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CAPOLAVORI
DEL TEATRO: KOHLHAAS
Una, sedia, un uomo, una luce.
Non c'è bisogno di niente altro per raccontare una storia.
Così una scelta coraggiosa diventa una sfida vincente.
Che splendido narratore è Marco Baliani, uno dei più
grandi attori italiani contemporanei, dotato della straordinaria capacità
di tratteggiare vicende e personaggi con uno sguardo, un gesto, un
calo di voce.
La sua figura domina la scena ma non la soffoca: l'ascoltatore è
lasciato libero di perdersi nelle pieghe della narrazione, a costruirsi
il suo spettacolo personale.
Questo magnifico "Kohlhaas" nasce dalla rielaborazione dell'omonimo
racconto di Kleist. Ma si intuisce subito che sarà tutta un'altra
cosa: la vicenda vive una vita sua, si conquista uno spazio privilegiato,
superando i limiti della parola scritta.
La storia acquista toni epici e come una valanga
s'ingrossa, acquistando vigore e potenza man mano
che rotola a valle.
Baliani è nudo sulla scena, le sue uniche armi sono la parola
e il gesto. Il pubblico, come ipnotizzato, evade dal chiuso del
teatro per raggiungere una Germania cinquecentesca e partecipare
alla disperata epopea di Kohlhaas: piange, ride, s'indigna, s'interroga
per quest'uomo disperato.
Michele Kohlhaas è un allevatore di cavalli che
sacrifica tutto (la moglie, il lavoro, la casa, i figli) per inseguire
la Giustizia. Ruba, stupra, uccide alla kafkiana ricerca di questo ideale
superiore.
Giusto? Sbagliato? Nessuno può dirlo.
Marco Baliani non vuole, forse non può,
assolvere o condannare Kohlhaas.
Né può farlo qualcuno giù in platea.
Ognuno è, alla fine, luteranisticamente solo con la
propria coscienza.
Nessuno esce con la risposta in tasca....forse, solo più ricco
di qualche domanda.
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