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X

Il giorno della festa del Ramadan, c'era ricevimento in casa Pesaro. Bel palazzo fresco in rue Al-Djazira, portinaio in grande tenuta, scala in marmo giallo, salotti: il piccolo, naturalmente, di stile turco; il medio in epilettico liberty, il grande, immancabilmente, in Luigi XV. 

Bruno trovò una gran folla d'invitati. Fu presentato a quelli che non conosceva. 

- Bruno Soveria, il nostro eroe nazionale, uno dei più grandi scrittori di politica estera della nuova Italia. Il commendatore Cagnina... la signora Donegani... la signorina Myriam Stefanovich. 

Bella creatura, magnifica, invadente, di ventitre o ventiquattro anni: due enormi occhi ora verdi ora neri, con riflessi ora di sole ora d'incendio. E attorno al viso il fiammeggiare di una chioma di rame. Ricordava straordinariamente Edmea Griffith, forse con minore finezza di espressione, ma con più ardore di fascino. Attorno a lei uno stato maggiore di giovanotti, i più in vista di Tunisi, avevano l'aria dì cagnolini al guinzaglio. 

Bruno s'inchinò, strinse la mano che gli veniva tesa con un sorriso ambiguo e uno sguardo a ciglia socchiuse, da miope o da impertinente, e passò oltre. Gli piacque enormemente e l'avrebbe insultata. 

Tommaso Casazza, che gli veniva dietro piccolo e scomparente, non fu quasi notato. Invece Nino Guevarra parve un bellissimo giovane alle signore, antipaticissimo agli uomini. Bruno seppe in breve conquistare tutti i presenti, che per un momento trovarono raccolti attorno a lui, ad ascoltare la sua parola vibrante. 

- No, no, prego, signori: io non ho fatto che mio dovere d'italiano, dovere che ho sentito ancora più fortemente in terra straniera ed ostile. Le mie forze furono centuplicate dal consenso che mi veniva da tutti voi, da centomila cuori italiani feriti come me dall'albagia dei nostri ospiti. 

Sorrisi, approvazioni rumorose, complimenti. Se lo contesero: chi gli parlò di scherma, chi gli chiese notizie della guerra, chi gli pronosticò una carriera rapidissima. 

- Presto ambasciatore, ambasciatore a Parigi vogliamo! 

- Lei succederà al marchese di San Giuliano! 

Soltanto la signorina Stefanovich si era tenuta disparte. Quando, però, gli fu offerto lo champagne, essa andò come gli altri, da ultima, a toccare il suo bicchiere. 

- E' stato questo il suo primo duello? -chiese con aria trascurata, guardando la coppa do avervi bagnato le labbra. 

- No, il terzo - menti Bruno prontamente - e non il più grave. 

- E' rimasto qualche volta ferito? 

- Mai. Si direbbe che io sia corazzato. 

- E' una bella fortuna. Permette - e si scostò ridendo. 

Ma si ritrovarono accanto, certo per caso, sul balcone, al passaggio della processione mussulmana. Le confraternite vestite di rosso e di verde, s'incalzavano col moto vasto e lento d'un fiume. Procedevano, inghirlandati di rose e di zagara, suonatori di striduli pifferi e di tamburelli assordanti. Dietro di loro alcuni, in cadenza, cantavano le lodi di Dio e dei santi, camminando con passo di danza e agitando in aria le mani. Seguivano i labari e, ultimo, il doppio stendardo verde del profeta, che i portatori scotevano ritmicamente imprimendogli il moto d'un battito d'ali. Venivano infine i senussi, gli asceti, quali con scimitarre nude in mano, urlando da ossessi e soffermandosi ogni tanto per colpirsi da sé di taglio o di punta al ventre e al dorso ignudo e sanguinante; quali con la bocca orridamente sanguinosa perché masticavano vetro; quali avviluppati da serpenti, offrendo il collo, il viso, le braccia ai morsi rettilei; altri finalmente sorridendo beati a maggior gloria di Allah nell'inghiottire piccoli rospi vivi. Arrampicati sui fanali e sugli alberi, o protesi dai terrazzini e dalle finestre, grappoli di devoti spruzzavano sui passanti acqua di rose. 

- E' orribile! - esclamò Bruno. 

- Sì; - rispose Myriam Stefanovich - ma è anche caratteristico. Non lo trova interessante? 

- Oh, la barbarie m'interessa fino a un certo punto. Preferisco l'uomo-bestia, l'uomo-solo-istinto, all'uomo civilizzato a metà. 

- Forse ha ragione. Io preferisco la civiltà assoluta. 

- Anche l'assoluto è relativo. Io sono convinto che neppure fra i popoli universalmente riconosciuti come i più civili si trovino cento uomini nei quali la civiltà, vale a dire l'educazione, giunga al disotto dell'epidermide. 

- E' già abbastanza, non le pare? 

- No; io penso che la raffinatezza, la perfezione, più che nell'elettricità, nelle automobili, nel sistema parlamentare e nei bagni si debbano cercare nei sentimenti. 

- Oh, la perfezione! Lei ci crede? 

- Non ci credo, ma ci spero. 

Mentre parlava così, Bruno si sorprendeva di dire queste cose sulle quali fino allora si era appena indugiato a pensare in forma un po' nebulosa. Era la prima volta che le formulava così recisamente. E si convinse che la verità era questa. 

Restarono ancora a discorrere sul balcone, gettando sguardi distratti alla fiumana assordante di rumori e di grida. Quando si separarono Myriam gli disse: 

- Venga a trovarci a casa. Noi riceviamo tutti i venerdì. Conduca anche il suo amico, Guevarra mi pare. 

Bruno rispose prontamente: 

- Guevarra partirà domani. Potrò condurre Casazza, se le fa piacere. 

- E' lo stesso. Mio padre ha un debole pei giornalisti e per gli uomini politici. 

Bruno promise. Ma quella donna lo irritava; e lo irritò di più quando, andati via, Nino proruppe: 

- Portentosa creatura! 

Tomaso sorrise, aprì la bocca, ma, guardato in faccia Bruno, non disse nulla. 

*** 

- La signorina Stefanovich: - defluì Ricchieri a Bruno - orfana di madre, figlia unica, molti capricci, un milione di dote, oltre il resto alla morte del padre sessantacinquenne e gottoso. 

- Troppa roba! - disse Bruno. E non volle pensarci più. 

La partenza di Nino gli lasciò un senso di vuoto. I salotti e i caffè lo annoiavano, il Palmarium offriva sempre gli stessi giochi d'azzardo e le stesse canzonettiste, l'American Bar era pretenzioso e ridicolo con le sue cocottine appollaiate sugli sgabelli altissimi, il teatro Rossini taceva, e gli altri ritrovi tipo Numero 13 gli erano inibiti dal console e dalla sua stessa dignità. Andò a passeggiare, di notte, solo, nella città araba, fantasticando a un suono di guzla invisibile, a un'ondata di profumi di rose e di gelsomini, immalinconito dalla nostalgia di Parigi e dal ricordo di Katscha, di Edmea e di Annie. Annie parlava soprattutto ai suoi sensi. L'immagine della piccola donna carnosa e saporitamente esperta era accompagnata da desideri e voglie inappagabili. Edmea, oltre la sua bellezza opulenta e imperiale, era indimenticabile per tutte le altre sensazioni che gli aveva lasciato: pel lusso, per le promesse di grandezza, per la dovizia anche intellettuale. Ma Katscha aveva segnato un'orma più profonda, oltre le carni. Gli avveniva ogni tanto di ricordare parole e frasi della giovane donna che assumevano significati sempre più dolorosi ed umani, man mano che l'evidenza materiale del ricordo andava svanendo, sprofondandosi nel tempo. 

Ebbe presto un diversivo. Un suo amico, ricco e fervente patriota sardo arricchitosi in imprese minerarie, il cavaliere Dante Guerini, mise a sua disposizione una giumenta araba per fare qualche passeggiata nei dintorni. Bellissimo animale, baio, stellato, calzato ai posteriori; rispondeva al nome di Ayesha. 

Montarla, i bei mattini d'autunno, e farsi portare per la campagna tunisina, sempre verde di divi, di palme e di agrumi. Costeggiare il lago graveolente per giungere fino alla Goletta, ad aspettare l'ingresso d'un piroscafo nel canale liscio e denso come olio e poi tornare a gara con esso. Andare a veder sorgere il sole dal Bardo, il castello disabitato dei Bey, o spingersi fino a Hammamlif, il villaggio bianco popolato di contadini italiani. Tornando al galoppo nei polverone s'imbatteva in cammellieri o asinai che si spingevano innanzi le bestie cariche, ma si facevan da parte soffermandosi per lasciarlo passare, non senza salutarlo timidi e seri col toccar della fronte: "Salam!"; oppure in vecchie arabe velate di nero e in giovani beduine ammantate d'azzurro e tinnienti di rudi monili d'argento, curve sotto gerle di frutta o d'ortaggi. E allora gli pareva di vivere davvero tratti dei suoi sogni di fanciullo, e si abbandonava puerilmente alle fantasie, pregustando l'avventura, la grande avventura romanzesca ed eroica che certo il destino gli riservava. E gli parevano nulla nell'attesa gli amori di Parigi: lo stesso ricordo drammatico di Katscha impallidiva. 

Ai primi di dicembre, quando non pensava più all'invito di Myriam Stefanovich, ricevette al consolato un bigliettino color corallo, profumato di Peau d'Espagne. Era proprio di lei, che l'invitava al trattenimento berbero del prossimo venerdì. 

- Berbero? - si domandò. - Perché poi berbero? Cosa vi sarà di speciale? 

Andò, conducendo Tommaso Casazza, come già gli si era chiesto. Vi trovò molta gente, numerosi sconosciuti: una matura signora ebrea, grassa, e bracata nel costume tradizionale col cappello alto a cono e il lungo velo, un giovane turco in redingote e piccolo fez d'astracan nero, un avvocato arabo educato a Parigi ma in burnus e turbante molto decorativo. Questi ultimi, sapendolo rappresentante del governo in guerra con i turchi e con gli arabi, lo salutarono con ostentata freddezza. 

Egli se ne risentì subito, e il suo risentimento fece palese quando Myriam se lo trasse un po' in disparte per dirgli, sogguardandolo coi suoi occhi socchiusi che sorridevano come la bocca: 

- Bisognava dunque pregarla per iscritto, per avete l'onore di una sua visita? 

- Mi aspettavo invece che l'onore sarebbe stato troppo grande per me - rispose. - Ma non già fino a dovermi incontrare con altri ospiti che mi fanno pesare un tale onore. 

- Oh, non ci badi,- fece Myriam con leggerezza. - Mio padre è suddito austriaco quindi qui siamo in territorio neutro. Spero che lei non voglia violare la neutralità... 

- No; ma rifarmi appena fuori dei confini. 

- Per carità! - esclamò la "portentosa creatura" tra esilarata e intimorita. - Mi dia una prova di amicizia promettendomi che sarà tranquillo... perdonandomi l'errore... diplomatico. 

Bruno, disarmato, sorrise a fior di labbro e promise. Ma per tutto il tempo della visita restò contegnoso e parco di parola. Tommaso invece chiacchierò con chiunque, e si trovò sempre dello stesso parere del suo interlocutore. 

Il colorito locale, cioè berbero come diceva l'invito, fu dato da un'orchestrina di. guzle, tamburelli e pifferi, che accompagnarono le danze caratteristiche di tre signorine in costume beduino, e poi dai rinfreschi. Furono serviti sorbetti al gelsomino, caffè arabo, lukum (confetture di gomma con pistacchi) datteri farciti e rosolii dolcissimi e quasi privi d'alcool. 

Un momento, mentre le ragazze ballavano richiamando l'attenzione generale, Bruno e Myriam si ritrovarono accanto nel vano di un balcone. 

- Lei non si diverte, - gli disse subito Myriam. 

- Che cosa glielo fa supporre? 

- Me ne accorgo. Io invece ho tanto piacere di averla qui. 

Bruno ebbe un lieve trasalimento. La guardò e gli occhi di lei gli resistettero calmi e aperti, ma le narici palpitarono. Egli avvertì allora, repentino, un turbamento profondo, come un violento getto di liquido caldo attraverso le viscere e il seno. Myriam era vestita di rosso e molto scollata: mostrava, come Flora del Tiziano, a metà le spalle e il petto bianchi e duri; sulle labbra carnose e accesissime affiorava quel sorriso tutto suo, che sfidava e invitava. 

- Io allora la diverto? - domandò Bruno, reagendo.

- Piano, non fraintenda. Vorrebbe farmi dire un'impertinenza? No, lei... - ma non finì; abbassò gli occhi, accese una sigaretta e riprese, in tono tranquillo: - So che lei cavalca. 

- E' uno dei pochi sports che amo. 

- Quali sono gli altri, sentiamo? La scherma, naturalmente... 

- Il tennis e il canottaggio. Ma non ho il tempo e neanche la voglia di cominciare a studiare questi due ultimi. Come ha fatto lei a sapere che vado a cavallo? 

- Oh, a Tunisi è facilissimo sapere i fatti altrui. Il tennis è un po' leggero, effeminato; le si attaglierebbe poco. Gli altri sono sports eroici, nei quali la vedo di più. Una mattina o l'altra potrà darsi che c'incontreremo. 

*** 

Che a Tunisi fosse facilissimo sapere i fatti altrui, Bruno l'esperimentò il giorno dopo parlando della sua visita in casa Stefanovich col suo munifico amico Dante Guerini. 

- La figlia di Andrea Stefanovich? - gli chiese costui - la più bella signorina della Reggenza, una delle più ricche, ma la più pericolosa. Il padre si è locupletato in venti anni nel commercio dei datteri, degli olii e dei fosfati. Restò vedovo dodici anni fa con quest'unica figlia, che è cresciuta spadroneggiando in casa. 

- Perché la più pericolosa? - domandò Bruno, colpito. 

- Ma.. Tu vorresti sposarla? 

- Oh, non siamo ancora a tanto. Domandavo, così, per sapere. 

- Educata all'austriaca, pare che essa abbia fatto una vita piuttosto, come dire? libera, quale non si confà ai nostri sani pregiudizi- di meridionali e d'isolani. 

- Tu vuoi dire allora che essa già... 

- Mio Dio, io non dico nulla. Gli altri, che la conoscono fin da quando era in collegio a Trieste e poi ne uscì per passare qualche mese a Venezia, dicono che si sia divertita... quanto più può una ragazza tedesca, ecco tutto. 

Una ragazza tedesca? Katscha. Anche lei, Myriam, forse aveva avuto rapporti con uomini, avventure drammatiche come quella che egli conosceva... Sì, ma di cui più non sentiva né rimorso, né rimpianto. 

La incontrò una mattina, fuori Bab-Saadun. Essa cavalcava un magnifico koklani, nero e lucido, dalla lunga coda e dalla criniera folta, che spumava dalla bocca frenata da una grossa briglia araba d'argento. La lunga amazzone modellava le sue forme opulente. Soffermò il cavallo, scorgendolo. 

- Ecco che ci siamo incontrati - gli disse rispondendo al suo saluto. - Se non le è di disturbo, mi accompagni. Cos'ha? leggo sul suo viso che le faccio uno strano effetto. 

Egli pensò, in un attimo, che certo tutti s'ingannavano sul conto di lei; che non era possibile quel che Guerini gli aveva riferito. 

- Infatti, - rispose - uno strano effetto: mi turba. 

- Oh, oh! Una galanteria pronunziata con molto garbo. Vogliamo arrivare a quel marabut

Il marabut, la tomba convessa d'un santone mussulmano, sorgeva tra il verde a cinquecento metri più innanzi. Era d'una bianchezza accecante sotto il sole. Vi giunsero al trotto. Nei ritmici sobbalzi sulla sella, la figura di lei s'inquadrava nel cielo, immenso sopra l'orizzonte piatto. Girarono attorno al tempietto mistico, chiacchierando. 

La campagna tunisina è poco interessante. Se non fosse pei pennacchi delle palme, somiglierebbe a quella pugliese. La città, invece, offre mille cose belle e caratteristiche. 

- Che cosa ha visto lei finora? 

Bruno rispose nominando i luoghi e i monumenti visitati. 

- Ah, allora non conosce quel che a veder mio c'è di più bello a Tunisi: la casa dell'amante morta. 

- No; cos'è? 

- E' una palazzina, che qualche secolo fa un ricco signore mussulmano fece costruire appositamente per la sua favorita, la più amata, anzi l'unica amata delle sue tante mogli. Egli la volle sottrarre all'umiliazione dell'harem, alla comunità con le altre donne, per collocarla in un piccolo paradiso tutto suo. Per un arabo è molto. Ma l'amatissima venne a morire ancor giovane, ed egli restò solo in quella casa seppellendovisi pel resto della sua vita col ricordo della scomparsa. E' molto carino, no? Vogliamo andare a vederla? 

- Volentieri. 

Tornarono, in silenzio. Abbandonarono i cavalli al galoppo. Ayesha ansava e fremeva, per emulare nel passo gagliardo il koklani, e Bruno stesso si sentiva acceso dalla volontà di non lasciarsi sorpassare da Myriam che ogni tanto lo guardava e rideva. 

A Bad-Saadun trovarono ad attendere Ahmed, il lacchè arabo di Bruno, giovane ben piantato e sempre ilare. Smontarono e gli affidarono gli animali, perché non si poteva andare a cavallo per le vie strette dei quartieri indigeni. Raccolto il copioso strascico sull'avambraccio sinistro, col frustino nella destra, Myriam precedé guidando Bruno. Erano entrambi ancora ansanti per la galoppata. 

Attraversarono la piazza dell'Halfaouine affollata di venditori ambulanti e di compratori: piatti di rame colmi di kuskuss, di zucche gialle, di frittelle; tavolette cariche di babbucce, di borse, di fez, di catenacci e chiavi. Un arruffio multicolore, un continuo rimescolio di costumi d'ogni foggia e d'ogni età, portati in giro serissimamente da arabi, beduini, kabili, europei, negri, signori, rabbini, cammellieri, facchini, touristes. Un grande diorama di manichini e di maschere gravi, parlottanti a mezza voce, in cui tutti i dialoghi, i soliloqui per bandire la merce, creavano un ronzio fermo e monotono, nel quale si elevava soltanto la voce stridula da eunuco di un grosso moro venditore di caccabie (nocciole americane) che, ritto accanto a una stufetta fumante, cantava buffonescamente: 

Voila, voila, voila, 
voila jolie Liette: 
venez chercher de ça, 
de ça mes caccavettes. 

Myriam trovò il custode della casa dell'amante morta, scambiò con lui un breve dialogo in arabo e ottenne di poterla visitare. L'uomo, ammiccando dagli occhi infiammati dal tracoma, aprì con una grossa chiave rugginosa il portone chiodato e intarsiato e li introdusse nel patio. Poi sedé sul gradino della soglia e attese, grattandosi e canterellando a mezza voce gutturale i salmi dei muezzin

Nel patio quadro e ad arcate rette da snelle colonne, come un piccolo chiostro, s'addensavano piante polverose e arse, dalle foglie quasi metalliche. Le pietre erano coperte da una patina brunastra e qua e là tappezzate di muffe o chiomate di capelvenere. Attorno al patio si aprivano le varie stanze, nude e sonore, dalle volte preziosamente ornate, dalle modanature delicate, che serbavano avanzi d'affreschi e tracce di mosaici. 

- E' interessante, non le pare? - chiedeva Myriam, conducendo Bruno muto e inspiegabilmente commosso. 

Non sapeva, essa, trovare altri aggettivi; ed egli stesso, pure rendendosi conto che ci sarebbe stato da dire molto di più, badava meno alle bellezze suggestive dell'edifizio che alla persona della sua guida. 

- Questa è la camera ove la bella dormiva e dove passava gran parte delle sue giornate suonando, cantando, danzando e profumandosi per la gioia del suo signore. Che pensa lei? 

- Penso che quell'uomo, quell'arabo poligamo doveva effettivamente amare molto la sua donna se poté chiudersi con lei sola in questo eremo amoroso. 

- Non è vero? E l'aria claustrale di questa dimora doveva dare qualche cosa di mistico al loro amore. - Myriam gli si soffermò di fronte, guardandolo negli occhi, e seguitò: - Forse è possibile limitare tutta una vita, così, da creatura a creatura, appagandosi e trovando anzi la massima felicità in tutto quello che due cuori amanti possono darsi scambievolmente. 

Sorrise, scosse il capo con una piccola smorfia e fece schioccare il frustino in aria. 

- Io non so se saprei esserne felice. E lei? 

Bruno, che la guardava a capo scoperto, sentendo sempre più crescere un fremito interiore, lo stesso che aveva provato pochi giorni prima in casa sua, rispose con voce incerta e tremante: 

- Io, sì, se la mia compagna le somigliasse. Myriam lo guardò, rise piano piano e con la sinistra gli scompigliò i capelli. Egli improvvisamente la cinse alla vita e le cercò con le labbra le labbra che ella gli offerse, umide e carnose; e s'attardò su quelle labbra, le succhiò, le morse. Myriam si divincolò e poiché egli non la lasciava, co1 frustino gli applicò un colpetto sulle gambe, tra scherzosa e risentita. 

- No - disse, riacconciandosi il cappello sul capo quando egli l'ebbe lasciata - non mi piace che si prenda più di quel che io voglio dare. 

- E' giusto, - rispose Bruno, commosso e punto. 

E ritornarono indietro, lei loquacissima e ridente, lui turbato e taciturno.

XI

- No - decise Bruno - non voglio più rivederla. E' pericolosa, infatti. E poi potrei aver l'aria del cacciatore di dote. 

Benché Myriam, separandosi da lui, avesse insistito invitandolo a farsi rivedere e gli avesse sorriso guardandolo fisso e tenendogli la mano nella mano Bruno le serbava rancore di essere stato respinto all'insorgere del suo desiderio. Certo ella aveva avuto ragione; ma egli se ne adontava. 

Non ritornare più da lei, dunque, e cercare di non vederla più. Ma mille torbide voglie si scatenarono nel suo istinto maschile, alimentate dalla fantasia. 

Discorrendo con Ricchieri, Casazza e qualche altro, convennero di visitare una sera un Cabaret arabo. Il migliore era quello accanto a Porte de France. Vi andarono, senza fiducia di divertirsi. 

Nella sala non grande e senza finestre, l'aria era densa di fumo e di esalazioni grevi. Ai piccoli tavoli di ferro rotondi sedevano una quarantina di avventori, i più arabi e israeliti, che con le loro tuniche e i loro manti bianchi davano un poco più di luce al locale, illuminato appena da sei lampade elettriche a filamenti di carbone. Due di quelle lampade fiancheggiavano la piccola ribalta che faceva da palcoscenico, sulla quale stavano, sedute, aspettando ciascuna il proprio turno, tre danzatrici, nonché l'orchestrina composta di una chitarra, un mandolino, un piffero e un tamburello. 

Si consumavano caffè, birra e liquori. Ma Bruno notò che dinanzi a qualche avventore si ergeva una pila di piattini, indicante un gran numero di consumazioni da conteggiare. E poiché si stupiva di tanta intemperanza fra gente sobria come gli arabi, Ricchieri gli spiegò che quei piattini indicavano le consumazioni offerte invece dall'avventore alle danzatrici. 

- Qui, insomma, la galanteria è a base di bevute. 

La preferita del pubblico, quella cui in maggior copia venivano indirizzati i liquidi omaggi, era una piccina bruna dai grandissimi occhi neri e fiammanti, classici occhi da araba. Le due altre, più grandi e più forti di lei, indossavano larghe brache bianche, un bolerino rosso corto, e intorno al capo un fazzoletto a quadri. Ballavano, queste, con pesante lentezza, battendo gli zoccoli sull'impalcato, su un ritmo straziante, e sventolando goffamente i veli gialli, azzurri e rossi che impugnavano per le cocche. Il pubblico le seguiva distratto, tra chiacchiere a mezza voce e continui invii di rosolietti dolci all'araba ancora seduta. 

- E' malinconico. - commentò Bruno; e Casazza gli diede ragione. 

- Sta attento ora a Zakya: - avverti Ricchieri indicando la piccola diva - questa è un'egiziana, un'autentica almea di sedici anni. 

Quando venne la volta di costei, il pubblico indigeno la salutò con un applauso. 

- Zakya! Zakya! - le conversazioni tacquero, i distratti si rivolsero al palco, perfino i tavoleggianti presero a servire e ad andare avanti e indietro con cautela, sulle punte dei piedi. 

Zakya balzò innanzi sorridendo, a testa alta, una mano sul fianco e l'altra levata ad agitare un tamburello, facendone tintinnare i sonagli. Sotto la corta sottana le gambe snelle di purissima linea si mossero alternativamente con piccole flessioni in fuori dei ginocchi, tutto il corpo nervoso e asciutto ondeggiò sulle note dell'orchestrina fattasi d'improvviso intonatissima. La piccola bocca rossa si schiuse a un canto accorato e nostalgico, modulato con voce chiara e metallica che nei toni bassi somigliava a un bramito di giovane belva. 

- E' deliziosa - esclamò Bruno, interessato. La musica incalzò, il canto si fece più appassionato, le mosse della danza più vivaci, tutto il corpo si flesse, si contorse. Le braccia e le gambe scattarono in gesti serpentini, i piedini batterono con furia sulle tavole; e ora sulle anche immobili il petto tremò convulsamente sì da far sentire lo schiocco carneo dei piccoli seni sbattenti l'uno contro l'altro; e ora fra il tronco e le cosce ferme il bacino roteò sfericamente con ingorda lussuria. 

- Zakya! Zakya! - proruppe il pubblico arabo ed ebreo, battendo le mani, pestando sui tavoli di ferro. Ella raccoglieva gli applausi sorridendo e ripeteva la mossa, stravolgendo gli occhi come in un'estasi di godimento supremo. 

Bruno le mandò un bicchierino, che essa mostrò di gradire con un sorriso e un'occhiata al suo nuovo ammiratore. Ma in un gruppo di giovani arabi ben vestiti si manifestò un evidente malcontento. 

Appena lasciato il locale, Bruno, ancora eccitato dallo spettacolo ripensò a Myriam. Immaginò insistentemente lei nell'atto di danzare come Zakya. 

Nel rincasare, trovò Ahmed che l'aspettava per sapere se la mattina dopo dovesse sellargli la cavalla secondo la consuetudine. Ma Bruno voleva ora evitare ogni occasione d'incontrarsi un'altra volta con Myriam. Non aveva sonno, però, e intrattenne il giovanotto per raccontargli la sua visita al cabaret arabo e parlargli di Zakya.

- Bada, padrone: - lo avverti Ahmed - pericoloso. Arabi non permettere a cristiani di conoscere e toccare loro donne. Brutto luogo; coltellate. 

- Sì? fece Bruno, compiaciuto. Tanto meglio, allora. Vi sarà da provare qualche emozione. 

Ahmed non capì questa raffinatezza, ma lo guardò sorridendo e si congedò senza dir più nulla. 

*** 

L'indomani, al suo presentarsi in ufficio, il Console Generale lo fece chiamare per comunicargli, tutto soddisfatto, una lettera ministeriale che conteneva la sua promozione accelerata a vice-console, per meriti straordinari. 

La notizia fu telefonata al Giornale degli Italiani e agli intimi, si sparse subito nell'ambiente italiano. Cominciarono a giungere le congratulazioni, primissima una letterina odorosa di Peau d'Espagne che diceva: 

«Io la saluto con le parole del poeta: "Gloria italiana pura sul tuo cammino!..." Voglio a qualunque costo stringerle la mano. Myriam» 

Bruno sentì un impulso prepotente di correre a lei, di serrarla di nuovo fra le sue braccia, di gridarle: 

«Sono pazzo di te! Sei la donna che mi piace di più al mondo! Vieni: chiudiamoci insieme per sempre nella casa della favorita!» 

Ma se ella potesse credere a un calcolo da parte di lui? E se fosse quale Guerini gli aveva fatto capire, mettendolo in guardia? 

La sera tornò al Cabaret. Soltanto Ricchieri e Casazza lo accompagnarono, ma a malincuore: avrebbero preferito, dissero, andare al Palmarium ove debuttava una étoile del Moulin-Rouge di Parigi. Appena entrati, Bruno guardò verso il palco: Zakya era lì e lo accolse con un sorriso; ma subito dopo i suoi occhi girarono un po' esitanti in direzione d'un tavolo ove stavano seduti i giovani arabi che la sera avanti avevano dimostrato di veder male le premure del cristiano per la danzatrice egiziana. 

Bruno sedé, dopo aver guardato anche lui verso quel tavolo con aria provocatrice, esclamando: 

- Stasera voglio divertirmi. 

S'accorse allora che a un tavolo, più in fondo, stavano seduti in gruppetto quattro giovani arabi popolani volti verso di lui, fra i quali riconobbe Ahmed che gli sorrideva. 

Prima che Zakya iniziasse il suo numero, Bruno affidò a un cameriere, per consegnarglielo, un pacchetto di confetti e fondants che aveva comprati per lei. Essa li gradì con risate, cenni del capo e sguardi che lampeggiavano fra le lunghe ciglia, e ne fece parte alle sue compagne. 

I viveurs arabi pronunziarono forte qualche frase, guardando verso i tre italiani. Ricchieri, che capì, disse piano preoccupato: 

- Stiamo attenti, ce l'hanno con noi anche per ragioni politiche: italiani, guerra con gli arabi... Non vorrei che finisse male, Ti prego di essere prudente, Soveria. 

- Quanto a me - rispose Bruno - la prudenza l'ho lasciata a casa, tanto più se si tratta pure di sostenere l'onore nazionale. Ma tu sei libero di ritirarti; e anche tu, Tommaso. 

Tommaso restò titubante, guardando in bocca Ricchieri che doveva rispondere. Costui diventò rosso, bevve un sorso di birra e concluse: 

- No, resto; so che non sei un ragazzo e spero che conserverai la tua serietà. 

- Certo; - aggiunse Casazza - noi restiamo. 

La serietà. Quella parola irritò sordamente Bruno. La serietà non è, in fondo, la risorsa e la scusa dei poltroni? Oggetto di gomma che si allunga e si accorcia, se ne fa quel che la convenienza momentanea, l'egoismo e la paura consigliano. Avrebbe voluto litigare subito coi suoi amici, per gridare che della loro serietà ridicola se ne infischiava, che preferiva essere folle, correre pericoli, non badare a nulla, prendere la vita a pugni! Ma si contenne, per guardare invece, sempre coi suo fare provocante, verso gli arabi che resistettero un momento al suo sguardo, ma finirono col rivolgersi altrove brontolando. 

Allora cominciò a mandare, l'uno dopo l'altro, bicchierini di rosolio a Zakya, che gli rideva dietro lo schermo del suo tamburello, facendogli cenno e ammiccandogli verso quegli altri, con mossette tra ingenue e furbe, che avrebbero voluto spiegargli tante cose, ma che anche quegli altri vedevano, irritandosene sempre più. 

Quando fu l'ora della sua danza e del suo canto, Zakya indirizzò al solo Bruno il migliore sorriso del suo repertorio. Danzò e cantò con più calore, con più passione lussuriosa che mai e alla fine, stanca e ansimante, drizzandosi per raccogliere gli omaggi frenetici del pubblico, sempre guardando a lui solo, si pose con fare birichino una mano sulle labbra e sul cuore. 

- Zakya! - le gridò Bruno in piedi, battendo mani. - Stasera sei mia, eh? Tu es à moi! Et Tripoli à l'Italie! 

- Sei matto a dirlo coram populo? - gli fece Ricchieri, tirandolo pel lembo della giacca. 

Scoppiò un urlo selvaggio dal tavolo dei viveurs rabi. Uno di costoro, grasso, giallastro di pelle, affetti neri spioventi, proteso innanzi, le mani puntate sul tavolo, gli occhi schizzanti fissi su Bruno, ringhiò una frase aspra di gutturali e di aspirate, che quegli interpretò come un insulto. 

Ricchieri si alzò, abbottonandosi la giacca, e dirigendosi di fianco, fra tavolo e tavolo, a piccoli passi, verso la porta. Casazza si alzò pure, dividendo i suoi sguardi fra lui e Bruno. Questi si sentì i polmoni gonfi del respiro. eroico di Cambronne e rispose all'arabo, beffardo e frustante: 

- Et allors qnoi, Mustafà? merde à toi! 

L'arabo si alzò minaccioso, imitato dai suoi quattro compagni; ma prima che facesse un passo Bruno gli aveva scaraventato in faccia il contenuto del suo bicchiere di birra. Grida e accorrer di gente, tavoli in aria, tumulto. 

- Per carità, la ronda! - urlò il padrone del locale, mentre uno dei camerieri scappava fuori. 

L'arabo si asciugò il viso, schiumando, s'incurvo frugandosi in tasca. La mano ne uscì tosto brandendo una cosa lucente. Abbatté tavoli e sedie che lo separavano da Bruno e si slanciò. Ma Bruno, con un colpo di sedia, lo investì in pieno petto, rovesciandolo. Gli altri quattro frattanto erano alle prese con Ahmed e i suoi compagni, che si erano frapposti. 

Bruno aspettava che il suo competitore ringhiante si rialzasse, pronta la sedia per colpirlo di nuovo, e si rendeva conto nello stesso tempo di essere sereno e presente a se stesso, non come gli era occorso mesi prima con Rénouard. Tutto era naturale, ora, che i tavoli ruinassero a dritta e a manca, che gli arabi scambiassero cazzotti e colpi di bottiglie fra grida acutissima, che gli europei presenti assistessero chi spaurito e chi sorridente; naturale anche che quel marinaio francese rosso in. faccia e arruffato, con gesto meccanico della destra avanti e indietro ripetesse: 

- Assomme-le! Assomme-le! - I sergents de ville! - gridò Casazza di sulla porta. 

Tutti cercarono ricomporsi, sgattaiolare, molti riuscirono a battersela; Bruno ebbe il tempo di mettersi a un tavolo presso la porta, assumendo l'aria di spettatore. I poliziotti entrarono violentemente, le mazze brandite, intimando a tutti di fermarsi. Quattro di essi si fecero addosso agli arabi ancora accapigliati, li divisero a mazzate, li strapparono uno di addosso all'altro, si caricarono quasi di peso dell'antagonista di Bruno, e in pochi minuti ebbero fatto piazza pulita. Un quinto, un graduato, si avvicinò bruscamente agli europei rimasti, prendendone le generalità e per alcuni assicurandosi che non avessero armi addosso. Bruno gli mostrò in silenzio la sua tessera di riconoscimento e quegli lo salutò militarmente, ma in modo alquanto asciutto; poi si volse al padrone: 

- Se ancora una volta darai da dire, farò chiudere il tuo bordello e te ti schiafferò in carcere. 

Così Bruno poté avere la piccola Zakya. Quando sala restò quasi vuota ed egli ebbe pagato munificamente anche il conto dei vinti, andò incontro all'egiziana che lo guardava dal suo palco, tra lusingata e spaurita, dando al suo appressarsi piccoli gridi acuti frammisti a gorgheggi di risa. L'afferrò pel braccio e le disse: 

- Vieni! - e se la tirò dietro, tra lo stupore la disapprovazione muta degli astanti. 

Sulla porta trovò Casazza che aveva già chiamato una vettura chiusa a due cavalli. Era tardi e nella strada buia e semideserta non li notò nessuno; tranne forse un gruppetto di signore fra le quali Ricchieri parlava piano e animatamente. 

- Grazie, Tommaso. L'Italia ha vinto. A rivederci! - rise Bruno e, fatta montare Zakya, le sedé accanto, le cinse con un braccio la vita esile e se la trasse sulle ginocchia. La carrozza partì, in un turbine gaio di sonagliere.

XII

- Dottor Soveria, - disse il Console Generale al suo subalterno che gli stava dinanzi con l'aria di chi attenda la grandine - tutto a suo beneficio, in questi giorni. Ho qui la sua nomina a cavaliere della Corona d'Italia. 

- Oh, lei mi colma di giubilo! - e Bruno, respirando, si sentì sicuro di avere evitato la ramanzina che si aspettava. 

- Il guaio è, - proseguì il console, guardando le carte che aveva in mano - che a lei il giubilo dà alla testa. 

- Non capisco. 

- Lo so già che lei capisce quando vuol capire. Che ne è, dica un po', del suo servo arabo? 

- Ci siamo - pensò Bruno; e a voce alta. - Lo ignoro. Da due mattine non si fa vivo, Ieri, come domenica, avrebbe dovuto venire più tardi, perché gli accordo qualche ora di libertà, dato che io non mi alzo prima di mezzogiorno... 

- Già, si sta bene a letto, le domeniche, specialmente quando si è in buona compagnia. 

Bruno cominciò ad eccitarsi; quelle maniere da giudice istruttore non erano fatte per mantenerlo calmo. 

- Senta, commendatore, mi parli chiaro. Mi dica fino a qual punto io debbo render conto della mia vita privata. 

Il console batté le carte sul tavolo, lo guardò con durezza, poi prese a dire rapidamente e in falsetto, segni in lui della massima sovraeccitazione: 

- Quando si serve lo Stato, e si è in una condizione delicata come siamo tutti qui per ora, e abbiamo richiamato sulla nostra persona, come nel caso suo, per meriti anche speciali, l'attenzione generale, si ha il dovere di camminare su un filo di rasoio pur nella vita privata. 

Bruno fu li lì per rispondergli un'insolenza; ma si pose a guardare il ritratto del re che gli faceva i broncio. 

- Di queste considerazioni lei non ha voluto tener conto - proseguiva il Console - e mi crea nuovi imbarazzi verso le autorità francesi e verso tutti. Lei sarà pieno di buone qualità, non voglio metterlo in dubbio: ma è un individuo pericoloso. Se non avesse per sé l'atto del novembre scorso e la simpatia dei superiori e l'aureola che si è formata nell'opinione pubblica, le dico chiaro e tondo che io l'avrei fatto punire severamente, forse anche destituire... 

- Destituire poi... 

- Sissignore, per bacco! So tutto, dall'a alla zeta. Queste sue gesta da Casanova non mi vanno. 

- Commendatore, - proruppe Bruno - mi punisca, faccia quel che crede, purché smettiamo le paternali. 

Il Console restò un momento interdetto; poi si alzò con moto nervoso e si diede a passeggiare in su e giù per la stanza, con le mani dietro la schiena, brontolando: 

- E va bene! e va bene! Alla fine gli si piantò dinanzi, guardandogli fissamente e minacciosamente la cravatta. 

- Ho bisogno. di far compiere un'ispezione e un'inchiesta sulle condizioni dei nostri lavoratori nelle miniere di Metlaoui. Vostra signoria partirà domani stesso e vi resterà finché io non l'abbia richiamata. Stasera le darò le opportune istruzioni. Vada pure. Ah, badi che la polizia francese per rimettere in libertà quel suo servo, domanda una malleveria, certe dichiarazioni, non so... Veda lei, purché non mi faccia altri pasticci. 

Bruno rientrò, fremente, nella sua stanza e vi trovò, ritta dinanzi alla finestra, battendo un piede per l'impazienza, una figura femminile in costume d'amazzone, Myriam Stefanovich. Essa gli andò incontro con ansia gioiosa, gli prese una mano tra le sue. 

- Soveria! Che ha? 

- Niente, una discussione col signor Console. Ma lei? come mai qui? Che avviene? 

- Sono avvenute tante cose che lei sa - rispose essa guardandolo con quegli occhi socchiusi che davano le vertigini. - Perché non si è fatto più vivo? 

- Ma... non so... Temevo di disturbarla. Temevo soprattutto, anche guardandola, di prendere più di quello che lei non mi volesse concedere. 

- Oh, che permaloso! - esclamò Myriam, ridendo senza lasciargli la mano. - Come sta Zakya? 

Bruno la guardò e involontariamente sorrise anche lui. 

- In questo momento non so. Fino a iersera stava bene. 

Myriam gli appoggiò le mani sulle spalle, fissandolo un momento in silenzio coi suo sorriso sconcertante. 

- Lei è dunque capace di fare simili follie per una donna qualsiasi? 

- Una donna non è più qualsiasi quando mi piace e mi viene contesa. 

- E che cosa farebbe allora per una donna amata? 

Egli volle essere ancora pungente. 

- Tutto quello che essa mi permetterebbe. 

Myriam scoppiò a ridere, di gusto. Poi, raccolto lo strascico della sua gonna, gli tese la mano, congedandosi, e gli disse a bruciapelo: 

- Se la donna amata fossi io, le permetterei di venirmi a trovare quando volesse, per parlare di cose serie. 

*** 

La mamma a Bruno:

«Bruno mio, la notizia del tuo fidanzamento mi giunge così inattesa, che non so cosa dirti. Ti confesso che avrei preferito conoscere anch'io prima la donna che dovrà diventare tua moglie. Altro io avevo sognato per te, ben lontano forse dalle grandi ricchezze, dalle condizioni brillanti che mi descrivi. Io la vorrei, più che bella come la tua Myriam che ammiro dal ritratto, la vorrei buona; ma confido che sia anche tale. Ad ogni modo, se essa può fare - come tu credi - la tua felicità, io la benedico fin da questo momento. 

«Verrò certamente a conoscerla al tuo ritorno dalla missione di cui mi fai cenno, e che immagino gravosa. Non cesso di raccomandarti di essere prudente e di averti ogni riguardo; fallo per la creatura che ami e per la tua mamma. 

«La zia Carmela è stata operata felicemente. Ma è sciupatissima e molto mutata anche nell'umore. Lo zio Giovanni perde di giorno in giorno quel che gli rimaneva di attività e di energia e lascia ormai tutto in mano a quel Bonsignore, che speriamo gli sia effettivamente devoto come dichiara. 

«I Collebrina male. Ti salutano. 

«Baci dalla zia Anna; tanti, tanti e mille benedizioni da me». 

Bruno a Peppino Foresi: 

Gafsa - marzo 1912 

Mio carissimo rispondo tardi alla tua ultima giuntami a Tunisi il giorno prima della mia partenza per la missione e del mio fidanzamento. Aspetta un poco e ti spiego. 

«Gli avvenimenti della mia vita, ai quali cosi premurosamente ti interessi, dopo quelli che già conosci, sono proprio questi due: il mio fidanzamento e la mia missione. 

«La mia fidanzata è quella signorina Myriam Stefanovich che ti ho presentata in una mia lettera precedente. Sì, essa viene giudicata alquanto severamente dai più, fra i quali per un momento mi trovai anch'io, e lo avrai notato dalle mie parole d'allora, quando la passione improvvisa e il dispetto mi facevano velo. Ma nei giudizi influisce molto lo spirito meramente borghese dell'ambiente in cui essa vive, essa che è quanto di più antiborghese si possa immaginare. 

«Il nostro fidanzamento è avvenuto quasi all'improvviso, il giorno prima della mia partenza da Tunisi. La mattina essa mi aveva fatto capire che io non le ero sgradito, nel pomeriggio andai a trovarla a casa e le chiesi se avessi capito bene. Mentre mi rispondeva di sì, arrivava suo padre al quale ella stessa si affrettò a comunicare che io avevo domandato la sua mano, che lei me la concedeva e che si attendeva che anche lui, il legittimo genitore, desse il suo consenso. Il consenso fu accordato con un abbraccio vibrante di commozione, che anche in quel momento mi parve eccessivo e teatrale, ma che gradii quanto la circostanza comportava. 

«Il giorno dopo fui obbligato a mettermi in viaggio per raggiungere l'estremo sud della Reggenza. 

«A Metlaoui, in otto giorni mi sono sbrigato; ma l'intenzione del cosiddetto mio superiore era di allontanarmi dalla capitale finché non mi arrivasse una nuova destinazione fuori della Tunisia. A sua insaputa, io ho fatto un ricorso ufficioso alle autorità superiori in Roma e ora ne attendo l'esito. Se non sarò accontentato, prenderò due mesi di congedo per una ragione qualsiasi, che andrò a trascorrere a Tunisi accanto alla mia fidanzata, a marcio dispetto di quell'antenna dondolante coronata di canapa del Console Generale. 

«Da Metlaoui son venuto a rifugiarmi a Gafsa, che ne dista poco, anche per consiglio del mio servo arabo Ahmed che è dei luoghi. Veramente egli è nato nella regione dei Matmatas, paese di trogloditi a circa duecento chilometri da qui in linea latitudinare; ma è sempre da considerare come un sahariano. 

«Sì, caro Peppino, perché qui si è proprio nell'estremo lembo nordico del Sahara, tutto sabbie: qualche cosa come la spiaggia di Mondello elevata alla centesima potenza. Gafsa ne è un'oasi, delle più belle, con un abitato di circa diecimila anime. Peccato che non sia più abbastanza oasi né ancora città! C'è un hotel, un circolo militare, caffè all'europea e trattorie. Ma ci si annoia, poiché come paese barbaro è troppo addomesticato e come paese civile manca di attrattive. Ahmed me lo ha consigliato perché egli ci si trova meglio che a Metlaoui, agglomerato di casupole di minatori e di miniere di fosfati e perché dice che io qua posso scrivere e lavorare a più bell'agio. Sarebbe così, se avessi voglia di scrivere e di lavorare; ma in questi momenti, non so se pel sole africano, pel clima molle, per l'aria densa profumata e lasciva, o se per la mia fantasia che vola alla ricerca di Myriam, sento una grande ripugnanza pei lavori seni, per la latinità di cui dovrei occuparmi, e mi pare d'essere diventato né più né meno che un Peppino Foresi. 

«Manca, come ti dico, l'attrattiva, l'avventura, scopo della mia vita. "Eppure, no: due quasi-avventure, due scaramucce in tanta pace, sono venute fuori. Te le voglio raccontare. La prima s'intitola Rebecca e la seconda Sahib. 

«Rebecca è la cameriera dell'albergo quasi europeo ove io dormo e faccio i miei pasti. Ebreo il padrone, qui venuto da Sfax per adempiere alla sacra missione di lucrarvi con gli ufficiali del presidio e radi viaggiatori o diplomatici in punizione come me; ebrea la domestica. Diciotto anni, sposa da sei mesi e momentaneamente vedova, perché quando l'ho conosciuta il consorte prestava servizio a Metlaoui presso un ingegnere minerario. Fin dal primo giorno notai clic ogni volta che mi portava i piatti o le sigarette o il caffè in camera, mi sorrideva e qualche volta mi diceva, in italiano.: "servito, signore..." 

«E sorridi e servi oggi e sorridi e servi domai dopo quattro giorni ho dovuto pur dirle qualche cosa anch'io, mostrare d'interessarmi a lei non foss'altro per la politesse. Le domandai come conoscesse così bene l'italiano, a Gafsa. Mi rispose, con una grazia tutta orientale e con un accento non privo di comica dolcezza, che lo aveva imparato a Sfax, in casa d'un medico italiano ove aveva servito fin da ragazzina. Una parola tira l'altra, come le rituali ciliege, e raccontò tutta la sua vita, in un compendio di trenta parole. Vita molto banale, da cameriera e da ebrea, ma mi bastò a farla intrattenere di fronte a me guardandola e sorridendomi, fino a quando mi accorsi che somigliava a una mia buona amica di Parigi, Annie, della quale credo averti già fatto il nome. Questo fatto della somiglianza fra loro di tante donne che ho conosciuto è la mia persecuzione. Io ho quattro o cinque tipi: quando m'imbatto in una donna appartenente a qualcuno di questi, puoi giurarci che ci scappa la corbelleria. E io non so godere al mondo senza corbellerie. Ritenni opportuno dire a Rebecca che la trovavo carina. Essa rispose che era vecchia. Qui infatti, si è ancora giovani fino a sedici anni soltanto. 

«Io volli provare. Cominciava appena a diventare bella per gli uomini della sua religione: cominciava, cioè, a ingrassare. Ma era assai fine di lineamenti. Dalla scollatura del suo abito tradizionale feci scivolare una mia mano su certe morbidezze bianche e vellutate. Essa disse: "E' peccato! è peccato!" ma lasciò fare. Ti confesso che mi davano un po' di fastidio i suoi larghi calzoni bianchi, stretti alla cintola da una corda scorrente. A un tratto la voce del proprietario la chiamò ed essa scappò via, non senza dirmi: "Tornerò quando mi vorrai". 

«Il caldo può molto, nelle oasi africane, anche sugli animi profondamente innamorati, come il mio. Debbo anzi confessarti che il ricordo della mia fidanzata non giova a rendermi un casto Giuseppe. Gafsa non offre la possibilità d'incontri come la stessa Zakya, di cui ti ho pure scritto. Mi era ripugnato fino allora cercare donne, non ci avevo pensato neppure, e non sono uomo capace d'attentare alla tranquillità delle famiglie oneste come sono le poche europee, massimamente di ufficiali e funzionari francesi, qui residenti. Ma vedermi tentato fino a domicilio da una donna giovane, graziosa e nuova e dovermi rifiutare a essere cavaliere, no! Cosi, io mi sono adattato a entrare in Palestina. 

«Questo è l'episodio di Rebecca, che speriamo finisca qui. Dico speriamo, perché da ieri è ritornato Giosuè Attias suo marito, un ometto in redingote nera e mutande bianche e una cicia a calotta sull'occipite, molto servizievole, tua continuamente dietro a domandarmi sigarette. Si dà poi un gran da fare che non capisco. 

«Episodio di Sahib. Io faccio, al mattino o sul tardi, una passeggiata a cavallo. Ho condotto con me una giumenta bella e intelligentissima d'un mio amico di Tunisi: Ayesha, che amo come una sorella in animalità superiore. Posseggo anche una rivoltella, una magnifica arme americana a dodici colpi calibro nove su tamburo normale da calibro dodici: una piccola mitragliatrice, che pesa meno di una rivoltella d'ordinanza e così dolce che appena ne premi il grilletto ti scarica tutti i colpi in fila. 

«Su Ayesha, la giumenta, e con Folgoretta, la rivoltella, m'internavo giorni fa, nel folto dell'oasi. Il colonnato arboreo delle palme era così fitto, in un punto, che mi toccò scender d'arcione e condurre la cavalla per la briglia. Ahmed, che mi seguiva, m'invitò a ristorarci bevendo mi po' di lahbi fresco. Il lahbi è il vino di palmizio, che gli arabi fanno zampillare dall'alto dei tronchi scapitozzati. La linfa dolciastra, dal gusto di datteri liquidi, viene filtrata attraverso un pezzo di tessuto naturale di fibre che si ricava da sotto la corteccia di quegli alberi, e bevuta in bicchieri di legno. Io ne sono molto ghiotto, anche perchè essa parla alla mia fantasia. Quando la bevo, ho la sensazione di non essere più un uomo civile, ricordo e rivivo i Robinson della Guyana e i naufraghi dell'Isola Misteriosa. 

«Eccitato, forse, da copiose libagioni di lahbi, procedevo passo passo tirando per le redini Ayesha che cominciava a mostrarsi restia, quando uno scoppio improvviso di latrati e di ululati mi fece sobbalzare. Da uno dei terrapieni tra cui il sentiero del bosco è in quel punto incassato, scattò all'improvviso una massa fulva infuriata e si avventò al muso di Ayesha. La cavalla, impennandosi, riuscì a evitare il morso; ma la belva, trascinata dal proprio slancio, venne a piombare dinanzi a me, spalancando certe mascelle che a prima vista mi parvero quelle d'un lupo o d'una iena. Io avevo frattanto cavato dalla fondina sul mio fianco destro Folgoretta e, prima d'essere azzannato, ne scaricai un colpo sulla non bene identificata fiera, che, ferita, cominciò a girare su se stessa guaendo pietosamente. 

- E' un lupatto. - dissi allora ad Ahmed che accorreva. 

- No, padrone, piccolo sloughi, - rispose egli da conoscitore. 

«Riconobbi infatti un grosso cucciolo, nato certo dall'incrocio di un individuo, della famosa razza di cani berberi con un lupo, evidentemente abbandonato o disperso, che intendeva con quegli abbaiamenti e quelle dimostrazioni furiose far festa, a suo modo, a persone e a un animale coi quali voleva entrare in dimestichezza. Era abituato già agli uomini e ai cavalli di qualche douar, tribù errante di pastori, da cui proveniva. La sua pacificità ci fu dimostrata dall'uggiolio lamentoso che continuò a emettere mentre si leccava la ferita a un fianco, sogguardandoci con occhi imploranti. Io sentii un profondo rimorso e mi chinai su lui a carezzarlo, senza più temerne i morsi; ed egli non soltanto lasciò fare, e s'adagiò permettendomi di osservargli la ferita e di asciugargliela col mio fazzoletto, ma perfino mi lambì le mani con la lingua umida e calda. Era troppo pietoso, e m'interessò come una creatura umana. Decisi con Ahmed di portarlo via, fino all'albergo, e curarlo meglio. 

«La detonazione frattanto era stata udita da un agente dell'ordine che si trovava poco lontano. Ci si presentò un graduato degli zaptiè, arabo, ma personaggio di rilievo. Bruscamente ci chiese perché avessimo sparato, se avessimo autorizzazione a portare armi e chi fossimo. Esibii i miei documenti e spiegai il fatto. Egli mi salutò e cercò anche mostrarsi amabile aiutandoci a portare il cane. Ma mi chiese ancora, così, a titolo conversativo, come mai un funzionario consolare italiano si trovasse a Gafsa, se provenissi dai territori ove c'era la guerra, ecc. Gli spiegai quanto ritenni opportuno, ma gli feci rilevare che non poteva esserci nessun rapporto tra Gafsa, che sta al confine occidentale e i territori in guerra, al confine opposto. 

- Oh, - rispose egli - ci debbono essere, se le autorità di Tunisi ci raccomandano di sorvegliare il contrabbando. 

«Incuriosito gli feci altre domande; ma egli temette forse di essersi lasciato sfuggire un segreto d'ufficio ed eluse ogni mia insistenza esaltando la neutralità francese, come anche il valore dei poveri arabi che, in fondo, si difendevano come potevano; peccato che i turchi, però, fossero pezzenti e spilorci!... 

«Così finisce, anch'esso per ora, l'episodio di Sahib. Ho dimenticato di dirti che questo è il nomi che Ahmed ha dato al cucciolo, col mio consenso, in memoria d'un altro cane indiano, che apparteneva a un suo primo padrone. Sahib è quasi guarito or mai e non mi ha più voluto lasciare. Io sono contento di tenermelo, per farne dono alla mia fidanzata che nelle sue lettere, mi domanda sempre di lui. A Myriam, naturalmente, non ho mai fatto cenno di Rebecca, non perché io tema che possa ingelosirsene no, anzi una delle ragioni che l'hanno indotta a amarmi, a quanto pare, è appunto una certa aureola dongiovannesca, di cui ella stessa, esagerando, mi cinge. Ma come Zakya mi è giunta fra le braccia li circostanze drammatiche che l'han resa interessantissima, questa è così bassamente borghese che me in vergogno. Farebbe, è vero, la felicità del comune amico Casazza, che preferisce la risciacquatura di cucina all'acqua di lavanda; ma io non oserei scusarmene agli occhi di Myriam neppure in nome della mia mascolinità insofferente. 

«T'inviterò alle mie nozze, caro Peppino. Per ora lavora e procura rifarti del perduto: tempo e denaro. Ti abbraccio.» 

*** 

Da una lettera di Myriam a Bruno: 

« ... Cotesto tuo continuo, ardente richiamo, mi dà alla testa. Anch'io soffro, lontana da te, anch'io ti penso, con una fissità tormentosa, e soltanto vale ad acquetarmi la certezza che fra due mesi sarò tua moglie. Nondimeno non prenderla come una promessa - può darsi che un giorno o l'altro, per ventiquattr'ore, io ti faccia un'improvvisata. Scrivimi subito se conti restare ancora a Gafsa e fino a quando. Certo a Metlaoui, se tu dovessi ritornarci, non mi sarebbe possibile, perché vi sarei troppo notata: mio padre è uno dei maggiori azionisti delle miniere, e tutti - quasi - gl'impiegati mi conoscono. Gafsa stessa è troppo lontana, poi, per una semplice scappata. Preferirei saperti, per esempio, a Gabes, ove la ferrovia mi porterebbe in dodici ore. 

«Ma, ripeto, non prenderla come una promessa... »

 

 
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