come mai non siete allora in regola e non vi è facile farvi riconoscere? Voi siete naturalizzata francese grazie al vostro matrimonio. 

Katscha esitò un momento; Bruno sentì sul proprio gomito il cuore di lei battere affrettatamente. 

Non posso ancora... perché la nostra unione non è legale... noi dovevamo sposarci quando egli fu richiamato. Ma io, vi giuro, porto già in me un figlio suo... 

Come Alba che attendeva Bruno, da cui era stata separata in quel modo inesorabile e feroce che egli ricordava. Una pietà acuta, urlante, decisa, irruppe in lui. Stavano sempre dinanzi allo sportello aperto, dal quale entravano col vento levato dalla corsa del treno gli odori umidi della terra, luci di casolari dispersi nella campagna che si destavano, dindonii di campane e di campanacci, accenti familiari di quiete e di pace. Katscha continuava a spiegare: 

Io lo cerco perché da più settimane non ho sue nuove. Noi vivevamo insieme da due anni.., egli era stato già al fronte, ne era ritornato ferito, aveva ottenuto un lungo congedo per convalescenza. Mi aveva lasciata a Parigi presso comuni amici; però.... 

No, no, a tutti quei particolari Bruno non sentiva di poter prestar fede. Era la stessa voce di allora, che mescolava menzogne abili e raffinate a verità troppo crude, accenti di squisita sensibilità a note discordi di perversione. Una sola cosa vera: che essa era Katscha, che egli l'aveva posseduta, che era stata quella terribile notte unita a lui da un legame sinistro, che aveva sofferto per lui e che ora... 

...tra un mese attendo di diventare madre. 

Il treno entrò rombando nella stazione fumosa di Epernay, dalla quale Bruno ricordò di essere altra volta passato, e sfilò, dal lato ove essi stavano affacciati, lungo un altro convoglio, tutte vetture di prima e di seconda classe. 

Per Parigi si cambia! gridavano i controllori dalla banchina sul lato opposto. Bruno aprì lo sportello e scese traendosi dietro Katscha ammutolita e ansante. Si trovarono nello stretto passaggio tra i due treni ove non li vedeva nessuno. Attaccata in capo a una di quelle belle vetture lessero una grande tabella indicante la direzione di Parigi. Bruno montò, s'affacciò da un finestrino aperto in uno scompartimento vuoto, l'aprì, tirò su per un braccio Katscha, richiuse e abbassò le tendine. Stettero così nel semibuio, rannicchiati, respirando a fatica, finché il treno sussultò, cigolò, si mosse lentamente. 

Katscha cadde in ginocchio e si diede a baciargli le mani piano piano, e a poco a poco più forte, con foga, impazzita, gli serrò le gambe tra le proprie braccia. Egli lasciò fare senza dirle che: Ssst! silenzio, che non ci odano. 

Essa allora parlò, nel delirio: 

Bada per te ora, bada per te! Come farai? Arrivando a Parigi io potrò mettermi in salvo, potrò nascondermi o evitare almeno il pericolo... Ma tu? Io sono la moglie di lui, del mio tutore, ricordi? del signor Hermann... da allora, da quando mi salvò dopo quel fatto orrendo... mi condusse dal suo medico, mi trasfuse il suo sangue... capisci? Ma volle che lo sposassi, perché mi amava, si era accorto di non poter vivere senza di me, L'ufficiale francese è il mio amante. Lui, Hermann, è stato preso e buttato in un campo di concentrazione.., io potei sfuggire, ma non avevo come vivere e venivo qui per... 

Taci, Katscha, taci! implorò Bruno coi pugni sugli occhi. Non voglio sentire più nulla! 

Rimasero rincantucciati, ciascuno nel proprio angolo, le ginocchia, il capo dondolanti ai bruschi scossoni del treno sferragliante e ruinante attraverso l'alba chiara. Tutore Hermann... tutore Hermann... tutore Hermann: ripeteva all'orecchio di Bruno l'affrettato strepito ferreo delle ruote sotto di lui. Non capiva e non sentiva altro; si domandava soltanto, ma pacato e vago, come fosse entrato la sera innanzi nella baracca degli arrestati. 

Alla prima fermata scese per farsi staccare in biglietteria un biglietto per Parigi. Lo porse a Katscha dal finestrino, quando il treno già si muoveva. 

E tu dove vai? gli domandò essa. 

Ritorno laggiù rispose. Mi aspettano. 

La salutò con la mano. Katscha si allontanava, col treno, affondava nella nebbia pallida del mattino, come cancellandosi, svanendo, ma sbarrava gli occhi fissi su lui, occhi da annegata che si sommergano. Egli udì ancora una volta da lontano la sua voce come piena d'acqua: 

Adieu! Adieu! ... dieu!...

IX

Ecco, e un'altra volta Katscha Graberg non era più che un ricordo. La testa, come mozza nel fascio di luce fioca della lanterna, era la stessa immagine di quella che un giorno gli era apparsa liberata dal cappellaccio cascante. La gita in treno per Saint Germain e questa di or ora parevano essersi susseguite di poco. Anche il lieve gonfiore del ventre di Katscha non era nuovo: ma mentre ora, lì, c'era l'ufficiale francese, un giorno c'era stato lui, Bruno. Questo sì, era il fatto più strano; e il più triste. 

Il viaggio di ritorno fu meno sollecito di quello di andata: coincidenze di treni mancate, omnibus e tradotte invece di diretti. A Epernay si risovvenne dei suoi quattro soldati di scorta ai tre prigionieri, che certamente avevano proseguito senza di lui; e volle tranquillizzarsi convincendosi che fossero arrivati al comando d'armata e che avessero spiegato la sua assenza in qualche modo plausibile. 

Sua unica preoccupazione fu di poter rientrare al corpo senza incontrarsi in Nino Guevarra, per evitare la spiegazione, ma accorrere subito in trincea a sostituire Peppino che era al suo posto da più di dodici ore. 

Cominciò, fin da Epernay, ad avvertire un lontano brontolio continuato che cresceva man mano che il treno lo portava verso il fronte, un brontolio cupo a mezzo tono, scandito di tanto in tanto da vasti boati che si allargavano e si propagavano d'eco in eco, tra le alture. S'affacciò a guardare dal finestrino: l'orizzonte orientale era tutto un fuoco pirotecnico, un bagliore appena tremolante e una gran nube rossastra, guizzante qua e là di baleni più vividi, solcata da razzi giallastri, da traiettorie roventi. Mai aveva assistito a più fantastico e colossale fuoco d'artifizio e lo contemplava con una curiosità che cacciava via perfino le preoccupazioni e ogni altro pensiero. 

Ma, arrivato in prossimità del suo corpo e sceso appena dal treno, il frastuono si fece assordante. Il bombardamento infieriva a pochi chilometri dinanzi a lui. Le strisce di fuoco solcanti l'aria si aprivano in raggiere, in piccoli soli fatui sugli alberi che seghettavano l'orizzonte vicinissimo. Qualche tronco, molti arbusti, ardevano, investiti da quei fulmini. Gli parve di riconoscere a uno a uno quei tronchi, quegli arbusti, ch'erano stati quasi tutto lo spettacolo dei suoi occhi per vari mesi. Uno sgomento indicibile lo paralizzò, lo tenne per tempo indeterminato fermo, a ridosso di un casolare deserto, dalla porta spalancata e dai vetri delle finestre infranti. 

Quando cominciò a far giorno distinse la strala, le posizioni, e si mosse. Sentiva di dover fare qualche cosa, ma non sapeva quale. Detonazioni violentissime e vicine lo investirono, obbligandolo di nuovo a soffermarsi: le granate nemiche giungevano ormai lì, alle retrovie? No; da grandi lampi conici tra i pioppi, ove stavano in agguato i grossi calibri lei nostri, capì che anche questi aprivano il fuoco in risposta a quello nemico che rallentava. Più sicuro e più difeso, corse allora verso i baraccamenti. Da uno di questi, alla sua destra, vide che uscivano affollandosi uomini in gabbanella, altri semivestiti, altri bendati, zoppicanti, in camicia, altri trascinati in barella, su brande, e accorrevano in scompiglio verso la linea ferroviaria. Uno, che si reggeva su grucce, cadde, fu travolto dai sopravvenienti e non poté rialzarsi; sulla neve agitava le braccia e una gamba come se nuotasse e si vedeva la sua bocca aprirsi e richiudersi. Ma non si udiva che lo scalpito dei tuoni galoppanti per l'aria. 

A un tratto, lontano ancora dinanzi a sé, ove stavano ritte sagomette di soldatini che parevano di piombo, intravide l'imbocco del camminamento che conduceva alle trincee, alla sua trincea. In quell'istante il suo reparto era preso di mira dai nemici, assalito forse: e Peppino Foresi era lì, al suo posto. Con un urlo agglomerato nella gola, fece per correre; ma un lampo, un fumo e un improvviso sollevarsi dal suolo, a cinquecento metri di fronte a lui, di un enorme getto di terra e di detriti, seguito da un'esplosione, lo arrestarono, l'obbligarono a rinculare. Si domandò come mai altri cannoni dei nostri sparassero da quel punto, se egli non ne aveva mai visti. Ma al dissiparsi e al ricadere della fosca cortina, gli apparve nel bianco maculato del piano una vasta buca nera, un enorme bubbone aperto. Attorno fuggivano qua e là, risaltate sulla neve, figurine piccole e sottili, i soldatini di piombo improvvisamente elettrizzati. Tra i fuggenti vide venirsi incontro Nino Guevarra, col binocolo pendente dal collo, che appena lo scorse gli fece dei segni con le braccia e aprì la bocca gridandogli qualche cosa. Ma i tuoni assordanti non gli lasciarono udire nulla, rintronavano ora nel suo cranio e nelle sue viscere quasi lo penetrassero. 

Soltanto quando l'ebbe raggiunto, Nino con una faccia stravolta che Bruno non gli aveva mai veduta, poté farsi capire urlandogli all'orecchio: 

Hanno individuato le grosse batterie e ci tirano addosso. Vado a sentire dal generale cosa vuol fare... 

Fece per andare, ma tornò di nuovo ad applicargli sull'orecchio la bocca per dirgli: 

C'è lettera per te. Quel povero Peppino, chissà... 

E riprese la sua corsa, in direzione della batteria. Bruno non seppe dir nulla né far nulla. Provò a tapparsi le orecchie con le mani, ma attraverso di esse sentì giungere per l'aria un ululato, come il rombo di una torre altissima precipitante su lui. La terra scoppiò, l'aria s'infiammò, s'oscurò, lo rovesciò accecandolo. In una nube di lapilli e di fumo soffocante, sentì confusamente d'essere preso in un turbine. Poi il turbine si sedò, il fumo si dissipò, la polvere ricadde e Bruno rivide ancora sul suo capo il cielo. 

Scorse i pioppi divelti, una baracca spazzata via, uno dei grossi pezzi pendente dall'affusto contorto, niente e nessuno in piedi. Si alzò, guardò meglio attorno, sempre con quell'urlo impigliato nella gola, mosse qualche passo. Poco in là un uomo, un artigliere, rovesciato fra la terra e la neve fusa, puntava le mani per sollevare il capo stralunato, la bocca contratta a un ululo: 

Uuuuuh!... Mamma!... uuuuuh!... inchiodato al suolo dal ventre in giù con due monconi di gambe macerate. 

Bruno, ansimando, vuoto, mosso dal meccanismo dell'istinto, girò, cercò, guardò: vide qualche altro ferito, qualche brandello umano, chiamò: 

Nino! Nino! 

Ma Nino si era dissolto, annientato nel turbine nero. 

*** 

Rannicchiato in fondo al cratere, percosso dagli scoppi e dai rimbombi tutto intorno, il corpo di Bruno Soveria sopportò ancora, forse per ore, il martirio. Il fracasso orrendo, a momenti, pareva volesse divellergli la testa dal tronco. Era come se cento mazzuole picchiassero maciullandogli i sensi dall'interno della sua persona nel capo, nella gola, nel cuore, nel ventre; il ventre ed il torace specialmente erano squassati, in spasimosi conati di vomito, senza sosta, dalla nausea feroce di quella tempesta aerea di fracasso. La paura, una spasmodica delirante paura, implorò irragionevolmente dalla sua bocca: 

Basta! basta! basta! Bestemmiò, maledisse Dio che lasciava compiere tutto questo, morse la terra, si riempì di mota e di neve gli orecchi per averne un po' di refrigerio... 

Finalmente lo stamburare dei tuoni diradò, si allontanò, si ritrasse in fila verso le trincee. Bruno si accorse, quando era già almeno mezzogiorno, di essere rimasto inerte, di avere forse dormito, esausto. Due soli pensieri ebbe: Nino Guevarra rapito dal ciclone dell'alto esplosivo e Peppino Foresi al suo posto contro la violenta offensiva nemica. 

Si alzò e cercò ancora; scorse da lontano nomini che portavano barelle, un colonnello che gesticolava in un gruppetto di ufficiali, e, alle sue spalle, avanzare una piccola colonna di fanti, una mezza compagnia. Correva, Bruno, verso il camminamento, precedendo quegli uomini. La cannonata si era ritratta dai due lati, si era aperta come un velario, infuriando a destra e a sinistra, lontano, e più indietro, un poco, ma lasciando in quella zona come una ribalta tranquilla, dinanzi alla quale pazzarellava la fanfara della fucileria e delle mitragliatrici. 

Gli occorse mezz'ora, inciampando e varcando le buche scavate dalle granate, per superare il chilometro che lo separava dal camminamento. Vi si imboccò e s'incontrò presto in un piccolo gruppo di soldati feriti che lo rimontavano, facce contratte e livide, occhi da allucinati, trascinandosi e lamentandosi. 

Avete visto il tenente Foresi? domandò loro; ma quelli tirarono via, coi loro gemiti, senza badargli. 

Proseguì correndo; in più punti il passaggio era ostruito, sconvolto dalle esplosioni di granate che lo avevano raggiunto. In uno di quegli spacchi s'accatastavano otto o dieci cadaveri straziati, alcuni triturati, di uomini che avevano tentato fuggire o accorrere. Non si udivano più che cannonate lontane e sparse; dinanzi, verso la trincea, il crepitio di una sola mitragliatrice. Una sola, incessante e sinistra nelle pause tra un rimbombo e l'altro delle artiglierie, che macinava i suoi colpi con furia, ora sghignazzante come una jena, ed ora anatrante e insolente come un motore da motocicletta. Finalmente il rosario dei suoi colpi si allargò; essi non furono più che dei globuletti scoppianti nel silenzio; tacquero. 

Bruno sboccò, dopo un cammino interminabile, nella trincea deserta, sbarrata da morti in pose sghembe, inaudite, come ginnasti immobilizzati nell'estremo esercizio pericoloso, quello che si esegue senza musica. Qua e là i sacchi di terra dei ripari, sventrati, avevano semisepolto più d'uno sotto frane da cui si affacciavano canne di fucili, gavette, giberne. Qualcuno di quei corpi immobili viveva ancora per un rantolo che non si capiva da quale bocca si esalasse. Il raccapriccio serpeggiava per tutto lo stretto fossato, ove il nemico non era riuscito a penetrare, occupato soltanto da morti e da moribondi, difeso fino all'ultimo da una mitragliatrice. Eccola, la mitagliatrice dai nastri esauriti, puntata ancora sui reticolati aggrovigliati e arruffati ove rimanevano impigliati cadaveri tedeschi, alcuni ancora caldi, altri già secchi ed esangui come mummie di mosche in un enorme ragnatela. 

Sotto l'arma rabbiosa si dimenava lentamente con gesti pesanti un uomo che Bruno credé riconoscere e che ripeteva pian piano caparbio: 

No! No! No! No! 

Credé riconoscerlo, perché non aveva più la faccia atona di Peppino Foresi: era una faccia improvvisamente dimagrita, livida, nerastra, pesta, da cui schizzavano due occhi invetriti, fissi in alto. Dalla giubba sbottonata, tra la clavicola e il collo, si vedeva una macchia rossa e gocciolante. Bruno incespicò, cadde, si rialzò; accorse a lui a braccia aperte: 

Peppino! Peppino! Son qui! 

Peppino non gli rispose, non lo guardò, ma continuò con gli occhi squallidi a fissare il cielo ripetendo testardamente il suo: "No! No! No!" E dondolava il capo con lo stesso moto del cavallo ucciso da Bruno nell'abisso della Sebka tunisina. 

Bruno, vacillando pel terrore, lo sollevò, gli strinse il viso fra le mani, lo chiamò ancora: 

Peppino! Peppino! che cosa grande, in un ora, hai fatto della tua vita! 

Sopraggiungevano due militi del genio con un caporale. Pregò che lo aiutassero a trasportare il ferito. Appena adagiato fra le loro braccia, Peppino Foresi svenne. Lungo il camminamento s'incontrarono nel reparto di fanteria che sopravveniva a rioccupare la trincea. Uno degli ufficiali si curvò curioso e inquieto sul ferito ed esclamò: 

Toh, Foresi, l'aviatore! Non so capire perché sia venuto a farsi ammazzare qui, questo fesso! 

*** 

L'attacco nemico si ripeté, ma non ebbe fortuna. Prima di sera tutto era ritornato tranquillo in quelle linee: il duello delle artiglierie riprese verso Verdun. 

Bruno vide trasportare Peppino Foresi all'ospedale di Bligny e fu quasi tranquillo: un ufficiale medico che conosceva gli dichiarò, dopo un esame e una medicatura sommaria, che la ferita non pareva mortale. 

Egli girò dopo qua e là, come un automa, con la lontana speranza di rivedere almeno i resti di Nino Guevarra. Si trovò tra ufficiali francesi arrivati con rinforzi alle prime notizie del furioso attacco, ma non poté rintracciare, nel disordine, l'ufficio del suo comando, distrutto o trasportato altrove. Sentì, in un gruppo d'artiglieri, dire: 

Gli ufficiali che erano in trincea, non sono più tornati: Martelli, un tale Soveria... 

Si spinse fino al campo degli aviatori, ove dai preparativi capì che tre apparecchi dovevano a momenti prendere il volo. Intendeva comunicare ai superiori di Peppino Foresi che questi era ferito e impossibilitato a presentarsi. 

S'imbatté in un capitano che gridava a un sergente: 

Cerchi il tenente Foresi. Che cosa mi fa quell'addormentato? 

Signor capitano, non si è più visto da ieri al giorno rispose il sergente. 

Me lo trovi o lo denunzio. Deve assolutamente partire con l'apparecchio numero tre. Crede di essere venuto qui per fare la burletta? 

Bruno, d'un tratto, rivide con occhi da militare tutto quel che era avvenuto e quello che poteva ancora avvenire. Conosceva l'alloggio di Peppino Foresi e vi corse. All'attendente, un contadino di Piana dei Greci, uomo di maffia, sicuro e fido, disse presentandoglisi: 

Vuoi bene al tuo tenente? 

Come no? Quali comandi? 

Egli non può trovarsi presente, e intanto lo cercano. Ha reso un grande servizio ad un amico. Ora manda me per partire in vece sua. Dammi i suoi indumenti di volo e aiutami ad indossarli. E zitto. 

Il tenente Foresi è mio padrone e lei è mio superiore. Si serva. Io non so nulla. 

A notte alta si chiamò l'appello dei partenti. Anche il tenente Foresi vi rispose, tra i rimbrotti capitano, e occupò il suo posto d'osservatore sulla carlinga, dietro il pilota. 

Dove si va? si provò a domandare a costui, un aspirante giovanissimo, di cui già aveva appena intravisto il viso imberbe. 

Come, non lo sa? Ha dormito troppo, al solito, da quel che pare motteggiò il giovano senza voltarsi. Andiamo a fare dei rilievi dietro il fronte nemico. Appena giorno dovremo trovarci su Carlsruhe, butteremo, se sarà il caso, le bombe e ritorneremo eseguendo fotografie lungo la linea. Se ne parla da tre giorni. Abbiamo anticipato per via dell'inattesa offensiva sul nostro fronte. Ma lei è poi ben sicuro di saper maneggiare... 

In quel momento venne dato il via. I motori scoppiettarono, rombarono e non si udì più nulla. Da un ondeggiamento dell'apparecchio Bruno capì che si prendeva lo slancio. Via, via, via! Si accorse, da alcune ombre e da masse brune d'alberi trascorrenti sotto di loro, che si era già in aria. 

Tutto giusto, finalmente. Lo si credeva morto in trincea, poteva bene andare a rischiar di morire in cielo. Peppino Foresi aveva, al suo posto, con un atto d'inatteso e forse d'inconsapevole eroismo, salvato le posizioni, da solo, vinto. Egli doveva ora, al posto di Peppino Foresi, compire più che un atto di dovere, affrontare un pericolo pari a quello da cui lo aveva scampato la sua diserzione di una notte. Si sarebbe sentito, senza riabilitarsi così, indegno di farsi rivedere da Peppino, indegno perfino di ricordare il caro, buono, fraterno, Ninì Guevarra. 

L'aeroplano filava altissimo, in un'atmosfera glaciale, fra le stelle. Seguiva la direzione sud-est, mentre gli altri due erano spariti fin dalla partenza, verso nord-est e verso oriente. Sotto, un mare di nubi accavallantisi, in mutevoli aspetti favolosi. Fra quegli astri splendevano i duecentosettantadue che Alba forse dal giardino guardava ogni notte pensando a lui. Alba che gli aveva ancora scritto, secondo le ultime parole di Nino. E quella lettera egli non l'avrebbe mai avuta. Ma Alba non lo immaginava certo, in quel momento, convinta del suo sicuro e prossimo ritorno, lassù, sospeso fra terra e stelle. Un ricordo irruppe improvviso nella matassa dei suoi pensieri, sgrovigliandoli: Astolfo! l'Ippogrifo! Ecco: egli compiva l'impresa da lei preannunziata da tanti anni, il sogno che li aveva fatti sorridere. Tutti i suoi sensi, ben desti, si acuirono nell'attesa, cacciando via ogni resto d'amarezza e di sfiducia. Lì non e'erano più per tirarlo in basso, verso il solito e il comune, Ricchieri, il console, Casazza, il dottor Sebastien, Philipeau, von Erhardt, gli agenti tedeschi, Bonsignore, Myriam e suo padre! 

Albeggiava di già e la platea di nuvole sotto l'aeroplano era stata oltrepassata. Si sorvolava, a quota sempre alta, una terra piatta, tutta boschi e corsi d'acqua, con macchie, qua e là, bianche e più o meno estese di villaggi e di città. Attorno a loro passavano, stridendo acutamente, nibbi. Due di questi, lontanissimi, pareva venissero incontro a loro. Ma così lontani che non ingrandivano mai alla vista, pure tenendo un volo più diritto. A un tratto, sul davanti di uno di quegli uccelli, qualche cosa lampeggiò. 

Il pilota arrestò il motore, in un guizzo a volo spianato, e si volse a Bruno per dirgli concitatissimo: 

Ci danno la caccia. Giù le bombe. 

Bruno, meccanicamente, si affrettò ad eseguire. L'apparecchio, in un colpo di beccheggio amplissimo, parve precipitare verso terra. Sotto di esso svamparono e sfumacchiarono due, tre raffiche seguite da sorde esplosioni. Si risollevò rapidissimo in una spirale allargantesi di giro in giro. Ma i due nibbi, i due enormi nibbi, gli apparecchi nemici insegui tori, lo accerchiavano in evoluzioni concentriche, innalzandosi con esso. 

Un momento uno gli passò sopra, e allora esso sprofondò. Ma si trovò quasi accanto il secondo. Bruno vide da questo partire cinque, sei piccoli lampi, accompagnati da getti di fumo diafano. Guardava interessatissimo e anelante, ma scontento di non potere agire, mentre avrebbe voluto farsi addosso all'uomo che, un attimo, aveva visto sparire dall'apparecchio nemico un'altra sosta del motore, il pilota gli gridò: 

La mitragliatrice... Tiri! Tiri! 

E infatti s'accorse d'avere dinanzi a sé, piantata sull'orlo della carlinga, una piccola mitragliatrice. Ne premé il bottone e tirò a caso. L'altro aeroplano tedesco s'abbassò e inviò loro una folata di colpi. S'udì un piccolo schianto nella fusoliera. Bruno mirò e tirò a sua volta, fremendo, compiaciuto però del rumore lacerante della sua arme. Il nemico scivolò oltre a destra. Ma un altro schianto, due, tre punte secche piantate dal lato opposto nel suo apparecchio, lo fecero rivolgere. Il secondo aeroplano nemico passava lì, parallelo, quasi attaccato al suo come un solo apparecchio: in un secondo, distinse il pilota chiuso nel casco che si volgeva a guardare, e il mitragliere, senza casco, coi capelli svolazzanti, e con la faccia contratta in una strana smorfia d'attenzione o di riso. 

Improvvisamente, mentre premeva il bottone per sparare contro il nemico che li oltrepassava, Bruno avvertì un moto di rollio come se l'aeroplano sbandasse. Si rivolse al suo pilota per chiedergli che avvenisse e lo scorse con le mani sempre attaccate alle leve, ma il capo reclinato sulla spalla sinistra. Dalla tempia veniva fuori un rivoletto di sangue. 

Scosse l'uomo e costui lentamente si piegò tutto su un fianco, abbandonando il comando. L'apparecchio, l'Ippogrifo ferito a morte, oscillò, innalzò l'ala destra. Dal suo posto Bruno buttò le mani a ghermire le leve; l'aeroplano impennato si raddrizzò, planò un'altra volta, ma cominciò a scendere diagonalmente, sfuggendo ai due rimasti più in alto. Planò, planò diritto come una freccia; la terra gli volò incontro, una massa scura, una foresta gli si oppose, montando a raggiungerlo, foresta e cielo lo presero in un cuneo che si strinse precipitosamente... L'aria si lacerò frusciando, la terra ululò, il cielo si capovolse. 

*** 

(Toccato appena il suolo, l'Ippogrifo si risollevò. Riaprì l'ale, due grandi ali che facevano schermo a mezzo cielo e sfioravano da un estremo a l'altro i lembi della foresta. La foresta, la Terra, s'inabissarono sotto di lui, con un sibilo vasto, il sibilo di una granata grande quanto tutte quelle lanciate in un giorno da cento eserciti. E non fu cessato quel sibilo che risonò per gli spazi immensi un nitrito simile a quello di cento organi dalle canne alte come torri. Era l'Ippogrifo che nitriva all'infinito, trasportando Bruno aggrappato alle penne della sua criniera. 

Bruno contemplava la sua cavalcatura-uccello, rampante per l'aria con facilità e leggerezza da farfalla, così che c'era da domandarsi se piuttosto lo spazio non sfilasse attorno a lui, fermo, come già la terra che - sprofondata - più non era ormai che un pallone leggero, galleggiante e voltolante tra un arcipelago di nubi. Esso, sotto le penne aquilee che gli ornavano il collo, grandi come foglie di palmizi, attorno al garrese dove si attaccavano le ali, era tutto coperto di una collana di grosse squame simili a scudi da guerriero, e più giù, per le spalle e per la groppa, di un vello morbido e lucido, ove si annidavano usignoli e passeri solitari. Quei volatili, ora, cantavano a piena gola attorno a Bruno, con l'enfasi di cento orchestre d'archi e di flauti, cantavano l'Appassionata di Beethoven. E il Mostro volgeva ogni tanto il colossale capo rostrato a guardarlo ora con un occhio ora con l'altro, occhio rotondo, enorme, dall'iride gialla e fiammante, in mezzo alla quale la pupilla era uno specchio in cui si rifletteva qua il viso stravolto e pietoso di Katscha Graberg, là il profilo puro da arcangelo di Alba Collebrina. 

Compiva, Bruno Soveria, finalmente, la grande, la più grande impresa sognata da uomo. Il cielo, tutto suo, era oscuro dietro di lui, ma azzurreggiava di fronte. E, volgendosi all'oscurità lontanante, vi scorgeva un riverbero livido di satelliti seminascosto da una nuvola nera. Poi la luna s'affacciò, come un viso su cui si sollevi una benda: ed era la testa mozza e dolorosa di Katscha, giustiziata dai francesi, e gittata fuori della terra per inseguirlo. Sul cielo azzurreggiante di fronte, però, in un diadema di duecentosettantadue stelle, appariva qual sole il viso limpido di Alba. 

Ma perché una di quelle stelle si dilatava e si apriva? Vi baluginava la faccia della zia Flavia; da un'altra accanto quella di Annie; da un'altra quella di Edmea Griffith; e poi Zakya, e Rebecca e tutte le donne incontrate in altro tempo lì, su quel globo voltolante tra nubi, e tutte con un sorriso buono e propizio, tutte amiche. Una sola ne apparve, torva, in un astro fumoso e fischiante, che girò minaccioso come un proiettile ad alto esplosivo attorno all'Ippogrifo: e aveva il viso di Myriam Stefanovich. Ma apparvero altre due stelle e cacciarono via il bolide sinistro: erano gli occhi di mamma Vittoria. 

Il viaggio di Bruno durava da tempo sterminato. Ogni colpo d'ala del suo corsiero segnava un anno. Secoli e secoli egli superava senza raggiungere il sole. E già il freddo glaciale degli spazi cominciava assiderarlo, ad intirizzirgli specialmente le gambe divenute grevi, di pietra. Le gambe pesavano sul dorso dell'Ippogrifo che faticava a poco a poco sotto di lui, si rimpiccioliva, ansando, amando come cento treni che non riescano a svellersi dalle rotaie di stazioni morte e bersagliate da bombardamenti lontani. 

E Bruno vide un altro Bruno Soveria, o meglio le carni, le ossa, la pelle che nel mondo s'erano chiamate Bruno Soveria, ora peste, macere, rimpastate, ricucite, inchiodate su un piccolo letto, in una piccola corsia, dove tutto era bianco e trasparente, lui stesso, i letti, i malati, le suore dalle lunghe cuffie alate. Attraverso quelle ombre diafane trasparivano muri di ferro opachi e sonanti al minimo tocco, come campane mortuarie, e trasparivano finestre a inferriate da cui inutilmente splendeva il sole, splendevano Alba, la mamma, il giardino dalla vasca garrula, ove erano pure radunati ad attenderlo Nino Guevarra, Peppino Foresi, Carlo Quilici. 

Ma egli poteva col capo e le braccia innalzarsi e ritornare nel cielo ove l'Ippogrifo era svanito. Le sue gambe di pietra restavano attaccate, radicate alla terra, mentre tutta la sua persona s'elevava, fioriva liberamente, ondeggiando lieve lieve, come un altissimo pioppo, nell'illimitato azzurro. E col capo e le braccia, sospeso sull'esilissimo stelo del corpo, spaziava di nuovo tra le stelle, poteva quasi toccarle. In esse, però, non ravvisava più quelle che prima gli erano apparse; e fu anzi sorpreso e inquieto di vedere nel sole un altro volto, un volto che stentò a riconoscere, quello di Ibrahim-ben-Kassar. E costui gli diceva, in uno sbadiglio ripetentesi di stella in stella: 

E' più facile essere buoni... 

Buoni.., buoni.., buoni... La voce, i bisbigli scendevano, si allargavano, con un sussurro d'acque fluenti, d'aria ventilante, risuonavano di nuovo in una corsia bianca, fra letti bianchi, tra malati e suore bianche dalle grandi cuffie alate...).

 
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