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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

VII

La mattina del sedici dicembre, sonate appena le otto, mentre insolitamente Bruno si preparava ad uscire, si presentò inattesa Annie, sempre fresca, elegante e sorridente. Egli ne fu visibilmente contrariato.

— Ti disturbo, è chiaro; — fece lei — ma ti prometto che non verrò più.

— Oh no! Scusami, cara: sono preoccupato.

— Perché? Dimmi tutto allora, chissà io non possa esserti utile. La piccola tedesca, certamente!

Egli, che in verità pensava a tutt'altro, colse al balzo la scusa offertagli e, dopo avere esitato un momento, le raccontò quanto era avvenuto con Katscha.

— E' noioso; — commentò Annie — ma io ti consiglierei di non occupartene, una volta che è lei stessa ad allontanarti.

— Ed io dovrei lasciarle commettere una follia?...

— Piccolo mio, dove sta la follia? Quel che per te è tale, per lei è saggezza. La follia forse
l'avete commessa entrambi abbandonandovi senza precauzioni alla passione. Le donne a vent'anni non capiscono nulla, anche quando hanno una certa esperienza teorica… ora sarebbe una vera follia da parte tua se ti compromettessi... che so io?... Tu la sposeresti?

—Oh, noi non abbiamo mai parlato di matrimonio; ed io, del resto, non l'ho mai stimata né
amata tanto da pensare a sposarla.

Disse ciò, Bruno, con veemenza: ma appena l'ebbe detto ne ebbe vergogna e si sentì vile. Fece immediatamente per smentirsi; ma la dolce donnina lo prevenne:

— Anche lei, ne sono convinta. Cosa vuoi che capisca d'amore e di sentimento una tedesca? Io dovrei esserne soddisfatta, amico mio, perché sei stato poco gentile con me, per causa di lei. Ma mi sei tanto caro! Dimmi, piuttosto, perché non vieni a trovarci? Catalano, che io ho informato sul conto tuo, desidera vederti: ti vorrebbe a pranzo.

— No, ti prego: io non saprei presentarmi a lui, adesso. Temerei che dovesse leggermi in
faccia… capisci?

— Come sei squisito, amore! Ma con me sola, sì. Domani egli andrà a Reims per ritornare la sera. Conosco una piccola trattoria deliziosa sul fiume... Vuoi che andiamo a fare una scappata a Neuilly?

— Domani, giusto, sono di nuovo a colazione dalla signora Griffith, — si lasciò sfuggire
Bruno; ma se ne pentì subito, al viso che fece Annie.

Ella lo guardò fisso fisso accennando un sorriso vago; poi chinò il capo e sbottonò e riabbottonò un guanto con grande attenzione, chiedendo sbadatamente:

— L'amante del banchiere Heller?

Bruno sussultò:

— L'amante? Vuoi dire la fidanzata.

— Mio Dio, sì, la fidanzata… una fidanzata che possiede del suo sì e no per cinquantamila
franchi di reddito annuo e che ne spende un milione… una fidanzata che attinge, gratis tu credi, nel pozzo di San Patrizio di quel vecchio cammello del suo fidanzato... Ah, ah! il bel gagà pel quale farebbe le pazzie una donna come la vedova Reclus, amica perfino di sovrani!

— Ma tu... tu, come sai così bene tante cose?

— Per via di mio fratello che è in continui rapporti d'affari con quell'Heller. Ma che ti fa?
perché ti turbi così? è gente che può molto.

Bruno passeggiò un momento, agitatissimo. Poi esclamò, sdegnato:

— Se è vero quello che dici, io non andrò più in quella casa.

— Avresti torto, caro. Se sei già andato una volta, vi avrai incontrato molte personalità
distintissime. Altro è quel che si dice piano, che si può fingere di ignorare, e altro è l'apparenza che a nessuno è lecito trascurare. Sarei molto addolorata se tu, a causa delle mie parole, non traessi da quelle potenti amicizie quanto più possono darti.

Bruno le si piantò risolutamente dinanzi.

— La morale di Bel Amy, dunque?

— Non drammatizzare. Bel Amy ti fa quel brutto effetto, perché sta in un romanzo. Ma quanti Bel Amy stanno nella vita, nei quali tu non puoi leggere, tua a cui stringi la mano?

— Gli è che non vorrei leggermi da me stesso.

Si erano intanto avviati e uscivano insieme. Pioveva: le strade erano grigie ed afone, con radi passanti frettolosi sotto gli ombrelli. Montarono in una vettura chiusa. Annie gli prese una mano e gliela tenne stretta fra le sue.

— Mi sei tanto caro! — gli disse.

Bruno si sentì intenerito e si voltò a baciarla. Si accorse, come il primo giorno del loro incontro, che era assai carina e buona e che il turbamento sensuale che essa dava era accompagnato da una profonda dolcezza, da un senso di gioia e di riposo.

— Torneremo a vederci presso di te, caro? —chiedeva Annie al suo orecchio, stringendo la sua mano contro il petto.

— Sì, quando tu vorrai.

— E mi prometti che tornerai anche dalla signora Griffith? Oh, senza amarla, te ne prego... Ma con giudizio, per strapparle quanto ti potrà dare... oltre se stessa.

— Te lo prometto.

***

Il veleno versato dalle parole di Annie, amareggiò Bruno per tutto quel giorno. Infischiarsene, no, non sapeva; ma ragionandoci su, a poco a poco, si persuase che non era il caso di adontarsene, poiché soltanto da tre settimane egli era entrato nella vita di Edmea Griffith, e da anni in quella vita già c'era chi c'era. Gli apparve anzi l'evidenza lusinghiera dell'opposto: quello di essere stato preferito, scelto, tra la folla d'uomini, molti dei quali eccezionali, ove essa viveva. Certo il barone e banchiere ebreo, palesemente suo fidanzato (e forse soltanto suo fidanzato, ancora; come si poteva essere sicuri di no, con un uomo così brutto e anche ridicolo? le malelingue, si sa... Ma no! certamente niente altro che
suo fidanzato) era ricchissimo; e quale donna —e quale uomo? — non farebbe un sacrificio dinanzi a una fortuna di oltre cento milioni?

D'altra parte, quale donna sarebbe stata capace di fare quel che Edmea faceva per lui? Questo amore, oltre a portargli la più bella femmina fin allora incontrata nella sua già attivissima vita sessuale, la più distinta, la più ammirata, la più colta, la più elevata nella scala sociale, non gli preparava anche benefici immensi, l'ingresso nel gran mondo e forse nella gloria, per la maggior porta, quasi per un arco di trionfo?

Sarebbe bastata la sola donna, nuda e cruda, a meritare la dedizione più assoluta. Nuda, sì. Per quell'involontario estetismo che era, in fondo, uno dei sostrati della sua educazione morale e letteraria, Bruno era tratto a illuminare di luci dannunziane, wildiane e franciane quest'avventura d'amore così diversa negli aspetti e nei modi dalle forme comuni del mondo medio e borghese ove egli era nato e fin allora vissuto. Trovarsi, in un palazzo principesco, in ambienti quasi da fiaba, a tu per tu con una donna contesa da nababbi e da dominatori di nazioni, e potere avere in propria balia questa donna denudata su una pelle d'orso, o su tappeti di Teheran e di Bokara, sotto una luce discreta, diffusa da lampadari d'argento, in un'atmosfera profumata da incensieri d'oro, era sembrato fino a ieri romanzo, e del meno
serio per giunta, cinematografo, fandonia. Eppure, sì: era stato facile e naturale, come avere avuto le cameriere delle pensioni, le ragazze da cinque o dieci lire di via della Vittoria a Roma e di madama Saffo, alias Patata, a Firenze. Facile e naturale: una lettera per Edoardo Rod, la presentazione di questi in casa Margueritte, l'incontro ivi con la grande, ammirata signora, lieta di trovare un italiano, di cui ella portava un po' di sangue nelle vene. Facile e naturale, come per la conoscenza con Annie, come con Katscha…

Ma che Annie e Katscha! Questo era un amore pieno di sensazioni strane. Niente della calma borghesia quasi coniugale di Annie, o dell'irritante isterismo di Katscha. Quella Katscha, di cui egli aveva conosciuto la perversa verginità, non gli aveva dato — se ne rendeva conto adesso — nessuna vera gioia: era tutta spigoli e aculei, era come un frutto da cavar fuori ogni volta da una bacca tenace, come un fiore da cogliere attraverso spine... E poi, quei suoi occhi allucinati...

Edmea, invece! Niente di solito, come niente di sanguinante. Ella aveva fretta, questo si: forse perché incalzata dai suoi trentasette anni. Era anche un po' frigida; forse perché, gli spiegava essa stessa, dopo avere avuto Luciano si era dovuta sottoporre ad un'operazione chirurgica che l'aveva privata di una parte degli organi della maternità. L'amore con lei, così, era soprattutto un godimento estetico.

Supina e ignuda, sulle pelli o sui tappeti (il letto le sembrava un'incubatrice ridicola) era
immensa. 

Talora Bruno si sentiva piccino accanto a lei, così piccino da sognare come Baudelaire di
potersi nascondere tra le colonne dure e diritte delle sue cosce, o nella boscaglia fiammante del suo grembo, o all'ombra delle piramidi dei suoi seni. Questi specialmente aveva magnifici, sodi ed elastici, d'una doviziosità perfino sproporzionata al resto delle membra, ma resi armoniosi dal loro stesso peso che li obbligava malgrado la loro compattezza a reclinarsi e a diventare malleabili nel busto, quando non erano in libertà. Essi parlavano enormemente alla fantasia e al piacere di Bruno e furono causa delle complicazioni di quell'amore.

La prima avvenne naturalmente. Anche questo, sì, fu naturale — ma insolito per Bruno. La sua bocca traeva piacere da tanta magnificenza di carni, e Edmea gli confidò che ciò soltanto accendeva un poco la sua frigidità. Essa godeva visibilmente a sentire la bocca di lui percorrere la sua persona desiderosa ma inerte, soffermarsi a tentare la sensibilità assopita sotto l'epidermide di velluto. Sensibilità in agguato. Una volta quell'indagine eccitatrice si spinse fino a un punto ove ella sentì affluire tutta l'elettricità accumulata nelle sue viscere sterili. Bruno, per suo istinto, fece per allontanarsene e desistere; ma Edmea con dita di ferro lo ghermì ai capelli, lo serrò alla schiena con le sue gambe, al collo con le sue ginocchia potenti e pregò e ingiunse con voce che era insieme gemito e ruggito:

— No; non lasciare, ti supplico!... Ancora, e farò per te quel che vorrai… e sarai il mio dio!

E infatti ella, in quei minuti leonessa, divenne poi per lui ancora più tenera e premurosa, quasi materna.

— Caro il mio lupo! — gli sussurrava — Che felicità se tu potessi divorarmi! Grazie di quello che hai saputo fare di me.

Bruno fu chiamato di nuovo dal Ministro, che gli confermò la sua nomina a straordinario alla
Sorbona. Presero accordi per la prolusione, che avrebbe avuto luogo il 7 gennaio.

***

Altra complicazione.

Si trovavano insieme di notte, nel grande appartamento di rue des Mathurins. Ma i servi non dovevano sapere, non dovevano sospettare. Egli andava a passare la sera con la signora e con Luciano che lo adorava, che lo chiamava il suo «grande amico»e col precettore Lewy. Qualche volta il circolo si allargava, acquistava il carattere quasi accademico che la signora ambiva dare ai suoi ricevimenti, e intervenivano rade ma scelte personalità del gran mondo, della politica, dell'arte. Oltre i soliti, vi fecero apparizioni don Manuel del Portogallo, l'ex regina Maria Sofia, e un misterioso tedesco che si faceva
chiamare soltanto Herzog, ma che Bruno poi seppe da Edmea essere un figlio dell'imperatore Guglielmo. Egli era accompagnato da un bellissimo ufficiale ancor giovane, il tenente colonnello von Mackensen.

Da quelle riunioni Bruno andava via, come tutti gli altri, ma per risalire poi dalla scaletta di
servizio ed entrare dall'altro ingresso dell'appartamento, di cui aveva avuto la chiave. Entrava e andava piano a nascondersi in un boudoir e ad attendere Edmea che non tardava a raggiungerlo in accappatoio. Stavano insieme delle ore, ad amarsi, a parlare; talvolta soltanto a parlare, di cose belle, di cose importanti, di cose gravi, in cui s'intendevano perfettamente. Prima che facesse l'alba si separavano. E sovente, dalla scollatura dell'ampia manica aperta, Edmea, con un gesto rapido cavava uno dei pesanti otrelli rosei del suo petto e offriva all'amante qualche sorso di gioia.

— Prendi, lupatto, un po' di quel che ti appartiene.

Ma una notte che non s'erano amati, quel bicchiere della staffa ridestò la sua sete, lo indusse a soffermarsi. Non fu una delle ore meno memorabili del loro amore leonino. Erano lì a bramire sommessamente sui cuscini e sui tappeti, quando parve loro d'udire lo scatto di una serratura che s'apriva. Tesero l'orecchio, muti, anelanti, e subito dopo intesero il cauto richiudersi di una porta pesante: la porta di servizio da cui egli stesso, Bruno, ogni notte passava.

— Chi sarà? — domandò egli sommessamente.

— Taci; nasconditi! — ingiunse lei. Balzarono in piedi. Ella corse a girare l'interruttore della
luce elettrica; egli, nell'immediato buio, raggiunse a tentoni il vano di una portiera, e si cacciò dietro la tenda. Ma subito dopo vide, da un lampo attraverso il tessuto, la sala attigua, che seguiva all'ingresso, illuminata, ed accendersi successivamente un'altra lampadina nello stesso boudoir ove si trovavano. Udì la voce di Edmea chiedere aspramente:

— Che c'è? — e un'altra voce, d'uomo, chioccia e nota, la voce sospettata e temuta, domandare a sua volta:

— Che fai qui, Edmea?

Il dialogo continuò, con un crescendo d'eccitazione da ambo le parti:

— Io sono in casa mia e faccio quel che mi pare. Ma voi, piuttosto, come siete qui?

— E' una novità, forse?

— Non eravate fuori di Parigi?

— Sono ritornato da mezzora, con l'auto, e la mia prima visita è naturalmente per te. Ma vedo che non m'aspettavi, Edmea.

— Certamente non v'aspettavo. Perché avrei dovuto aspettarvi?

— Ah, dici così?... Signora, voi eravate qui con qualcuno.

— Siete un insolente e uno stupido. Vi prego di andarvene.

— Me ne andrò, se volete, ma per non ritornare più quando avrete bisogno di me.

— Tornerete fra otto giorni, quando ci sposeremo.

— Sposare ?Vi ho detto che non è possibile. Specialmente dopo essermi accertato che
introducete nella mia casa ancora un ganzo.

— La casa è mia, vi dico. E non c'è nessun ganzo.

— Voglio vederlo: è lì dietro quella tenda.

— Se voi fate un passo, non mi vedrete più!

— Non importa, purché veda quell'uomo e sappia se è quell'Alphonse che penso io, per
fregarlo poi a dovere.

— Heller, sei un farabutto!

Questo fu un urlo. Bruno non vide, ma udì Edmea agguantare l'ometto, schiaffeggiarlo e
malmenarlo, rovesciarlo su una poltrona e li colpirlo coi piedi, insultandolo furiosamente con parole da trivio:

— Cocu! Vièille charogne! Fils de putaine!

Bruno fece per uscire e intromettersi sentendo l'uomo gemere; ma si trattenne quando lo udì
piagnucolare

— Edmea, tu scavi un abisso fra noi due!

— Tu mi sposerai! — ruggì Edmea — fra otto giorni, ti dico, o il procuratore della repubblica saprà quanto basta sul conto tuo per mandarti sulla ghigliottina…

— Taci, Edmea, taci! O tu con me...

— Io no, canaglia, sai bene che io no! Domani stesso, anzi, svelerò tutto al Presidente in
persona!

— No, taci! Taci! Ti domando perdono!

Poi non si udirono che gemiti. Accorse una cameriera, poi un vecchio servo. Ne seguì un
parlottare concitato, un tramestio. E silenzio. Bruno uscì dal suo nascondiglio e si affrettò, cauto, senza incontrare nessuno, verso la porta.

***

Tutta la mattina seguente, senza aver potuto prender sonno, col sangue in tumulto, le orecchie rombanti, vagò per Parigi sommersa nella caligine. Gli pareva di aggirarsi, palombaro senza scafandro, in un fondo marino, fra avanzi di un naufragio. Che rabbia! non capiva nulla: provava soltanto ira e disgusto di aver posato la bocca là dove certo era passato anche Heller! Ma nello stesso tempo lei, lei, Edmea, non cessava di giganteggiare nella sua fantasia e nei suoi sensi. Gli pareva ora sublime anche nell'inatteso turpiloquio e nell'irruenza castigatrice delle sue mani e dei suoi piedi! La detestava e l'adorava. Certo non l'avrebbe più riveduta; ma. quella sera sarebbe ritornato da lei!

A mezzogiorno un po' di sole filtrò attraverso la caligine. Allora decise di rientrare all'Hotel
des Arts e mettersi a letto. Dormì pesantemente cinque ore, quando lo svegliarono colpi battuti alla porta. Gli portavano una lettera di Edmea. Era scritta in italiano.

«Venite! Ho qualcosa di molto importante da dirvi. Il mio matrimonio imminente non
modificherà in nulla i nostri rapporti, né ritarderà quel che voi vi attendete da me. Stasera potrete correggere le prime bozze del vostro libro. Anche Luciano vi aspetta a cena».

— Non andrò. — disse; ma, fatto un bagno, si vesti. Indossò lo smoking. Alle sette e un quarto passava dalla portineria.

— Monsieur Soveria, on a telephoné pour vous.

Avevano telefonato mentre era in bagno. Chi? La signorina Graberg, Avenue de Villiers 32. Lei in persona? No, la sua cameriera; da parte della padrona che lo voleva subito a casa.

Bruno, svogliato, andò verso la prossima stazione della metropolitana. Bisognava far presto, perché fra un'ora Edmea e Luciano sarebbero stati a tavola. Forse anche altri invitati. Il treno s'appressò lungo la galleria rimbombando, mentre il rimbombo di un altro che ripartiva nel senso opposto si perdeva digradando nel buio. Egli immaginò di viaggiare sui tuoni. Tuontuontuontuon, faceva il convoglio. Chissà com'era la sensazione di un viaggio in aeroplano. Tra un mese si sarebbe tenuta in Italia la prima grande gara aviatoria in circuito chiuso. Bisognava andare. Con Edmea Griffith che attendeva l'occasione per visitare l'Italia. Era vicino anche il concorso per la carriera diplomatica e bisognava affrettarsi a presentare i documenti e a fare le pratiche di cui Edmea gli aveva parlato per
essere destinato a Parigi. Pel 7 gennaio poi occorreva trovare un argomento non abusato per la sua prolusione...

Nel vagone con lui non c'era quasi nessuno: un ragazzo con una gerla, ritto presso lo sportello a tamburellare con le dita sui vetri e all'angolo in fondo una ragazza, bruttina, magra, abbrunata, che si portava ogni tanto il fazzoletto agli occhi. Cosa aveva da piangere, quella ragazza? Un suo dolore, un suo piccolo dolore: per qualche uomo, forse, per il suo ganzo. Quello che egli era per Edmea. Così lo aveva chiamato Heller. Lo aveva chiamato anche, e chissà se proprio non avesse capito chi fosse il ganzo nascosto, lo aveva chiamato «Alphonse». Alphonse: una parola che è come un colpo di rasoio sulla faccia!

Eccitato da questi pensieri, arrivò quasi correndo a casa di Katscha, ove non era mai stato. Una cameriera premurosa e preoccupata lo introdusse nella camera della giovane, dopo avergli detto soltanto che per fortuna il signor Hermann non era a Parigi.

Katscha era distesa sul letto, bianca di cera. L'unica lampada elettrica accesa sul comodino era coperta da un paralume verde che impallidiva maggiormente ogni cosa.

— Che hai? — le domandò Bruno inquieto. Essa cavò di sotto le coltri un panno insanguinato. Egli gridò, atterrito: 

— Che hai fatto?

— Silenzio! — gl'impose Katscha, energica. —Il mio medico non ha voluto prestarsi ma mi ha consigliato... e allora ho fatto da me. Tutto è andato bene… ma adesso mi pare che sia troppo… e non so più aiutarmi… ho bisogno del medico. Andate a chiamarlo: non ha neppure il telefono. Non voglio che le persone di casa capiscano di che cosa si tratta. Andate subito: via Grénelle 26. E guardate: lì, lì c'è qualche cosa che io non ho avuto la possibilità di fare sparire, ma che non si può lasciare così o sarebbe pericoloso per me e forse anche per voi... buttatela via, in un posto ove nessuno possa vederla...

Bruno rimase un momento col petto chiuso e la mente annebbiata. Lo assalì come un convulso di saltellare, di battersi con le mani sulle gote, e dalla gola gli venne fuori una voce acuta che si sforzava a non essere grido:

— Perché, Katscha? Perché? Non senti che è una cosa orribile? Perché ci siamo attaccati fra noi se doveva finire così? Avrei preferito prendere tutto su di me; ma questo no! Ma vederti così no!

E fattosi vicino al letto, si chinò sulla giovane. Una mano di lei gli si posò sui capelli a
carezzano.

— Zitto, zitto! Che nessuno possa capire... Non vi disperate così. Mi fate tanta pena! E' troppo tardi ormai, e non potrei più rimediare, abbiate pazienza. Ma io sarò felice ugualmente, credo. E anche voi sarete felice. Andate, vi prego, e presto... Io sto molto male. E buttate via quella cosa, quella esecrabile cosa!

Bruno si avviò trafelando verso la casa del medico, senza pensare neppure che avrebbe potuto prendere un taxi per fare più presto. Ci pensò quando si trovò in una strada quasi deserta, sotto una pioggerella minuta minuta come polvere. Avvolta in un pannolino insanguinato portava la cosa che non osava guardare. Ma la intuiva, la vedeva nella sua eccitazione, orrenda come un minuscolo mostro. Egli avrebbe potuto racchiuderla tra due dita. Fra due dita quella piccolezza immensa, atomo e mondo, santità e schifo! Poco meno di quella, ed è melma; poco più, e se ne fa un milionario Heller, un Bruno Soveria, un presidente dei ministri o un Alphonse. Tuontuontuontuon facevano i veicoli lontani, i suoi
passi, il suo cervello.

Giunto sul ponte degl'Invalidi buttò nel fiume nero il fagotto che si svolse cadendo. Un tonfo
sordo e viscido, come per un grosso sputo. Poi Bruno montò in una carrozza che passava, ripetendosi meccanicamente il numero della casa del medico: ventisei, ventisei, ventisei...

Ma il medico era fuori, e non sapevano quando sarebbe rientrato. Dove cercarlo? Chissà? Era in giro di visite. Gli dicano per favore, appena ritorni, di andare subito dalla signorina Graberg, Avenue des Villiers 32: caso grave.

Rivolgendosi per montare in carrozza, sotto la pioggia più insistente, pensò che non poteva
lasciare oltre quella creatura senza soccorso. Ma dove cercare un altro medico? Egli non ne conosceva nessuno. Ne chiese al cocchiere.

— Montez, monsieur. J'ai votre affaire, tout pres d'ici.

Il cavallo trotterellò. Bruno, rannicchiato in un angolo, credé ricordare che un'ombra, forse un agente, veniva dietro di lui sul ponte quando aveva lasciato cadere nell'acqua la traccia del delitto di Katscha, del suo delitto. Si sporse per vedere se qualcuno lo pedinasse. Un'altra carrozza, ecco, seguiva la sua e più in là un'altra ancora. Il cocchiere frenò dinanzi ad un portoncino chiuso.

— Voila.

Bruno scese, vide una targhetta.

Doct. j. Brunétiére.
Maladies d'oreille, nez et gorge.

Non ebbe la forza di risentirsi, di irritarsi. Temette di attirare troppo l'attenzione su di sé. Il
cocchiere non aveva capito ed egli era un insulso uomo che meritava le beffe e gl'insulti di lui, di Heller, di Katscha.

Passava un taxi vuoto. Lo fermò dopo avere pagato il cocchiere che gli strappò i soldi di mano con mala grazia.

— Où allous nous, monsieur? — chiese lo chauffeur.

— Rue Ménilmontant. — rispose inconsapevolmente.

— Oh, oh, souhaitons nous le bon voyage. —brontolò quegli demarrando di malumore.

Ecco, rue Ménilmontant: da Annie. Là, presso la dolce amica, si sarebbe forse trovato il rimedio a ogni cosa.

***

Annie lo accolse con grida di giubilo sospendendoglisi al collo. Si lasciò portare in braccio fino al salottino caldo e bene illuminato, e intanto senza dargli il tempo di aprir bocca, gli veniva dicendo:

— Che bella improvvisata! Da quella mattina quando ci lasciammo non ho fatto che pensarti. Catalano non è ritornato da Reims neppure oggi, e mi ha telegrafato che arriverà domani nel pomeriggio. Ma perché così inzuppato? Mio Dio, come sei pallido!

Egli ansando la informò di tutto. Bisognava aiutarlo a trovare un medico, un ostetrico, bravo, il migliore di Parigi.

— Si, si caro. Andremo subito, calmati. Ma bisogna essere anche prudenti. Uno qualunque non è possibile. Dobbiamo guardarci da una denunzia. Aspetta; lasciami pensare. Ah, ecco ho trovato chi fa al caso nostro. Andiamo... Ma tu devi cenare, rifocillarti...

— No, no; subito non posso...

Ma bisognò cedere alle insistenze di Annie. Essa lo obbligò a sorbire due uova e a bere un dito di vino generoso; e intanto si dava una passatina di cipria sul viso e un tocchettino di rosso alle labbra. Indossò la pelliccia, si guardò di sfuggita in uno specchio, prese Bruno pel braccio e lo condusse.

Trovarono il medico: era un giovane calvo, dalla fronte spropositata e gonfia, con un gran paio di occhiali tondi. Montò con loro in taxi, carico di una busta tinnante di metalli. Lungo il tragitto volle essere informato, e Annie — sorridente e soave, chiamandolo maître — lo mise al corrente dei più minuti particolari come se ella avesse assistito a ogni cosa. Bruno stette sempre in silenzio, assorto ma con la mente vuota, con la sensazione che quelle due persone di fronte a lui, dondolanti al moto della vettura, fossero lontane e le intravedesse e le udisse attraverso un muro trasparente. Un orologio suonò le dieci. In casa Griffith già certo avevano finito di pranzare, e l'Alphonse non c era: era invece in faccia al medico ballonzolante sul sedile, cui il lampeggiare dei fanali fra i quali di volta in volta passavano illuminava per un attimo la fronte da aborto.

Al numero 32 dell'Avenue dea Villiers, il portinaio li trattenne. Dove andavano, dalla signorina Graberg forse?

— Si — affermò Annie.

— La signorina non è in casa.

— Come non è in casa, se stava male?

— Appunto, stava malissimo, e l'hanno portata via.

Annie volle a qualunque costo salire. Bruno scartò il portinaio e montò ansimante dietro di lei. La padrona di casa, una donna anziana, dura e sgarbata, confermò che la signorina era stata accompagnata all'ospedale da suo marito e dalla cameriera.

— Quale ospedale?

— Non so — e la signora li congedò bruscamente. Il medico, risentito, volle essere ricondotto a casa e indennizzato del suo disturbo. Annie — sorridente e soave — riconobbe le sue ragioni. Quando si furono sbarazzati di lui, Bruno, convulso, pretese che si andasse all'ospedale .più vicino.

— Si, caro. Ma calmati, non complicare le cose — gli disse Annie. — Se tu ti tradisci, ne scapperà fuori un guaio più grosso.

All'ospedale Annie domandò in portineria che cosa ne fosse della signorina Graberg. Ma lì non sapevano di signorine. Ogni insistenza fu inutile. Cercarono in un posto di soccorso più in là; e niente.

— Andiamo all'albergo — propose Annie.

E Bruno non si oppose, non domandò più nulla. Uno stato di prostrazione subentrò alla sua
agitazione folle di prima, al bisogno imperioso di agire, di correre, di sapere. Annie, accanto a lui, carezzandolo, veniva dicendo che forse non c'era nulla di grave e di irrimediabile, che il giorno dopo si sarebbe cercato meglio, che negli ospedali non si lasciava morire la gente in quelle condizioni, e che in fin dei conti lui, Bruno, non aveva nessuna responsabilità di quel che era accaduto, perché quando una donna è pazza se la cavi da sé.

Era quasi la mezzanotte quando giunsero all'albergo. Sul comodino, Bruno trovò un
telegramma. L'aprì senza curiosità.

«Troppi giorni priva tue nuove attendoti assolutamente Natale. Collebrina morto
improvvisamente. Povera famiglia assai colpita. Baci benedicendoti - Mamma».

Annie lesse anche lei, comprese in parte e fece un viso molto addolorato, guardando il suo
amico.

— Oh! — esclamò, accorata, benché per la prima volta sentisse quel nome.

Il nodo d'angoscia che serrava Bruno alla gola da più ore si sciolse in lagrime silenziose. La
mamma! Collebrina! La cicogna che porta i bambini... le amichette dell'infanzia… la sua casa nel giardino gorgheggiante d'uccelli e d'acqua...

Si lasciò spogliare e mettere a letto come un ragazzino, continuando quel pianto muto; e anche lei piangeva, quando gli guizzò accanto lieve lieve, fatta di dolcezza, di odori e di trine. Si baciarono, mescolando le lagrime. Bruno, col capo stretto fra le braccia di lei, si obliava ad aspirare il profumo del suo seno caldo. E gli veniva una gioia nuova dalle sue labbra umide e carnose. Cessò di piangere guardandole intensamente la bella bocca.

— A lui che piange, poverino, Annie vorrebbe dare una gioia grande grande, più di quelle che gli hanno date le cattive donne che lo hanno fatto diventare così triste.

Egli non disse nulla.

— Veux tu que je t'embrasse tout? — gli chiese allora Annie piano piano, con un sorrisetto
malizioso e indulgente. Egli accennò di sì chiudendo gli occhi. E venne la gioia promessa, stranamente fatta anche di tenerezza infinita, godendo pure dalle mani immerse a carezzare i capelli folti, fini e ricciuti che ella aveva sciolto per farglieli scorrere piano, al ritmo del piacere, su la pelle.

Poi Annie si sollevò a guardarlo sorridendo, ma un po' melanconica.

— Que nous sommes vâches, nous femmes ! Mais, enfin, c'est pour vous fair plaisir.

Egli la strinse a sé, con gli occhi di nuovo umidi, e la baciò ancora.

— Ti voglio tanto bene, Annie! senza di te sarei stato molto infelice.

— Mon petit gigolo! Mon petit frére! Mon enfant! — sussurrò lei.

Ed egli riposò e si addormentò, sentendosi protetto ed amato, sul suo seno.

VIII

Nel viaggio precipitoso verso casa, Bruno si soffermò, trentaquattr'ore dopo, soltanto a Roma, fra un treno e l'altro. Nino Guevarra, avvertito da lui telegraficamente, si fece trovare alla stazione. Fecero colazione insieme, da Valiani.

Nino, laureatosi anche lui, stava ora a Roma in attesa di collocarsi, campando sugli incerti che gli venivano dalla collaborazione straordinaria al Corriere Italiano e sui certi dei debiti. Si vantava orgogliosamente d'essere il cucco degli strozzini.

Bruno gli raccontò ogni cosa.

— Hai avuto forse ragione di ritornare — chiosò Nino, dopo averlo attentamente ascoltato. — Ma mi farai la cortesia di scusarti subito, con un telegramma e una lettera, presso quella signora, se già non ti ha mandato a carte quarantanove come meriteresti... Io sarei partito un'ora dopo averla riveduta ed essermi fatta perdonare l'assenza di quella sera cosi movimentata.

— Oh, — ribatté Bruno, brusco — dopo avere saputo, dopo avere ascoltato quel suo. dialogo col sudicio ebreo...

— …milionario, mio caro; un milionario non ha che pregi e virtù e dove egli passa rimane
polvere d'oro: prerogativa dei milionari e delle farfalle.

— No, no: fare da pabolo, non mi piace.

— Sei un integerrimo idiota, amico mio. Non capisci che certe donne innalzano e che
qualunque rapporto diventa sublime quando ci lega a chi sta tanto al disopra del normale e del comune?

— No, no: il più alto voglio sempre essere io, e il sublime non mi deve venire dall'esterno, ma si deve diffondere da me!

— Con coteste teorie si diventa semidei, santi o ridicoli. Promettimi che ripartirai fra otto giorni per prendere possesso della tua cattedra alla Sorbona e dell'alcova di quella dea.

Nino non lasciò partire Bruno senza averlo visto scosso e senza avergli fatto giurare che
avrebbe scritto a Edmea. Poco prima che il suo treno si movesse, però, Bruno assistette ad una scena fortuita fra due facchini della stazione, che litigavano per le valige di un forestiero. Vociavano e sacramentavano, destando l'ilarità di qualche compagno presente; ma alla fine l'uno, un ometto dall'aria macilenta, perdute le staffe urlò all'altro:

— Va via, brutto magnaccia! — A quella parola l'offeso diventò un energumeno: gli sferrò un cazzotto che sbagliò il segno grazie all'intromissione di due compagni. L'offensore scappò via, preso da paura. Il treno, intanto, era partito e il resto della scena si perdette dietro vagoni fermi. Ma la parola atroce, che aveva destato così furiosa reazione in un uomo volgare, rimase a far compagnia a Bruno per quasi tutto il viaggio, insieme col suo più garbato sinonimo francese di Alphonse.

***

Arrivò a sera inoltrata. Alla stazione trovò la mamma ad attenderlo, la mamma che se lo serrò al cuore con singhiozzi muti. Oltre il dolore palese, per l'estraneo appena amico, sapevano entrambi che c'era un dolore oscuro e senza nome su cui piangere: la madre rispondeva all'angoscia del figlio.

A casa la prozia Anna fece trovare la cena pronta.

— Oh Bruno, ben ritornato — gli sorrise, gli rise anzi, rivolgendogli mille domande a cui non ebbe risposta o se ne ebbe non la sentì, chiusa nello splendido isolamento della sua sordità.

Durante la cena, la mamma narrò la catastrofe. Dopo il matrimonio di Diana, le condizioni
finanziarie dei Collebrina erano rimaste scosse: quella dote da cavare dalla cassa non ci voleva. La signora Vittoria era venuta in aiuto dell'azienda pericolante acquistando il suo appartamento nel villino, per trentamila lire. Ma se l'azienda ne vide bene, l'andamento della famiglia non se ne avvantaggiò. Stella, divenuta ipocondriaca, si disinteressava della casa, sinché si fece addirittura suora infermiera. Agostino, che da parecchi anni aveva abbandonato le scuole per frequentare i caffè ed i bigliardi, senza neppure dare un aiuto al padre nell'officina, due mesi prima era scappato dietro una canzonettista con la quale ora cantava i duetti nei varietà di second'ordine. Arturo era sotto le armi e aveva fatto sapere
che vi sarebbe rimasto, col grado di sergente per ora. Era ripartito il giorno prima dopo un breve congedo. Tutte le speranze della casa si erano così concentrate su Cavour, che contava già quattordici anni, e aveva raggiunto — faticosamente, è vero — la terza classe tecnica, e su Alba che aveva finito le elementari e dimostrava una spiccata tendenza pel piano.

Ma la sera del diciannove dicembre il povero sor Antonio, non ancora sessantenne, mentre
sedeva a tavola fu visto ruinare sul piatto di spaghetti, chiamato a sé bruscamente dal buon Dio, con una mazzata invisibile in mezzo al cranio.

— Chi ha sentito maggiormente la sciagura — concluse la signora Vittoria — è stata la piccola Alba. Se tu la vedessi, è irriconoscibile: pallida, magra, fa pena. Non sono neppure riuscita a ricondurla quassù. Sta sempre accanto al letto su cui fu deposto suo padre.

— Povera bimba! — commentò Bruno distratto. E pensava a un altro letto: quello su cui aveva visto distesa, cerca ed esangue, Katscha.

— Adesso scenderai un po' con noi, a fare una visita a quei poveretti. No, Bruno? — propose la mamma con dolcezza, notando la sua aria preoccupata.

— Certamente.

Ma giunsero da giù grida di donna. Era la voce di Diana, inviperita. Ascoltarono loro malgrado.

— Per quanto a lutto, io dovrò bene vestirmi, non vi pare? E se costui è un imbecille buono a nulla che non sa portarmi abbastanza denaro in casa, debbo scontarne io la pena?

E qui un rumore di sedie e grida confuse e stridule della signora Collebrina.

— Questa benedetta ragazza! — sospirò la signora Vittoria. — Son tutti rimasti male a non
trovare niente d'eredità. L'azienda è intestata alla signora.

— Io penso che debba essere tanto bello il bosco di Boulogne — diceva intanto la zia Anna, beata. — Tu ci sei stato, Bruno?

Quando il baccano si sedò, madre e figlio scesero all'ammezzato. La nonna Brigida fu la prima ad incontrarli. Diana, col cappello in capo, si fece trovare sulla soglia della sala da pranzo, ove il resto della famiglia era riunito.

— Oh, ben ritornato! — fece Diana. — Si è divertito a Parigi?

Bruno, commosso al pensiero del caro uomo che non c'era più, rispose con qualche parola di condoglianza. Frattanto si affacciavano la signora Matilde e Cavour, seguiti da Alba che scoppiò in singhiozzi, abbracciando la signora Vittoria e Bruno.

Guido, il marito di Diana, era rimasto a sedere in un angolo, con l'aria d'un cane bastonato.

— Che tragedia, caro Bruno, che tragedia! —esclamava intanto la vedova, con gesto e voce teatrali. — Un uomo come quello! Che cuore! Troppo cuore! E più con gli estranei che con me e coi suoi figli. Mi ha fatto soffrire molto, è vero, con la sua caparbietà, con la sua intolleranza, ma che fa? era il mio uomo!

Alba si era seduta accanto alla madrina, con le mani nelle sue senza alzare gli occhi, senza
profferire sillaba; specialmente verso Bruno non si rivolgeva mai.

— Lei non conosceva mio marito? — domandò finalmente Diana a Bruno. E la presentazione fu fatta, con ritardo, fra il silenzio generale. Soltanto Cavour sbuffava risate semitacite dentro le mani. Guido era un giovane magro, dal viso lungo, occhi prominenti, eleganza da barbiere vestito a festa.

Di tutta quella gente Bruno non s'interessava che ad Alba, la quale, curva sulle ginocchia della signora Vittoria, col viso nascosto nel fazzoletto, mostrava soltanto le magre spalle sussultanti. La signora le carezzava commossa la testolina scarmigliata, sussurrandole:

— Su, Albetta, su coraggio!

— Eh si, esclamò allora la Collebrina, profondendosi in lagrime inconsolabili — lei piange il
suo babbo, senza pensare che c'è la sua mamma, e che non deve farla morire di disperazione. Mamma ce n'è una sola!

Tutto ciò era insopportabile. La casa piccola e soffocante, l'ambiente gretto, la gente meschina. Non ardiva, Bruno, soffermarsi neppure su un pensiero che riguardava la sua mamma; ma esso ritornava sempre, prepotente e importuno: anche la mamma era una donna mediocre. Che pensiero odioso! La mamma eroica, sacrificatasi nella giovinezza per lui, la mamma rimasta la vestale della casa senza uomo… si, ma mediocre! No, santa, sublime nella sua serenità spirituale, nella placidità fisica! Sì, tua le donne che colmano il mondo, che infiammano, che travolgono, sono le Oldenburg, le Stuart, le Griffith!... Ma la Griffith che spinge verso il proprio grembo la testa dell'amante e la stringe fra le cosce potenti non può stare più in alto della mamma, no! anche quando la casa è modesta, l'ambiente borghese, la conversazione banale.

E poi, c'era anche quel pianto di Alba, che faceva ricordare il morto, e faceva ricordare anche il babbo di Bruno; e gli dava una gran pena.

Con la scusa della sua stanchezza dopo cinquantasei ore quasi ininterrotte di viaggio, Bruno si congedò.

***

Il domani scrisse infatti a Edmea Griffith. Le scrisse proponendole di rivedersi, sì, ma senza più parlare della cattedra alla Sorbona né di tutti gli altri aiuti che ella gli aveva promesso. Egli voleva ancora amarla ed esserne amato, ma gratis. Un saluto particolare al caro Luciano.

Otto giorni dopo gli arrivò un plico della Società Editrice Internazionale: era il suo manoscritto che gli veniva restituito, causa forza maggiore che ne impediva la pubblicazione pel momento. Arrivò anche una lettera del Ministére de l'Istruction Publique, che gli comunicava la disdetta dell'incarico alla cattedra ecc. ecc, causa la sua assenza prolungata e ingiustificata.

Di Edmea, nulla. Egli scrisse a Luciano: e nulla. Venne bensì una letterina elegante, odorosa di chypre; ma era di Annie, che informava Bruno di non avere saputo più niente di Katscha; che però, avendo seguito attentamente la cronaca e i necrologi dei giornali, poteva escludere che la catastrofe paventata fosse avvenuta; che egli stesse tranquillo, che pensasse a ritornare presto a Parigi e che si ricordasse di lei.

Venne presto il momento di ripartire per Roma per il concorso. Questo però si annunziava
limitato a soli dieci posti per la carriera consolare; per quella diplomatica che Bruno avrebbe preferito, nulla per quell'anno. Ma rimaneva sempre la possibilità dei concorsi interni e del cambio di categoria.

A Roma arrivò alcuni giorni prima degli esami, fornito di biglietti di raccomandazione per
personaggi eminenti che la mamma aveva voluto procurargli. Lì si distrasse e non pensò più a Katscha Graberg né a Edmea Griffith. Peppino Foresi, che da un anno viveva in provincia, chiuso nella semplice vita familiare che l'annoiava mortalmente, capitò anche lui in quei giorni a Roma, deciso a divertirsi.

Stavano spesso insieme, Bruno, Nino Guevarra e Peppino Foresi, nella terza saletta d'Aragno, in compagnia d'artisti e giornalisti amici, coi quali si rifaceva il mondo. Però Peppino, più spesso, si assentava, senza nulla lasciar trapelare delle sue mete all'amico.

Era dei loro anche il piccolo e taciturno Tommaso Casazza, l'aggregato dei Moschettieri
universitari, ancora non laureato e in cerca di fortuna e più precisamente, diceva lui, d'entrare in una redazione di giornale, sia pure come correttore di bozze. Sennonché aveva dato presto fondo al gruzzolo che costituiva tutto il suo patrimonio, e ormai tirava innanzi a furia di piccoli espedienti.

A Bruno:

— Certamente l'esame d'italiano t'è andato benissimo. Lasciamo fare a te. Puoi darmi una
sigaretta?

O, all'atto di congedarsi prima di colazione o di cena:

— Ci si rivede più tardi?

E Bruno:

— Oh, guarda, potresti venire a prendere un boccone con me.

Con Peppino, misteriosamente:

— Se vuoi, conosco. un luogo migliore, più ricco, da cinque lire per fiche. Bisogna essere presentati; t'accompagnerò io. Ma siccome la puntata è obbligatoria e io momentaneamente non mi trovo, capisci?... Dovresti prestarmi una fiche.

— Prego, quante ne vorrai.

All'Aragno, Bruno lo vedeva passare di tavolo in tavolo, sempre intento ad ascoltare, talvolta a consentire, con piccoli cenni del capo, a quanto diceva l'oratore più favorito. Lui, invece, Bruno, era spesso in disaccordo coi più:

— Il vostro materialismo storico mi fa ridere: è l'appetito di chi digiuna che insulta l'appetito di chi mangia. Tutta la vita guardata attraverso la rosticceria.

— Va là, forcaiolo!

Ma Tommaso Casazza, alle sue spalle, accennava a un sorrisetto di consenso coi materialisti storici.

***

Lettera di Bruno alla mamma:

«Mamma mia adorata, un mondo di cose da dirti. Ieri mattina ho saputo in via strettamente
ufficiosa che nella graduatoria io occupo il sesto posto. Sono dunque fra i vincitori e non fra i primissimi soltanto perché si è dovuto favorire qualche figlio di papà. Appunto per questo ho voluto approfittare del biglietto della marchesa S., che tu mi hai dato per il Ministro degli Esteri, e sono andato subito alla Consulta.

«Dopo due ore d'anticamera, quando non c'era più dopo dir me che un ometto tondo e loquace, un levantino ex dragomanno del nostro consolato di Beiruth che m'aveva raccontato tutta una storia sul suo licenziamento, potei essere introdotto.

«In fondo ad un salone magnifico che mi ci vollero trenta passi per attraversarlo, dietro uno
scrittoio monumentale, scorgevo avanzandomi una testa pallida e calva, orlata d'una barba biondastra e brizzolata, così immobile e fissa che pareva deposta sugli incartamenti voluminosi ingombranti la scrivania. Quando le fui di fronte, quella testa s'innalzò, elevata dal corpo che si spingeva un po' sulla sedia, e una mano mi fece cenno di sedere. Io, interpretando subito quel cenno come offerta d'una stretta, sporsi la mia destra, ma non vi ricevetti dentro che due dita di quella dei ministro.

«Il marchese di San Giuliano, dopo avermi fatto sedere accanto a una monumentale stufa di
porcellana, che sulle prime m'era sembrato un armadio, senza profferire sillaba, mi appoggia in faccia due occhi .annoiatamente interrogativi. Allora gli spiegai la ragione della mia visita; ma lo feci a voce bassa, come si parla in chiesa. Mi lasciò dire senza che i suoi occhi mutassero d'espressione né si staccassero da me un solo momento e alla fine della mia dicorsa, abbreviata man mano che il suo sguardo andava facendosi più contrariato, mi disse con tono di voce che stranamente somigliava al mio:

« — Va bene, vedremo.

« Io mi alzai. Egli tornò a sollevare, col corpo che si spingeva sulla sedia, la sua testa pallida e calva, mi porse — deliberatamente questa volta — le solite due dita che io strinsi con profondo rispetto, si rimise a sedere e m'accompagnò con lo sguardo sino alla porta, sulla quale mi rivolsi per fare un inchino.

«Tutto ciò, come capirai benissimo, era molto serio, molto importante; ma non concludeva
nulla. Me ne andavo, seccato quanto l'occasione comportava, quando sul pianerottolo m'imbatto nel sottosegretario agli Esteri, il principe di Scalea, distintissimo, che arrivava seguito dal suo segretario, lungo, nero, occhialuto e cordiale. Gli faccio un inchino, egli risponde — come ne ha l'abitudine — con un inchino più profondo e mi guarda con un sorriso incoraggiante.

«— Eccellenza, — gli dico — ho una lettera per lei di suo fratello Lucio.

«Egli porge la mano chiedendomela, sempre sorridente, attende con indulgenza che io l'abbia prima cercata in tutte le tasche dove non l'avevo per trovarla finalmente nel portafogli, gliela consegno ed egli comincia a leggerla camminando e dicendomi: — Venga, venga, prego.

«Giunto nel suo gabinetto, aveva finito di leggere.

«— Lei è Bruno Soveria? Benissimo. Molto piacere. Io ho letto i suoi interessanti articoli da Parigi. La presentazione che me ne fa Lucio non era neppure necessaria. Si accomodi. In che cosa posso esserle utile?

«Il mio cuore, ch'era diventato piccino quanto un chicco di grano col ministro, s'allargò come un mantice d'organo col sottosegretario. Gli esposi che avevo vinto il concorso ecc. ecc. e che desideravo essere destinato a Parigi. Mi rispose che, a dirla schietta, il posto disponibile al consolato di Parigi era impegnato in precedenza, ma che egli si sarebbe interessato a farmi destinare in una delle due migliori sedi vacanti che io avessi scelto: Corfù o Tunisi. Naturalmente io ho scelto Tunisi, anche perché nello stesso tempo francese e italiana, e cioè tale da assicurarmi contatti coi due paesi che più mi stanno a cuore. Il principe di Scalea mi promise di far provvedere al più presto e nel miglior modo
per quel che stava in lui. Mi tenne ancora a discorrere amabilmente di letteratura, di giornalismo, di cose belle, finché mi accompagnò fino alla porta, ove, dopo la stretta di mano più cordiale, mi rifece uno di quegl'inchini ancien régime in cui egli è maestro.

« Baci e baci per te, baci alla zia

BRUNO».

« P. S. — Dei Collebrina, salutami la piccola Alba così bruttina: è la sola ormai che io non trovi detestabile in quella casa».

** *

La mattina prima di lasciare Roma, Bruno andò in cerca di Peppino, che non si era fatto vivo lungo una settimana. Ma all'hotel d'Orient gli dissero che da tre giorni il signor Foresi era andato via; che però ritenevano non fosse partito, ma avesse semplicemente cambiato alloggio.

Se ne ritornava deluso, quando s'imbatté in Tommaso Casazza, alquanto ripulito e ricco di
sigarette proprie. Lo sorprese appunto mentre ne cavava una dal pacchetto, sogguardando con aria sorniona sul marciapiedi opposto, ove sculettava una servotta.

Bruno gli batté su una spalla, chiedendogli che ne fosse di Foresi, suo compagno assiduo dei giorni scorsi.

— So che è passato in una stanzetta mobiliata in via Gioberti — rispose Tommaso un po'
esitante e stranito — al numero trenta, mi pare. Mi permetti, ho un affare. Ci vediamo stasera?

— No, stasera parto. Addio.

— Eh, Bruno, — gli gridò allora quegli dietro — ricordati di me quando sarai a Tunisi... se mi trovi da fare... ricordati!

Al numero trenta di via Gioberti, Bruno seppe dalla padrona di casa, matura, spettinata e in
ciabatte, che effettivamente Peppino c'era stato; ma che il giorno innanzi era arrivato il suocero e l'aveva immediatamente condotto via.

— Dove?

— Eh, dove; certo nel paese da pecorai donde veniva. M'ha pagato il conticino, togliendomi i rotti, e addio. Non ha voluto nemmeno dormire qui, quel ciociaro. Dire che il sor Foresi è invece un giovane così a modo. Peccato che sia rimasto senza baiocchi.

— Ha perduto, al solito, tutto quello che aveva?

— Eh si, signorino mio, tutto quello che aveva è poco: dite pure tutto quello che ha.

— Come?

— Lei non capite? S'è giocato tutto il suo patrimonio su un mazzo di carte.

La notizia, infatti, fu confermata a Bruno poche ore dopo da Nino Guevarra: il baccarat aveva fatto un miserabile di più. Peppino Foresi era ripartito pel suo paesello manifestando — in uno stato quasi d'intontimento — nuovi propositi di mettersi a lavorare, come un cane anche, da contadino, nel poderetto di sua moglie, unico cantuccio rimasto in piedi della sua fortuna.

***

A Palermo due giorni prima di prendere il piroscafo per Tunisi, ove doveva presentarsi a
occupare il suo posto il primo maggio, Bruno condusse la mamma e la piccola Alba a una giostra aerea a Mondello: una delle prime gare italiane di aereoplani in circuito chiuso.

C'era poca gente e molto vento. I più erano andati pieni di diffidenza e d'incredulità:
affermavano che non è possibile mettersi contro le leggi della natura, che soltanto gli uccelli possono volare, ma che gli asini camminano a quattro piedi. Anche la signora Vittoria guardò con occhi dubbiosi quei tre grossi fusi ad ali spiegate che stavano allineati in attesa del via.

— E tu, Albetta, che ne dici? — domandò Bruno — tu ci credi?

— Io, sì — rispose la ragazzina diventando rossa. Finalmente un orifiamma azzurro sventolò in cima a un'antenna. Era il segnale per dire: «Si vola». La piccola folla, già un po' distratta, si immobilizzò. Un motore tossì scoppiettò, rombò. L'elica del primo aeroplano fu spinta con forza da un meccanico in salopette azzurra, girò, vorticò, lasciando udire il suo frullo attraverso il macinio pistolettante del motore, l'apparecchio si divincolò, si mosse, scivolò balzellando leggero sul terreno piano, si sfrecciò diritto, contro la linea netta dell'orizzonte...

— Ma cammina… fila svelto, ma sul suolo...

Le sue ali hanno sorpassato quella linea netta, tanto esso corre, leggero, leggero, leggero.... Ma no, tutto, anche le ruote l'hanno sorpassata, con una levità irreale, quasi di fumo. La terra si è abbassata sotto di esso, esso ha lasciato la terra.

Bruno si sentì la gola chiusa e gli occhi invasi di lagrime. S'accorse di appoggiare le mani su le spalle sussultanti di Alba, sussultanti come la sera della visita di condoglianze.

— E' bello, Alba! — le disse. Ella alzò gli occhi timidi e rossi di pianto su lui e accennò di sì! E rividero insieme Astolfo sull'Ippogrifo come nella fiaba e nel sogno di un giorno.

IX

Arrivare a Tunisi l'ultima settimana di aprile fu una vera gioia per Bruno Soveria. Prima di
presentarsi al Consolato Generale per prendere servizio, volle godersi la città, nuova e diversa da quante ne aveva fino allora viste, ma già un po' inferiore alla sua attesa. I Suks erano meno ricchi e meno monumentali di quelli intravisti con la fantasia, i minareti delle moschee meno alti e meno splendenti, e gli arabi una folla meno interessante del popolo decorativo ed eroico ch'egli si aspettava.

Trovò un buon alloggio in rue de Portugal, poco discosto dal quartiere detto la «piccola Sicilia» perché in massima parte abitato da emigrati siciliani.

Al consolato generale fu accolto con curiosità dagli applicati, con cordialità dal vice console e con sostenuta bonomia dal vecchio console. Ma il suo lavoro, al quale si accinse con entusiasmo, lo deluse ben presto per la sua aridità prettamente burocratica: registrare nascite e morti, arrivi e partenze di navi, qualche matrimonio, vidimare documenti; e ciò per sei o sette ore al giorno. Degli addetti al consolato uno solo era giovane quasi come lui, Cesare Ricchieri, oriundo piemontese. Era lindo e compito, ma indecifrabile. Conosceva l'arabo abbastanza bene e gli servì da guida e da interprete in molte occasioni.

Le ore libere passavano al Café de Tunis e la sera al Palmarium o, quando sopravvenne l'estate, al Casino, tra il varietà e la rulettina. Andarono anche al Numero 13 e allo Chat Noir popolati di ragazze. Appunto: Ricchieri, al quale Bruno aveva confidato qualche cosa dei suoi trascorsi, gli dimostrò che gli amori difficili sarebbero stati a Tunisi un controsenso.

— L'amore in colonia non può essere che un passatempo materiale come il gioco, che so io, come gli sports. Pel passatempo materiale le più adatte sono le rondinelle dei locali di tolleranza, puliti e riconosciuti dalle autorità. Quando si ha proprio voglia di fare sul serio, si cerca un buon partito e ci si sposa. Ma anche fra quelle ragazze che vanno e vengono e mutano ogni mese, se ne trovano di accettabili...

Fra le accettabili, Bruno ne trovò una che somigliava a Katscha Graberg: una austriaca dai modi assai garbati. S'interessò a lei. Ma, al solito, tratto a esagerare, una sera fece un po' di chiasso per lei: un ebreo, corpulento e anzianotto, che la infastidiva da più giorni, pretese avere su di lei un diritto di priorità che Bruno, ed essa stessa, non vollero riconoscere. L'ebreo afferrò per un braccio la ragazza che cominciò a strillare, Bruno con due pugni sulla faccia e una ginocchiata nel basso ventre mise l'ebreo knock-out. Restarono senza flato anche i presenti, Ricchieri compreso che mezzora dopo disse mogio mogio a Bruno:

— Temo che quella scenata ti dia delle noie.

Infatti il giorno dopo il console generale lo fece chiamare e gli disse, senza preamboli, con viso brusco:

— Senta, se lei torna a far chiasso nei postriboli…

— Ma io...

— Mi lasci dire, che so quel che dico. Se lei ci torna, io sarò costretto a farne rapporto al ministero e a chiedere il suo trasloco in un posto più degno di lei.

Quell'umiliazione non gli lasciò pace per più giorni. E non potere neppure giustificarsi, perché quegli, il suo superiore, non ammetteva replica! Superiore! Perché doveva essergli superiore quel vecchio tentennante, che non lo valeva né pel fisico, né per l'ingegno? Il mondo è così pieno d'ingiustizie e d'anomalie, a guardarlo bene! E su tutte sta, come nei documenti del consolato, il nulla osta di quelli che reggono gli stati e il visto, secondo i pii e i devoti, del Padreterno.

***

Lettera di Bruno a Tommaso Casazza:

Tunisi, 8 settembre 1911

«Caro Tommaso, posso finalmente comunicarti di avere ottenuto qualche cosa per te. Il
commendatore Pesaro, presidente del consiglio di amministrazione del Giornale degli Italiani di qui, mio conoscente, accogliendo la mia preghiera è disposto ad assumerti quale redattore fin dal mese prossimo. Mettiti direttamente in rapporto con lui per intendervi; so anzi che egli, avuto da me il tuo indirizzo, ti scriverà.

« A rivederci, dunque, e auguri

BRUNO».

Risposta di Tommaso:

Roma, 12 settembre 1911

«Carissimo Bruno, sei il mio vero fratello! La mia gratitudine non avrà limiti! Ho ricevuto
infatti stamane la lettera del commendatore Pesaro al quale rispondo accettando. Duecento franchi di stipendio sono pochini; ma poi vedrai tu se non sia il caso di ottenermi qualche aumento. Arriverò a Tunisi col prossimo piroscafo. La mia venuta coincide col maturarsi di grandiosi avvenimenti che tu certo avrai sentito anche costì preannunciare: l'occupazione della Tripolitania da parte dell'Italia. Qui si è in grande ansia; anche i più giovani e i meno accesi fra i socialisti sono favorevoli. Il nostro D'Artagnan, Carlo Quilici, è però fra i più feroci oppositori. Ho visto Nino Guevarra, che m'ha incaricato di dirti che passerà presto da Tunisi per recarsi appunto a Tripoli, inviato speciale d'un quotidiano della capitale.

« Grazie ancora, caro Bruno e a rivederci. Tuo, di cuore

TOMMASO»

Lettera di Bruno alla mamma:

Tunisi, 21 settembre

«Vedi che cosa succede per cotesto tuo rinviare di settimana in settimana la tua venuta
sospiratissima? Adesso son proprio io a pregarti di rimandarla ancora. Da un momento all'altro può scoppiare la guerra con la Turchia e io non so se sarà conveniente per te metterti in viaggio e trovarti poi in Tunisia in giorni poco tranquilli. Non è neppure il caso che io parli di congedo per me, perché ora nessuno me lo darebbe. Ma c'è di buono che ci sbrigheremo subito.

« Non farmi mancare tue nuove. Mi ha molto impressionato la notizia che mi hai comunicato sui parenti di Trapani. Spero che per la zia Carmela sia escluso il pericolo di un cancro e che quel povero zio Giovanni si rimetta dai dissesti, anche perché ci paghi i nostri crediti. Un bacio alla zia e ad Alba. Mille a te dal tuo

BRUNO»

Al Café de Tunis si discuteva animatamente: a un tavolo, delle prime piogge che erano
finalmente arrivate a ristorare la campagna arsa; a un altro della vendemmia che era andata bene; a un altro ancora, sull'ampio marciapiedi, della guerra italo-turca. A questo tavolo prendevano l'aperitivo Bruno, Cesare Bicchieri, Nino Guevarra arrivato da due giorni e già sulle mosse per proseguire per Tripoli, e Tommaso Casazza, ripulito, grassoccio e roseo, trasudante l'incipiente benessere. A loro, malgradito, si aggiunse il signor Danino, ebreo di origine italiana, ma impiegato al consolato di Germania.

Bruno era molto irritato pel contegno del governo francese e per gli umori che correvano a
Tunisi, in seguito all'incidente del Carthage.

— La Francia — esclamava a voce alta — si è comportata in modo antipatico.

Da un tavolo accanto lo ascoltavano due signori ai quali egli volgeva le spalle. Uno di costoro, barbuto, in berretto, aria da colon francese, alzò gli occhi da un giornale, guardò verso Bruno e poi borbottò irritato qualche parola al compagno.

Nino invece ce l'aveva con la Germania e l'Austria, perché lasciavano che una parte della loro stampa inveisse contro la nostra politica alla quale del resto i loro governi avevano pure accordato il placet. Ricchieri, moderatamente, scusava la Francia, il signor Danino la Germania. Solo Casazza non diceva nulla, ma ammiccava sempre a chi parlava per ultimo.

NINO — Di' pure quel che ti pare della Francia, Bruno, ma io non posso soffrire la Germania con quella sua burbanza oltraggiosa...

DANINO — (guardando Tommaso che fa cenni impercettibili di disapprovazione). Ma questi non sono argomenti seri...

NINO — (irato). Serissimi, più di lei! Il mio sentimento è una cosa seria. Tutta la razza tedesca ci tiene in una specie di tutela, di cui noi italiani non abbiamo bisogno. Cosa vuol giudicare e capire lei, bastardo di nazionalità, mezzo italiano e mezzo servo dei tedeschi...

BRUNO — Ma Nino… tu esageri (Ricchieri e Tommaso fanno una faccia angustiata).

DANINO — (Un po' serio, un po' masticando un sorriso) Lei dice cretinerie.

NINO — Ah no! Cretinerie... (e dato di piglio a un bicchiere, lo scaraventa contro Danino che fa cilecca a tempo. Nino balza in piedi fuori di sé per avventarsi, tutti si alzano, il tavolo cade con gran rovinio di vetri, di metalli e di terraglie.

Il parapiglia ha fatto accorrere gente da tutte le parti. Parecchi tunisini, amici di Danino,
prendono in mezzo costui e lo conducono via, mentre Ricchieri e Casazza si adoperano a calmare Nino che vorrebbe correr dietro all'ebreo. Bruno si è eccitato dell'eccitazione dell'amico. Accidentalmente gli accade di urtare col dorso il tavolo vicino, al quale stanno seduti i due signori francesi che hanno poco fa disapprovato le sue parole sulla Francia. Il tavolo traballa e un po' di liquido si versa da un bicchiere sui calzoni del colon barbuto. Distratto ed eccitato, Bruno non se ne scusa.

— Sale tipe d'Italien! — gli brontola dietro il colon.

Bruno ha udito, si rivolge furente e gli urla:

— Sale tipe tu e tutta la tua famiglia!

Ma si sente arrivare in volto una manata. Bruno, mentre si accorge di ricevere uno schiaffo,
vede gli occhi fissi e accesi di questo nemico atroce sorto in un attimo nella sua vita, e la barba e i baffi neri che cingono una bocca tumida e rossa che lo esaspera. Ancora la mano avversaria non si è staccata dalla sua guancia, che egli si avventa con le unghie a quella bocca e a quegli occhi per strapparli. Repentinamente, come se una cappa d'ovatta fosse piombata su lui, i suoi sensi si sono ottusi: da una nebbia leggera emerge la faccia nemica, ch'egli adunghia e colpisce coi pugno, e traspaiono attorno altre figure ondeggianti, mentre ode un vocio confuso, ma soprattutto una voce rauca, la propria voce, che rantola e ruggisce.

La colluttazione è interrotta dall'intervento di molte mani che tirano indietro i due furibondi.
Bruno si dibatte ancora in mezzo a un gruppo di persone che vorrebbero condurlo via. Più tardi si ricorderà di avere visto Ricchieri e Casazza in disparte a parlare piano, contrariati, fra loro, e di avere intravisto su un gruppo di altre facce attonite, costernate, contratte, anche la faccia sardonica di un grosso e alto arabo contornata da un turbante multicolore, su cui si nota un piccolo strappo. Intanto egli grida all'indirizzo dell'avversario, che si rimette in ordine la cravatta sconvolta:

— Ti ritroverò per farti la pelle!

***

Saputo il nome e l'indirizzo del colon: Pierre Rénouard, rue des Malthais 35. Bisogna mandare a sfidarlo.

Ricchieri si era dileguato alla chetichella. Bruno si trovò accanto Nino e alcuni sconosciuti,
divenuti amici perché connazionali. Tommaso rimaneva in disparte, titubante. Un signore serio suggerì:

— Vada dal dottor Costantini: è uno spadaccino, molto stimato in città.

— Costantini chi? — chiese Nino — Maso?

— Maso.

— Ah, noi lo conosciamo, Bruno, ricordi?

— Sì — rispose Bruno ancora convulso — fu mio compagno al circolo universitario. Andiamo. Tu vieni, Tommaso?

E Casazza disse subito di sì e si unì a loro.

In casa di Maso Costantini, giovane oculista e presidente del circolo schermistico, trovarono una folla di arabi che attendevano di essere visitati: occhi cisposi o bendati, facce rassegnate, burnus bianchi e cashabie zigrinate, che a prima vista parevano altrettanti mucchi di stracci sulle sedie.

Appena annunziati, una porta a vetri si spalancò e apparve Costantini, in gabbanella bianca, braccia aperte e riso gioviale.

— Oh chi si vede! Entrate, entrate! Ci voleva la guerra per rivederci. Non hai saputo cercarmi prima d'oggi, Bruno...

Appena messo al corrente dell'avvenuto, si fece serio in faccia.

— Sta bene. Andremo subito io e Guevarra. La scelta delle armi tocca a te che sei l'offeso. Che preferisci?

— La spada. — disse Bruno, risolutamente. — Non voglio fare la burletta.

— Scusa, — obbiettò l'amico. — Anche con la sciabola si può fare sul serio: ricordati di
Cavallotti. E se accetti un mio consiglio, scegli la sciabola anche perché e un arma meno familiare della spada pei francesi. Lascia fare a me. Adesso ti accompagniamo a casa. Farò avvertire io il signor console, che si tratta di affari in cui è impegnato l'onore nazionale. Tu non tornerai in ufficio che a cose fatte; per ora ti devi allenare. Abdul — disse poi al suo infermiere arabo — manda via tutta quella gente. Oggi non faccio più visite.

Quando fu solo nel suo appartamento, Bruno si sentì improvvisamente esausto. Si buttò sul letto, con le tempie martellanti, chiedendosi come mai tutto ciò avvenisse. E giusto a lui, mentre pareva che la cosa grave dovesse passarsi tra Nino e quel Danino. Se fossero stati a sedere a un tavolo più discosto, o se egli avesse fatto un passo a sinistra invece che a destra, non avrebbe urtato il tavolo del francese. Costantini parlava di onore nazionale; ma che c'entrava, se egli aveva ricevuto uno schiaffo? Uno schiaffo. In fondo è una sciocchezza, un piccolo colpo che si può ricevere come dare, senza alterare la personalità di un uomo. Sì, ma averlo ricevuto era atroce. Avrebbe potuto darlo lui, invece, lo schiaffo, e poi afferrare alla barba il nemico e colpirlo sull'altra guancia, e applicargli una ginocchiata nel ventre abbastanza prominente, e sbatacchiarlo contro una sedia e pestarlo poi sulla testa con la bottiglia semivuota dove era stampato Café de Tunis. Bottiglie rotte, scroscio di vetraglia. Bottiglie verdi, gialle, rosse, turchine, bottiglie allineate con capsule multicolori per berretti, come soldatini. L'hotel dello zio Giovanni dove forse in quel momento si trovava la mamma, presso la cognata, che doveva subire l'operazione a una mammella cancrenosa. Forse, mentre la mamma era lì, presso un chirurgo in gabbanella come Maso Costantini, poteva giungerle un dispaccio da Tunisi, annunziante che suo figlio era morto per una puntata di sciabola in gola, come Cavallotti. 

Morire? Già, perché egli poteva anche morire. Non rivedere più la sua mamma, il giardino comune coi Collebrina, la piccola Alba... non ritornare neppure al suo scrittoio del consolato dove c'era quel grosso registro con una macchia d'inchiostro sulla copertina. Che stranezza mostruosa negli avvenimenti, tutti causati da coincidenze inesplicabili! Un gesto in più o in meno, una parola diversa, una frase non detta e tutta la sua vita fino a quel momento avrebbe potuto essere altra... 

Nel pomeriggio Nino e Maso tornarono trionfanti. Tutto era combinato. Avevano incontrato i padrini dell'avversario, un ufficiale francese in ritiro e un altro possidente di terre, coi quali si erano stabilite le modalità del duello. Fra due giorni, in una villa presso Cartagine. 

— Salsiccia, — strepitava Nino — dobbiamo farne salsiccia! 

*** 

Del duello Bruno serbò soltanto qualche sensazione staccata, quasi sonnambolica. 

Malgrado le volontà eroiche e i ricordi manzoniani del principe di Condè, la notte avanti dormì tutt'altro che profondamente. Forse non dormì affatto, e quelli che poi ricordò come sogni erano stati incubi a occhi socchiusi: cavalcate, soprattutto cavalcate e corse in automobili e tempestare di acciai, in cui egli finiva sempre col trovarsi sotto: zoccoli di cavalli stamburanti sul suo petto, ruote scorrenti sul suo ventre, sciabole che gli si conficcavano in gola. 

A Cartagine, una mattinata maledettamente bella: odori di terra umida e d'erba, e zaffate di salso dal mare e un gran sole tepido, quel sole che sveste ogni cosa e canta la gran gioia del mondo e dà l'inconsapevole rimpianto di doverle abbandonare per sempre, le cose belle e le creature felici: il tenero di quell'azzurro, la grazia di quella palma che s'incurva così bene, la fretta industre e commovente di quello scarabeo appallottolatore, che sarebbe un peccato calpestare... 

Molta gente alla villa. Cos'era venuta a fare? Italiani, siciliani i più, perfino operai e pescatori. Uno, con la bocca piena di denti d'oro, volle stringergli a ogni costo la mano, con quella sua manona che — tanti i calli — pareva inguantata di pelle di squadro. E gli disse, con un tremito nella voce che finì in un singhiozzo quasi da bambino: 

— Picchi forte! La vecchia Sicilia eh! eh!... 

Quel singhiozzo se lo sentì ripercuotere in gola anche lui; dovette fare un grande sforzo per non abbracciare stretto stretto quello sconosciuto che sentì d'amare come suo padre, per non piangergli un poco sul petto. Sentì una gran tenerezza per se stesso, per lo schiaffo ricevuto senza colpa, in fondo, poiché senza di quello non avrebbe mai odiato Rénouard, benché ora non gli piacesse neppure (glielo avevan messo di fronte a torso nudo, come avevano fatto a lui stesso; ma lontano, lontano, pareva, e mostrava un gran petto largo e mammelluto coperto di peli esasperanti). 

L'ufficiale in congedo che doveva dirigere il primo assalto aveva l'aria piuttosto del bastoniere di una sala da ballo, tanto era lieve, compito, danzante. «A' vos places messieurs, si vous plaît... attention!... A' vous!...». 

Le sciabole cominciarono a tintinnare come in sala d'armi, ma non come nell'incubo. Quel tinnio, quegli urti, quelle giravolte di lame, facevano quasi un paravento alla faccia di Rénouard, stretta come un nodo da cui schizzavano gli occhi e le labbra grosse e sanguigne fra la barba. Gli spettatori, dopo una gran paternale del bastoniere, cioè del padrino avversario, erano stati costretti a sparpagliarsi, a nascondersi dietro cespugli ed alberi. Ma un momento Bruno scorse il suo uomo dalla mano callosa e dai denti d'oro e gli parve che lo fissasse così malcontento, quasi angosciato, che ne ebbe una grande scossa. 

Allora, invece d'indietreggiare a piccoli passi come aveva fatto sulle prime, avanzò menando tre o quattro gran colpi sulla lunga lama puntata contro di lui. Quella lama, anzi, lunga, lunghissima, tutt'una col braccio, oltre il quale stava la faccia contratta e irosa che lo attraeva e pareva seguisse i suoi stessi moti, quella lama cominciò a dargli una sorda irritazione. Sentiva — e se ne frenava — una voglia matta di afferrarla con la sinistra e strapparla via. Più volte si udì il grido di «Alt!» dato dall'ufficiale o da Maso, che si alternavano alla direzione degli assalti; più volte i medici vennero, con quella loro importanza che gli dava ai nervi, a forbire le lame con cotone imbevuto d'alcool; e più volte Nino o Maso stesso gli si appressarono per gettargli nell'orecchio frasi come: «Un po' più di scherma e meno bastonate, per Dio! Colpi in alto, colpi in alto! — Tiragli un filo di terza e lo quagli! —Bada a coprirti di più». 

Ci fu un momento, però, che sentì arrivarsi un gran rovescione al gomito, per cui l'avambraccio gli formicolò. Maso si buttò in mezzo, furibondo, sciabola in alto. I medici accorsi constatarono che non era stato nulla: la lama avversaria era caduta di piatto senza far sangue. Frattanto Nino, pallidissime, lo guardava abbozzando una smorfia che non riusciva a passare per sorriso; l'ufficiale parlava piano ridacchiando con Rénouard che stringeva sempre più il nodo della sua faccia ormai tutta barba, ove le labbra erano quasi scomparse fra i denti. 

Ma appena di nuovo in guardia quella faccia lontana, là, posata all'estremo della gran linea orizzontale delle due braccia e delle due sciabole, quella faccia lo rese folle dal desiderio di mutarne l'espressione, le linee, i colori, di cancellarla! Via quella punta che la difende, li, a gran colpi. Colpi su colpi, Bruno non se la trovò più fra i due occhi; colpi su colpi avanzò a denti stretti, deciso a sentire nel pugno e nel braccio attraverso il suo ferro la consistenza di quella faccia esecrabile! Fu come nell'incubo, deciso a sentirsi anche tutto addosso, zampe, ruote, sciabole in gola, ma cogliere il segno un momento... 

Si udirono varie grida. 

— Alt! Alt! 

Bruno vide il colon pallidissimo alzare le braccia e lasciarsi cadere di mano la sciabola avvertendo, col senso di una cosa attesa e finalmente finita: 

— Voila! 

Un getto di sangue zampillò dal guanto del francese come se egli stesso lo spremesse col pugno. Bruno, mentre gli astanti se lo passavano esultanti di braccia in braccia, guardava attentamente quel sangue senza sapersi spiegare come tutto fosse lì.

 

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