IL PERIODO SABAUDO E IL
XIX SECOLO
La Sardegna quando Vittorio
Amedeo II, nel 1720, ne prese possesso, era in condizioni
veramente tristi perchè i Vicerè spagnoli
l'avevano ridotta all'estrema miseria. I pochi benefici
ottenuti dall'isola furono la creazione del Supremo Magistrato
della Reale Udienza, investito non solo del potere giudiziario
per tutta l'isola, ma anche di attribuzioni politiche a
freno dell'Autorità Viceregia. L'introduzione della
stampa per opera di Nicolò Cannelles, canonico del
Duomo di Cagliari, morto Vescovo di Bosa, che nel 1566 fece
venire a Cagliari Vincenzo Sambenino da Salò, che
impiantò una tipografia. E l'istituzione dell'Università
degli Studi di Cagliari, con Bolla Pontificia del 1606 di
Paolo V.
La lingua spagnola rimase
in uso nelle Scuole e nei Tribunali della Sardegna fino
al 1764. Nei conventi e nelle chiese fino al 1827, e nel
dialetto sardo e della Trexenta, molte sono le parole catalane
e spagnole che ricorrono ancora.
La dinastia sabauda adottò
riforme in materia politica, militare, finanziaria e sociale.
Per tutto il primo secolo
del suo dominio l'Amministrazione piemontese cercò
di migliorare a suo vantaggio le condizioni della Sardegna,
soprattutto, tramite il miglioramento dell'agricoltura.
Nel 1728 Selegas contava
128 fuochi, ne contava 134 nel 1698(1).
Nel 1730 il primo Re di
Sardegna sabaudo, Vittorio Amedeo II abdicò a favore
del figlio Carlo Emanuele III, sotto il cui Regno si ebbe
un miglioramento delle condizioni generali della Sardegna.
specialmen
te con la nomina a Ministro
del Conte Bogino, che oltre alla fondazione delle colonie
di Carloforte (1738-50) e Montresta (1749), fece riformare
i Monti frumentari (1767) e favorì la creazione dei
Consigli comunali(2).
Una certa incidenza ebbero
in campo agricolo l'introduzione del gelso e della patata
e, soprattutto, appunto, la riorganizzazione dei Monti frumentari,
che esercitavano il credito in natura, anticipando ai contadini
il grano per la semina, da restituirsi al raccolto con un
modestissimo interesse; ciò che contribuì
a limitare se non a far sparire del tutto il triste fenomeno
dell'usura. Grazie all'intervento dei "Monti",
la produzione media di grano aumentò. Si ebbe anche
un aumento della popolazione dell'isola.
L'istituzione dei Monti
granatici risaliva in Sardegna al 1650, ma fu rinnovata
e quasi ricreata nel 1767(3). I Monti avevano un carattere
cooperativistico, perchè alla sua dotazione concorrevano,
con gratuite prestazioni di lavoro (roadìe) tutti
i contadini interessati. Essi prosperarono finchè
mantennero una certa autonomia di gestione; deccaddero quando
il governo incominciò ad attingere per altre finalità
ai cospicui fondi di una istituzione economicamente attiva.
Francesco d'Austria Este(4)
nella sua descrizione della Sardegna (1812), scrisse a proposito
dei Monti granatici:
"Una bellissima istituzione
in Sardegna, che si deve alle cure del Re Carlo padre del
Re Vittor Amedeo di Savoja, ed a quelle del dotto e saggio
suo Ministro il Conte Bogino, è quella dei Monti
granatici.
Sotto a questo provvido
Ministro adunque si fabbricarono in tutti li principali
villaggi della Sardegna dei granari pubblici a spese del
re, e si comperò, e mise in ognuno di questi granari
tanto grano quanto occorre per tutto il seminerio del distretto
di quel villaggio. Questo grano si conserva sotto la custodia
di 2 o 3 persone principali del villaggio, come i Vicarj,
i Parrochi, li Giurati etc.; e al tempo del seminerio s'impresta
gratis dal Monte Granatico, e dal rispettivo granajo del
distretto ad ogni paesano del distretto che vuol seminare,
tanto grano, quanto esso abbisogna di seminare col patto,
che al tempo del raccolto il paesano restituisca al granaro
pubblico, ossia al Monte Granatico altrettanto grano quanto
ha preso per seminare, e un'ottava parte di più,
cioè 1/2 imbuto per starello. Quindi se ha preso
8 starelli ne restituisce 9; e questo è giusto anche
perchè il grano suol costare molto più al
tempo del seminerio, che a quello del raccolto.
Di questa ottava parte
del tutto che rientra di più di grano, che non si
è speso dai granari, non so se due, o uno per cento
ne ha il vantaggio il Direttore Generale dei Monti Granatici
(che ora è il Marchese Buil, che sta a Cagliari),
e forse 1 per 100 le persone sue subalterne; che forma il
loro pagamento, il resto va ad aumento dei medesimi Monti
granatici, che poi a un'occasione di carestia servono anche
d'una pubblica rissorsa come servirono nella carestia dell'inverno
del 1812).
Le persone poi dei villaggi,
alle cui cure sono affidati i parziali granaj dei villaggi,
come i Vicarj, Parrochi, Giurati, Signori, etc. hanno per
pagamento quello che chiamano l'accrescimento, cioè
siccome il grano si mette nei granaj nel tempo caldo estivo
della raccolta il grano è secco, ed occupa meno spazio:
stando fino all'inverno nei granaj, che sono più
umidi, il grano gonfia, e cresce di 5 per 100 per esempio
100 starelli messi alla raccolta diventano 105. Questo 5
per 100 se lo dividono quelli che hanno l'amministrazione
e la custodia del granajo pubblico nel villaggio, e questo
serve di loro pagamento.
Ecco in cosa consiste questa
bella istituzione dei Monti granatici, utilissima in un
paese, che vive d'agricoltura, e ove i paesani sono poveri."
Il Valery, nel suo Viaggio
in Sardegna del 1834(5), scrisse a sua volta:
"Indipendentemente
dalla fecondità del terreno, una bella istituzione
contribuisce all'abbondante e costante produzione dell'agricoltura
sarda: quella dei Monti granatici e nummari, magazzini per
il prestito del grano e dell'orzo a tutti i contadini, i
quali hanno diritto di reclamare ciò che occorre
per la semina, e di avere in prestito al mite interesse
dell'uno per cento, il denaro di cui hanno bisogno per acquistare
le bestie da soma e gli arnesi aratori. queste istituzioni
così benefiche, così popolari, quasi degne
dei tempi futuri di emancipazione onestamente sognati prima
della rivoluzione, e meno ingenua
mente ripresi ai nostri
giorni, queste vere banche del lavoratore, che esistono
fin nei più piccoli villaggi, e che sono sorvegliate
da una giunta generale che risiede a Cagliari..."
Alla coltivazione dei gelsi
e all'allevamento del baco da seta dedicò un poemetto
in ottava rima in lingua sarda campidanese il gesuita Antonio
Porqueddu, nato a Senorbì nel 1743 e morto nel 1810.
Questi soggiornò per qualche tempo a Torino, dove
i contatti con gli ambienti di Corte e governativi lo indussero
ad assecondare in qualche modo la politica riformatrice
piemontese, propaganadando anche in Sardegna la gelsicoltura.
Il suo poemetto intitolato "Su tesoru de sa Sardigna",
fu pubblicato nel 1779(6).
Tuttavia, alla mancata
evoluzione in senso moderno dell'agricoltura isolana concorsero
due importanti elementi, strettamente connessi alla politica
perseguita dalla Casa Savoia nel Governo della Sardegna:
da una parte la conservazione, in certo senso obbligata
per impegni internazionali, dell'ordinamento feudale ereditato
dagli spagnoli, e dall'altra il mantenimento della condizione
di preminenza e di privilegio dei centri cittadini, e di
Cagliari in special modo, nei confronti delle popolazioni
delle campagne(7).
Ai feudatari di origine
iberica i regnanti di Casa Savoia aggiunsero ed in certo
senso contrapposero con ulteriori infeudazioni un certo
numero rilevante di nuovi Baroni. Nè derivò,
specialmente nei distretti di pianura dove erano prevalenti
le attività agricole, una situazione di stallo, che
finì
per ripercuotersi pesantemente
sulla produzione granaria. La vita nel feudo rimase come
bloccata; ai vassalli era preclusa ogni possibilità
di riscattarsi dalla soggezione baronale e di ottenere migliori
condizioni di vita(8).
Le proprietà private
erano pocchissime, come poche erano le tanche recintate.
La massima parte del territorio rientrava nel Demanio feudale
e le singole comunità ne avevano una certa disponibilità
con le "vidazzoni", estensioni di terreno aperto
e dissodato posto per lo più intorno all'abitato
di ciascuna villa. Su di esse si esercitava l'alternanza
fra "seminerio" e "paberile" (o riposo
a pascolo) secondo un criterio di rotazione variamente determinato(9).
Poichè i lotti delle
"vidazzoni" erano, assegnati a tempo, per una
sola annata o per pochi anni, difficilmente avveniva che
un contadino curasse con migliorie e concimazioni il fondo
assegnatogli(10).
L'agricoltore si preoccupava
del raccolto di una sola stagione, ben sapendo che l'anno
successivo il terreno poteva passare ad altri.
Peraltro, il Governo piemontese
lasciò inalterato uno dei capisaldi della legislazione
spagnola, quello del cosidetto "arbitrio frumentario",
che stabiliva i limiti entro i quali i contadini erano assoggettati,
oltre a numerosi altri adempimenti, a diversi obblighi e
restrizioni(11).
Sul totale delle "consegne"
e dedotti i quantitativi per le semine, per i bisogni familiari
dei coltivatori e per l'approvvigionamento delle città
"insierro", il Vicerè stabiliva il prezzo
d'afforo, che era un prezzo politico, mai remunerativo per
i produttori, e determinava la quantità destinata
all'esportazione(12).
Il Bogino lasciò
insoluti anche altri problemi di fondo, quali la formazione
di una rete stradale che favorisse il commercio interno,
la creazione di una marineria mercantile, l'impianto di
manifatture e d'industrie.
A proposito delle condizioni
dei villaggi della Sardegna, delle sue proprietà,
obblighi verso il loro feudatario, prestazioni al padrone,
alla Chiesa; e alla divisione del territorio in feudi, Francesco
d'Austria Este scrisse(13):
"La Sardegna è
tutta divisa in tanti feudi... che comprendono un distretto
di terre, e possessi, cioè villaggi, campi, pascoli,
boschi, e territori incolti conceduti in diversi tempi dai
Sovrani della Sardegna a certe famiglie benemerite, o nobili
a titolo di feudo...
...Questi feudi sono popolati
di paesani, abitanti delle ville, e queste famiglie suddite
di paesani sono proprietari delle loro case, del loro bestiame,
dei loro utensilj rurali e mobili, più hanno una
certa quantità di terra loro assegnata in proprietà
nel feudo, che non è in quantità uguale, ma
diverso in ogni feudo, che resta in ogni qualunque caso
proprietà di quella famiglia di paesano da padre
in figlio, e di
cui possono anche per testamento
disporre in caso di morte senza figli, e non mai queste
terre rustiche ricadono né al feudatario, né
al Sovrano.
Il paesano le coltiva con
la sua famiglia, ed il suo bestiame, paga le decime di tutto
alla Chiesa, le quali si dividono fra il Vescovo, e li Canonici,
o Rettori, che hanno le parrocchie, secondo una certa proporzione
fissata diversamente in ogni luogo. Più il paesano
deve pagare al suo padrone, o feudatario (o al re se il
feudo è vacante) tanti starelli di ogni sorta di
grano dopo il raccolto quanti egli semina ogni anno, e questo
ugualmente in anni buoni, e cattivi. Più deve pagare
un testatico al padrone, cioè per ogni maschio della
sua famiglia che abbia passato credo 15 anni uno scudo all'anno,
e piccolissime prestazioni di ovi, galline, di vitelli,
ove hanno bestiame al pascolo.
Del resto il paesano non
paga altro, che non è obbligato né a lavori
per il padrone, né ad altre prestazioni, né
pel padrone, né pel Sovrano, fuorchè se vi
è passaggio di truppa in marcia deve dare loro l'abitazione
e fuoco, e lume: ma essendo molto grande l'ospitalità
in paese, danno liberamente gratis anche il mangiare al
soldato; poi debbono contro un fisso pagamento dare carri
per trasporto de' bagagli delle truppe di stazione, orzo
pei cavalli etc..
La porzione poi di terre
del feudo, che è in proprietà del feudatario
padrone il paesano non è obbligato a coltivarle;
e il padrone deve venir a patti col paesano acciò
che gliele coltivi. Questi patti sono o un contratto d'affitto;
ovvero il contratto di dimezzare il
raccolto; p.e. il paesano
deve coltivare, seminare il terreno, tagliar il grano, batterlo,
e poi detratte le decime la metà del prodotto di
grano è per lui, e la metà del padrone...Pagano
poi i villaggi un certo quanto all'anno, che è ben
poco, e si troverà accennato nella lista che ho fatto
dei nomi, e popolazioni dei villaggi di Sardegna, e ciò
per titolo di contribuzione annua per fare, e mantenere
le strade, e i ponti nel regno, che viene ripartito su tutti
li possessi...".
Nel 1770 il Vicerè
Conte Hallot des Hayes e di Dorzano(14), in occasione di
una sua visita a tutti i villaggi della Sardegna, riunì
anche i Sindaci ed i Censori delle due Parti della Trexenta:
Partito di Guasila (comprendente Pimentel, Ortacesus, Barrali,
Guamaggiore e Guasila) e Partito di Senorbì (comprendente:
Senorbì, Selegas, Seuni, S. Andrea, S. Basilio e
Arixi), per un'inchiesta sulle condizioni della Sardegna
condotta su interrogatori alle Autorità e agli abitanti
dei villaggi, mirante a raccogliere gruppi di dati, secondo
un determinato ordine: elezione dei Sindaci, Amministrazione
della giustizia, abusi, discolismo, fazioni locali, Monti
granatici, ecc..
Il Conte partì da
Cagliari il 3 marzo 1770 accompagnato dal Generale delle
Armi Conte Badat, colla maggior parte dei Reggimenti Saluzzo
e Sardegna, e con buona parte della più alta nobiltà
e dei più cospicui feudatari, che si trovavano nella
città; la maggior parte dei quali, nei pressi di
San Pantaleo (Dolianova) lasciarono il Conte, col quale
rimase il Conte Badat(15).
Terminate le udienze a
San Pantaleo e a Sicci, il Conte con tutta la comitiva s'incamminò
verso Senorbì accompaganto per un lungo tratto di
cammino(16): "...dalli Monsign.re Arcivescovo e Marchese
Vico di Conquista, e strada facendo, come anche il giorno
precedente è risultato il piacere all'E. S. di vedere
i seminati copiosi, con apparenza d'un abbondante ricolta.
Proseguendo il cammino
verso Senorbì s'incontrò lungi due ore da
questa villa il Reggidore del Marchesato di Villasor, accompagnato
dal podatario, Cavagliere Piras, Consultori e Curiali, unitamente
al Rettore, Curati ed Ecclesiatici, li quali scesi a terra
felicitarono l'E. S. e dopo un breve complimento, montati
a cavallo, ed incorporati coll'altra Gente del seguito si
giunse a Senorbì verso le ore 11 del dì 4
marzo coll'accompagnamento di numerosa cavalleria.
Nell'entrare in questa
villa si trovò tutta la Fanteria, e delle ville vicine
sulle armi, fiancheggiando la Contrada dalle prime case
sino all'abitazione destinata per S. E., la quale appena
smontata da cavallo, si portò a visitare quella chiesa
parrocchiale, che ritrovò ben Ufficiata, e con sufficienti
suppelletili, con avere mandato frattanto avviso circolare
a tutti li Ministri di Giustizia, Sindaci, Censori, e qualunque
altro individuo delle Undici ville della Trexenta à
dovere, cioè li primi portare gl'atti e processi,
e gl'altri a rassegnare all'E. S. qualunque Rappresentanza
ricorso, o lamento, mentre si sarebbe reso ad ognuno compimento
di Giustizia; e di fatti comparirono li seguenti Sindaci,
à quali sendosi fatti interrogazioni risposero in
sostanza quanto segue...".
Il Sindaco di Senorbì
dichiarò(17):
"Che la nomina del
Sindaco vien fatta nella maniera seguente, cioè:
allo scader del tempo raccorre
al Reggidore il Sindaco con supplica per il permesso dell'elezione
di cinque probiuomini, li quali formano col Ministro di
Giustizia ord.° la terna di tre soggetti, uno dei quali
vien dal pred. Regid. nominato, poscia con licenza dello
stesso Regidore si riunisce la Communità tutta per
conferire la Procura al nuovo eletto; e per esso atto li
Ministri di Giustizia esiggono un discretto dritto.
Il Sindaco esige dalla
comunità 20 scudi annui a titolo di stipendio...
...Successivamente si sono
pure presentati li Sindaci delle quattro Ville seguenti,
del partito di Senorbì, cioè Francesco Corona,
Sindaco della villa di Seuni, Francesco antonio Serra Sindaco
d'Arixi, Giò Antonio Porru Sindaco della Villa di
San Basilio, e Francesco Castangia Sindaco di Selegas...
...Questi interpellati
tutti separatamente hanno assicurato nelle loro risposte,
riconoscere cadauno una retta amministrazione di Giustizia
tanto per parte della Curia maggiore, quanto dal canto de'
Ministri ordinarj.
Che nel rispettivo dipartimento
non vi regna alcun malvivente, nè discolo e che la
nomina de' Sindaci viene fatta nella stessa guisa, che si
pratica nella villa di Senorbì.
Che non vi ha barracelli,
alla riserva nella Villa di Selegas, mentre rispetto alle
altre Ville per la piccolezza dei loro territori, e distretti
bastano gl'Eletti, che vengono nominati dalle rispettive
loro Communità per custodire i beni comuni...
...Essendo stata l'E. S.
informata da ministri della visita generale, che quell'Uff.le
del partito di Senorbì, per nome Mauro Antonio de
Villa, avesse commesso mancanza in Ufficio, che si riporta
nella pezza intrascritta piuttosto considerata provvenir
da ignoranza, e semplicità, che da positiva dolosa
malizia, per la genuina confessione del med. e presentazione
degli atti si è perciò l'E. S. contentata
di prescindere da quella pena, a castigo che avrebbe potuto
meritare, con fargli provare gli effetti di una clemenza,
avendolo fatto licenziare dall'impiego di uff.le di Giustizia...
Questa determinazione ha prodotto un buonissimo effetto
in tutto il dipartimento della Trexenta e si è immediatamente
ordinato al regidore di surrogarvi altro soggetto, che fu
interinalmente nominato Giuseppe Antonio Carrus di Selegas,
persona di sufficiente abilità...
...Ha S. E. voluto essere
informata degl'avanzamenti de' Monti Granaticj, egli è
risultato esservi la quantità di starelli di grano
come sotto.
Senorbì St. 1749
Seuny " 216
Sèlegas " 360
S. Andrea " 119
S. Basilio " 516
Arrixi " 516
PARTITO DI GUASILA
Pimentel St. 863
Ortachesus " 879
Barrali " 313
Guamajor " 344
Guasila " 240
."
Nella sopracitata relazione
non si accenna alla istruzione e all'analfrabetismo, alle
comunicazioni (strade e servizio posta, ponti), alla ricchezza
o povertà degli abitanti, al fattore demografico
e all'industria sia pure casalinga, mentre ben poco si rileva
sul regime tributario feudale, sul pagamento del donativo,
sui reati più frequenti, sul regime delle incariche
e dei guidatici.
Certe volte, come a Senorbì
e, quindi, anche a Selegas i cinque probiuomini formano
la terna col Ministro di giustizia e invece che dal feudatario
(se questi è assente) la nomina viene fatta dal reggidore
del feudo. segue, sempre col permesso del reggidore, la
riunione della Comunità per conferirgli il mandato.
Si nota che Selegas è
esente dalla piaga del discolismo, che invece è notevole
in parecchi villaggi della Sardegna.
Risulta evidente il benefico
impulso dato dal Bogino ai Monti granatici. Quasi tutti
i villaggi ne hanno uno ed in condizioni assai prospere.
Risulta che per Selegas,
come per tutto il partito di Senorbì, non sia stata
fatta una ricognizione sommaria dei tributi feudali e dei
doveri degli abitanti.
La Trexenta risulta, inoltre,
fortunata per quanto riguarda i furti di bestiame e i danneggiamenti
alle colture.
Come conseguenza della
visita del Vicerè nei villaggi della Sardegna, si
ebbe l'Editto del 24 settembre 1771, col quale veniva, radicalmente,
modificata e ridotta ad uniformità la composizione
dei Consigli civici e dei Consigli commutativi. L'Editto
riduceva da cinque a tre le classi dei cittadini eleggibili:
la prima era formata dai Cavalieri e laureati; la seconda
da Notai, Procuratori, negozianti ed altri che potessero
contare su adeguate rendite; la terza da Notai e Procuratori
aspiranti a passare nella categoria superiore, da mercanti,
bottegai e professionisti (con esclusione, quindi, degli
artigiani e degli agricoltori)(18).
Veniva stabilito che ogni
villa che avesse almeno 40 fuochi dovesse avere un Consiglio
commutativo eletto da tutti i capi famiglia. Il numero dei
Consiglieri variava a seconda della consistenza demografica
delle ville(19).
La popolazione era divisa
in tre ordini, in base al censo: primo, mezzano e infimo.
Alla prima categoria appartenevano
i cosidetti "principales": Nobili e Cavalieri,
professionisti, laureati, Ufficiali di giustizia, Ufficiali
delle truppe miliziane di cavalleria e fanteria, e ricchi
proprietari; alla seconda
i produttori che coltivassero un certo numero di starelli
di terra e possedessero uno o più gioghi di buoi;
alla terza i meno abbienti e i nullatenenti(20).
Il primo votato della prima
classe aveva la qualifica di Sindaco e durava in carica
un anno. L'anno successivo veniva sostituito dal primo dei
Consiglieri della seconda classe, e così il terzo
anno dal primo dei Consiglieri della terza classe. Le competenze
del Consiglio erano molto ampie(21).
Continuò a persistere
l'anacronistico ordinamento feudale, che costituì
il più rilevante ostacolo al progresso civile, economico
e sociale dell'isola. Il regime feudale continuava a gravare
sui vassalli di tributi, contribuzioni e prestazioni, che
erano di tre specie: reali, personali e giurisduizionali.
A queste si aggiungeva la "Decima" dovuta agli
Enti ecclesiastici. In media i contribuenti pagavano più
di un quinto di ciò che seminavano; il gravame maggiore
ricadeva sui massai, che possedevano uno o più gioghi
di buoi da lavoro per la coltivazione dei propri terreni.
Infatti, i pochi "principales", spesso direttamente
legati al feudatario, godevano di speciali agevolazioni;
mentre parte della popolazione del villaggio era costituita
da nullatenenti (la media contributiva di questa categoria
era del 20% del valore delle sementi, quella dei "principales"
era del 10%, mentre quella dei massai superava la metà
del grano seminato)(22).
Le terre coltivate erano
divise in tanche chiuse da muri a secco o da siepi e in
vidazzoni. Il tratto di terreno per lo più irriguo,
permanentemente destinato alle coltivazioni, era denominato
"sa segada de
sa jua". Nel "padru"
(terreno pascolativo per cavalli, buoi e vacche da lavoro
o nel "saltu" (bosco e macchia) per il bestiame
rude allo stato brado, ogni pastore aveva in concessione
una "cussorgia", terreno non delimitato da confini
ben definiti, più o meno esteso in rapporto alla
consistenza del gregge, su cui esercitava un diritto di
pascolo, e nel quale poteva impiantare una capanna(23).
"La Sardegna è
un paese fertilissimo specialmente per grani; il suo terreno
in tutte le parti di pianure, e di colline dolci, e valli
è grasso e fertile...". Così si esprimeva
nel 1812 Franceso d'Austria Este(24), e così proseguiva:
"...Di grani si semina
moltissimo frumento, niente di segala perchè tutti
mangiano pane bianco, del resto nascerebbe come il frumento.
Seminano orzo per cavalli, e per far pane; ma avena non
ne seminano, sebbene nascerebbe bene, e produrrebbe molto,
si vede l'avena selvatica, che nasce fra l'orzo; ma per
i cavalli sardi dicono che riscalda troppo senza dar bastevole
nutrimento, perchè mangiano paglia e non fieno.
Fieno non v'è nè
in tutta la Sardegna, che come una rarità in alcuni
luoghi... L'unica erba che tagliano è l'orzo che
seminato fitto a posta per tagliarlo più volte in
erba, e serve di purga, e nutrimento ai cavalli, e al bestiame
in primavera, e la chiamano fruina; ma quest'orzo non matura,
serve solo per erba. Del resto hanno a proporzione pochi
prati, in Sardegna, solo in certi luoghi; del resto il bestiame
va al pascolo sui campi non coltivati, nelle terre incolte,
nei sterpi e nei boschi, e così pascola tutto l'anno:
nelle montagne d'e
state trova più
nutrimento...I campi generalmente in Sardegna non danno
che un solo prodotto all'anno, e riposano un anno, e producono
l'altro. Alle volte dopo il raccolto d'un anno in autunno
arano, e alla primavera a marzo riseminano il grano, e chiamano
questo il secondo raccolto: ma il grano seminato a marzo
non dà tanto.
Le ulive, e piante d'ulive
sono anche nelle vigne, ma per lo più sono in boschetti
separati, detti Uliveti, ove non vi sono che alberi d'ulive...La
vigna cresce, fiorisce, l'uva matura, e si fa la vendemmia
alla fine di settembre o al principio di ottobre, e il vino
nuovo si beve in gennaio, e non avendo cantine stentano
a conservare il vino al di là di un anno...
...Tornando alla coltura
dei campi per prova del terreno buono si sono fatte delle
prove, che qualche buon terreno coltivato bene con particolare
cura, ingrassato, etc., ha dato fino a 70 volte la semenza,
mentre nel paese si computa come una straordinaria abbondanza
il frumento da 15 volte la semenza, e l'orzo 20 volte; ma
a anni comuni il frumento dà 10 volte circa, e l'orzo
14 volte la semenza in buoni terreni fertili, ma coltivati
alla sarda...Le fave danno assai più, danno 20 volte
la semenza in anni comuni, e anche fino a 30 volte.
I terreni si arano due
volte, e dai più diligenti anche tre volte; ma in
tutto l'estate è difficile di arare perchè
non piove mai, o pochissimo, onde arano in maggio o giugno,
poi all'autunno prima di seminare, arano poco profondo,
anche nei terreni più grassi con soli due bovi sardi,
che sono piccoli e deboli, onde non possono arar profondo.
Seminano nel decembre,
e gennaro nella pianura, cioè arano dopo le pioggie
alla fine di ottobre, o di novembre secondo gli anni, e
poi seminano...L'orzo si semina a dipresso nel medesimo
tempo, che il frumento e ambedue maturano in giugno, e alla
fine di giugno, o fra il 15 e 30 giugno si comincia a tagliare
il frumento, e anche l'orzo contemporaneamente, lo tagliano
con le falci e senza legarlo in mazzi, lo trasportano sui
carri, o cavalli alle aje, che sono luoghi vicini ai villaggi
di terra battuta, ma luoghi aperti, esposti alla pioggia
ed alle intemperie senza tetto, ove poi in luglio, ed agosto
battono il grano, cioè lo fanno calpestare dalle
bestie, da cavalli, o bovi, e la paglia in Sardegna non
serve che per nutrir le bestie in luogo di fieno, e il grano
lo insaccano.
Il villano di tutto deve
dare le decime alla chiesa, oltre ciò, nel tempo
che si batte il grano nelle aje girano capucini, francescani,
e tanti frati mendicanti d'ogni sorte, e vanno da aja in
aja a mendicar il grano dal villano, a cui lo domandano,
ora in onor di un santo ora d'un altro e fanno temere il
villano, che se lo ricusa il raccolto futuro sarà
cattivo, che quel santo non lo proteggerà, e il villano
allora dà a tutti, e spesso dà tanto che ben
poco gli resta per lui fra quello che dà alla chiesa,
al padrone del feudo, ai frati; e quindi è che spesso
non conviene ai villani di seminar di più, non avendone
gran profitto.
Li villani hanno, nelle
loro case delle camere, o magazeni ove ripongono il loro
grano, se hanno vino lo tengono sotto un piccolo tetto in
una botte, le fave le tengono col grano amucchiato nelle
camere, la paglia l'amucchiano nei loro cortili, giardini.".
Agli inizi del XIX secolo,
nonostante la presenza nell'isola della Corte sabauda, che
aveva trovato rifugio in uno Stato proprio, sfuggendo all'invasione
francese dell'Italia settentrionale, la situazione interna
si faceva sempre più preoccupante in diversi paesi
e in genere nella zona cento-orientale dell'isola.
Addiritura ad una piccola
guerra si giunse tra Fonni e Villagrande Strisaili e Villanova
Strisaili dall'altra, per questioni di pascolo(25).
Un passo avanti per il
riordino amministrativo fu compiuto con l'istituzione di
15 Prefetture aventi competenza anche in materia giudiziaria,
a Cagliari, Oristano, Iglesias, Villacidro, Mandas, Tortolì,
Laconi e Sorgono, nonché Sassari, Alghero, Tempio,
Ozieri, Bosa, Nuoro e Bono.
Selegas, dal 1807, in seguito
al Regio Editto del 4 maggio, fece parte della Provincia
di Mandas, sede di Prefettura.
Sino al secolo scorso sopravisse
in Sardegna una singolare organizzazione militare a carattere
volontaristico, che costituì una forza ausiliaria
a disposizione del Governo, soprattutto per la tutela dell'ordine
pubblico: Le Compagnie miliziane.
Le origini delle Compagnie
miliziane sono assai antiche, e non è facile stabilire
il periodo della loro costituzione anche perchè,
spesso, vennero fuse con altre similari (barracelli, pratargi,
vidazzonargi, ecc.) ed agivano di concerto quando si trattava
di sopperire ai bisogni dell'ordine.
Capitano della fanteria
miliziana e ricco proprietario terriero fu Giorgio Marcello
di Selegas, appartenente ad una famiglia originaria di Tiana.
Egli si era, appunto, distinto
nella difesa di Cagliari, contro i francesi, e nel 1793
ottenne il Cavalierato ereditario e la Nobiltà(26).
Nel 1782 aveva ottenuto il Cavalierato ereditario e la Nobiltà
anche il seleghese Francesco Felice Serra, appartenente
ad una famiglia originaria di Nurri, che si era reso benemerito
durante la carestia del 1780(27).
Nel 1783 lo stesso istituì
una Commenda dei SS. Maurizio e Lazzzaro, e ottenne il predicato
di Santa Maria(28).
Suo figlio Giuseppe Agostino,
nel 1824, chiese il titolo marchionale che non gli fu concesso;
nello stesso periodo la famiglia si trasferì a Cagliari(29).
Le Compagnie miliziane
nell'800 erano ancora bene organizzate e si consideravano
come un Corpo regolare. Constavano di 12 Battaglioni, per
tre quinti di milizie a piedi e per il resto a cavallo(30).
I fanti erano conosciuti
col semplice nome di miliziani, mentre i cavalieri assunsero,
nel 1836, il nome di cacciatori miliziani.
Ogni Battaglione era composto
da sei Compagnie con una forza di circa 150 uomini.
Il Battaglione di Cagliari,
a cui appartenevano i miliziani di Selegas e della Trexenta,
contava 1520 unità. Ciascun Battaglione possedeva
un adeguato numero di Ufficiali e Sottufficiali.
Queste truppe agivano spessissimo
con le truppe di ordinanza e disimpegnavano servizio d'ordine
pubblico, di ronda, di scorta e di traduzione prigionieri.
L'armamento consisteva
in una "cannetta", fucile ad avancarica dalla
canna lunga e fine, nonché da "sa stiredda",
specie di daga per i miliziani, sciabola e pistolone per
i cacciatori.
L'uniforme è ancora
notissima in Sardegna, perché la indossa uno squadrone
che, in omaggio agli antichi tempi, e ad un voto municipale,
scorta il Protettore dell'isola, Sant'Efisio, nella sua
Sagra di maggio. Consiste in un berrettone e giubetto rossi,
cinturone di pelle con ricami di seta, gonnellino e uose
nere, calzoni ampi di lino bianco.
Non tutti i miliziani,
però, specialmente dell'interno, indossavano questa
uniforme e spesso prestavano servizio in abiti borghesi,
solo muniti delle armi prescritte.
Con Pregone del 22 dicembre
1863, tutti i sudditi del Regno sardo, vennero obbligati,
toccando i 20 anni, a prestare servizio in questa
Milizia, ma furono così
numerose le esenzioni che, di fatto, il reclutamento continuò
a essere volontario.
Durante quei tempi e specialmente
dopo la promulgazione del Decreto 3 marzo 1832, il servizio
regolare di polizia civile e giudiziario, venne disimpegnato
dal Reggimento di Cavalleggeri di Sardegna, in collaborazione
con le Compagnie miliziane.
Nel 1847, comandava il
Battaglione di miliziani di Cagliari, col grado di Maggiore,
il Conte Raffaele Lostia di Santa Sofia.
Nel 1851 non si hanno più
notizie delle truppe miliziane e dei Cavalleggeri.
Le prime erano state abolite,
i secondi erano stati incorporati, nel 1853, nella nascente
Arma Reale dei Carabinieri.
Nel 1811-12 si abbattè
sulla Sardegna una carestia che fu paragonata a quelle memorabili
del 1728 e del 1780. Dopo due annate abbastanza povere,
il 1811 fu caraterizzato da mancanza di piogge ad aprile
e da un caldo eccessivo a maggio. Mentre infieriva un'epidemia
di vaiolo, l'approvvigionamento dall'estero si era reso
difficile più che dalla guerra marittima in corso
contro i francesi di Napoleone Bonaparte, dalla mancanza
di soldi(31). "Consunte le biade -scisse il Martini-
i poveri ed anche la gente in prima non bisognosa, presero
a pascersi a modo di brutti d'erbe silvestri anche nocive
alla sanità; intiere famiglie emigrarono dalla loro
stanza in cerca di vitto; ed informata alle ossa la pelle,
lacere le vesti, a passi stentati, e con gemiti e grida
compassionevoli, recarono la desolazione e il lutto, ovunque,
facendo di sé lamentosa mostra". Anche il raccolto
del 1812
fu molto modesto, e il
prezzo del grano si mantenne altissimo, malgrado le misure
di rigore annunciate ai produttori. Le conseguenze economiche
e sociali furono disastrose(32).
Tuttavia, nel 1816, si
ebbe una carestia anche peggiore. A rendere intollerabile
la situazione dei più poveri contribuì il
freddo eccezionale dell'inverno 1815-16, mentre si diffondeva
un'epidemia che causava un'eccezionale mortalità,
soprattutto fra il marzo ed il maggio 1816, e che sarebbe
cessata solo nell'agosto(33).
Nel 1812, Selegas contava
800 abitanti(34).
Nel marzo 1816, nacque
a Selegas, Padre Agostino Meloni, entrato come frate minore
nel Cenobio di San Mauro; si laureò a Cagliari in
teologia e, quindi, si trasferì a Roma per studiare
lingue orientali. Fu premiato da Papa Gregorio XVI con sette
medaglie d'oro.
Nel 1850 ottenne a Torino
la cattedra di Sacra Scrittura e di lingue orientali. Soppresse
le cattedre di teologia in tutto il Regno, divenne "applicato"
alla Biblioteca dell'Università di Cagliari. Qui
morì nel luglio del 1873(35).
Nel 1832 venne restaurata
la chiesa di Sant'Anna, che nel 1700 era stata dotata di
due statue lignee devozionali, opera di Giuseppe Antonio
Lonis, nativo di Senorbì: la statua di Sant'Anna
e quella della Vergine d'Itria.
Le statue del Lonis sono
le migliori fra le opere di artisti locali sardi dell'epoca,
per fattura e colorazione.
Formatosi a Napoli alla
scuola dei figurinai di presepe, il Lonis tenne bottega
a Cagliari, nel quartiere di Stampace, e lavorò intensamente
per oltre 50 anni(36).
Le sue opere si osservano,
oltre che a Selegas, in alcune chiese di Cagliari; anche
in molti altri centri del Campidano si conservano ancora
le tracce della sua opera e di quella di numerosi suoi allievi
e imitatori: nessuno dei quali, però, raggiunse il
dignitoso livello artistico del "maestro"(37).
Il 6 ottobre 1820, Vittorio
Emanuele I firmava il "Regio Editto sopra le chiudende,
i terreni comuni e della Corona e sopra i tabacchi nel Regno
di Sardegna". L'Editto delle Chiudende stabiliva che
qualunque proprietario avrebbe potuto liberamente "chiudere
di siepe o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno
non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio,
di fontana, o d'abbevveratoio ecc.". L'applicazione
dell'Editto incontrò notevoli resistenze nell'isola.
Nella
antica Provincia di Cagliari
le chiusure andarono abbastanza a rilento. Ma, anche qui,
vistosissimi patrimoni furono costruiti con l'arraffare
Demani comunali, e le domande dei decreti di concessione
furono più numerose nei centri più ricchi
(in Trexenta, soprattutto a Senorbì).
Nella Provincia di Cagliari
risultava chiuso un quarto del territorio della città
capoluogo; un quinto ad Uta; molto ad Assemini, Pula, San
Sperate; molte vigne risultavano chiuse a Quartu, Quartucciu,
Selargius e Pirri; abbastanza si era chiuso a Decimomannu,
Serramanna e Sestu; poco o pochissimo negli altri 40 Comuni(38).
Dalla possibilità
della chiusura non veniva esclusa nessuna categoria di terreni,
nemmeno i beni della Corona, dei Comuni e della Chiesa.
Questo provvedimento favorì il consolidarsi della
grande proprietà terriera da parte dei benestanti,
a danno dei piccoli contadini, che non erano economicamente
in grado di effettuare le recinzioni, che dovevano essere
fatte con siepi o muri o fossi. Si ebbero, perciò,
e anche a causa delle ambiguità della legge, numerose
e violente sommosse, represse anche nel sangue.
Nel nuorese, verso il 1830,
le popolazioni si sollevarono contro l'Editto(39).
Per meglio chiarire la
natura dei disordini, si riportano i versi del grande poeta
dialettale sardo Melchiorre Murenu, che denunciano gli abusi
e le violenze che furono elevate a sistema nell'attuazione
dell'Editto:
Tancas serradas a muru
fatas a s'afferra afferra
si su chelu fit in terra
bo serraizis cussu puru.
L'Editto delle Chiudende
segna anche l'accelerazione di quel processo inarrestabile
di frammentazione della piccola proprietà fondiaria,
che arriva, oggi, a forme alluccinanti.
Contemporaneamente, in
linea con le "nuove" concezioni dell'epoca, apparve
la necessità dell'abolizione del sistema feudale,
che era d'impedimento all'attuazione dell'Editto sulle Chiudende,
e veniva astrattamente considerato un residuo della barbarie
medioevale.
Si arrivò, così,
all'Editto del 12 maggio 1838, che stabiliva che i terreni
dei feudi divenissero proprietà della Corona, qualora
non fossero passati in proprietà dei privati o dei
Comuni. Si riscattarono, pagando abbondantemente i feudatari
tramite un debito pubblico che gravò interamente
sugli ex vassalli sardi, i settanta feudi esistenti con
i 344 villaggi che li componevano. Anche in questo caso
gli abusi e le contestazioni furono numerosissimi.
Selegas, come il resto
della Trexenta, fu riscattata ai de Silva Alagon, Marchesi
di Villasor.
Nel 1842, sotto il Regno
di Carlo Alberto si ebbe l'introduzione del Sistema Metrico
Decimale dei pesi e delle misure.
A Carlo alberto si deve
anche l'unione della Sardegna agli Stati continentali, ed
il merito di aver promosso una certa liberalizzazione nel
commercio dei prodotti agricoli; e ciò costituì
un forte incentivo per l'aumento della produzione in vista
di maggiori profitti per l'esportazione.
Per quanto riguarda il
Sistema Metrico Decimale, c'è da dire che in tutta
la Sardegna, si continuò a far uso dei vecchi sistemi
di misurazione, a livello non ufficiale, fino alla prima
metà del 1900.
Nella Sardegna meridionale
la misura del grano e d'ogni sorta di granaglie e legumi
era lo starello (Moi). Quanto alla misura del peso, la libbra
sarda conta 16 oncie. Il quintale 104 libbre.
La misura di lunghezza
era, in generale, in tutta la Sardegna il palmo. Otto palmi
equivalgono ad una canna.
E', a questo proposito,
interessante riportare quanto scrisse Francesco d'Austria
Este, nella sua descrizione della Sardegna del 1812(40):
"...Del resto le altezze
di muri etc. si contano a trabucchi; ma le distanze da luogo
a luogo, la lunghezza delle strade non si computano a miglia,
ma ad ore di cammino, e per un'ora di cammino si computa
la strada, che si fa a cavallo in un'ora andando di passo,
ma d'un passo affrettato, detto portante in paese, che equivale
al passo affrettato d'un uomo a piedi...I fluidi come vino,
oglio si vendono a boti...
...Riguardo alle monete
in Sardegna l'infima moneta del paese è il Cagliarese
che vale due denari; e il soldo Sardo ha 6 Cagliaresi, ossia
12 denari; poi vi sono i Reali e li mezzi Reali moneta d'argento
erosa; e i reali valgono 5 Soldi sardi, e i mezzi reali
2 1/2 Soldi. La Lira sarda ha 4 reali, ossia 20 Soldi Sardi;
ma la lira Sarda moneta è ideale, però tutti
i computi si fanno in Lire sarde. Moneta reale d'argento
buona è lo Scudo Sardo, che equivale 2 1/2 Lire sarde,
ossia 50 Soldi sardi; così esiste il mezzo scudo
di 25 Soldi, il quarto di Scudo di 12 1/2 Soldi...Le monete
sarde d'oro sono la Doppietta sarda di 2 Scudi e 5 soldi,
ossia 21 reali, o 105 Soldi sardi...".
Poichè si constatarono
subito le gravi difficoltà che si opponevano all'adozione
di un sistema completamente nuovo e radicalmente diverso
da quelli tradizionali, si consentì di usare ancora
i nomi di alcune misure locali, modificandone, però,
il valore, in modo che corrispondesse a quantità
decimali intere: così, per esempio, lo starello,
come misura di superficie, avrebbe avuto il valore di 4000
metri
quadrati o di 40 are,;
come misura di volume, il valore di mezzo ettolitro. Mentre
il valore della quartana, misura per i liquidi, veniva stabilito
in mezzo decalitro. Per ciò che riguarda i pesi,
3 once vennero fatte corrispondere a un etto, e una libbra
di 12 once a 400 grammi. Queste misure si continuarono a
usare fino alla seconda guerra mondiale, quando: cinque
centesimi si chiamavano ancora, in Trexenta, e più
in generale nella Sardegna meridionale "tres arrialis",
i dieci centesimi "unu scudu", i venticinque centesimi
"mesu pezza", i cinquanta centesimi "cincu
soddus", e i 75 centesimi "pezz'e mesu".
Nelle campagne della Trexenta
è, poi, ancora in uso, per indicare l'estensione
dei terreni, il termine starello o Moi (Moggio).
Nel 1830, Alberto La Marmora,
che visitò la Trexenta, scrisse(41):
"...Da Mandas la strada
nazionale, terminata già da più di 20 anni,
non arrivava a quest'epoca che presso il villaggio di Serri:
ma essa è stata poi ripresa, e da questo punto di
Serri si divide in due rami, uno da cui comincia la strada
dell'Ogliastra... e l'altra, passando per Isili, Nurallao
e Laconi, dove si ferma, sarà prolungata sino a Nuoro...
...Il bacino della Trexenta,
malgrado la sua rinomata fertilità in cereali colpisce
il viaggiatore per la nudità cagionata dal difetto
dell'acqua, ed anche l'acqua potabile vi manca: quella che
si beve è poca e salmastra: le persone agiate dal
villaggio la fanno trasportare da lontano...
...Io ho dei dati geologici
e stratigrafici sufficienti per credere che il foramento
artesiano in questo luogo verrebbe coronato d'un felice
successo. Tutto questo bacino, formato da depositi terziarj
molto recenti, e stratificati regolarmente, s'appoggia sopra
i monti di formazione più antica, elevandosi verso
levante. Da questi punti devono infallibilmente scaturire
delle sorgenti d'acque sotterranee per scolare nelle parti
inferiori del bacino in questione, e probabilmente qualche
scandaglio felice e ben diretto farebbe salir le acque alla
superficie del piano...".
In effetti, le messi del
bacino mal drenato della Trexenta, famosa per la fertilità
dei suoi terreni, hanno per secoli rischiato di essere compromesse
dall'eccesso di umidità presente nel suolo e nell'aria,
e dalle inondazioni. I corsi d'acqua erano tutti a regime
torrentizio e le piogge autunnali provocarono e provocano
tuttora straripamenti impetuosi.
Le Carte geografiche militari
permettono di localizzare, verso la fine del XIX secolo,
una dozzina di zone paludose.
Per Selegas, la Carta dell'Istituto
Geografico Militare del 1898, segnala i seguenti corsi d'acqua,
paludi e depressioni, sorgenti e pozzi: Riu Mitzixedda,
Riu Canali, Riu Piscina Trigus, Gutturu Mitza Orrù,
Pozzo Bois, Sorgente Pauli Bangius(42).
I ruscelli che formavano
un torrente a S.S.E. dell'abitato, furono presi in esame
anche dall'Angius, nella sua descrizione di Selegas del
1845. Egli scrisse(43):
"...Il territorio
ha piani inclinati più spesso orizzontali, scarseggia
di fonti, di bosco, di selvaggiume eccettuate le lepri e
qualche volpe.
Scorrono entro il medesimo
due rivi nelle due sunnotate valli, provenienti uno dal
territorio di Seuni, l'altro ed è maggiore, dalle
fonti di Gesico, i quali si riuniscono agli ultimi termini
della pendice, su cui siede il paese, al suo ostro-scirocco
in distanza di più di un miglio presso la strada
da esso ad Ortacesus.
Nel paese bevesi dai pozzi
un'acqua salmastra e pesante...".
L'Angius descrisse anche
l'economia del paese, nonchè un riepilogo di quanto
accertato dal Censimento eseguito nel 1812(44).
"POPOLAZIONE. Nel
censimento della popolazione dell'isola altre volte indicato
si notano per Selegas anime 816, distribuite in famiglie
182 e contenute in case 159.
Nel rispetto dell'età
e del sesso furono poi distinte così: sotto i 5 anni
maschi 64, femmine 41; da 5 a 10 anni, mas. 49, femm. 45;
da 10 a 20 maschi 95, femm. 87; da 20 a 30 mas. 75, femm.
72; da 30 a 40 mas. 64, femm. 48; da 40 a 50 mas. 38, femm.
37; da 50 a 60 mas. 36, femm. 29; da 60 a 70 mas. 12, femm.
15; da 70 agli 80 mas. 5, femm. 4.
Nel rispetto poi della
condizione domestica erano distinti i maschi in scapoli
131; ammogliati 289, vedovi 18, totale 438; le femmine in
zitelle 203, maritate 154, vedove 41, totale 378.
I seleghesi sono riputati
persone laboriose e pacifiche, ma come gli altri, poco industri.
La massima parte di essi
attendono all'agricoltura, pochi alla pastorizia e più
pochi ai mestieri.
La scuola elementare è
frequentata da circa 18 fanciulli, ma sinora ha nulla giovato.
I seleghesi hanno per cura
della loro salute un chirurgo.
Le malattie ordinarie sono
le infiammazioni toraciche e le febbri periodiche autunnali.
AGRICOLTURA. Il territorio
in parte cretaceo, in parte sabbioso, trovasi attissimo
per i cereali e per la coltura delle viti.
L'ordinaria seminagione
è di starelli 1000 di grano, 200 d'orzo, 350 tra
fave e legumi.
La produzione mediocre
del grano è del 10, quella dell'orzo del 14, quella
delle fave del 15.
Si semina poco di lino,
quanto basta per le tele necessarie alle famiglie, occupandosi
tutte le donne, quando han finito le altre facende domestiche,
a filare e a tessere.
La coltivazione delle piante
ortensi è assai ristretta.
La vigna prospera nella
conveniente esposizione che può avere, e la vendemmia
produce assai per la consumazione del paese e per bruciarne
acquavite.
I fruttiferi hanno siti
opportunissimi, ma sono poco curati e quindi poco notevole
il loro numero.
Deve però farsi
eccezione in rispetto degli olivi, dei quali è un
gran numero. E' degno di menzione l'oliveto del commendatore
Serra.
PASTORIZIA. L'angustia
dei pascoli non ha permesso che quest'industria si allargasse,
quindi il numero dei capi è ristretto nelle tre specie,
porcina, pecorina e vaccina.
I branchi diversi dei porci
non danno forse un totale di 700 capi; le greggie di pecore
possono avere capi non più di 2500; gli armenti delle
vacche non numerano forse 100 capi.
Il bestiame manso si computa
di buoi per l'agricoltura 60, di cavalli e cavalle 55, di
giumenti 160, di porci 70.
Il suprfluo del formaggio
vendesi fuori del paese. Esso è di mediocre bontà
per la mala intesa manipolazione.
L'apicoltura è negletta
sebbene il clima la favorisca.
COMMERCIO. Le derrate di
questo paese si smerciano principalmente in Cagliari. Il
prodotto delle vendite forse non sopravanza le le 80mila
lire...".
La produzione di leguminose
(ceci, lenticchie, fave) non rappresentava ancora, all'epoca
dell'Angius, che il 20 per cento dei seminati (in Trexenta).
Gli orti erano rari e le coltivazioni e i raccolti di cavoli,
zucche e meloni, bastavano appena alla domanda locale(45).
In una società contadina
in cui il bestiame, e più ancora i buoi da lavoro,
costituisce la vera ricchezza, la Trexenta è manifestamente
sfavorita. Se quasi ogni famiglia possiede, verso la metà
del XIX secolo, il suo asino da mola, si contano, in totale,
meno d'un giogo di buoi ogni due famiglie, un cavallo ogni
4, un maiale ogni 5, una vacca ogni 8. Questa carenza di
animali da lavoro, spiega il fatto che
in Trexenta non si raccogliessero
verso il 1657-79, che 6-7 ettolitri di grano per famiglia,
e non vi seminassero, verso il 1834-50 che 2,2 ettari per
coltivatore(46).
In quel periodo, si può
calcolare che la metà della superficie della Trexenta
veniva coltivata un anno su due, percentuale molto elevata
per la Sardegna. Il villaggio di Selegas, con l'80 per cento
di terre coltivate (in misure di grano) era ai primi posti,
preceduto da Suelli, in testa col 92% e da Senorbì
con l'86%(47). Sui migliori terreni si coltivava, in genere,
il grano duro, seguendo una rotazione biennale. Sui terreni
mediocri si coltivava l'orzo, che veniva panificato, e serviva
come alimento di base per la maggioranza della popolazione(48).
Il grano era riservato
alle famiglie ricche benestanti oppure serviva per lo scambio
e il pagamento di certi tributi. Occorre aggiungere che
le fave non erano destinate soltanto all'alimentazione del
bestiame: fino ad un periodo molto recente, i poveri si
nutrivano di fave fresche e secche, per intere settimane(49).
Ai tempi dell'Angius, solo
l'8,7% della popolazione attiva era composta di pastori,
contro l'85,2% di agricoltori(50). Il grosso delle greggi
nomadi era costituito, nell'insieme della regione, da pecore,
capre e maiali, vacche e cavalli, che venivano portati al
pascolo sui soli territori sufficientemente dotati di saltus
incolti, come Sant'Andrea Frius e San Basilio, oppure, come
nel caso dei maiali, anche più lontano(51).
I rari pascoli dei villaggi
come Selegas, erano riservati, durante l'estate, agli animali
domestici (che in inverno stazionavanoo nella casa del loro
padrone, ed erano alimentati con fave, orzo e paglia).
Infine, la maggior parte
degli abitanti della zona erano costretti ad andare a cercare
la legna da ardere a molte ore di distanza, in particolare
sulle terre di Sant'Andrea Frius e di San Basiliio, dove,
secondo l'Angius, gli abitanti si erano talmente specializzati
come taglialegna, da trascurare gli altri lavori agricoli(52).
Sono assai interessanti
i rilievi che possono trarsi dalla sentenza pronunciata
il 3 marzo 1860 dal Tribunale di Cagliari nella causa promossa
dai Sindaci di Selegas, Senorbì, Guasila, Ortacesus
e Guamaggiore contro l'Amministrazione Demaniale di Cagliari,
al fine di riconoscere ai predetti Comuni come "da
tempo immemorabile in tutto il circondario della Trescenta,
sotto il nome di salto Aresti si intesero sempre indicati
i salti specificatamente denominati Planu Sanguni e sue
adiacenze Casargius, Brigargius coi salti annessi a questo
denominato S'Acqua Cotta in giurisdizione di Villasor"
e riconoscere altresì come, da tempo immemorabile,
i Comuni attori godettero dell'ademprivio di pascolo sul
Salto predetto di S'acqua Cotta(53).
La richiesta dei cinque
Comuni della Trexenta reclamanti il riconoscimento di un
diritto d'ademprivio sulle pasture del comprensorio di S'acqua
Cotta, tra Assemini e Villacidro, non può essere
mossa da una cervellotica pretesa dei Sindaci.
Come può essere
sorto questo diritto di pascolo su un territorio che, dai
villaggi predetti, dista in media almeno 45 chilometri di
strade vicinali, posto che le attuali strade non esistevano?
Si è di fronte ad
un fenomeno di transumanza di greggi in pianura, fatto assai
raro in Sardegna. E doveva trattarsi di transumanze di greggi
ovini, posto che i pascoli di S'Acqua Cotta sono adatti
esclusivamente per i detti greggi. Questo Salto, denominato
Aresti, perchè destinato al bestiame brado, doveva
essere goduto da tempo immemorabile dalle popolazioni di
Selegas, Guasila, Senorbì, Guamaggiore e Ortacesus(54).
L'ademprivio dei pascoli scaturisce dall'istituto pubblico
romano della "pascua pubblica", del pascolo pubblico
romano "ademprivia seu pascua comunis", che era
una terra a pascolo collettivo di una o più ville(55).
Anche nella seconda metà
del 1800 i beneficiari principali del commercio con la Trexenta
erano i mercanti di grano. Del resto il condizionamento
posto dalle piccole proprietà, assai diffuse, il
regime successorio, lo scambio ineguale e la politica del
grano, hanno bloccato -per secoli- lo sviluppo di ogni forma
sia pure la più primitiva, di capitalismo agrario
e di conseguenza qualsiasi forma di trasformazione dell'ambiente
naturale delle zone fertili, non solo in Trexenta, ma in
tutta la Sardegna.
Anche in periodi di forte
diminuzione demografica, la grande proprietà difficilmente
superava i 12-16 ettari. E la maggior parte degli appezzamenti
erano manifestamente troppo piccoli per poter garantire
da soli il sostentamento d'una famiglia coltivatrice(56).
In questi anni e fino ai
primi decenni del secolo seguente, le classi agricole in
genere, in Sardegna, erano gravate da fortissimi tributi,
soprattutto indiretti, per cui si creò ben presto
una situazione in cui un numero sempre crescente di piccoli
e minuscoli proprietari coltivatori furono costretti a lasciarsi
espropriare per inadempimento fiscale.
La maggior parte degli
abitanti annetteva importanza vitale ai diritti d'uso collettivo
sulle terre incolte e su quella parte dei terreni comunali
che venivano distribuiti ogni anno fra i capifamiglia. Queste
mini-propietà, inoltre, erano abitualmente disperse
ai quattro angoli del territorio(57).
Con l'Editto delle Chiudende,
che avrebbe dovuto portare al superamento del regime di
comunione della terra con l'agevolare la formazione della
proprietà perfetta, si era sperato di trasformare
le tecniche di coltivazione con il conseguente incremento
della produzione e quindi con un sicuro aumento del reddito
derivante dalla pratica agricola.
In realtà i risultati
seguiti all'applicazione dell'Editto furono contradditori
e, per certi versi, deludenti e negativi.
In seguito a questo provvedimento
i tradizionali problemi del mondo delle campagne, derivanti
da uno sfruttamento precapitalistico della terra, continuarono
a rimanere insoluti ed ancor più aggravati.
Lo stesso provvedimento
abolitivo del sistema feudale, imposto dall'alto senza la
minima pressione politica dal basso, non produsse, sul piano
economico complessivo, risultati apprezzabili. L'abolizione
del feudalesimo, pur liberando
il popolo sardo da un giogo economico, politico e sociale
assurdo ed anacronistico, non mutò la condizione
materiale della popolazione.
L'abolizione del feudalesimo,
inoltre, non intaccò i privilegi goduti dal clero,
e la popolazione rurale continuò a pagare il diritto
di Decima su tutti i prodotti derivanti dall'attività
agricola e pastorale.
Con la costituzione del
Regno d'Italia nascono i Censimenti Ufficiali della Popolazione
effettuati, questa volta, con scadenza decennale, fino ai
nostri giorni.
Per Selegas si registrano
1131 abitanti nel 1861, 1048 nel 1871, e 910 nel 1881(58).
La Trexenta ha risentito
in maniera particolare dell'epidemia di colera che ha colpito
la Sardegna nel 1871, e, soprattutto, delle conseguenze
della propagazione di una serie di malattie delle piante,
che ebbe inizio nel 1850 con la crittogramma, continuò
nel 1878 con la peronospera; e culminò nel 1883 con
la filossera, da cui conseguì la distruzione dei
vigneti.
Inoltre, l'intera agricoltura
dell'Europa occidentale subì un grave colpo dalla
concorrenza con l'agricoltura Nord-americana, che ne mandava
in rovina i piccoli agricoltori.
La Trexenta, allora come
oggi, importante area agricola che produceva grano, si trovò,
più che altre regioni, esposta alla concorrenza del
mercato Nord-americano.
Inoltre, fra il Censimento
del 1861 e quello del 1871, si verificò una diminuzione
degli abitanti pari all'8,2%, mentre complessivamente, gli
abitanti della Sardegna aumentarono, nello stesso lasso
di tempo, dell'8%. Il decremento continuerà a verificarsi
ancora nei decenni successivi e fino al 1901.
La politica protezionistica
adottata dai Paesi europei, e, quindi, anche dall'Italia,
aggravò ulteriormente le condizioni degli agricoltori,
soprattutto dei più piccoli, in quanto produttori
di merci non protette e acquirenti di manufatti industriali
i cui prezzi andavano aumentando in conseguenza del protezionismo,
che giovava, dunque, solo allo sviluppo delle industrie.
La "guerra delle tariffe" doganali daneggiò
fortemente la Sardegna, come il resto delle regioni meridionali;
da tempo l'isola aveva intrarpreso intensi rapporti commerciali
con la Francia, verso la quale esportava notevoli quantità
dei suoi prodotti agricoli e dell'allevamento, soprattutto
bovino; questi rapporti vennero, di colpo, drasticamente
ridotti.
LA
PREISTORIA - I
FENICIO PUNICI - LA
DOMINAZIONE ROMANA - IL
MEDIOEVO - LA
DOMINAZIONE SPAGNOLA - IL
PERIODO SABAUDO E IL XIX SECOLO - IL
XX SECOLO
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