Antonio Prete, Il mantello dell’antilirico (“Alias 44”, Il Manifesto, 6 novembre 1999)

 

Può accadere che un’epoca – col suo brulichio di corpi e ferite, di speranze e conflitti, di atmosfere urbane e di moti collettivi – possa essere narrata, meglio che da una scrupolosa microstoria, da un’opera in versi. L’opera in versi di Majorino, ora raccolta nell’Autoantologia (Garzanti, pp. 420), appartiene a quelle rare esperienze in cui la scrittura poetica è, allo stesso tempo, acuminata invenzione linguistica ed esplorazione di corpi viventi. Corpi osservati nei gesti quotidiani e minimi, ma anche sorpresi dentro il grande teatro di una vita pullulante di volti e sommovimenti, di desideri e miserie: una vita che è onda e affanno di moltitudine, ma che per ciascuno è l’unica, irripetibile vita.

Se, nelle differenti stazioni della ricerca poetica di Majorino, un registro resta costante, è quello di un’ironia particolare, capace di tenere insieme il sorriso e il rifiuto, la leggerezza e la rabbia: un’ironia che si svolge secondo i modi di una malinconia non entropica o distruttiva, ma indagante, conoscitiva, fantasiosa (una sorta di “gaia scienza”, consapevole, gnosticamente, del male del mondo). Le forme linguistiche di questo senso del tragico (leopardiano e nietzscheano) sono la dissonanza, da deformazione e scomposizione lessicale, l’annessione del parlare anonimo e neutro, del balbettio stralunato, della parola usurata dalla banalità e svenduta al mercato del senso comune: in mezzo a questa stravolta tessitura, si mostra, improvvisa, ammiccante, la lucentezza di un verso classico o s’insinua il falsetto di un melodrammatico delirio. Insomma, lo sguardo verso la poesia muove dalla fine del tempo poetico. Da questo punto di vista l’opera di Majorino occupa una posizione singolare: prossima, per l’insistente nesso tra disincanto e critica radicale, a Fortini. Ma anche prossima, per il decisivo legame tra la lingua e la corporeità, e tra questa e la storia, a Zanzotto. C’è da aggiungere che da lato, e nel cuore, del poeta Majorino, c’è sempre stata la passione per la teoria, e per una politicità poco incline all’addomesticamento ideologico: tra le riviste Il corpo e Ragionamenti, tra Quaderni piacentini e le successive riviste di poesia da lui stesso animate, il lavoro sul linguaggio è proceduto in sintonia con l’interrogazione teorica e politica.

L’Autoantologia si apre con La Capitale del Nord (1959) e si chiude con alcuni recenti inediti, riprendendo, integralmente o in selezione, e ordinando secondo nuove scansioni, raccolte come Ricerche erotiche (1965), Lotte secondarie (1967), Equilibrio in pezzi (1971), Sirena (1976), Provvisorio (1984), La solitudine e gli altri (1990), Cangiante (1991), Tetrallegro (1995).

Sul finire degli anni cinquanta, La Capitale del Nord, libro antilirico, ma denso di energia e di pathos, faceva un balzo oltre il neorealismo metropolitano e oltre lo sperimentalismo dei gaddiani. In una lingua che allineava monologhi, iterazioni, scorci del romanzesco urbano, sequenze dialogiche, citazioni pubblicitarie, stralci melodici, frammenti di cronaca, Milano mostrava le sue strade, le banche, gli interni di latterie e di uffici, le vetrine, i tic e i teatrini interiori dei ceti medi. Nei versi del poeta agivano, quanto a ricerca di timbri e sguardi, e agiranno nella successiva scrittura, i grandi modelli dei baudelairiani Tableaux parisiens, ma anche l’Eliot di The waste land.

Altre presenze trascorreranno nel lavoro poetico di Majorino: un Brecht non mediato né da rigorismi ideologici né da riduzioni spettacolari, un Kafka non metafisico, ma dalle allegorie nitide, colme di cose quotidiane, di respiri individuali, di corpi viventi. Si tratta di presenze che smentiscono che volesse collocare la poesia di Majorino tra realismo e sperimentalismo.

Nei libri di Majorino, da Lotte secondarie a La solitudine e gli altri, lo svuotamento della liricità coincide con un recupero del naturale, del naturale inteso come presenza di corpi tra corpi, di corpi intramati, per dir così, d’altri corpi, di singoli non irrelati, ma traversati e scossi e conformati dall’appartenenza agli altri singoli. L’approdo è a una sorta di poetica della somiglianza: prossimità di volti anonimi, persi nel magma della quotidiana a-patia, ma congiunti dalla comune mortalità. Nell’azzeramento del “poetico”, così attivamente perseguito, è il tu che cerca la sua forma, la sua presenza dentro il linguaggio. In una poesia che è solo il resto della poesia, o la sua irraffigurabile impronta, in una sintassi che lacera la sua stessa trama, in una lingua che guarda il suo incavo, il suo ingorgo, il suo vuoto, è il tu, o comunque un dire pronominale, che affiora, e affiora come una zattera nel naufragio del certo e dell’attesa (per questo nella ricerca di Majorino un poeta come Celan è più importante di quanto possa a prima vista apparire).

In questa rete – non creaturale ma fisica e corporea – che unisce il singolo alla moltitudine e al destino, gli animali affollano la scena. Gli animali con i loro mantelli e piumaggi e artigli. Con il loro indecifrato enigma. Questo movimento, che trascorre nella recente poesia di Majorino, si manifesta secondo una ripresa di modi corali e in certo senso danteschi. Si può leggere, splendido esempio di questo nuovo tempo, una delle ultime sequenze poetiche raccolte nell’Autoantologia, che comincia: “andavamo tutti come fosse un’emigrazione/ chi per acqua chi per terra, allarmati/ notammo che un leone ci oltrepassava/ ma era come quando nella tundra incendiata/ fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi (...)”

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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