1/ IV - V - VI
Home Su 1/ I - II - III 1/ IV - V - VI 1/ VII - VIII - IX 1/ X - XI - XII 1/ XIII - XIV - XV 1/ XVI - XVII 2/ I - II - III 2/ IV - V - VI 2/ VII - VIII - IX 2/ X - XI - XII 2/ XIII - XIV - XV

 

Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

IV

Il 1909 portò due dei più grandi avvenimenti della vita di Bruno Soveria: la laurea, con
centodieci su centodieci, e il viaggio a Parigi. La mamma l'aveva promesso e, ai primi di settembre, col consenso mandò anche i fondi che Bruno però provvide a impinguare assicurandosi la collaborazione sul «Corriere Italiano».

Parigi! Il fascino enorme fu dapprima come una serie di vertigini. Ci vollero tre giorni per
abituarsi un poco alle fiumane di persone e di cose dei boulevards. Penò sentendosi buffissimo nell'esprimersi in francese: appena messa fuori una frase si accorgeva subito degli errori di sintassi e di pronunzia. Era mortificato tra tutta quella musica di parole, cinguettii e gorgheggi d'argento, ove la sua voce stonava, come quella d'un pappagallo.

Camillo Antona Traversi, pel quale aveva una lettera di presentazione, lo accolse al suo
quartier generale del Cafè Napolitain, con la sua prodiga cordialità da vecchio fanciullo. E lo
presentò e raccomandò a sua volta a Mario Duliani, che gli trovò alloggio stabile da giovanotto all'Hotel des Arts e una pensione dignitosa ed economica, senza impegno fisso pei pasti, in Rue de Courcelles.

Come tutto gli era familiare! Quei nomi, quei monumenti, quei ritrovi, e certe frasi, certi
occhi, certe mossette di donne. Era come se ritrovasse persone e luoghi tra cui fosse già vissuto: e infatti ve lo avevano già fatto vivere Balzac, Hugo, Dumas, Maupassant. Il piccolo Picpus! Saint Dénis! la Rue du Temple! Quanti ricordi che gonfiavano il cuore al contatto ideale con figure e creature indimenticabili e amate! Era possibile passare fra tanta suggestione di ricordi e di sensazioni senza una grande avventura, senza un romanzo da vivervi?

Era provvisto anche di una lettera di presentazione per un suo concittadino, un
commerciante in derrate, che viveva tra Parigi e l'Italia. Il concittadino in terra straniera poteva essere utile, per lo meno per dargli ogni tanto qualche ora di quella intimità familiare che la baraonda della metropoli straniera faceva desiderare. Sapeva che era un uomo ancora giovane e denaroso. Andò a cercarlo, in rue Ménilmontant, ove stava, una mattina sulle undici.

Venne ad aprirgli la porta una giovane donna, piccolina e rotondetta, viso bianco e roseo
come se finto, grandi capelli castani riccioluti a raggiera. Si guardarono un momento in silenzio ed essa gli sorrise subito, leggendogli in faccia l'effetto gradevole che gli aveva prodotto e che lo rendeva timido e muto.

— Monsieur?

— Pardon, madame. Monsieur Catalano est-il chez lui?

La frase letteraria fece sorridere di nuovo la signora. Rispose che il signor Catalano era
fuori, molto fuori… in Italia. Ma per carità, che entrasse, che essa non poteva permettere che un signore, certo un compatriota, forse un amico del padrone di casa, restasse sulla porta. Confuso, ma incoraggiandosi a tanta cordialità, entrò, mostrò la lettera di presentazione, spiegò — impappinandosi un poco e con la lingua più che mai incespicante nella pronuncia — chi fosse e cosa venisse a fare.

— Mais oui: vous ètes le bienvenu! — esclamò la signora, cordialissima, dopo averlo fatto
accomodare in un salotto microscopico, ma ben messo. E spiegò che Catalano era partito appena da quattro giorni — quel dommage! — giusto forse il giorno che il signore... signor? — Soverià, bien! — arrivava; che sarebbe stato assente almeno un mese, perché doveva contrattare e poi spedire una partita di olii d'oliva dalla Sicilia e una di legumi in iscatola da Napoli. Ma che il signore era ugualmente il benvenuto e che lei — Annie Lélières — avrebbe fatto gli onori di casa.

Bruno si sentiva ormai completamente a suo agio, e dopo tre quarti d'ora era sempre lì a
discorrere di se e dei suoi propositi giornalistici, ma più ad ascoltare l'incanto di quella voce e di quell'accento leggiadramente volubile che toccava con uguale grazia qualunque argomento: giornalismo, letteratura, sport, viaggi, affari... Alla fine però capì ch'era da persona bene educata levare le ancore.

— Domani, allora, — propose la signora — avrò il piacere di accompagnarla io a vedere
qualche cosa di Parigi. Vuole che andiamo al Jardin des Plantes?

Bruno acconsentì con un entusiasmo così meridionale, che la signora (o signorina? come
chiamarla se non si era presentata come madame Catalano?) sorrise ancora una volta.

Il giorno dopo, infatti, nel pomeriggio, andarono al Jardin des Plantes. Ma le piante e gli
animali servirono appena da pretesto alla loro conversazione. Annie Lélières ebbe agio di spiegare che essa non era ancora la moglie di Catalano, il quale l'aveva conosciuta un anno prima a Dijon ove bazzicava per affari di vini, e — da buon siciliano — le aveva subito offerto di venirsene via con lui che l'avrebbe sposata. Sennonché il tempo passava e di nozze non s'era più parlato; pareva anzi, a sentire certe male lingue, che il buon Catalano fosse già ammogliato in Italia con una donna di dieci armi più vecchia di lui che già ne aveva quaranta dalla sua, ma ricca da far le spese di tutto, anche dell'appartamentino in me Ménilmontant e dei vestitini e dei cappellini che Annie indossava con tanto buon gusto.

— Mais enfin, — confessò candidamente la graziosa donna — ça ne me fait rien. Il est un
bon diable et ne me quittera pas, parce que je suis devenue nécessaire a sa vie. Je ne sais pas
pourquoi...

Lo guardò serena, così dicendo, e sorrise.

***

Alla pensione ove Mario Duliani lo aveva presentato, in via de Courcelles, Bruno non
faceva quasi mai più di un pasto al giorno. Era una modesta pensione internazionale, molto seria e per bene, come teneva a far notare la proprietaria, vecchia signora vedova d'un cancelliere di Tribunale venuta dalla provincia. In quei giorni la frequentavano un altro italiano, Guido Berti, — inventore, diceva lui, d'un motore d'aeroplano — un inglese sessantenne, una signora svizzera, due francesi e un maturo signore e una signorina tedeschi. Bruno non ci sarebbe rimasto oltre il primo giorno, mal tollerando l'ambiente troppo monotono e .quietamente borghese, se non fosse stato per Berti, che gli aveva misteriosamente fatto intravedere passatempi piacevolissimi.

Chi chiacchierava più di tutti era sempre la signorina tedesca. A Bruno parve subito
presuntuosa e antipatica. Con un gran cappellone di paglia inchiodato in capo, sotto il quale
mostrava soltanto un musetto umido da fama, la tedeschina alta e smilza durante i pasti perdeva più tempo a discutere che a mangiare.

— Ecuté mossiù... Ecuté matam... — a dritta e a manca, più alta di due toni sul diapason
generale, la sua vocetta acuta dalla pronunzia aspramente alemanna s'imponeva o si faceva
ascoltare. Una vivacità poco nordica accendeva le sue parole smozzicate e veloci e il musetto
mordente che s'intravedeva sotto le falde del gran cappello sgarbato. Ma per quanto Bruno non la potesse patire, le riconosceva in cuor suo un'intelligenza vera che in ogni argomento sapeva portar un'idea audace se pure non profonda, un'aggressività bizzarra, se pure non convincente.

Guido Berti le faceva una corte spietata, ma evidentemente piena di rancori. L'ascoltava
senza guardarla, lisciandosi i baffi e sogghignando e buttando giù di tanto in tanto, e a sproposito, qualche fraserella irrispettosa ed ironica, alla quale ella di solito poneva il fermo con un gesto della mano e un'occhiata di traverso, sferzandolo:

— Quant a vu, mossiù, ne comprenè rien.

Involontariamente, Bruno finì col divertircisi. Quella donnetta, quasi una collegiale, che
metteva a posto i dongiovannesimi grossolani di un inventore di motori, era amena. Berti gli spiegò a quattr'occhi che la signorina, una volta, aveva mostrato di corrispondere alle sue sollecitudini, con la proposta d'incontrarsi un pomeriggio nel Parc Monceau; ma avendole egli offerto, tout court di trovarsi tête-à-tête in un albergo, ella gli aveva voltato le spalle senza mai più fargli buon viso.

— Uhm... ma fisicamente non mi pare che valga la pena, — osservò Bruno.

— Eh, caro mio, s'inganna! — ribatté l'altro, da conoscitore. — E' una falsa magra.

***

Un bigliettino gentile e lievemente profumato di chypre:

«Monsieur Soveria — voulez vous venir ce soir, sans compliments et sans veston, diner
chez moi? Ca vous donnera un peu de cette intimité qui vous regrettez à Paris. Bien à vous —
Annie Léliières».

Bruno vi andò, scortato da un gran mazzo di garofani rossi.

— Oh! Oh! — esclamò allarmata la piccola donna leggiadra — sapete che cosa vuol dire
garofano rosso nel linguaggio dei fiori?

— No, — rispose Bruno, sorridendo come lei, ma interdetto.

— Bene! Allora posso accettarli senza preoccupazione — concluse Annie ridendo.

Chi rimase però preoccupato quanto incuriosito, fu lui, Bruno. E non mancò di chiederglielo
più volte durante il pranzo; e lei sempre con quella stessa risata a cambiare discorso. Era
attraentissima nella toilette bianca e nera semplice, ornata soltanto sulla scollatura di una grossa pietra acquamarina incastonata in argento vecchio. La raggiera color di bronzo dei capelli soffici e riccioluti, odoranti leggermente di chypre come il bigliettino, dava a Bruno la tentazione di tuffarvi le dita.

Ma finalmente al dessert, dopo una mezza bottiglia di gaio Saint Marceaux, essa si arrese. I
garofani rossi volevano dire «amore ardente».

— Allora è vero! — confermò Bruno, divenuto audace — E' una confessione involontaria
che io vi ho fatto.

— Nientemeno! Siete poi sicuro che sia anche «ardente»?

Egli, attraverso la piccola tavola, le strinse una mano ed ella gli rispose con un colpetto sulle
dita, ma perdendo un po' del rosso delle sue gote.

Quando la cameriera normanna. che li aveva serviti leggera e discreta, sempre a occhi bassi,
ebbe portato anche il caffè, domandò alla signora il permesso di ritirarsi; Annie, rispondendole che era libera, lanciò uno sguardo malizioso dentro gli occhi ansiosamente sbarrati di Bruno. Chiuso appena l'uscio a le spalle della donna, essi si tesero simultaneamente le braccia, si strinsero e stettero a lungo bocca su bocca, senza parlare. Ella era tutta soffice, dolce e odorosa come i suoi capelli.

— Come sei cara! Come sei cara! — le disse egli. E poté finalmente carezzarle il capo, con
una gioia indicibile che dalle sue palme si propagò a tutta la persona. Baciò ancora in silenzio, finché fece un tentativo più audace.

Ma lei lo respinse, con ferma dolcezza:

— Non, mon petit, non. Pas ici. Je ne veux pas. Ici nous sommes chez monsieur Catalano.

Egli desisté. Il signor Catalano, infatti, li guardava da un ritratto appeso alla parete di fronte.
Faccia pentagonale, con un porro peloso ad un angolo della bocca, che allungava buffamente il baffo sinistro. Faccia che diceva: «Gli affari così così. Bisogna ogni tanto dare qualche
soddisfazione a mia moglie che paga. Ma Annie mi vuol bene e, dopo tutto, sa che io sono
necessario alla sua vita».

Uscirono insieme. Ella volle accompagnarlo alla prossima stazione della metropolitana. Si
lasciarono con una promessa e con un bacio, sulla gradinata, in mezzo ai passanti frettolosi che non badarono neppure alla lunghezza e alla intensità di quel saluto. Poi essa ritornò indietro, salutando ancora con un sorriso e con la mano, nel passare sotto un fanale che la illuminò fuggevolmente; e poi digradò, sparì nell'ombra.

Bruno improvvisamente sentì il bisogno di richiamarla come se dovesse perderla per
sempre, non rivederla mai più. Si convinse che un altro uomo l'attendeva, che ella andava a
cercarlo. Poi si compiacque d'avere una donna per sé nella città immensa e sconosciuta; provò per la prima volta uno strano sentimento: quello di trovarsi bene nel mondo, l'orgoglio della propria personalità, la soddisfazione di vivere, anche a confronto dei più grandi e dei più potenti.

Così, nel rombo frenetico del treno sotterraneo che lo portava, stette a guardare i lumi che
gli passavano davanti e figure che apparivano e sparivano sulle banchine. E, senza sapersene
spiegare il richiamo, ricordò le orme lasciate sulla sabbia della spiaggia dai piedi nudi di Flavia e delle bimbe, cinque anni innanzi.

La mattina dopo, Annie mantenne la promessa voluttuosa. Venne a trovarlo nella sua camera
all'Hotel des Arts, ove egli l'attendeva ancora insonne.

***

Fraulein Katscha Graberg, la tedeschina della pensione, nelle discussioni finiva spesso con
lo scivolare nel tema amoroso, specialmente quando si assentava il suo compagno, che ella
chiamava il suo tutore, mentre la svizzera — brutta, matura e viziosa — sosteneva piano
subdolamente con tutti che era l'amante pagatore. Il signor Hermann andava sovente a Compiègne, ove era socio in un impresa vinicola.

Una sera l'attenzione di Bruno, clic di solito era distratta dal pensiero calmo e dolce di
Annie, tu attratta da una violenta filippica della Graberg:

— L'onestà delle donne, a sentire voi uomini, sta tutta nel corpo. E' il vostro egoismo a
farvi sostenere una mostruosità simile. Di un uomo che della propria persona faccia quello che crede nei riguardi di più donne, non si dice mai che sia disonesto. La disonestà maschile ha una base quasi esclusivamente economica. Ma una donna, per voi, è disonesta quando fa della propria persona quel che agli uomini è lecito. La donna, così, non solo è costretta dalla natura a fare una cosa in più di voi uomini: partorirvi i figli, ma si vede affibbiato un motivo di disonestà in più. E' un'assurdità tutta maschile, tiranna e ridicola nello stesso tempo.

E malgrado stentasse a esprimersi nella lingua troppo dolce e musicale, vibrava di tanto
calore nella voce acuta, che Bruno restò a fissarla, dimenticando di mangiare, con la forchetta
sospesa sul piatto. L'antagonista della signorina, uno stanco signore tolosano avventizio in un
ministero, s'era ammutolito chiudendo gli occhi sotto quel fuoco d'artifizio di paradossi. E la
Graberg, vedendosi guardata con attenzione dal commensale che aveva fin allora ostentato
indifferenza per lei, gli si rivolse sorridente, accesa in volto dall'eccitazione, grata del muto consenso.

Il giorno dopo, Bruno si presentò alla pensione, come non aveva quasi mai fatto, pel pasto
del mezzodì. Ma era troppo presto e sedé a tavola che non c'era ancora nessuno. Ripensò alle parole che gli aveva detto al mattino Annie, quando egli le aveva parlato della tedesca e riferiti i suoi audaci epifonemi: «Oh! oh! c'est une femme d'esprit. Quel dommage, un esprit allemand! prends garde, mon petit, tu va en faire une passion».

— Una passione! — aveva ribattuto lui — Ohibò! con una donna così sgraziata e così mal
vestita? E poi, è anche brutta...

Arrivarono, l'uno dopo l'altro, i pensionanti: i due francesi, l'inglese, l'amico Guido —
magnifici baffi biondastri alla Guglielmo, che a ogni pelo pareva rampinassero un cuore femminile — la svizzera che aveva l'aria di concedersi a ogni stretta di mano. Arrivò anche la cameriera, la gaia Mariette, portando alta fra le mani, religiosamente come un incensiere, la zuppiera fumante. A ogni aprir di porta, Bruno si voltava a guardare con un lieve trasalimento, una impazienza inesplicabile.

Ultima, arrivò anche la tedesca, sola. Aveva lasciato in sala il suo cappello, stavolta, e
appariva tutta giovanilmente nuova, quasi elegante, mostrando la testina bionda, arguta e vivace negli occhi luminosi. Sedé, salutando tutti, al solito posto di fronte a Bruno, pel quale ebbe un sorriso di compiacimento particolare.

Egli si domandò lietamente stupito:

— Ma allora è bella?

Una passione? Ohibò! E poi, c'era già Annie così graziosa e riposante. Oh, certo Annie non
sarebbe mai stata per lui nulla di drammatico. Bisognava, però, divertirsi un poco anche con costei. Fino a ieri Nino Guevarra gli aveva mandato da Firenze una di quelle sue lettere che finivano invariabilmente con l'imperativo: «Godi!» Ma anche quei grandi e luminosi occhi azzurri che ora si alzavano spesso su lui, e quel riso umido, erano un godimento già per se stessi. Stare in guardia, però: prends garde!

Quel giorno la conversazione fu più animata dei solito e Bruno vi partecipò con brio.
Fraulein Graberg si affannava a dimostrare che le donne di tutto il mondo si equivalgono, che sono tutte buone o tutte cattive senza distinzione di razza.

— Pardon. signorina. — ribatté Bruno — Tra le donne del mio paese avviene molto di rado,
per esempio, il fallo amoroso per calcolo o per semplice istinto. Esse possono magari amare, come le donne tedesche, un uomo per quindici giorni; ma in quei quindici giorni saranno capaci di commettere qualunque pazzia per l'uomo amato.

— Chi vi dice, signore, che anche una tedesca non ne sia capace? Soltanto, noi conosciamo
l'uomo meglio delle donne del vostro paese, sappiamo quanto poco valga e ci lasciamo meno
facilmente prendere da cotesta schiavitù sentimentale che voi esaltate.

— Io preferisco le donne schiave del sentimento alle signorine omnibus e magari soltanto
taxi.

Era troppo forte. La svizzera sbuffò a ridere dietro il tovagliolo; Berti mugolò approvando
con la bocca piena e l'inglese senza alzar gli occhi borbottò:

— Shoking!

La signorina Graberg tacque un momento interdetta. Poi mormorò, spazzando con le dita
qualche briciola dalla tovaglia:

— In questo senso… si... avete ragione.

Ma si risollevò, contro la disapprovazione generale, per esclamare, guardando tutti in faccia
e gestendo minacciosamente:

— Non vi meravigliate, signori, se una fanciulla come me osa parlare di certe cose che non
stanno bene, forse, neppure in bocca ad una donna maritata. Ma io non ho conosciuto mia madre, ho sofferto molto, mi sono dovuta educare da me e per necessità ho meditato su tante cose ignorate di solito dalle ragazze.

Ma i visi dell'inglese. della svizzera, di Berti e del tolosano si chiusero, inesorabili.

Si parlò d'altro ed essa restò silenziosa benché, per darsi un'aria, cercasse mostrarsi ilare
ridendo per nulla. Bruno era rimasto male, e adesso avrebbe voluto insultare tutta quella gente per difenderla.

Finita la colazione, le si appressò e le disse piano:

— Oggi siete molto più carina dei giorni scorsi.

— Davvero? — rise lei clamorosamente.

— Non venite più a tavola con quel vostro cappellaccio odioso: dovreste mostrare sempre
così i capelli, che sono bellissimi.

Ella lo guardò accennando una risata e arrossì un poco, con le narici frementi.

— Il signore vuoi farvi da confessore? — le domandò dall'altro capo della tavola la mordace
signora svizzera.

— No: egli dice delle cose assai gentili.

— Era un pezzo che non ne sentivate? — rincarò quella, spietata.

— Ciò è affar mio. — rispose lei, ridendo male — Ma io trovo che il signore è la persona più simpatica qui dentro. Bonseiur matame, bonsciur messiù. 

E se ne andò, dopo aver stretto la mano al solo Bruno. 

— Costei — le sibilò dietro la svizzera — deve avere una bella carriera. 

Bruno masticò la sigaretta per non rispondere un'insolenza. Si congedò dopo poco freddamente. Dalla sala sentì che i commensali rimasti ridevano. 

*** 

Una mattina, Annie s'accorse che Bruno era distratto e poco disposto all'amore. 

— Tu mi nascondi qualche cosa, mon petit. 

— No. 

— Io temo di capire chi c'è qui e qui — e gli batté leggermente sulla fronte e sul cuore. 

— Ma no... 

— Mais oui. Non ti basto io? Non riesco abbastanza a farti felice? Già, capisco... tu hai una fantasia troppo viva: e così cerchi le cose complicate. Tutto quello che è semplice non ti attrae, ed hai torto. C'è, per ora, un po' di Germania con le sue Valchirie che galoppano nel tuo cervello. 

— Nemmeno per sogno. Come puoi supporre una cosa simile? 

— E' facilissimo: non me ne hai più parlato... 

Infatti. Preferiva tenersela tutta per sé, quell'irrequietezza interiore che cominciava a turbarlo. 

Dopo i suoi primi articoli apparsi sul «Corriere italiano» i giornalisti compatrioti che aveva conosciuto, lo stesso ambasciatore, incontrato una volta a una conferenza, lo avevano complimentato. Vi si era messo da prima con entusiasmo; ma ora l'irrequietezza gl'impediva di concentrarsi nel lavoro. 

Due o tre giorni dopo la discussione movimentata, la signorina Graberg, fatta colazione, s'indugiava a studiare la pianta di Parigi. Bruno le venne dietro e, curvo sulle sue spalle, finse guardare attentamente anche lui. Come gli altri parlavano fra loro, egli pose un dito sulla carta nel punto ove era segnato il parco Monceau e sussurrò fra i capelli della fanciulla: 

— Volete venirci oggi alle quattro? 

— No — rispose lei con semplicità — oggi non son libera. Domani. 

— Domani alle quattro? 

— Sì. 

Egli andò all'appuntamento un quarto d'ora prima. Stette dinanzi al cancello del parco fumando nervosamente. Che cosa si sarebbero detto? Certo bisognava sorvegliarsi. Si trattava di una donna scaltra. 

Alle quattro precise, vide emergere dalla scala sotterranea del métro il gran cappellaccio sgarbato, la figurina alta e sottile. Ebbe un tuffo nel cuore, inatteso, di cui rimase contrariato. Ella venne difilata verso di lui e gli strinse la mano, rossa in volto, con un semplice «bonsieur». Poi propose: 

— Andiamo in un posto poco frequentato... laggiù. sotto quegli alberi. 

Vi andarono. Sedettero. C'era un po' di nebbia che allontanava le persone e le cose, e attutiva i suoni. I primi fiati d'autunno spiccavano le foglie secche dagl'ippocastani. 

— Eccomi qui, dunque: — cominciò Katscha — che cosa volevate dirmi? 

— Non lo immaginate? 

— Voi resterete molto tempo a Parigi? 

— Due, tre mesi ancora. Chissà? Ci resterò finché vorrete voi. 

— No, no: ripartirete quando le necessità della vostra vita ve lo imporranno. 

Bruno non seppe rispondere. Dopo un momento ella aggiunse un po' tristemente: 

— Dimenticherete questa piccola Katscha? 

Egli non sentiva nessun calore in sé. Gli parve che il colloquio cominciasse banale. Bisognava mostrarsi appassionato, tentare qualche audacia. 

— Perché dovrei dimenticarvi? Se voi vorrete, non vi dimenticherò mai. 

— Parole… so che si dice sempre così. So qual'è il vostro scopo e che cosa volete da me... 

No, egli invece non lo sapeva chiaramente, non avrebbe saputo dirlo. Ma gli spiacque che ella lo prevenisse, e d'altro canto temette menomarsi a protestare che egli non desiderasse quel che lei pensava. 

— Io non sono forse quella che voi vi aspettavate; — aggiunse Katscha — mi avete vista ridere. Ma io sono triste. Se poteste guardare in fondo all'anima mia, forse ne avreste pena. Ho sofferto, soffro… ma non so spiegarne la ragione neppure a me stessa. E' come un presentimento da quando cominciai a capire. Una cosa nera, non so, una nuvola nera rimasta ferma e impigliata intorno al sole. Coi miei amici, amici nel senso puro, non parliamo che di cose tristi. Io sono stata la consolatrice di parecchi; ma consolando ho finito con l'assorbire nell'animo la tristezza altrui per ricambiarla inconsapevolmente con la mia gioiosità, con la mia semplicità primitiva. 

Ella parlava con voce piana e velata, con occhi diventati improvvisamente lucidi di pianto. Bruno la trovava diversa dal solito, ma non sapeva che fare. Una cosa era certa: che egli non era venuto lì per questo. Avanzò una mano per stringere quella di lei inguantata, che penzolava inerte. 

— Senza guanto. — le disse — Voglio sentire la vostra carne viva. 

Fraulein Graberg non resisté: impallidendo un poco a quelle parole, si tolse lentamente il guanto e gli strinse la mano con la sua mano nuda e calda. Il contatto la fece impallidire maggiormente. Bruno credé di dover domandare qualche cosa di più. 

— Dammi la tua bocca — le sussurrò avanzando il viso. Ella, pallidissima, lo baciò senza parlare; ma fu un bacio umido e acre, coi denti, simile piuttosto a un morso. 

— Che volete da me? — gli domandò ancora. 

— Te! — rispose Bruno. 

Ma il suo disagio continuava: non era neppure questa la via per intendersi. E quella nebbiolina attorno, e quelle farfalle d'oro antico che volteggiavano lente lente staccandosi dai rami e quel sole fievole che annegava a poco a poco dietro gli alberi, niente era propizio. Bruno vide indietreggiare e confondersi i fusti nerastri, i sedili vicini con le persone che l'occupavano, tre bimbi fra i quali uno vestito di rosso, che rincorrevano una grossa palla saltellante, di cui i tonfi digradanti giungevano all'orecchio di lui ogni volta che il rimbalzo l'aveva portata in alto: e quei tonfi, tonfi, tonfi erano la sola voce del mondo. 

Poi udì che Katscha diceva: 

— No, non sento passione in voi: siete freddo, siete sarcastico in fondo allo sguardo. Non mi comprendete. Sono per voi una delle tante donne che servono per soddisfare un capriccio. E quel che è strano, ve io confesso, è che ciò non mi allontana da voi come mi ha allontanata da altri uomini che mi chiedevano lo stesso. 

Restarono ancora a parlare, finché la sera non li obbligò ad alzarsi. Fissarono un nuovo appuntamento ed uscirono insieme. Ma sentivano entrambi di essersi reciprocamente ingannati.

Stazione di S. Lazaro, ore quattordici. Si ritrovarono davanti allo sportello dei biglietti; poi corsero insieme, ridendo, a prendere il treno che già si muoveva. 

Un'ora di viaggio monotono in compagnia di alcuni provinciali in vacanza, e giunsero a Saint Germain. 

Nella piazza, uscendo, furono trattenuti un momento da uno spettacolo sgradevole: un rullo compressore adibito a lavori stradali aveva schiacciato un cane. Se l'era lasciato dietro, informe e spiaccicato, stampa di peli contornata di sangue e di viscere in mezzo allo sterrato. Torsero gli occhi con pietà disgusto e passarono oltre. 

— Che orrore! — fremé Katscha — Da un minuto all'altro una creatura viva può essere travolta così! 

La foresta era lì, di fronte alla stazione, e fiammeggiava di giallo e di rosso ancora con qualche picchiettatura, qualche venatura verde. I fruscii che vi metteva il vento a tratti parevano crepitii di fuoco. I tronchi diritti, tra i quali essi si addentrarono, radi i più prossimi, man mano infittivano e si facevano più smilzi, assiepandosi lontano nell'inganno della prospettiva. Su di essi si sentiva sempre più correre il vento, con brividi scroscianti. Anche i loro passi crepitavano sulle foglie secche che tappezzavano la terra indurita dei sentieri. 

Katscha condusse Bruno oltre quei viottoli, in una breve radura saettata dal sole. Ed egli, seguendola taciturno, si fissò a guardare le sue scarpette dal tacco basso, che s'imprimevano nella terra asciutta, lasciandovi un solco che appena il piede se n'era staccato, si colmava a metà pel precipitare dei granelli dagli orli, come una volta aveva visto sulle piccole dune sotto i piedi spietati di Flavia. 

Di nuovo, in pochi giorni, lo stesso ricordo, lo stesso pensiero! Cos'era questa orma d'un'orma nel suo cervello? Si domandò se tutte quelle donne che passavano così nella sua vita non avessero qualcosa in comune, non calpestassero un po' anche le sue carni e la sua anima. Tra i richiami dei pettirossi, vicini, lontani, sentì la voce di Katscha che parlava, parlava. Ma egli non ne afferrò che una frase: 

— ... e così mi sento diventare bambina. Sedettero sull'erba recente, a pie' d'un ontano contorto e cavo, ove le civette avevan fatto nido. Katscha si tolse il cappello e, aspirando beatamente l'aria dalle narici dilatate, con un moto del capo cacciò dalla fronte alcune ciocche irrequiete della sua chioma spettinata. 

— Come mi sento felice! — esclamò — E voi? 

— Anch'io. — Ed egli non seppe dire altro: gli dava fastidio la propria voce. 

— Se potessi — continuò la giovinetta — vivere sempre qui, in un luogo solitario, sola o con un compagno, sarebbe forse la felicità. Ma di mia volontà non saprei. Sento che il ricordo della città, di quell'altra vita, prima o poi mi riprenderebbe e non potrei rinunziarvi per sempre. Bisognerebbe che le città non esistessero, che gli uomini non esistessero, o che io non li avessi mai conosciuti. Essi mi hanno fatto un gran male. Quanto sarebbe più bello il mondo se gli uomini potessero vivervi disseminati, a rare coppie, ignote l'una all'altra, senza ritrovarsi e riassembrarsi mai! Tutto allora ci basterebbe, tutto il mondo ci sembrerebbe nostro regno. 

Bruno l'ascoltava, ora, e la guardava trasognato. Ella riusciva ad evocare alla sua fantasia visioni di un mondo che egli stesso aveva confusamente desiderato e sognato anni prima. 

— Avete letto Goethe? — gorgheggiava ancora Katscha. — Io sento ora di chiamarmi Mignon. Voi mi piacete perché siete nato nel paese che ella sognava. Ah! ah! ah! Non vi aspettate, però, di vedermi sempre così. Non saprei, non potrei. Ho bisogno ogni tanto di mentire. Però, ve lo giuro, mentisco quando rido. 

Egli allora parlò, sdegnandosi di quel che avveniva fra loro in confronto di quel che pensava. E man mano che le parole uscivano dalla sua bocca, si sorprendeva del loro suono: si ascoltava con crescente stupore. 

— Voi non mentite mai o mentite sempre. Siete una creatura malata o malsanamente cresciuta, e io non dovrei prendervi sul serio, perché vi so incapace di affetti profondi. Quando io partirò, qualunque cosa sia accaduta fra noi, voi incontrerete altri uomini e parlerete con loro come oggi con me. Voi siete infelice perché non sapete, forse non potete amare, e quella che voi chiamate tristezza in fondo al vostro cuore è tutt'altro, è una irrequietezza senza nome che non sa dove posarsi. 

Si ascoltava con crescente stupore: perché parlava così? Le parole che egli veniva profferendo con tono sarcastico erano dette a caso, tanto per provocare un urto, per forzare un po' la situazione tuttavia indecisa per entrambi. Ma Bruno le sentiva belle e si compiaceva di profferirle. 

Ella si ribellò. 

— No, non è vero, voi non m'intendete. Voi parlate in tal guisa perché nessuna passione è nel vostro cuore per me. Voi siete venuto a me senza amarmi, con quel vostro sarcasmo odioso. Siete detestabile! 

Bruno scosse la testa con dolcezza, trattenendola, poiché ella accennava ad alzarsi e fuggir via, stranamente eccitata tutt'a un tratto. 

— No, cattiva… cattiva… voi non mi capite! 

Katscha gli piantò in faccia due occhi dilatati e gonfi di lagrime e proruppe in un grido acuto:

— Ah! je t'aime! — e gli buttò le braccia al collo, stringendolo a sé forsennatamente. 

Egli l'abbracciò forte; le loro bocche si unirono nello stesso bacio acre e umido, simile a un morso, della prima volta. Si unirono a lungo, premendosi, bevendosi il respiro; finché tremando, sussultando, stravolgendo gli occhi, la fanciulla ansò come una folle: 

— Prendetemi!... prendetemi!... una volta sola, ve ne supplico, una volta sola!... Che io provi l'amore dell'uomo una volta sola !… 

*** 

Quando ritornarono, Bruno — tenendola per il braccio — si sentiva leggero e volante come per un'ebbrezza di champagne. E guardava a uno a uno i passanti con aria di sfida, quasi che gli dovessero leggere in faccia l'avvenimento che lo faceva sì fiero. 

La sera, alla pensione, Katscha fu gaia e rise spesso come una pazza. Egli sparò ogni sorta di paradossi. Sotto la tavola i loro piedi si cercavano. Un momento egli incontrò quelli della signora svizzera che gli stava vicina, e gliene chiese scusa a voce alta. 

— Si diverta. — rispose la signora tagliente. Katscha scoppiò a ridere tra lo scandalo generale. 

La mattina dopo tornò il signor Hermann, il tutore, e per tutto quel giorno e per altri ancora Bruno e Katscha non poterono vedersi fuori della pensione. Egli notò che dinanzi al sobrio compagno ella assumeva un contegno più serio e deferente. 

Ma bisognava vedersi. Vedersi! Era lei, Katscha, che lo voleva a qualunque costo. 

— Verrò a trovarti, quando potrò sottrarmi alla vigilanza del mio tutore che mi vorrebbe sempre con sé. Dovunque tu vorrai. Ma bisogna fissare un orario approssimativo e attendermi. Vuoi oggi fra le quindici e le diciotto? Mi aspetterai all'albergo, da te? 

— Ma Katscha, in quell'albergo... di giorno... una ragazza come te! Non mi piace. 

— Che importa? Mi compenserai facendomi felice. 

Eh, non soltanto per Katscha Bruno cercava evitarlo, ma anche perché già Annie aveva fatto quella strada. Benché la sua piccola amica avesse diradato le visite all'albergo, dopo notata la freddezza di Bruno, veniva ogni tanto ancora a tentare di renderlo gaio. Per fortuna gli orari erano diversi. 

Katscha imparò la strada anche lei; ma capitò qualche volta all'improvviso, la mattina, quando sapeva che Bruno restava a crogiolarsi nel letto con l'avanzare della stagione fredda. 

Un giorno, dopo la frenesia degli amplessi che la rendevano, come di solito, pazza, Katscha giaceva accanto a lui, muta, gli occhi chiusi. 

— Che hai? — le chiese Bruno finalmente. 

— Voi non avete nessuna stima di me a quanto pare? — domandò essa a sua volta, aggressiva. 

— Che cosa te lo fa supporre? 

— Lo sento. Io vi sembro diversa, probabilmente, da tutte le donne che avete conosciuto prima di me. E ciò mi irrita. Non so se più contro di voi o contro me stessa. 

— Ma no... 

— Oh, non sono una stupida. 

Effettivamente egli era rimasto più volte sgomento dei suoi eccessi che sapevano di pervertimento, inconciliabili con la verginità che aveva trovato nelle sue carni quasi acerbe di ventenne. Ed ella raccontò un particolare del suo passato. Dopo la morte della madre, otto anni innanzi, era stata messa in collegio dal tutore, uno dei collegi più rinomati di Berlino. Non era ancora adolescente quando alcune compagne, maggiori in età di lei, le insegnarono molte cose secrete che non sapeva, le diedero a leggere certi libri, e le mostrarono stampe e fotografie che operarono un gran turbamento nella sua fantasia. Si nascosero spesso con lei nel parco, nelle latrine, vennero a trovarla nel letto la notte, quando le sorveglianti dormivano, e così i suoi istinti si destarono, si acuirono atrocemente. 

— Pensate che io sia molto colpevole? 

Bruno sentì la necessità di dirle qualche cosa per acquietarla. E le sussurrò all'orecchio stringendola forte: 

— Se è a ciò che io debbo la felicità di averti fatta più presto mia, te ne assolvo, Katscha, e bacio anche il tuo peccato. 

Katscha lo strinse forsennatamente scoppiando in pianto e volle essere sua ancora così, fra i singhiozzi. 

Ma appena fu solo, si rese conto di averle detto una cosa orribile. Egli non avrebbe potuto amarla davvero, adesso, non avrebbe mai acconsentito a convivere a lungo accanto a una creatura forse capace di chissà quali libidini. Ma, d'altra parte, che cosa era egli stesso? A quale degradazione non era disceso con quelle parole dettate dal più basso, dal più cieco istinto? A nessun'altra donna, fra quante ne ricordava, avrebbe osato dire una cosa simile. 

Katscha, però ritornò ed egli le ripeté altre frasi come quella, ed essa finì col riderne, anzi ci risero su insieme. Un giorno essa rise tanto che alla fine ne svenne. E poi se ne andò piangendo. 

Un'altra volta lo insultò, lo graffiò, e scappò via senza salutarlo. 

Tornò la mattina dopo, prestissimo, perché il signor Hermann era ripartito. 

— Perdonami, m'amour. Come ti debbo essere sembrata cattiva, ieri! Ma se sapessi quanti pensieri mostruosi mi passavano pel capo. Vedrai che sarò sempre buona. Oggi starò teco tutta la giornata, sarò la tua mogliettina, vedrai. 

La parola «mogliettina» gli fece involontariamente corrugare la fronte. Ella se ne accorse e ammutolì. Ma cominciò a coprirlo di carezze leggere da buona sorella. 

Improvvisamente fu battuto all'uscio. 

— Chi è? fece Bruno con voce irritata. 

— Oh, Bruno: tu est la enfin? C'est moi. Annie! 

Katscha balzò a sedere in mezzo al letto, attentissima, le labbra socchiuse ad un respiro affrettato. Ma Bruno la prevenne, chiuse le tendine del letto, la pregò di non farsi sentire. 

— Una seccatura — le bisbigliò; e, in pigiama, andò ad aprire. Ma tenendo il battente socchiuso, con un viso contratto clic era tutta un'imposizione di tacere, bisbigliò ad Annie che tendeva le braccia festosa per saltargli al collo: 

— Je t'en prie! 

Annie, fresca, odorosa, elegantissima, si contenne subito, impallidì un poco e tacque. Si riprese con una risata: 

— Pardon, cher cousin, si je viens te déranger. Mais c'est ton cousin, mon mari, qui m'envoi. Il est arrivé hier soir et il m'a dit qui veut t embrasser. Tu sera avec nous à dejeuner, aujourd'hui. 

Egli balbettò una scusa, guardandola fisso con occhi pieni di gratitudine. Annie sempre ridendo disinvolta, celiò sulla sua faccia assonnata, sul colore troppo chiaro dei suo pigiama, sullo strano effetto che le taceva in toilette notturna, poi si congedò. Ma in fondo al pianerottolo non poté fare a meno di rivolgersi e dirgli: 

— Au revoir, donc et bon appetit ! 

Katscha volle andare via subito, dopo avere risposto a monosillabi alle loquaci esplicazioni di Bruno. 

*** 

Giorni dopo, per caso, in mezzo alla folla del boulevard Hausmann, Bruno ravvisò il cappello di Katscha che lo precedeva. Il mestiere di pedinatore non era di suo gusto; ma un sospetto istintivo lo indusse a seguirla, curando bene di non farsi scorgere, finché non la vide entrare nell'ufficio postale e uscirne dopo un momento intenta a leggere una lettera. Allora le si parò dinanzi. 

— Oh! — esclamò Katscha, tentando nascondergli il foglio. 

Le fece una scenata in pieno boulevard. 

— Voglio vedere quella lettera. Sono, dunque, per te una tale quantité négligéable da darti bel tempo altrove? Voglio vedere quella lettera! 

Essa rispose con calma provocante: 

— Con qual diritto? Voi non siete mio marito e nulla vi autorizza a queste cose. Sono stata e sarò gentile con voi, purché non vi cacciate nei fatti miei. Questa lettera non vi riguarda: è d'un mio amico, al quale voglio bene d'un altro modo e sono unita da altri legami: un amico che mi ha per sua confidente, anima dolorosa e triste, sorella dell'anima mia... 

Gli parve ridicola. Bisognava non averla avuta fra le braccia, quando badava a tutt'altro che all'anima, per prendere sul serio le sue parole. Bruno si accorse allora di non amarla perché non sentì l'impeto di darle uno schiaffo, di pestarsela sotto i piedi. Le volse le spalle e la piantò, deciso a non rivederla mai più. 

Ma la mattina dopo eccola all'albergo. Le riuscì facile farsi perdonare; però non lo convinse con nessun argomento quando gli ripeté la storiella dell'anima sororale. E pretendeva essere creduta, perché «in queste cose non mentiva». Sorrise; si distese lunga su lui supino, aderendogli col seno e col grembo, bocca su bocca, indugiandosi a fargli cento piccole carezze che la divertivano. Era bianchissima e dolce al tatto. Egli riusciva quasi, premendo un poco, a cingerle la vita con le due mani; ma i fianchi si arrotondavano in curva soda e il tronco ne scaturiva alto, agile e forte. I capelli, che nelle ore d'amore soleva sciogliere, scorrendo a ogni sua mossa, titillavano il petto, il collo e il viso di lui che se ne schermiva. E Katscha rideva, mentre Bruno notava per la prima volta che essa non si era mai interessata ai piacere di lui, ma soltanto al proprio. 

Finì di ridere, lasciando ricadere il capo e posandogli la bocca su un orecchio. E così gli chiese: 

— E se venisse un figlio? 

Bruno si strinse in sé ridendo pel solletico di quel fiato dentro l'orecchio. E rispose: 

— Certo non potremmo rimandano indietro. 

Katscha ebbe un balzo che avviluppò per un momento il viso di lui nell'onda vellicante dei suoi capelli, e gli fissò negli occhi due occhi stralunati, così vicini e invadenti che a lui parve guardarli attraverso una lente d'ingrandimento. 

— Sei pazzo? Sarebbe uno scandalo! Io sarei rovinata. Con una creatura alle costole cosa farei?... Non potrei più sposarmi... e poi… 

Bruno si fece da parte col capo per guardarla stralunato a sua volta. Ella gli ricadde con la bocca sulla bocca, e riprese, convincente, continuando le carezze sempre più intense: 

— Sai tu che i miei parenti non desidererebbero altro che questo per non farmi entrare in possesso dell'eredità di mia madre? Fra otto mesi io compirò ventun anni. Dopo avere perduto il patrimonio di quel cattivo uomo che fu mio padre, morto diseredandomi in odio alla mamma, dovrei perdere anche questa? E pazienza... ma perderei perfino l'eredità del mio tutore che mi adora come una figlia. Egli amava molto mia madre, io credo, ed ora ha riversato su me tutto il suo affetto. Io non saprei più vivere povera. Amico mio, tu non immagini le tragedie attraverso le quali è passata la mia vita, non intendi le tristezze che stanno in fondo all'anima mia. Io ho tante colpe, lo so; ma se potrò vivere un giorno dedicandomi ad un amore solo e creandomi attorno con le ricchezze che aspetto un piccolo mondo quale ho sognato, saprò essere buona e felice... Oh, come mi piace! Così, così, stringimi forte, mein leben

Dopo un tratto, quando ella gli giaceva muta e inerte fra le braccia, Bruno cominciò a sentirsi a grado a grado penetrato dall'idea di questo figlio che poteva nascere e da una lenta tenerezza per lui e per lei, che certo non aveva l'aria di mentire quando parlava così. E timidamente, senza guardarla, con fare da insonnolito, profferì impensatamente alcune parole: 

— In tal caso… potremo anche sposarci... 

Non aveva finito di dirlo che già se ne pentiva; e aprì gli occhi per leggere l'effetto prodotto su di lei. Katscha si sollevò a guardarlo coi chiari occhi freddi, poi rovesciandosi di fianco si riversò supina giù da lui. E rispose fissando il soffitto, pacatamente: 

— Voi siete pazzo. Non saprei amare un marito come voi. Voi per me non potete essere altro… che questo. Ed io, che cosa sono per voi se non l'erede e forse anzi la collega, di quella... di vostra cugina? 

— Katscha… 

— No, no, non siamo banali, ve ne prego. Forse, sì, abbiamo avuto il torto di cominciare male: la foresta di San Germano ci ha fatto deviare; ma, del resto, io vi ho dato quel che voi chiedevate: non vi basta? No, egli si accorse in quel momento che non questo avrebbe voluto da lei: sentì confusamente che un male irreparabile era tra loro. E gli parve che il cuore gli si gonfiasse per una nostalgia indefinibile che certo — ne fu convinto era anche in fondo allo stesso sogno di Katscha. 

*** 

Un figlio? Suo figlio! Che cosa voleva dire questa novità inattesa nella sua vita? Bruno si domandava come mai, a un tratto, potesse essere provocato da lui simile avvenimento, da lui che ieri ancora era così giovane, era stato bambino, aveva giocato a nasconderello coi ragazzi Collebrina, aveva appena baciato Diana. Cos'era mai il tempo che passava e che portava via tante cose, come un vento che spogli un albero; il tempo che spingeva innanzi tante cose e le accumulava e le schiacciava e se le lasciava dietro piatte e deformate, come quel rullo compressore sulla strada di San Germano? Il tempo, gli eventi che passano, che durano un attimo per crollare definitivamente uno dopo l'altro, frane, rovinio di granelli che cancellano l'orma dei piedi della zia Flavia... 

Katscha era diventata irascibile e nervosa, e non veniva più assiduamente ai pasti della pensione, dai quali anche Bruno si assentava spesso. Si rividero da solo a sola un giorno che lei venne a trovano. Aveva gli occhi rossi e impietriti. 

— Ebbene? — le chiese Bruno. — Sei sicura di quel che mi hai detto? 

— Ne ho avuto la conferma poco fa. 

— Che cosa dobbiamo decidere? 

— Ah, io ho già deciso. Egli non ha alcun diritto sulla mia vita. Ho parlato col mio medico... dice che non vuoi saperne d 'intervenire, ma è un bravo uomo, un vecchio pieno d'esperienza e di riserbo. Al momento buono... 

— Tu impazzisci? 

— Tutt'altro. Bisogna che voi, anzi, mi aiutiate, visto che siete stato la causa di tutto. Non lo sapremo così che noi due e il mio medico. Ludwig morrebbe se sapesse. 

— Ludwig? Chi è Ludwig? 

— Il mio fidanzato. 

Katscha, non ti comprendo. Queste tue follie sono irritanti e odiose. 

— Perché? Voi non immaginate quanto mi ami. E' povero, e pure non ha esitato a sacrificare ogni cosa per raggiungermi, visto che io non gli scrivevo più. Arriverà oggi e lo vedrete forse stasera, per ripartire domani l'altro. E' triste, povero diavolo! E dice che non può vivere senza di me. Avreste saputo fare altrettanto? 

— Ma io non voglio neppure vederlo. 

— No, vi prego: è il primo favore che vi domando dopo avervi dato tutto quello che avete voluto. Bisogna che mi promettiate, vedendolo, di essere tranquillo e di non fare nulla che egli possa sospettare... 

— E sia; — acconsentì Bruno — ma bisogna che anche tu mi prometta che rinuncerai al disegno mostruoso che hai in mente. Pensa che anch'io ho qualche diritto su te, sulla creatura che deve nascere... 

Katscha divenne una furia. 

— Ed io dovrei sacrificare me stessa per sempre, distruggere così il mio avvenire per il vostro egoismo, per il vostro stupido affetto paterno? Siete stato un bruto e vi commuovete soltanto ora? Io sono la vostra complice, lo so; mi sono data a voi fino a ieri, sono stata una vile e sudicia cosa... sì, sì, lo so!... ma pure non riuscendo a difendermi, sento, sento che non sono colpevole. 

E pianse e singhiozzò forsennata come non aveva mai fatto. 

Bruno si sentì debole, e riconobbe dentro di sé che la colpa era sua. Ma quale? Non sapeva di che cosa, ma si sentiva dinanzi a quelle lagrime mostruosamente colpevole. Quasi sul punto di piangere anche lui, strinse fra le braccia la testa scarmigliata dell'amante. 

— No! No! — strillò Katscha rabbiosamente; e poiché egli tentava carezzarla, baciarla, lo respinse con moto di avversione. 

Bruno allora sentì che tutto gli si annebbiava dentro. Istintivamente l'afferrò per spezzarla in due. Ma giunse a essere eroico fino a respingerla verso la porta e a lasciare esalare la sua collera in parole da trivio: 

— Vattene, sgualdrina, vattene! Sci la più lurida di tutte le donne! 

La sera stessa infatti, insieme con Fraulein Graberg e col signor Hermann, si presentò alla pensione un nuovo commensale. Il signor Ludwig era un giovanottone lungo e magro, imberbe, con occhi che parvero a Bruno pensosamente cretini. Sedé fra Katscha e il tutore e se ne stesse tutto il tempo fermo, senza guardarsi attorno. Non sapeva parola di francese fuorché «merci» e «monsieur», e le spiattellava a ragione e a torto a ogni domanda e nella conversazione generale, per tornare poi subito a guardare muto i bicchieri dinanzi a sé o per scambiare di traverso sottovoce e rapidissimamente qualche frase con Katscha. Costei invece era loquacissima, e benché mangiasse poco pareva lieta. Guardò talvolta di sfuggita verso Bruno che parlava anche liti animatamente con la signora svizzera e con una altra signora scandinava, arrivata da pochi giorni. 

Ma Bruno, considerando quel che accadeva e parendogli di vivere in una scena di teatro, si sentiva ormai leggero leggero, indifferente verso Katscha e Ludwig, soltanto pensando per costui che aveva un bel dire «merci» e «monsieur» e parlare piano in tedesco così speditamente, ma la sua futura moglie era già marchiata da lui, da Bruno, e bene addentro, con una cosina che cresceva di giorno in giorno e minacciava di dar molto da fare a due, tre, quattro e più persone! 

E sentiva una gran voglia di riderne.

VI

La sera dopo Bruno fu a pranzo in casa di Edoardo Rod, e poi alla soirèe di Madame Margueritte. 

Dal villino di Passy vi andarono a piedi. La notte era un po' fredda, ma asciutta e imbrillantata di stelle. Bruno camminava tra la signorina Rod e una sua amica inglese, imbacuccate nelle loro pellicce. Egli era loquacissimo e le interessava parlando di Napoli, della Sicilia ove le notti invernali sono quasi tepide e l'atmosfera sembra fatta di suoni di mandolini o di cornamusa annunzianti il Natale. Un momento si felicitò con se stesso di tanta gaiezza. 

Paul Margueritte, già bianco nei capelli e nel pizzo alla moschettiera, li accolse con la sua cortesia un po' fredda. La signora, giovane bionda col capo cinto da una benda azzurra, fu graziosissima. S'intrattenne un momento con l'ospite nuovo, lo presentò a parecchie signore e a molti uomini illustri e Bruno — convinto di far colpo a vedere tanti occhi di celebrità fissi su di lui — si studiò di mantenersi all'altezza della situazione. Un momento, in una frase, distratto dal sopravvenire di una bellissima signora grande e vestita di nero, s'impappinò: la sua lingua si perdé in un groviglio di proposizioni coordinate ed incise, e non poté più districarsene che con un rosario di suoni gutturali e labiali. La signora Margueritte, che lo ascoltava apparentemente attentissima, chinò il capo un momento e chiuse gli occhi, come per dissimulare un colpo di spillo. Ma si riprese subito: 

— Bon, c'est ça, oui, monsieur. Permettez, madame Griffith, que je vous presente monsieur Soveria, jeune écrivain et journaliste italien. 

La signora grande, bellissima, e vestita di nero sorrise a Bruno, rimasto a bocca aperta per effetto della papera e un po' anche della sua magnificenza, e gli porse la mano a baciare. La padrona di casa, con un sorriso adorabile, li lasciò insieme a discorrere. 

— Voi venite dall'Italia? — chiese la signora Griffith, in puro toscano. 

Oh, la sua lingua in così bella bocca straniera. Come mai? 

— Io sono un po' italiana. Benché nata in America, mia madre era figlia di un italiano: Moretti, fiorentino. Mio padre era irlandese e il mio defunto marito francese d'Alsazia. Sono, come vedete, internazionale. Ma benché in Europa da tredici anni, non ho visitato ancora l'Italia. 

— Bisogna venirci. 

— Senza dubbio, da tempo mi preparo a questo viaggio. Ci sarei venuta l'anno scorso; ma non se ne fece più nulla... 

Mentre parlavano così, Bruno aveva agio di guardarla tutta nella maestosa persona riflessa da un immenso specchio che le stava a tergo. Era più alta di lui, perfetta nelle linee statuarie, bianchissima nelle braccia e nella scollatura del seno, fiammeggiante nella capigliatura del più bel rosso tizianesco. I suoi occhi fulvi, leggermente adombrati di bistro nelle palpebre dalle ciglia lunghe, pareva sorridessero come la bocca un po' grande ma dalle linee impeccabili. Bruno scorse nello specchio, per intero, anche se stesso e si trovò elegantissimo tra tutto quel rimescolio di smokings e di decolletées. Altro che il piccolo mondo mediocre e borghese ove era venuto fuori quel suo ostico amore per la piccola tedesca! Questo era il grande mondo, fatto per gli avventurati e pei forti, fra i quali egli già figurava cosi bene. Eccoli: il ministro X, con la sua faccia da addormentato, e certe barchette ai piedi da muovere al riso; e il poeta Y con la cravatta a triplo giro ove si perdeva il musetto da bimbo intontito; l'ambasciatore brasiliano, con le gote nere di barba mal rasa e il petto enorme scoppiante nello sparato del panciotto angusto. Tutti costoro non avevano aspetto paragonabile al suo, né dimostravano più ingegno di lui, eppure erano saliti ben alto. E si senti pronto a salire anche lui, fatto per le maggiori conquiste! 

— Voi siete scrittore? — gli domandava la bella bocca sorridente della signora Griffith. 

Egli spiegò che infatti scriveva su giornali, di questioni politiche e anche letterarie, ma che intendeva darsi alla carriera diplomatica, viaggiare, conoscere quanto più mondo potesse. 

— Avete ragione, è la gioia più grande e migliore. Ma anche la letteratura dà molte soddisfazioni, ed io vi ammiro di pensare a dedicarvi anche ad essa. Forse la politica, però, dà spesso amarezze. 

— Lo riconosco; ma esercita su di me un fascino irresistibile. 

— Venite a trovarmi a casa mia: Rue des Mathurins 33, sapete bene? presso l'Opera. Ricevo tutti i mercoledì. Troverete parecchi giornalisti di grido, ed anche artisti ed editori e uomini politici, che vi potranno essere utili. Non sarà come qui, che c'è troppa gente e non si può discorrere. Sarò lieta di giovarvi. 

Bruno ringraziò, lusingato, ma parendogli in fondo naturale che tutti si interessassero a lui. 

Un'ora dopo, egli usciva da quella bellissima casa ancora piena di luci e di brio. Camminava rapidamente per secondare il tumulto delle sue sensazioni. Costeggiando la Senna, vedeva la cima esile della torre di Eiffel splendere come un faro acceso per lui solo sulla città immensa ch'egli si preparava ormai a conquistare. Svoltò per rue Lenôtre ove la ramaglia degli alberi nudi faceva come una nebbia densa. Passò sotto la mole enorme del Trocadero, sboccò nell'Etoile roteante di automobili e di carrozze, s'incamminò giù per l'Avenue des Champs Elisées animata di passanti malgrado l'ora tarda. 

E gli pareva che la terra risuonasse sotto i suoi passi come un guscio vuoto. 

*** 

Mercoledì. Due giorni dopo era mercoledì. Come mai, però, — chiese lo spiritello beffardo che spesso e volentieri faceva capolino nel cervello di Bruno — andare a scegliere quel giorno di ricevimento, proprio quello sacro a Mercurio, dio delle industrie e dei commerci, delle poste e dei telegrafi? 

Se lo spiegò quando seppe che la signora Edmea Griffith era vedova di un ex sottosegretario alle Finanze, ebreo, Abele Réclus e — si diceva ora — fidanzata ad un vecchio amico del suo defunto marito, banchiere cd anche lui ebreo, s'intende. Vecchio per modo di dire: fra i cinquanta e i sessant'anni, ognuno dei quali, però, sorretto da un minimo di due milioni di franchi. 

Bruno si presentò, dunque, alle cinque precise in rue des Mathurins 33. Un portiere cosacco, due grooms negri, due valletti in livrea rossa e parrucca bianca, un maggiordomo inglese in marsina e calzoni corti, successivamente gli fecero ala, se lo passarono l'uno all'altro a scampanellate, inchini, annunzi, gli cavarono cappello e soprabito, lo introdussero per un gran giro di sale e saloni muti, tappezzati, imbottiti, ingombri di mobili severi e di ninnoli frivolissimi, fino a un salotto ove ardeva un fuoco di legna in un caminetto ricercatamente medievale e, in una semiluce molto chic, stavano raccolte a conversare attorno alla padrona di casa una dozzina di persone. 

Ma che persone! Quando la signora Edmea lo presentò, col suo sorriso calmo da dea, a ogni nome egli sentì di salire un gradino dell'Olimpo: la contessa di Noailles, la duchessa di Albuquerque, milady Stuart d'Albany, la principessa figlia d'Oldenburg, l'ambasciatrice di Germania, mistress Page moglie del console generale degli Stati Uniti, il direttore della Revue des deux Monds, il banchiere Heller, il presidente del Senato, il ministro della. Pubblica Istruzione, l'ambasciatore di Turchia, lo scultore Augusto Rodin, Anatole France! Egli si trovò a essere l'unico giovane tra quegli uomini grigi o canuti, fra quelle celebrità perfino settantenni. Delle donne lo colpirono la bellezza ispirata della Noailles, il fascino aggressivo della Oldenbug e la suprema distinzione di milady Stuart. 

Ma nessuna ai suoi occhi uguagliava l'imperiosa e imperiale venustà della signora Griffith, statua di Giunone scesa dall'ara e tramutata in rosea carne chissà per quale prodigio. Ella se lo trasse un po' in disparte e gli parlò in italiano di cose molto serie, standogli di fronte in piedi; ed egli l'ascoltò distratto a considerare tutti i pregi della persona superba. Lo superava, in altezza, di quattro dita, benché egli fosse di statura al dì sopra della media; e di altrettanto in ampiezza di spalle. Se fosse stata meno alta, sarebbe apparsa grassa; come se fosse stata meno formosa, sarebbe sembrata troppo alta. Così, era la perfezione. 

— Ho già parlato di voi — gli diceva essa intanto — al ministro della Pubblica Istruzione. Sa che avete pronta un'opera sul primato storico della razza latina, di cui mi aveva fatto parola Edoardo Rod. Mandatemela anzi subito a leggere. Mi ha promesso che farà qualche cosa per voi. Vi piacerebbe restare a Parigi? 

— Sì, tanto! — rispose Bruno con slancio; e sentì di arrossire e diventare poi pallido mentre la fissava. Ella sorrise. 

— Bene. Egli consulterà i suoi regolamenti, le sue leggi, per vedere come concedervi l'incarico di una cattedra straordinaria alla Sorbona... 

— Alla Sorbona? — balbettò Bruno, abbagliato. 

— Appunto. Vi andrebbe l'insegnamento comparato delle letterature neo-latine del medioevo? 

— Ma io... 

— Oppure quello del diritto internazionale presso le antiche repubbliche mediterranee? 

— Ottimo... Però... 

— Insomma, troveremo poi la materia. 

In quel momento si appressava a loro, con faccia acidula, il banchiere Heller. Era piccolo, calvo e per le fedine e la grinta in tutto somigliante alla scimmia nasica che Bruno aveva visto una volta effigiata nel Brehm. 

— Vi ho già presentati? — chiese amabilmente a costui in francese la signora Griffith. — Il barone Heller è il mio fidanzato. 

Un fulmine scoppiò nel cervello di Bruno e si propagò fino alle sue ginocchia che oscillarono. Quando riprese conoscenza, s'accorse che l'uomo fortunato ed orribile era passato oltre. 

— E' molto potente — spiegava, di nuovo in italiano, la signora — ed è un brav'uomo. Ma voi mi siete assai simpatico, e lo sarete anche a lui. Egli è a capo anche di una grande casa editrice internazionale. Pubblicherà il vostro libro e lo lancerà. 

Che scala! Che scala levata alle nuvole! Bruno si sentiva leggero e aereo, come se galleggiasse su spume di champagne. Attraverso quelle spume vide lady Stuart sorridergli all'atto di congedarsi, la principessa d'Oldenburg avvolgerlo in uno sguardo rapinoso, Augusto Rodin baciare con le sue labbra molli a ventosa la mano e l'avambraccio di Edmea, lentamente, a lungo, come a succhiarli; udì Anatole France salutarlo con una frase che ricordò e capì più tardi: «Au revoir, mon jeune confrère. Je ne connais pas votre talent, mais je vois que vous avez le phisique du ròle d'homme de talent». 

Poi il barone Heller gli offerse di accompagnarlo nella sua automobile, con cortesia lievemente corrosiva. 

*** 

La sera stessa la signora Griffith gli telefonò che quanto prima il ministro lo avrebbe fatto chiamare, per parlargli. Tornò a ricordargli di mandarle il giorno dopo i suoi scritti sulla preminenza latina. Gli comunicò anche un'altra sua idea: se egli intendeva, poi, concorrere per la carriera diplomatica, essa aveva mezzo di farlo preferire ufficiosamente e far destinare, a concorso vinto, a Parigi. 

Egli le rispose a monosillabi, commosso ed esaltato. Alla fine ardì dirle che tutto ciò era troppo e troppo poco; il favore più grande che le chiedeva era di lasciarsi rivedere. Ella rise all'altro capo del filo e gli rispose che per due giorni ancora non sarebbe stato possibile; ma per sabato lo invitò a colazione. 

La colazione, però, lo lasciò deluso. C'erano altri quattro convitati: il barone Heller che montava la guardia, la principessa di Oldenburg, tutta sguardi e sorrisi per un colonnello di stato maggiore addetto al Ministero della Guerra, e l'anziana consolessa generale degli Stati Uniti che s'attaccò a lui rimpiangendo più volte che egli non parlasse l'inglese. 

Quando, la sera, tornò all'albergo, trovò che dal Ministero dell'Istruzione avevano telefonato per lui, avvertendolo che il Ministro l'aspettava pel tocco.

Peccato! a sua volta lo telefonò alla signora Griffith che ne fu desolatissima. 

— Per venire da me! Il ministro certo voleva conferire con voi per la nomina... Penserò io ora a scusarvi e a pregarlo di richiamarvi. Ma frattanto bisognerà che io vi ricompensi del tempo perduto. Lunedì sera andrò all'Opera: siccome non ci sarà il barone per accompagnarmi (partirà e mancherà otto o dieci giorni) volete venire voi a prendermi? 

Bruno rispose un sì così sonoro che per poco non spaccò il diaframma del telefono. 

Quando fu a letto, stentò molto a prendere sonno. Nella fantasia gli riddavano la Sorbona, la sua carriera diplomatica, la prossima rapida ascesa forse ai più alti gradi politici e, soprattutto, la bocca, gli occhi e le forme procaci della signora Griffith. 

A notte alta poi si svegliò per uno strano malessere. Improvvisamente aprì gli occhi nella penombra della camera, e pensò a Katscha. Al barlume dei fanali della strada, penetrante attraverso la tenda che copriva le invetriate, gli parve vederla seduta sulla poltrona ai piedi del letto. Ma non erano che i suoi abiti buttati alla rinfusa, nella fretta di coricarsi. 

Katscha! Che ne era di lei? Da più di una settimana non ne aveva notizie, rapito improvvisamente da questa nuova vita. «Io sembro gaia, ma sono molto triste in fondo al mio cuore... sono una sudicia e vile cosa, ma pure sento che non sono colpevole». Queste due frasi, ed altre, di lei, cominciarono ad avvoltolarglisi dentro il cervello, tenaci e pesanti come strisce di piombo. Se ella fosse veramente triste? Se realmente soffrisse molto, ora di più — anzi — per via di quel che era passato fra loro? 

Non riuscì più a prender sonno. Il giorno dopo, domenica, volle tornare alla pensione di via Courcelles e vi apparve all'ora della colazione. Tutti erano già a tavola e lo accolsero come il figliuol prodigo. 

— Oh, vi si rivede, — gli disse Katscha con semplicità, senza guardarlo. Era un po' pallida e dimagrita, ma gli occhi le brillavano come per febbre. Quando poterono appartarsi un momento, gli disse: 

— Il signor Hermann vuole che io sposi Ludwig, malgrado la sua povertà. Dice che ha fiducia in lui. Ludwig mi ha proposto di andare nel Camerun per acquistarvi dei terreni con una parte della mia dote e crearvi una piantagione. Io non so come starei nel Camerun. 

— Perché raccontate giusto a me queste cose? — domandò Bruno, seccato. 

— Ma così, per mostrarvi che ho confidenza in voi. Siete un nomo molto intelligente, lo so. Del resto, tra noi quel che doveva accadere è accaduto e voi dovete esserne abbastanza soddisfatto, no? 

— Katscha, perché continuate a giudicarmi così male? Parlatemi piuttosto di voi... 

Ed ella parlò. Un giorno, quasi imprevedutamente, aveva sentito palpitare dentro di sé la nuova vita, la creatura odiatissima. Come il rampare di una tarantola dentro le sue viscere, di una tarantola rotonda, dai lunghi tentacoli ovattati. Ella era rimasta un momento muta ed immobile, quasi per ascoltarsi, impaurita ed irata di quel maledetto prodigio. I giorni seguenti il moto interiore si ripeté, ora simile allo strisciare d'un pennello, ora allo sforzo di un pugno ancor debole che volesse sfondarle il ventre. Più volte aveva avuto la sensazione di racchiudere un piccolo mostro dentro di sé; ed era andata a rovesciarsi sul letto con rabbia, comprimendovisi contro, con la follia di schiacciarlo o di schiacciarsi... 

In faccia a tutti alla pensione, Katscha continuava a mostrarsi come prima, gaia, chiacchierina, facendo flautare il suo riso lungo e arguto. Era arrivato un giovanotto brasiliano col quale cicalava spesso; una sera che il signor Hermann era assente, si era perfino prestata a fare con lui una dimostrazione pratica del passo della verdadera matchicha, che già invadeva i varietà e le music-halls. 

Al momento di separarsi, Bruno le chiese: 

— Katscha, che fai? Che farai? 

— Voglio vivere! — rispose. — Ricordatevi che forse avrò bisogno del vostro aiuto. 

Aiuto? Per fare che cosa? Era pazza. La lasciò con una scrollata di spalle. 

*** 

La sera del lunedì il palco dell'Opera fu come l'anticamera del paradiso. 

La signora Griffith, in una sontuosa toilette bleu foncè e lamina d'oro, pareva una deità marina. Dall'ampia scollatura sgorgavano le sue spalle e le braccia color delle rose stemperate nel latte. 

Essa parlò molto, con la sua aria olimpica, di lui, del suo avvenire, di quel che ella gli preparava. Voleva farne un grandissimo uomo. Aveva già letto la sua opera sulla latinità, avrebbe pensato lei a farla pubblicare contemporaneamente in tre lezioni: l'originale, la traduzione in francese e quella in ispagnolo. 

Ma Bruno guardava quelle braccia, quel seno, quelle spalle: e tanto splendore di carni gli faceva da paravento non solo allo spettacolo del teatro, ma anche alla sua prossima gloria che le parole di lei gli davano come sicura. Poco dopo, quando la sala era buia sul terzo atto del Sansone e Dalila, egli —irresistibilmente attratto da un avambraccio di lei penzolante dalla spalliera della seggiola — si chinò a sfiorarlo con le labbra. 

— Oh, oh! — fece la signora battendogli sulle ginocchia col ventaglio di piume, ma senza gravità, anzi accennando a sorridere — voi preferite le sciocchezze alle cose serie. 

— No, — rispose lui, piano, eccitato dai violini dell'orchestra che colmavano l'aria di nitriti voluttuosi — sono pazzo di voi e disprezzo ogni saggezza. 

— Davvero? — chiese essa fissandolo nella penombra ad occhi socchiusi, mentre le narici le si dilatavano — saprete farvi amare? 

— Farò tutto quello che posso. 

La signora Griffith s'abbandonò un poco verso di lui, mentre la soprano finiva una sua aria con un acuto altissimo. Bruno applicò le labbra sulle spalle abbaglianti, fra uno scroscio di applausi. 

— Basta! Basta! — impose essa, sottraendosi con un guizzo. E non si fece più toccare. Ma alla fine dello spettacolo lasciò che le braccia di lui, nel metterle la pelliccia, le si indugiassero attorno alla vita. All'atto di separarsi, al portone del suo palazzo, gli disse: 

— Se non avete nulla di meglio, venite domani sera alle otto a cenare familiarmente con me e col mio ragazzo. 

Il suo ragazzo era l'unico figlio avuto dal matrimonio con Abele Reclus: un fanciullone di dodici anni, già alto un metro e settanta e somigliantissimo a lei. Aveva un'aria di grossa educanda e s'interessava esclusivamente alla caccia e agli sports: ne parlò, col suo accento un po' bleso, con Bruno durante la cena, dimostrandogli molta simpatia. 

Al contrario della colazione di pochi giorni prima, quella cena fu deliziosa. Edmea, conscia del fascino del suo decolleté, era inguainata in un aderentissimo abito di seta nera, copioso nello strascico, ma succinto nel busto da cui sbocciavano le rose delle sue carni. Rideva e si divertiva a sentire discorrere suo figlio così accaloratamente di motori Fiat e Rénault, di areoplani Blériot, di foot-ball e di poste all'adiaccio, mentre Bruno gli rispondeva distratto e impaperandosi spesso. Il maggiordomo e due valletti servivano le pietanze squisite, i vini prelibati. In suo onore, la padrona di casa aveva fatto preparare i maccheroni all'italiana, ma così mescolati con regaglie e con funghi da acquistare un gusto raffinatissimo; lo storione, grazie a una salsa cardinale carica di corallo d'aragoste, pareva quasi confettura marina; un vol-au-vent con polpa d'ostriche, dava una sensazione di perle fuse; un fagiano alla brôche portava sentore di foreste esotiche; un foie-gras imbevuto di madera e di tartufi destava vellichii di cantaride, mentre per le vene passava come una carezza a ogni sorso di raso del Sauterne, di velluto del Pommard, di lamina d'oro del vecchio Xéres de la Frontera. 

Dopo il dessert e mentre il ragazzo era nel meglio di chiacchierare e ridere, la mamma, fatta seria, ammonì: 

— Le dieci, Luciano. L'orario è trascorso da mezzora. A letto, adesso. 

Luciano diventò serio serio anche lui, così serio che gli occhi gli luccicarono di lagrime; si alzò taciturno, baciò la mamma e strinse la mano all'amico così presto trovato e perduto. Sulla soglia lo aspettava il precettore, un ometto mezzo prete e mezzo militare, che — appena egli gli fu accanto — parve un nanerottolo. Ma Luciano gli fece una riverenza sommessa, strisciando un piede sul pavimento, a cui quegli rispose con un freddo cenno del capo e con una faccia dura e chiusa. Poi andarono via insieme. 

Bruno ne rimase un momento angustiato; ma lo distrasse la signora Griffith, alzandosi e invitandolo a passare nel fumoir turco per prendere il caffè. Lo precedé di sala in sala, col suo passo muto e quasi sorvolante sui tappeti spessi: alta, eretta, imponente, quasi portando in trionfo la nudità poderosa, provocatrice e sicura delle sue spalle e delle sue braccia. Il fruscio della faglia del suo lungo strascico produceva sui sensi di Bruno l'effetto di una carezza sopra una ferita. Presero il caffè e fumarono. I servi andarono via chiudendo la porta. La signora, allungata su un'ottomana ricoperta da un'immensa pelle d'orso nera, riprese il suo argomento favorito, quello dell'avvenire immediato e lontano del suo protetto; il quale però non concentrava quanto dopo il pasto e le libagioni gli era rimasto di possibilità d'attenzione, che sulle braccia e il seno, ed ora anche su un piede e una gamba sbadatamente scoperta della sua ospite. 

Egli cominciò a pregustare quel che certamente sarebbe avvenuto fra breve e che, dal caso, pareva così ben predisposto. Quella pelle d'orso nera e lucida lo eccitava straordinariamente; e già tremava di gioia pensando che nient'altro avrebbe potuto essere giaciglio più degno della maestosa nudità rosea di Edmea Griffith. Oh, quella nudità semisvelata e tentatrice, facile però a sguainare completamente con due o tre colpi di mano! 

— Il ministro — diceva la signora — è rimasto male a non vedervi accorrere al suo appello. Ma mi assicura di avere già sottomano la disposizione che gli consentirà di nominarvi straordinario alla Sorbona. Abbiamo trovato: insegnerete «Origini del diritto commerciale e marinaro bizantino e arabo». Questo finché non ci sarà possibile introdurvi nella diplomazia. Si è già iniziata la traduzione della vostra opera sulla latinità. La trovo interessantissima; soltanto qua e là c'è qualche ridondanza, o qualche lacuna. Per esempio, voi tenete poco conto dell'elemento bretone nella formazione della lingua d'oeil... Ma che fate?...

 
Home ] Santa Maria della Spina ] La vita al vento ] L'avventura... ]