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LA VITA AL VENTO

Parte I

L'orma sulla duna

I

Fuori porta, a ponente, la città finiva in piena campagna con quel villino. Oltre, il tram elettrico proseguiva per lo stradale fiancheggiato di platani. A destra, fino alla montagna, era tutta una parata di ulivi, veterani e canuti, in file impeccabili. A sinistra, l'ordine sparso delle reclute sbarazzine e gaie d'un mandorleto, fra cui, qua e là, pingui e bonaccioni, aprivano le pesanti braccia alcuni carrubi. Su tutti, altissimo a guardare e a intridersi un po' nell'azzurro strepitoso del cielo, un personaggio importante: un pino secolare, che ricordava re Ferdinando I.

Il villino stava fra gli ulivi e quattro o cinque ne aveva anche nel suo recinto, gravi e proletari, tutti coperti di polvere, tra la folla aristocratica e linda delle palme, delle robinie, delle latanie e delle musacee. L'edificio, che avrebbe voluto arieggiare lo stile liberty appena entrato in voga, era senza intonaco, come se lasciato in asso sul più bello. Unico piano sovra un ammezzato, sotto i tetti rossi. Dal balconcino si tendeva una banderuola di carta:

Si affitta una
casa grande con
acqua corrente.

Il ragazzo e la signora abbrunata guardarono attraverso il cancello. Si udivano voci di bimbi,
starnazzare di polli e il chioccolio di uno zampillo.

— C'è anche la fontana, mamma — disse il ragazzo.

— Ti piacerebbe, Bruno? — domandò la signora.

— Sì, tanto!

— Proviamo. E' un po' lontana dal centro; ma per noi non sarà un male.

Tirata una catenina di ottone che penzolava lungo un pilastro del cancello, tintinnò una
scampanellata gaia che fece subito chetare il vocìo. Poco dopo si aprirono le persiane del balcone sul pianerottolo della scalinata a due branche che dall'ammezzato scendeva al giardino e vi si affacciò una serva di media età, con uno strofinaccio in mano.

— Chi è? — chiese con tono e faccia un po' bruschi.

Quattro teste di ragazzi d'ambo i sessi a scala, fecero capolino da una finestra accanto, tutte
rallegrate alla vista dell'ignoto ragazzo visitatore.

— Si può vedere l'appartamento? — chiese la signora.

— Il padrone non c'è e neanche la padrona. Ma adesso sentirò dalla nonna.

E la serva si ritrasse. I ragazzi della finestra e il ragazzo della via si sorrisero.

— Quanti amici troveresti, eh Bruno? — disse la signora al figlio, sorridendogli anche lei sotto la velata. Questi rispose piano:

— Bisognerà vedere, però, se andremo d'accordo.

La serva ritornò senza lo strofinaccio e con aria più accogliente. Aprì il cancello e introdusse i visitatori per condurli incontro a una vecchietta vispa e gentile dietro la quale si mosse anche la scaletta infantile a quattro gradini alterni di maschi e femmine.

— Vengano, vengano! — badava a dire la vecchietta, con spiccato accento lombardo — mia figlia è in officina col marito. Capirà, signora: l'occhio della padrona... gli uomini vedono sempre meno delle donne. E poi, nei paesi nostri le donne sono abituate a lavorare. Io resto a badare ai tosi: con le vacanze, son tutti in casa. E son birichini... ma non danno disturbo, stia tranquilla. Ecco l'ingresso dell'appartamento superiore, si accomodi.

«La casa grande» ossia il quartierino — otto camere più bagno cucina e ingresso — era arioso e pieno di luce. La signora ne restò visibilmente soddisfatta. Tra una cinguettata e l'altra dei ragazzi e della nonna, veniva dicendo piano al figlio:

— Questa sarebbe l'anticamera, di là il salotto e di qua la sala da pranzo. La zia potrebbe
prendere quella camera e io quest'altra. Qui tu staresti bene: due finestre con affacciate diverse. Guarda, e qui accanto si potrebbe fare il tuo studiolo, in attesa del grande, quando sarai avvocato. Sei contento, Bruno?

Bruno fece di sì col capo; poi si volse ai ragazzi, sorrise per la seconda volta, e si uni a loro per rifare il giro della casa. La mamma restò a discorrere con la vecchietta sulla pigione e sulle condizioni.

La brigatella infantile, dopo avere girato per le stanze vuote, scese scavallando per le scale in
giardino, s'affacciò a specchiarsi e a sputare nella vasca piena di pesci malinconici e impennacchiata di galle, si spinse a mettere a soqquadro a sassate il pollaio; poi i quattro fecero gli onori di casa al visitatore nel loro appartamento al mezzanino. Era tutto in disordine, ma vi si ammiravano molti giocattoli, in massima parte rotti.

Gli chiesero come si chiamasse.

— Bruno Soveria.

— Soveria… Soveria... par che dica soneria. Il nostro nome è Collebrina. E' più bello.

— Io preferisco il mio.

Gli si presentarono anche per nome di battesimo: Stella, Agostino, Diana e Arturo; ma il babbo li chiamava sbrigativamente coi vezzeggiativi: Tetè, Titì, Tatà e Tutù.

Bruno prese la rivincita:

— Pare la tromba.

— Ah! ah! ah! — risero; e Titì, che era il più pettegolo, aggiunse: — e tu sarai il tamburo:
Bru!... Brubrù!... Brubrù!...

Bruno sentì una gran voglia di graffiarlo. Eh no, decisamente, non erano ragazzi da poterci
andare d'accordo.

C'era un quinto rampollo Collebrina; ma Bruno lo conobbe soltanto dopo il 31 agosto, quando
la famiglia Soveria si fu insediata nella nuova dimora, il villino un po' rustico sul viale alberato fuori porta.

Lo vide al seno della madre, piccolo marsupiale di sei mesi. E seppe che si chiamava Cavour,
come quel ritratto d'uomo con gli occhiali e con la barba a collana sul libro di lettura.

La signora Collebrina era rubiconda e tonda e parlava, ma ancora più vivacemente, come la
vecchina sua madre.

— Piacere di conoscerla, signora Soveria. Avrei dovuto fare prima il mio dovere; ma cosa
vuole? io non sono di quelle donne che possono permettersi il lusso di fare visite, di andare a passeggio o ai ritrovi. Sono una lavoratrice, io; e giovo a mio marito per due impiegati... senza lo stipendio. Cosa vuole? bisogna aiutare a mandare avanti la baracca: i ragazzi crescono e hanno molto appetito. Avevamo pensato, mettendo su questa villa, di poter fare i signori... Ma no, che non è stato possibile. Molti affari sono venuti meno e bisognò perfino lasciare la casa senza facciata, che me ne vergogno...

Qualche ora dopo venne il signor Collebrina a portare la ricevuta della pigione. Era vasto e
quadrato, il testone piantato fra le spalle, gli occhietti vivaci e una bella barba da Michele Strogoff. Parlando, aveva l'aria di masticar le parole, tanto esse gli venivano massicce e insieme succulente fra i denti.

— Riverita, la mia signora. E' questo il suo ragazzo? Che bella faccia intelligente! Dieci, undici anni come il mio Titì, no? Dio glielo preservi, meglio di que' miei monelli che non hanno voglia a niente. Lei uno solo e buono, tutta sostanza, direi: io cinque, che messi insieme non fanno mezzo. E Dio non si stanca di darmene. Ma l'ultima volta ho raccomandato alla cicogna di non presentarsi più a becco pieno. Il ragazzo mi guarda. Già: è un'antica credenza tedesca. Io sono stato molto tempo in Germania, ad addestrarmi in certe industrie. Grande paese. Dicono: Deutschland über alles. E' un po' esagerato; ma, per i tedeschi, è giusto dire così.

— E la cicogna? — chiese Bruno, simpatizzando, mentre la mamma sorrideva.

— In Germania è la cicogna che nel suo becco porta i bimbetti alle mamme. I bimbi nuovi
vengono al mondo così, da chissà quale paradiso, in un fagottino di luce, portati giù pel cielo dal grande uccello serio serio.

Bruno, che già approssimativamente sapeva come arrivano nel mondo i bambini, scosse la testa a occhi bassi e non fiatò. Ma il signor Antonio — così si chiamava Collebrina — gli piacque molto lo stesso.

Divenne, anzi, il suo miglior amico; finì col preferirlo ai suoi figli. Questi, dopo sei mesi, Bruno già li evitava tutti, maschi e femmine. Stella soltanto si mostrava gentile; ma era destinata, così fragilina e diafana com'era, a lasciarsi sempre sopraffare da quei due rompicolli di Titì e Tutù che chissà come si sarebbero imposti anche a Bruno, se questi non avesse dato a tempo una gagliarda prova di sé.

Titì, suo coetaneo magro e ammerluzzito, e Tutù, pallottola di sette anni, si mettevano in due a
far dispetti a Bruno, e ci andavano sotto sotto a pizzicarlo e a provocarlo a mezza voce quando i grandi erano presenti. Una volta, in giardino, dinanzi a mamma e a nonna Collebrina, lo innaffiarono da capo a piedi con la manichetta della vasca. Mamma e nonna sgridarono e rincorsero i due monelli, che però non si lasciarono pigliare, anzi ci risero divertendosi di più; e a Bruno toccò andare a mutarsi i panni. Ma se la legò al dito, e il giorno dopo, sorpresi per le scale i due fratelli, li assalì senza preamboli: atterrò con poche manate Titì e si rivolse furioso a Tutù che gli si era attaccato al collo con le unghie, se lo piantò sotto e gli lardellò i fianchi di cazzotti. Commentando poi l'accaduto, ebbe a dire:

— Mi son fatto conoscere!

Diana era la bella e la viziata di casa Collebrina. Anche papà Antonio aveva un debole per lei; debole che diminuì però quando — in capo ad altri due anni e precisamente pel Natale del 1900 — la famosa cicogna portò in casa un'altra bambina.

— Questa deve tenermela a battesimo lei, signora Vittoria! — venne su a dire, con la sua aria
bonacciona ed esigente il sor Collebrina, portandone l'annuncio. — Vedesse com'è bellina!

E mamma acconsentì; e Bruno fu, anche, il compare. La bimbetta ebbe imposti i nomi di Alba,
Vittoria, Adelaide e diventò il pabolo e la ninna della sua madrina, destando talvolta anche le gelosie di Bruno.

Costui frattanto diventava un personaggio che stordiva tutti gli abitanti del villino, col suo
sapere. Perfino la vecchia prozia Anna che era mezzo sorda, restava a guardarlo rapita quando lo vedeva parlare con foga di questo e di quello, benché non capisse. Papà Collebrina diceva:

— Non vedete quanto legge, quel ragazzo? C'entra tutto, nei libri, ci diguazza dentro, ne beve il succo e ne la anima e cervello. E quell'eloquenza vi par nulla? Potessi vincere una quaterna, come sono sicuro che diventerò presidente dei ministri!

***

Ben presto cominciarono anche gli amori.

Quale fu il primo? Forse fu Diana Collebrina. Ma durò un giorno, l'unico giorno che andarono
d'accordo.

Era avvenuto nei primi tempi, quando ancora di Alba non esisteva neppure il seme. Giocavano tutti a nasconderello nel giardino e si trovarono un momento, egli e la ragazzina, insieme, rannicchiati sotto le frasche delle piante di pomidoro sostenute da canne intrecciate a forma di capannette, mentre gli altri li cercavano attorno.

— Non ci pigliano! — gli soffiò in un orecchio Diana, soffocando le risate. E Bruno se la vide accosto, con gli occhi vicini vicini ai suoi, che parevano enormi. Allora sentì come se le viscere gli si dilatassero d'improvviso, montandogli pel seno fino alla gola. La baciò, ed ella gli si strinse addosso, contorcendosi nelle risa soffocate. Bruno si convinse in quel momento di volerle bene più che alla mamma.

Ma poi ella si nascose con un altro ragazzo, un biondino, amico dei suoi fratelli, e Bruno provò un tale impeto d'odio contro di lei, che da quel giorno non volle più guardarla in faccia!

Sui quindici anni, gli amori si fecero di altro genere. Egli stesso, però, non li considerò mai
come amori. La prima volta si lasciò condurre da compagni più grandi di lui, torbidi frequentatori di certi locali, ove gli affibbiarono una specie di serva magra, gialla, sciattata, che gli lasciò un senso di ripugnanza. Poi andò a cercarsele da sé; ma non trovò mai quel che avrebbe desiderato e gli toccò fare delle passioni solitarie per le più belle donne del mondo, le ambite, conosciute soltanto nelle vignette. Se ne circondò nella sua camera, se ne tappezzò le pareti: Cléo de Mérode, Otero, Lina Cavalieri, la Woronowskaia. Scriveva storie d'amore inaudite, con quei ritratti sotto gli occhi, e poi finiva col cercare l'attuazione delle sue fantasie là, dove soltanto gli era possibile.

Rincasava una volta da uno di quei luoghi, con l'odore di cipria muschiata ancora sulle labbra, quando trovò presso la mamma la signora Collebrina con la piccola Alba, che era allora un Sévres di quattro anni, bianco e biondo.

— Oh Bruno, ti ho portato la sorellina… oh, pardon: io continuo a dargli del tu senza pensare
che ormai è un giovanotto.

— Continui pure, Bruno non se ne offende. Bruno, guarda come si fa sempre più bella la nostra bamboletta. Perché non la baci?

Bruno fece per baciarla infatti; ma la piccina gli respinse il viso con le manine, voltando il capo dall'altra parte.

— Cos'è, Albetta? Non ti ha sempre baciata Bruno? — la sgridò la madre. — Suvvia, non fare la schizzinosa!

Alba, con tanto di broncio, si lasciò baciare e poi scoppiò a piangere.

Le due mamme non seppero spiegarsi il contegno della bimba; ma Bruno, che aveva sentito nel bacio l'odore dolce, quasi latteo, dell'epidermide di lei confondersi con quello acuto e volgare che egli portava ancora in faccia, in tutta la persona, capì ed ebbe rimorso di avere insozzato così quell'innocenza sensitiva.

***

Poi fu la volta della Serventi, la sua compagna di terza liceale, che per un buon mese Bruno
considerò il suo amore definitivo, eroico, fatale. Ma se essa era bellina, per comune consenso di tutta la classe, era anche una civetta da far perdere la tramontana al più pacifico degli innamorati, figuriamoci a Bruno che mosche sul naso non ne voleva.

Irritatissimo contro di lei, un tepido pomeriggio di maggio, egli si era esiliato sotto il pergolato del giardino comune, ove lo zampillo della vaschetta gli dava l'illusione della frescura d'una cascata. E leggeva, o, più esattamente, teneva sotto gli occhi l'enorme in-folio dell'Orlando Furioso illustrato dal Dorè.

Alba bianca e oro si appressò discretamente e si soffermò poco discosto, incerta; ma, quando lo vide alzare uno sguardo sopra di lei, gli chiese:

— Che leggi?

— Una fiaba.

— Bella?

— Tanto!

— Vorrei leggerla anch'io.

— Come, se conosci appena le vocali? Sei troppo piccola. Vieni, te ne mostrerò piuttosto le
figure.

Uno dei quadri che più la colpirono fu quello. di Astolfo sull'Ippogrifo nel viaggio alla luna; e
volle raccontato come costui avesse fatto. Ascoltò attentamente, poi disse:

— Tu sei Astolfo.

Bruno si mise a ridere.

— E perché?

— Così. L'ho sognato.

— Oh, bella! Quando?

— L'altra notte. Ho sognato di vederti montare su un uccello tanto grande e andar via, in mezzo a nuvole rosse rosse, in un cielo nero nero, e sparire. Ma poi ritornavi e le nuvole erano bianche e il cielo come il cielo vero.

Bruno le coprì di baci la testina, ridendo, lieto di quel sogno bizzarro e ci ripensò più tardi e
dopo ancora, gustandone l'avventurosità che rispondeva a certe sue celate fantasticherie. Dimenticò perfino quella fraschetta della Serventi, che, in fondo, era molto meno bella di quanto già non gli fosse apparsa. Una donna, o bella o niente. Meglio l'avventura, la grande avventura pel mondo, per gli oceani, pei cieli... Sì, pei cieli! Non si parlava già di certi fratelli Wright, che esperimentavano un apparecchio aviforme, col quale erano riusciti a innalzarsi nell'aria?

Altro che la scuola, con le anticaglie del professore di greco, e con le smancerie di certe
paperine!

II

Ma il primo fatto serio della sua vita doveva avvenire pochi mesi dopo.

Un giorno, rincasando, trovò la mamma con una lettera in mano.

— Chi ti ha scritto, mammuccia?

— Flavia. Mi comunica che si è sposata.

— La zia Flavia? Come mai? Non era già maritata? Si sposa solo adesso?

— Sì, solo adesso. E mi dice che in grazia di questo matrimonio, con un uomo vecchio, ma
molto ricco, perdona ai suoi parenti il male che ne ha ricevuto.

— Che male abbiamo fatto noi alla zia Flavia?

La signora Vittoria fu un po' evasiva:

— Tu la chiami zia, e va bene perché ha quasi il doppio della tua età. Ma essa non è che l'unica figlia dello zio di papà: di tutta la famiglia Soveria non sopravvissero che loro due cugini germani. Da ragazza, Flavia si era trovata in disaccordo con i suoi e il disaccordo continuò poi col tuo povero padre che ne era il tutore. Essa, appena maggiorenne, volle andarsene per conto proprio e papà non volle più rivederla; ma l'aiutò spesso, da lontano, come poté. La disgrazia ha resa ingiusta zia Flavia.

— E neanche tu vuoi più rivederla?

— Mah... le dirò che la nostra casa è aperta per lei e per questo suo marito. Finalmente
maritata, sarà tranquilla.

Mentre parlava così con sua madre, Bruno ricordava la zia Flavia, che egli aveva conosciuta per la morte del babbo. Prima di quel giorno, non si era mai fatta viva, almeno per lui. Era arrivata allora, vestita a lutto, grande, pallida e ostile. Bruno, fra le lacrime, quando ella si era chinata a baciarlo, aveva notato soprattutto il naso acuto e gli occhi caprini. Aveva notato anche che baciava la mamma con l'atto quasi di morderla.

Dopo i funerali, essa aveva chiesto se si fosse trovato il testamento.

— Tuo cugino — aveva risposto la mamma, quanto più placidamente le consentiva il suo
dolore — non ha lasciato testamento, che io sappia. Ma tu puoi domandarne al suo notaio o cercarlo nello scrittoio. Eccotene, anzi, le chiavi.

La zia aveva respinto le chiavi, serrando le labbra sottili per non lasciarsi sfuggire chissà quali parole dure. E il domani era ripartita.

Eppure Bruno la ricordava senza rancore. Erano passati otto anni da quel giorno.

Tre giorni dopo la risposta della mamma, ecco un telegramma:

« Gratissimi tua offerta, verremo passare teco stagione balneare. Arrivederci. - Flavia ».

Troppa grazia! La signora Vittoria ne fu contrariatissima: la stagione balneare era un termine
elastico, che poteva andare da uno a quattro mesi. Ma non seppe opporre nulla per scongiurare il pericolo, e non fece neppure cattiva cera all'arrivo degli ospiti.
Parecchi ospiti. Flavia giunse accompagnata dal marito, dalla cameriera, da Aura e da un monte di bagagli. Aura era una nipotina settenne, di cui nessuno fino a quel giorno aveva sospettato l'esistenza, e che essa teneva con sé. La cameriera, una inglese abbastanza giovane, ma contro ogni tentazione. Il marito — sessantaquattro anni, portati stentatamente per giunta — agente di cambio, poco amante del mare e oberato di affari; ma, fatta la conoscenza, ripartì dopo ventiquattr'ore.

Ora Bruno ebbe agio di guardare bene la zia Flavia, e si accorse che non era affatto brutta come gli era apparsa la prima volta. Il naso sembrava meno lungo, forse grazie all'arrotondamento delle gote, e gli occhi meno glaciali. Questi, anzi, gli ricordarono gli occhi di Mistinguette, ammirati più volte sulle riviste illustrate.

— Cosa continui a chiamarmi zia? gli fece ella squadrandolo, un po' sgarbata — siamo pro-
cugini, o cugini in secondo grado. Quell'appellativo in bocca ad un ragazzo più alto di me,
m'invecchia. Ho appena ventotto anni, che credi?

Ventotto, contro trentacinque che gliene dava la mamma. Ma Bruno fu più incline a credere che sbagliasse la mamma.

***

I Soveria avevano preso in affitto una capanna sulla spiaggia, allora poco frequentata, di
Mondello. La signora Vittoria e la prozia Anna non vi andavano mai. Ma Flavia, Auretta e la cameriera Gwedoline, condotte da Bruno, si accompagnavano spesso a uno o due dei bimbi Collebrina, Cavour e Alba, di preferenza quest'ultima.

L'inglese badava ai piccini ai quali talvolta Bruno si univa per farli giocare sulla sabbia o
nell'acqua poco fonda presso il lido. Ma egli avrebbe preferito intrattenersi con la zia-cugina, se essa non lo avesse tenuto discosto col suo contegno tra sdegnoso e motteggiatore. Fin dal secondo giorno gli disse che tutti i mocciosi quindicenni come lui fanno ridere quando si danno certe arie serie e pensose.

— Io compirò a momenti diciotto anni — ribatté Bruno, punto sui vivo. Essa gli rispose con una risata lunga, mordente e acuta, che dilatò selvaggiamente la sua bocca quasi felina.

Bruno non le parlò più, e rispose per qualche giorno a monosillabi ogni volta che ella gli rivolse la parola. Frattanto si era accorto che Flavia non somigliava a Mistinguette soltanto per gli occhi, ma anche per un altro particolare: le gambe. Non capiva come si potesse asserire che quelle della celebre étoile francese fossero le più belle gambe del mondo, se queste della zia Flavia erano così impeccabili di linea, di proporzioni e di vellutata levigatezza. Di questa terza caratteristica si rese conto un giorno che riuscì a sfiorargliele con la scusa di spazzarne la sabbia fina che v'era rimasta attaccata dopo il  bagno.

— Ehi, monello, — gli garrì lei — non farmi il solletico.

Egli rimase mortificato e da allora si limitò a guardargliele di sottecchi.

Le poche signore che si vedevano sparse per la spiaggia scendevano in mare forse più vestite
che al passeggio e certamente più che a un ballo. Ma Flavia ch'era stata — diceva lei — col marito all'estero, aveva adottato, come sulle spiagge del mare del Nord, un costumino molto aderente e scollato, senza maniche e senza calze. Forse per questo le altre bagnanti si tenevano sempre al largo da quella capanna e non permettevano ai loro uomini di venirvi a ronzare attorno, come ne avevano voglia. Non di rado però Flavia passava e ripassava dinanzi anche ai più lontani, senza guardarli, con aria di sfida, lasciando svolazzare al vento l'accappatoio che metteva così in trionfo quelle gambe dominatrici.

Dominatrici e crudeli. In più occasioni Bruno dovette esperimentarne la crudeltà.

Una mattina mentre Flavia era in acqua, egli s'intrattenne con Aura e Alba, che coi loro rastrelli livellavano e mondavano la sabbia.

— Costruiamo il deserto di Sahara? — propose loro. E le bimbe, che non sapevano cosa fosse il Sahara, applaudirono contente e gli si posero ai fianchi lasciandolo fare. Anche Gwedoline, seduta e rigida come se avesse inghiottito un terzo rastrello, assistette al suo lavoro.

In un tratto di spiaggia dinanzi alla loro capanna, Bruno raccolse la sabbia in monticoli ben
levigati.

— Queste sono le dune.

— Le dune? — ripeterono le bimbe, guardandosi e sorridendosi meravigliate.

Poi scavò un fossatello e vi versò acqua e attorno vi piantò poche fronderelle d'oleandri.

— E questa è l'oasi.

Le bimbe ammirarono abbagliate.

— Adesso la carovana, composta delle viaggiatrici Aura e Alba, proveniente da lontano,
attraversa il deserto.

E condusse le bimbe piano piano pel Sahara lungo tre metri. Aura e Alba, serissime, guardandosi i piedini, passarono sulle dune che cedevano, deformandosi con loro grave disappunto. L'orma dei quattro piccoli piedi solcò tutto il deserto e giunse al laghetto ove l'acqua era già stata succhiata dal terreno filtrante.

— Giungono all'oasi assetate e non trovano più una goccia nel lago Tsad. Ma ecco che accorre ad aiutarle il gran capo dei tuareghi Brun-el-Soveriah...

In quel momento tornava Flavia gridando, a Gwedoline, distratta a seguire l'avventura, che le
portasse l'accappatoio. Gwedoline s'affrettò a prenderglielo ed essa, con mossa stizzita, glielo strappò di mano:

— Badate a me, invece che alle stupidaggini dei ragazzi.

E andò difilata verso la capanna, attraversò a grandi passi il labile Sahara, calpestò l'oasi, fece crollare le dune. Dietro i suoi piedi inesorabili restarono orme incerte e mezzo cancellate. Anna e Alba rimasero atterrite da tanta rovina. Bruno non aveva ancora parlato del simum.

— Bisognerà rifare il viaggio — propose Aura appena ebbe ripreso fiato.

— Lo rifaremo più tardi, — rispose Bruno di malumore. E si distese bocconi, rastrellando di
nuovo con le dita le sue piccole dune disfatte. Ma qua e là l'orma leggera dei passi delle due piccine vi rimaneva. Ed egli stette a guardare, in silenzio, l'opera del vento che a poco a poco le cancellava.

***

Mare assordante, tutto spume lungo il lido.

Zia Flavia, rimontando subito, s'incontrò in Bruno che scendeva all'acqua.

— Dove vai, alla buvette? — gli chiese passandogli dinanzi stillante.

— Ah, io non sono di quelli che bevono.

— Vorresti essere di quelli che la danno a bere? Con quel mare lì, bimbo mio, devi metterti lo scafandro.

— Scommettiamo che io arrivo a quella barca?

— Io non scommetto nulla. Ma lo dirò a tua madre, perché ti tiri le orecchie.

Bruno corse a tuffarsi. Essa, chiusa nell'accappatoio, rimase a guardargli dietro, ironica, tra
Aura e la cameriera sgomente, mentre Albetta gli gridava col broncio del pianto imminente:

— No, Bruno, vieni a giocare!

Altri bagnanti, qua e là, assistevano pure alla temeraria prova.

La barca che Bruno si proponeva raggiungere era a trecento metri almeno dal lido, e
cappeggiava faticosamente, sorpresa dal temporale, tirando le reti.

Egli la guardava ogni tanto per mantenere la direzione, schiaffeggiato dalle spume e a tratti
sommerso dai cavalloni; e qualche sguardo rivolgeva anche agli astanti, godendo con orgoglio della loro trepidazione e spronato dall'irritante sorriso della zia-cugina ch'egli continuava a vedere, benché la sua figura non fosse più che una sagometta nera nella lontananza.

Mancavano ancora cinquanta bracciate a raggiungere la barca, e Bruno aveva già il fiato grosso e il cuore in gola per lo sforzo, quando sentì un piede intormentirglisi e formicolare, sicché involontariamente scemò la foga delle sue rancate. Si soffermò un momento, ansante; ma il crampo lo addentò con maggior violenza paralizzandogli una gamba, mentre un'ondata larga gli passava sul capo. Emerse, grazie ai colpi disperati che dava con le braccia e con la gamba ancora valida; ma sentiva come un peso di piombo tirarlo nell'abisso sconvolto. Si accorse — senza però rendersi conto del perché — che dalla spiaggia tutti gesticolavano, tranne la sagometta nera ed immobile di Flavia.

Ebbe la prontezza di spirito di distendersi sul dorso e di dare alcune bracciate in quella
posizione; ma la gamba paralizzata gli penzolava facendolo affondare. Scorse dalla barca, ora più vicina, i pescatori che si scalmanavano anch'essi a fargli gesti energici che non capiva. Arrivò un'altra ondata furibonda e, tutto sott'acqua, si avvide di affondare forse irrimediabilmente, per sempre. Uno sforzo disperato, e ritornò ancora a galla, vomitando acqua. Non udì più nulla, ma vide attorno a sé come un vorticare di stelle, e poi fiori e fiori di cui gli parve sentire anche il profumo acuto...

Si ritrovò sulla barca, fra due uomini scalzi e grondanti che lo massaggiavano indiavolatamente. Balbettò qualche parola priva di senso. Gli spiegarono che, giunto proprio sotto l'imbarcazione, era affondato e avevano dovuto ripescarlo a grande stento.

Sulla spiaggia tutti gli vennero incontro felicitandolo, strappandoselo l'un l'altro per sentire le
sue impressioni, per fargli una carezza, per offrirgli un bicchierino di cognac. Alba lo guardava, col viso inondato di lucciconi e dando di tanto in tanto un sospiro seguito da un singhiozzo. Aura rimaneva in disparte, muta anche lei, alzando spesso su lui i grandissimi occhi attoniti. Soltanto la zia Flavia, tra gli ultimi, benché fosse pallidissima, gli disse col suo riso bianco e azzannante:

— Hai bevuto molta acqua, eh, presuntuoso?

— Ma sono arrivato alla barca! — rispose Bruno con impeto.

Quando rimasero soli, mentre la cameriera più in là pettinava le bimbe, il ragazzo asciugandosi nell'accappatoio chiese alla zia-cugina seduta al sole, senza guardarla:

— Avresti riso ugualmente se fossi annegato?

— Chi lo sa... — rispose ella, irritante.

Bruno insisté, anche lui in tono aggressivo:

— Che cosa ti ho fatto da odiarmi così?

Essa trasalì, gli piantò in faccia gli occhi caprini diventati cattivi e ribatté, sibilando:

— Ormai non mi fa più nulla che tu viva o non viva. Non avresti dovuto nascere, piuttosto, per non venire a togliermi ogni cosa.

E si ritrasse nella capanna per vestirsi.

Bruno restò di sasso. Capì tutto e sentì per lei un senso di pena mista all'ira di vedersi fatto
segno a così cieca avversione. E pel resto della giornata evitò perfino guardarla, muto e aggrondato.

Il giorno dopo disse che non sarebbe andato alla spiaggia, accusando un impegno altrove.
Flavia, già pronta per uscire e intenta a calzare i guanti, lo guardò di sottecchi con un sorriso lieve lieve.

— Ci lasci andar via da sole? Non è un atto cavalleresco. Credevo che tu fossi almeno amabile.

— Amabile, — ribatté Bruno, acre — lo dice la stessa parola, è chi può essere amato.

— Oh, oh, esageri! Amabile vuol dire gentile. E tu in questo momento non lo sei.

Egli perdé completamente la calma.

— A che serve la gentilezza con chi ci detesta?

Flavia lo guardò, seria questa volta, e dopo un momento, in un tono quasi dolce che egli non le
conosceva, concluse:

— Via, andiamo. Fa il tuo dovere di cavaliere.

Lo prese per un braccio e lo condusse.

Sulla spiaggia, quando la lunga gonna che usava in quegli anni per le signore non nascose più le belle gambe da Venere siracusana della zia Flavia, Bruno — seduto su la sabbia in costume da bagno — non poté fare a meno di contemplarle, come sempre. Era una delle cose di lei che l'avversavano. Le gambe, gli occhi, la voce, il riso di quella donna caduta ad un tratto per caso, in modo così violento, nella sua vita, con la scusa di una parentela che né lui né lei stessa sentivano, tutto gli era nemico.

Bruno si accucciò silenzioso e scuro. Dopo avere tentato invano di farlo parlare, Flavia, nel
passargli accanto, con un piede nudo gli diede un colpetto sotto un'ascella, come per fargli il solletico. Istintivamente, Bruno l'afferrò a volo, si chinò e morse il polpaccio.

Flavia si liberò con un calcio che lo colse al viso, ma forse con maggior dolore per lei che per lui, ed esclamò:

— Ahi, canaglia! Mi hai fatto male.

E si lasciò cadere sulla sabbia massaggiandosi il piede e la gamba, mentre gli sfrecciava
occhiatacce crucciate e severe. Ma lo vide così imbronciato e anche un po' pesto dalla recente pedata, che non poté frenarsi dal ridere. Rise dapprima lievemente, d'un riso nuovo, gaio, aperto, a piccoli scoppi gorgheggianti, che si fecero poi più frequenti; rise a lungo clamorosamente, rovesciandosi supina sulla sabbia, la faccia al sole, e con le punte dei piedi tornò a punzecchiarlo ancora nelle anche, nel petto, finché lo vide schiarirsi e sorridere anche lui.

— Se mordi, — gli disse — è segno che mi odii tu piuttosto, tu che te ne fai tanto del mio odio.

Egli allora le strinse di nuovo una caviglia, ma per carezzarle il polpaccio, lì dove prima aveva morso. Ella a sua volta, sempre ridendo, col piede gli carezzò leggermente il viso, dove lo aveva colpito.

Così stabilirono una tregua nella loro guerra.

***

Bruno si accorse che Flavia era piacevolissima nella conversazione quando aveva l'umore meno perfido. Le fece sentire gli articoli di letteratura che già pubblicava su qualche giornale, ed ella li gradì e li discusse con garbo e intelligenza.

Una mattina, Bruno, risalito dalle acque dopo appena un tuffo, accusando un malessere, si
distese lungo sulla spiaggia, in accappatoio. Anche lei abbreviò il suo bagno e venne a raggiungerlo.

Gli si pose a sedere accanto e gli domandò che cosa si sentisse.

— Un po' di stanchezza e di mal di capo.

— Vuoi che ritorniamo a casa?

— No: quest'aria mi fa bene.

Lo fece allora alzare perché non rimanesse con la testa nuda al sole, e lo invitò — sedendoglisi accanto — a ridistendersi all'ombra della capanna. C'era poca gente sulla spiaggia e da lì non li vedeva nessuno. Aura, Alba e Gwedoline facevano il chiasso nell'acqua con altri bimbi e governanti.

— Vuoi appoggiare la testa sulle mie ginocchia? — chiese la zia-cugina con dolcezza insolita. E Bruno acconsentì.

Il vento diventava impetuoso e sollevava nuvoli di sabbia calda e scostava a poco a poco i lembi dell'accappatoio rosso sulle gambe di Flavia. E le gambe rimasero scoperte sotto gli occhi del giovinetto, finché involontariamente egli avanzò una mano a carezzarle, una mano che vi s'indugiò, quasi volesse imprimere nel suo cavo le loro forme.

— Come son belle ! — sussurro.

— Ti piacciono? — sorrise Flavia, fatua — infatti me l'hanno già detto parecchi capaci di fare confronti più di te, che sei ancora all'abbiccì di queste conoscenze.

Egli si sentì punto da un'inspiegabile gelosia a queste parole buttate da lei come una
provocazione, e si senti anche eccitato e pieno d'audacia. Le belle gambe non erano soltanto sotto i suoi occhi, ma pure a portata delle sue labbra, che infatti si sporsero a baciarle senza che ella avesse l'aria di accorgersene o di darvi peso. Ma continuò a parlare di cose che egli non udì mentre raddoppiava i suoi baci.

— Zia Flavia! Zia Flavia! — balbettò ad un tratto con voce strozzata, alzando gli occhi a
cercare i suoi occhi. Essa gli passò la mano sui capelli, volta a guardare le onde.

— Che curioso effetto mi fa sentirmi chiamare zia! — esclamò con un breve riso un poco
tremulo. — M'invecchia, mentre in fondo ho pochi anni più di te. E poi ti sono cugina. Chiamami soltanto Flavia, o non ti guarderò più in faccia. Piano, piano... mi solletichi... mi fai male...

Bruno, sempre più eccitato dalla sua voce, dalle sue parole, stava ora bocconi intento a baciare e a mordicchiare quelle carni vellutate e sode, e aveva già scoperte le ginocchia; quando improvvisamente, correndo festosa, apparve Auretta nel costumino madido d'acqua. Flavia respinse Bruno, gridandogli con la sua voce cattiva:

— Finiscila, insomma!

La bimba si soffermò incerta a sogguardare Bruno con una strana espressione di paura.

***

Il giorno dopo Aura era rimasta a letto, un po' febbricitante. Bruno era sicuro che non si sarebbe parlato di bagno, per quel giorno. Sennonché, trascorsa di poco l'ora abituale, Flavia venne a chiedergli:

— Beh, non vuoi accompagnarmi oggi?
— Con Aura che non sta bene, credevo...

— Oh, non è niente. Resterà Gwedoline a badare a lei. Faremo salire anche le bimbe di giù per tenerle compagnia. Siamo agli sgoccioli della stagione ormai, e non voglio perdere un solo bagno. Ma se non ti va...

— Tutt'altro!

Così andarono, solissimi. La signora Vittoria, presa alla sprovvista, guardò loro dietro in
silenzio.

Al lido, egli fu il primo a entrare nella capanna e a mettersi in costume; poi attese lei che fece
prestissimo. Essa era più che mai lieta, loquace e ridente ma d'un riso semplice, quasi infantile, che aumentava la sua rassomiglianza con Mistinguette. Entrarono in acqua di corsa, tenendosi per mano, tra uno spolverìo festoso di spume, e camminarono così scavalcando le onde, finché queste non li presero e li portarono via blandamente, con spinte leni. Nuotando accanto, si guardavano sorridendosi spesso.

— Debbo dirti che tu nuoti meglio di me — confessò Flavia — non andare avanti: se un crampo mi cogliesse, come te quel giorno, starei fresca.

— Ci sono io.

— Rieccoti presuntuoso. Non ne perdi un'occasione! Non vuoi convincerti che sei un ragazzo?

— Non tanto, ormai, da non poter fare tutto quello che fanno gli uomini.

— Oh, tutto!... Cosa vuoI dire «tutto»?... Ah! Ah! Ah!... Vorrei vederti alla prova. Ah, il
crampo! Il crampo!

Bruno la vide annaspare con le mani e, spaurito, si slanciò a sostenerla. Ma allungando le
gambe in profondità, sentì facilmente il fondo sotto i piedi e, sapendola alta come lui, apri la bocca per dirle di posare sicura. Mia ella, che già gli si era avviticchiata con le gambe e con le braccia, scoppiò a ridere beffardamente:

— Ci hai creduto, eh? Sarebbe stato tanto facile il tuo eroismo, fanciullo!

Bruno la strinse alla vita forte forte, la sentì tutta aderire contro di sé, ne sentì le carni tenere, le ossa minute. Gridò:

— Mi vendico! Prova adesso a liberarti. Il tuo crampo sono io!

Flavia rise; ma un'ondata la colse in pieno in faccia, le colmò d'acqua la bocca aperta, l'obbligò a tossire spasmodicamente e a sputare; finché, arrabbiatissima, gli avventò un'artigliata al naso, sibilandogli:

— Va! Sei sempre di quella razza odiosa!

Risentito, Bruno voltò le spalle e fece per allontanarsi. Ma subito Flavia lo richiamò, dicendogli ancora un po' aspra:

— Vorresti lasciarmi sola giusto adesso che mi hai fatto star male?

Bruno si volse e, torvo, senza una parola, la riaccompagnò a terra. Ivi essa lo tirò per mano
dietro di sé a forza, perché egli avrebbe voluto rituffarsi. Indossati gli accappatoi l'uno dopo l'altra, andarono a sedere al sole, muti e ostili. Dopo un momento Flavia disse:

— Sei antipatico, sai? vorresti anche aver ragione?

— Certo. Che colpa ne ho avuta, io?

— Al solito, tu non hai colpa di nulla. Sei l'agnello ed io il lupo, no? Ebbene, agnello, io ti dirò, come il lupo — ma nel caso nostro senza che tu possa disdirmi: — è per causa di tuo padre, che mi fece un grave torto. Ma non parliamone, perché mi fa male. Non ti pare che il sole sia troppo forte qui? Se ci mettessimo all'ombra, come ieri?

Ed eseguì. Bruno restò un momento immobile, assalito dall'immagine di suo padre. Così bello! Così elegante! Come lo aveva visto un giorno che andava a una festa in abito nero, quale era effigiato nella fotografia che egli conservava sul suo capezzale. Suo padre e Collebrina erano gli uomini migliori che egli avesse mai conosciuto. Impossibile che il torto fosse stato di lui. Ella piuttosto, che aveva un passato così poco chiaro... Ma quel passato ignoto e colmo di nubi lo incuriosiva, lo eccitava stranamente.

— Che cosa hai fatto prima di sposarti? — avrebbe voluto gridarle — quali uomini hai
conosciuto? Quanti prima di me hanno carezzato le tue gambe così belle che mi fanno impazzire?

Poiché ritardava a seguirla, ella gli tirò un pugno di sabbia fra i capelli. Allora le si fece accosto, mogio mogio, nel taglio d'ombra fra due capanne, donde non si vedeva nessuno, e Flavia con un piede lo grattò su un fianco. Non si mosse, ma ne trasalì ed ella ne rise. Rise e gli si accostò maggiormente, a tergo, sporse le due gambe nude e tra esse gli strinse il capo, gigantesca rosea pinza di voluttuoso scorpione, rovesciandolo indietro:

— Smetti, dunque, quella mutria! — gli gridò.

E Bruno la smise. Oh, se la smise! Le si buttò addosso come una giovane belva, palpando,
baciando e mordendo tutto quel che trovò scoperto e frugò quel che scoperto non era, tra le risa convulse di lei, sempre più convulse, ma poi soffocate, poi tramutate in gemiti:

— Basta! Basta! rantolò — che fai? ci vedono... e mi rendi folle! Te ne supplico!

Egli desisté, amante, trasfigurato. Ella si rialzò, pallida, gli occhi socchiusi, tremante. Affettò un sorriso, passandosi le mani fra i capelli, come per ravviarsi; poi lo prese per mano e lo fece rialzare.

— Vieni, — gli disse con stentata naturalezza. —Si fa tardi. Andiamo a vestirci.

Bruno non capì. Ancora fuori di sé si lasciò condurre. Flavia richiuse l'uscio dietro le loro
spalle; poi si gettò al collo del ragazzo, gli addentò le labbra, singultando, gli scivolò di tra le braccia, come morta.

***

Di un mese ancora Flavia prolungò la sua dimora presso i parenti.

Ma essa e Bruno ebbero il torto di dimenticare qualche volta la prudenza e le precauzioni.

Un giorno la piccola Aura, ritornando improvvisamente dal giardino ove era stata a giocare coi Collebrina, li sorprese nella penombra della camera di Flavia, in una posa che l'atterrì. Per quanto essi cercassero subito ricomporsi, la piccola scoppiò in pianto e in grida altissime.

— Non è nulla, stupida! — le diè sulla voce Flavia — giocavamo.

Ma accorse la signora Vittoria.

— Che c'è? Cos'hai, cara?

— Bruno... Bruno.. — singhiozzò Aura — faceva del male alla zia!

— Ma se giocavamo, zia Vittoria! — tentò ridere Flavia — si scherzava, non darle retta. Non
vedi che ridiamo?

Bruno però non rideva. La mamma lo mandò via, con voce che non ammetteva replica, mandò
via la piccina, rinchiuse la porta e restò sola con Flavia.

Che cosa le disse? Bruno, trepidante, tendeva l'orecchio dalla stanza accanto, finché udì Flavia prorompere:

— Oh, in fin dei conti che credi? Io me ne infischio di quel tuo citrullo. E non resterò un giorno di più nella tua casa.

Bruno andò a chiudersi nella sua camera e si buttò sul letto, disperandosi, mordendo i cuscini
per soffocare il suo pianto. Flavia, ripartì, infatti, subito, furente. E non ringraziò, non scrisse, non diede più notizie di sé.

E per Bruno fu come se fosse sparita nel buio, da cui, buia e corruscante, era venuta.

 

III

Naturalmente quell'anno la licenza liceale restò un pio desiderio. La mamma l'aveva preveduto, dopo una simile crisi.

E Bruno tornò a scuola, ma con animo acre e più aggressivo. I professori, i libri, l'aula, le
panche gli diventarono insopportabili. In classe, mentre l'insegnante spiegava, egli sfacciatamente leggeva romanzi o giornali.

— Soveria, che cosa legge?

— Rousseau, professore.

— Ma come? Durante la lezione? Ci vuole una bella faccia tosta.

— Perché? Quel che dice quest'uomo è molto più interessante di un logaritmo.

— La finisca!

— Dice, per esempio, che vale più il poco che il cervello può apprendere da sé e assimilarselo, che il molto propinatogli in forme statiche e lontane dal suo temperamento.

— Vada a leggerlo fuori.

— Subito, professore: grazie.

Era irritante soprattutto pel modo come pronunziava quella parola «professore». Un giorno
all'insegnante di fisica, un ometto distratto e sempre male in arnese, che gli diceva in tono quasi supplichevole di stare tranquillo e attento, egli rispose a gran voce:

— Sì, professone!

Fu espulso per otto giorni. Ma poi si pentì, perché l'insegnante era un poveraccio tradito e
abbandonato dalla moglie e carico di figli. Lo aspettò per via e gli domandò scusa con le lagrime agli occhi; anche il professore ne rimase commosso.

La più grossa la fece, però, al terzo bimestre. Un suo compagno, tale Galfano, figlio di un
droghiere arricchito, aveva contro di lui quella certa ruggine senza un perché che nasce fra i mediocri e i meglio dotati. Una volta, durante un esame in classe, Bruno gli schizzò il profilo che poi mostrò ad un altro compagno e insieme ne risero. Galfano, dalla panca accanto, se ne accorse e si risentì, chiedendogli perché non badasse invece agli esami. Bruno gli rispose che annetteva più importanza a quell'opera d'arte che alla versione.

— Smettila, cretino! — brontolò Galfano — credi di avere tanto spirito?

— Oh, — rimbeccò Bruno — certo meno di quanto ne vende tuo padre.

— E tuo padre — si rivoltò quegli — cosa vende? Le corna?

Bruno gli scaraventò un dizionario sul naso, da cui spicciò un getto di sangue. Si scagliò poi per pestarselo, anche, sotto i piedi. Tutta l'aula fu in subbuglio; bisognò interrompere gli esami, fare accorrere il preside. Conseguenza: Galfano e Bruno furono fatti rappacificare, ma il primo espulso per quindici giorni e Bruno per il resto dell'anno scolastico.

Figurarsi la mamma! Ne pianse, se ne disperò. Perdere un altro anno! Darle questo grande
dolore! Bruno, dal rimorso, si sarebbe buttato dalla finestra. Riuscì a farsi perdonare grazie
all'intervento del sor Antonio Collebrina che trovò un rimedio accettabile per lui e per la mamma.

— No, signora Vittoria, Bruno non è cattivo. Quando, a diciotto. anni, si piange così per un
dispiacere dato alla propria madre, è segno che si ha un cuore grande quanto piazza Marina. Tutta esuberanza, eccesso di vitalità. E da questa esuberanza vengono fuori gli uomini di genio, come lui, o i perfetti mascalzoni, come mio figlio Titì. Vedrà, vedrà: la vita accomoda tutto. Bruno studierà da sé durante i mesi che restano. Io proverò a ripassargli un po' di fisica e matematica. E per gli esami si presenterà al liceo di Trapani, dove, del resto, c'è anche suo zio…

Bruno promise e mantenne. Fisica e matematica, però, andarono avanti alla meno peggio,
intrammezzate da grandi discussioni fra maestro improvvisato e scolaro. Collebrina rivelò al suo giovane amico un segreto che guai a parlarne in casa: le sue preferenze pei poeti e per la letteratura.

Altro che Euclide! C'era da ricordare Hugo e Tolstoi e il pressoché ignoto e immenso Stendhal! C'erano versi che giungevano alle stelle meglio del calcolo infinitesimale: Parfois, lorsque tout dort, je m'assieds, plein de joie, sons le dôme etoilé qui sur nos fronts flamboie...

A Trapani, dove la mamma volle accompagnarlo, Bruno passò un mese come in esilio
nell'albergo dello zio. La città piena di vento, allungata nel mare, non ebbe per lui altre attrattive che tutto quell'azzurro di cui mare e cielo la vestivano, con intensità quasi tropicale. Studia e studia, davanti alla finestra da cui entravano le zanzare e i rumori del porto e, due volte al giorno, il martellìo molesto dei secondini sulle inferriate del prossimo carcere, chissà i detenuti non le limassero per evadere.

Evadere! Ecco il sogno, anche di Bruno. Evadere da tutto ciò che sapeva di stretto, di augusto:
dagli studii gretti, dalla vita mediocre, verso le cose grandi! Quali? non lo sapeva bene neanche lui, ma le sentiva confusamente i grandi amori, appena intravisti con la zia Flavia, le grandi cime sociali, la gloria! Comandare, soprattutto; non già eserciti, perché ciò che sapeva di militaresco non l'attraeva granché, ma popoli! Comandare per fini nuovi, belli, elevatissimi, in un mondo pieno di armonia, come quello di Pericle o di Augusto! Invece doveva tollerare l'ambiente borghese, talvolta plebeo, in cui gli zii erano tuffati.

Lo zio Giovanni, con la sua gran pancia ballonzolante ai frequenti colpi di tosse da fumatore
accanito, faceva spesso il vagheggino con le cocottes e le canzonettiste che alloggiavano in albergo; la zia Carmela, grassa come lui e tutta acconciata da mane a sera, i capelli finti che sulla fronte nuda le stavano come un berretto, passava le giornate a gettare faville contro il marito e a ridere, invariabilmente, per piacere o per ira. Tteh! tteh! tteth! faceva la risata della zia; ttuh! ttuh! ttuh! rispondeva la tosse dello zio. La signora Vittoria era assediata dalle lamentele e dalle rampogne dell'una e dalle richieste di denaro dell'altro. La dimora a Trapani le costò, anzi, una firma di avallo ad alcune cambiali per un importo di circa ventimila lire, che erano da aggiungere ad altre precedenti.

Ma il più insopportabile era Gaetano Bonsignore, il segretario, uomo sui trentacinque anni, baffi neri a spazzola, la faccia divisa in due dalla folta riga nera delle sopracciglia. Tutto piaggerie e adulazioni, costui, diceva poi corna con Bruno alle spalle dello zio. E Bruno, che egli chiamava avvocato, non sapeva, tanto le sue ragioni parevano eque e stringenti, se fosse un uomo fidato, mentre per l'antipatia che gl'ispirava lo avrebbe giudicato un brigante.

Dalla sua, Bonsignore, aveva soltanto Camillo, il portiere toscano dalla barbetta grigio-
rossastra. Ma a Bruno pareva un poco di buono. Tollerava invece Ignazio il cuoco, Berto il facchino e Amelia, la guardarobiera, favoriti dal principale e favorentisi tra loro nelle ore libere.

Egli servì da sfogatoio, insomma, a tutta quella gente che lo considerava l'erede e forse il non
lontano sostituto del principale. Ma, dopo i primi giorni, si sottrasse a quelle confidenze e ai
pettegolezzi che minacciavano di non finire più, tenendosi ore e ore tappato in camera, a guardare la Colombaia, le Egadi, i mulini, quando non leggeva o studiava. Stava volentieri, qualche volta, solamente in gelateria, con Nunzio che era molto sobrio, e in cantina, col vecchio Vanni, il marsalese magro e asciutto, dall'anellino all'orecchio sinistro. Ivi si compiaceva a guardare le bottiglie dei vini e dei liquori, disposte in ranghi sugli scaffali come soldatini dai berretti rossi, verdi, gialli, che era un piacere vederli, e ad ascoltare da Vanni il racconto dello sbarco di Garibaldi e dei Mille nel '60.

E si arrivò così alla licenza liceale. Gli esami furono uno spasso per quanti vi assistettero.
Al tavolo del gruppo scienze, il professore di fisica, garbatissimo, parlò sempre lui per le
domande e le risposte. Per occhio di mondo, Bruno ogni tanto ci ficcava dentro qualche parola sua, come: «appunto!» o «perfettamente!» che l'esaminatore pareva lui. Un momento che il professore nominò l'acqua, egli credette opportuno interromperlo trionfante con una formula: «H2O » compendio di tutte le sue cognizioni in materia. Quando fu la volta del professore di matematica, questi - un vecchiardo obeso, canuto e paonazzo, faccia da beone e da buon uomo - cercò salvare un po' meglio le apparenze, tanto più che aveva fama di burbero.

— Ecco, dunque, il famoso Soveria. M'hanno detto che sei filosofo, romanziere, poeta... Si
vede che è intelligente, la bestia...

— Faccio quello che posso.

— Ora t'accomodo io. Scrivimi questa poesia: seno A, più coseno B, uguale a... i segni di seno e coseno sai scriverli, non c'è che dire. E poi?

— Ecco: a esser sincero, se si trattasse di seni soltanto, risponderei meglio...

— E lo dici a me perché ho sessantotto anni? Le ho saputo fare anch'io quelle equazioni.
Abbiamo capito, sei digiuno. Accendi una candela a S. Francesco Petrarca e pigliati un quattro. Siccome hai risposto bene nelle altre materie, sarai promosso per l'articolo ottantasei. Vattene, asino!

— Grazie, professore.

— E mandami qualche volta le fesserie che scrivi.

Ma Bruno cominciava già a scrivere anche di politica e i suoi articoli venivano accolti da
giornali e riviste importanti. All'Università si trovò quasi celebre fra i suoi nuovi compagni che lo designarono come capo in tutte le imprese considerevoli: dimostrazioni contro l'Austria, spedizioni goliardiche in campagna con donne, partite notturne di pesca di polpi, ecc. 

Il second'anno però volle, malgrado il disappunto materno, passare all'Università di Roma ove andò con lui un vecchio compagno di ginnasio e di liceo, Peppino Foresi, uno spilungone lento e pigro, che aveva sempre seguito i corsi da dilettante. Ora, prima degli esami e della laurea, doveva anche sposarsi.

Un altro amicissimo fu Carlo Quilici, «roman de Roma»: abbondanti capelli su una testa da
Antinoo e sotto un cappelluccio tondo da due lire. Parlava sempre arrotando le r e sacramentando con truculenza ridente. Fu lui a presentare un giorno un altro siciliano che studiava a Roma da più anni:

— Nino Guevarra, inteso Ninì, esteta e dannunziano; a tempo perso studente in lettere. Bruno
Soveria, studente in legge, scrittore e futuro deputato fichtiano.

La presentazione fu ratificata da uno shake-hand all'inglese di reciproca simpatia, ma seguita da proteste vivaci all'indirizzo del presentatore:

— Io, veramente, di Fichte me ne infichitio. Sono per lo stato chiuso, ma piuttosto secondo
Platone.

— E quanto a me, ammiro infinitamente D'Annunzio, ma non sono dannunziano. Mi contento
essere guevarriano.

Queste parole, pronunziate con l'accento un po' lezioso del siciliano che ha studiato molto
l'ortoepia, ma accompagnate da un riso schietto che metteva in mostra magnifici denti su un bel viso illuminato da un paio di superbi occhi neri, aumentarono la simpatia che aveva spinto Bruno verso il nuovo conoscente. La lega fu fatta e Nino Guevarra divenne per Bruno intimo come Foresi e Quilici; e poiché erano quattro, indivisibili e sempre primi in tutto, furono dagli altri compagni soprannominati «i tre moschettieri».

Ci furono poi gli aggregati, buoni camerati ma meno intimi, anche perché in qualche cosa
dissentivano dai gusti comuni che erano la letteratura, la politica e le donne. Pure in questa comunanza, però, le tendenze si diversificavano: Nino era per D'Annunzio, Nietzsche, lo czar e le bionde; Bruno per Pascoli, Crispi, il nazionalismo e le rosse; Peppino per Carducci, Combes, la democrazia e le castane; Carlo per Rapisardi, Lassalle, il socialismo e le more.

Degli aggregati, il più assiduo era Tommaso Casazza, trasferito da parecchi anni a Roma dalla natia Puglia per laurearsi in legge, ma — a dire di male lingue — mai iscritto neppure al primo anno della facoltà. Piccolo, taciturno, tranquillo, in privato assiduo corteggiatore di balie e di governanti, si trovava volta a volta e da solo a solo d'accordo con tutti. Domandava di rado qualche sigaretta, ma accettava volentieri gli inviti a cena. Del resto era servizievole e indulgente con gli amici notevoli come Bruno e Nino, generosi come Peppino o aggressivi come Carlo. Quest'ultimo lo trattava male quando era di cattivo umore o quando era troppo allegro.

— Tommaso Casazza, — gli diceva — tu realizzi il più curioso fenomeno zoologico:
spiritualità da tarantola dei muri e sensibilità da camaleonte in corpo da pesce-sega.

— Lo tratti male, povero Tommaso! — ammoniva Bruno.

— Povero, lui? — infieriva Quilici — Guardategli bene gli occhi e dietro le lenti scorgerete un Tartufo, con cinquanta grammi di Shylok e cento di Giuda iscariota.

E ridevano tutti, anche Tommaso Casazza.

***

Nino Guevarra, innamorato della Toscana, volle andare a finire gli studi a Firenze, e Bruno lo
seguì per laurearsi all'istituto di Scienze Sociali.

La storia di quegli anni della sua giovinezza fu ricca di episodi amorosi; ma egli era molto
riservato e non andava propalandoli come quasi tutti i suoi compagni, Nino compreso, che era
d'altronde fortunatissimo in amore. Bruno ebbe un solo confidente, Peppino Foresi, il quale provava, ad esser messo a parte degli amori altrui lo stesso gusto acre del fumatore quando sente l'odore del tabacco che gli è vietato.

Ogni volta che ritornava a casa per le vacanze, Bruno trovava insediata al suo posto la piccola Alba, che da quel frugolino biondo che era a cinque anni, si veniva facendo una ragazzetta pallida, di anno in anno più smilza, dagli occhi di un azzurro così carico che parevano gocce del mare di Mondello.

Una volta la signora Vittoria spiegò al figlio:

— Mi aiuta un poco a colmare il vuoto lasciato dalla tua assenza. Abbiamo. parlato di te giorno per giorno. Sa dire certe cose tanto carine! Vedi come è cresciuta?

— E' un po' magrolina.

Alba se ne rimase ad occhi bassi, mortificata che Bruno non trovasse altro da dirle. Si guardò di sfuggita nello specchio di fronte, e convenne in cuor suo di essere bruttissima. Ma riprese a grado a grado coraggio quando egli cominciò a chiederle notizie di casa.

Le notizie furono più buffe che liete. Titì e Tutù avevano interrotto gli studi, l'uno per darsi al
canto e l'altro per arruolarsi allievo sergente. Le future sorti dell'azienda erano così sulle ginocchia di Cavour, allora dodicenne e sufficientemente privo della voglia di fare alcun che di diverso dal ciclismo e dal foot-ball.

— E Diana? — domandò Bruno. — Gioca sempre a nasconderello?

Diana era fidanzata, non col principe delle Asturie, come ne avrebbe avuto fantasia, ma con un uomo di lettere e di vaglia, cioè un impiegato postale. Il babbo le assegnava ventimila lire di dote.

Quando la ragazza andò via, la signora Vittoria mise a parte Bruno dei triboli del povero signor Antonio: pochi o niente gli affari, molti crediti inesigibili e parecchi debiti impagabili. La sera, quando quasi tutta la famiglia venne su a fargli festa, Bruno rivide il suo vecchio amico assai deperito, più bianco che grigio, e con la testa a metà nascosta fra le spalle. La signora Matilde e la nonna Brigida, invece, avevano l'aria di voler ringiovanire.

Furono loro due a colmare quasi tutta la serata con le loro ciarle. Prima di tutto scusarono
l'assenza di Diana, ch'era rimasta col fidanzato «molto geloso», e di Stella, costretta a tener loro compagnia:

— ... non per sorvegliarli, sa? noi non siamo educate alla siciliana, grazie a Dio; cosa vuole? per le convenienze, in questo paese barbaro e pettegolo.

Bruno notò che il sor Antonio non intervenne mai nella conversazione, fuorché con qualche
monosillabo; parlandosi di Diana e di Stella tentennò più volte il capo.

— Oh, Brunetto — gli disse soltanto un momento che poterono appartarsi dalle chiacchiere
delle sue donne — sai che mi sono messo a far versi pure io? Zitto, però, non lo sa nessuno: è il mio segreto. E mi sono accorto che è anche la mia felicità tra tanti guai e grattacapi. Sì, Bruno, non te ne meravigliare; a cinquantatre anni la felicità è fatta di un filo di luce... Ma chi lo dice, poi, che la felicità sia una cosa troppo più grande?

Bruno gli diede ragione, ma distrattamente, non sapendo se riderne dentro di sé. E vedeva
intanto dov'era la felicità degli altri. La signora Matilde coi suoi acuti e i suoi gesti invadenti parlava di Firenze, degli studii, della nuova moda femminile, della politica internazionale, degli sports; Titì stecchito e strozzato da sette centimetri di colletto, commentava con voce ingolata, come se facesse gargarismi; Cavour sghignazzava éd ogni punto fermo della madre, dimenandosi sulla sedia. Solo Alba stava seria e composta, a guardare verso Bruno e il babbo, quasi udisse le confidenze paterne; e i suoi grandi occhi chiari pareva rispecchiassero appunto quella piccola felicità clandestina.

 

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