Il futuro della democrazia
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IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA

di Ralf Dahrendorf

 

DOMANDA: Prof. Dahrendorf, spesso liberalismo viene inteso come sinonimo di democrazia. Potrebbe spiegarci la differenza fra questi due concetti?

Democrazia, così come la intendo io, è in primo luogo il mutamento senza rivoluzione, il mutamento senza spargimento di sangue. Si tratta dunque di un sistema costituzionale nell'ambito del quale è possibile tener conto dei mutamenti intervenuti negli interessi o nelle opinioni degli uomini, nonché dei mutamenti che intervengono nella comunità a partire da influssi esterni, senza che per questo si giunga a sconvolgimenti rapidi, tempestosi, violenti. La democrazia è una componente della tradizione liberale, ma, in senso proprio, liberalismo è un concetto che fa riferimento a dei contenuti e che non è solo e necessariamente collegato con democrazia. Liberalismo è Stato di diritto, libera impresa e diritti sociali fondamentali: si tratta dunque di elementi di contenuto, mentre la democrazia è piuttosto qualcosa di formale.

DOMANDA: Sul versante opposto, in che modo si può definire il totalitarismo? E in che modo è possibile distinguerlo dall'autoritarismo? E fra quali forme di totalitarismo Lei opererebbe una distinzione?

Naturalmente, ci sono concetti diversi per le diverse forme di vita associata. E non è di grande utilità cercare di imporre agli altri la propria privata terminologia. Tuttavia, per quanto mi riguarda, e collocandomi nel solco della tradizione, vorrei mettere in chiaro un punto: il governo autoritario ha a che fare con forme di società e di Stato pre-moderne, il governo autoritario riposa sul presupposto che chiamato a governare è un ceto relativamente ristretto, un ceto tradizionale relativamente ristretto, un'aristocrazia, un'oligarchia, che, dando prova di una relativa buona volontà e senza disporre di un controllo totale, non attribuisce tuttavia alcun valore al fatto che un maggior numero di uomini possa partecipare al processo politico.

Nell'ambito dunque del governo autoritario, un ceto dirigente si ritiene chiamato a governare una comunità secondo regole tradizionali. Totalitarismo invece è una forma specificamente moderna, nell'ambito della quale un singolo Capo, con l'aiuto di un'ideologia, cerca di edificare il proprio regime mediante una mobilitazione totale della popolazione, mediante una mobilitazione organizzata della popolazione. Io faccio uso con molta cautela della categoria di totalitarismo. Così ad esempio, secondo me, l'Italia di Mussolini probabilmente non era totalitaria, ma rappresentava uno stadio intermedio tra autoritarismo e totalitarismo; anche per la Spagna di Franco si può dire che non era totalitaria; lo era invece la Germania di Hitler e l'Unione Sovietica di Stalin. Anche nel dopoguerra, in determinati paesi in via di sviluppo, ci sono stati fenomeni di totalitarismo (Pol Pot, Idi Amin). E dunque, abbiamo qui a che fare con un fenomeno di mobilitazione e pertanto di una forma specificamente moderna dell'ordinamento statale, mentre l'autoritarismo è, in senso proprio, una forma meno recente, che rinvia al diciannovesimo secolo.

DOMANDA: Lei ha parlato una volta di democrazia senza libertà. Ma la democrazia dovrebbe definire l'ambito politico della libertà: potrebbe spiegarci cosa intende col concetto di "democrazia senza libertà"?

Democrazia è un concetto che viene inteso in modo diverso: io l'ho definita come "mutamento senza rivoluzione, senza violenza": si tratta di una definizione popperiana, o che comunque è molto vicina a quella di Popper. E' una definizione che certo non è stata introdotta da Tocqueville nella storia del pensiero moderno. Per Tocqueville la democrazia era il dominio del popolo, la partecipazione dei molti, l'uguaglianza dei cittadini che partecipano al processo sociale e politico. E da questa tradizione tocquevilliana deriva l'idea che è possibile che la partecipazione dei molti restringa lo spazio di manovra del singolo, che la partecipazione dei molti produca quello che è stato definita, da John Stuart Mill ed altri, come la "tirannide della maggioranza", l'impossibilità per il singolo di essere a suo modo, data la forte pressione in direzione del conformismo, dell'assimilazione, dell'identità.

C'è qui un elemento per cui la "tirannide della maggioranza" (di cui parlano Tocqueville e Mill) può assumere forme totalitarie, mediante l'appello a Capi totalitari. Non dimentichiamo che alcuni degli studiosi del totalitarismo degli anni '30, '40 e '50 hanno fatto ricorso proprio a questo elemento per spiegare il nazionalsocialismo e anche lo stalinismo. Il totalitarismo appare allora come un fenomeno della società di massa: così ad esempio l'ha interpretato Hannah Arendt. Qui la democrazia, data la sua ineludibile pressione egualitaria, appare molto vicina a una forma di tirannide, la quale pertanto esclude la possibilità di un mutamento senza rivoluzione. Con questa mia presa di posizione ho voluto render chiare agli ascoltatori le molteplici ambivalenze del concetto di democrazia : vorrei ancora una volta sottolineare che la mia visione della democrazia è di carattere politico-istituzionale; decisiva nella democrazia è per me la possibilità di mutamento di una comunità, e questa possibilità di mutamento deve rimanere aperta, senza violenza.

DOMANDA: Tra i fenomeni che nella democrazia restringono la libertà, includerebbe Lei anche, ad esempio, la pubblicità e i mass media? Si tratta di elementi della società odierna, della società democratica che comportano il pericolo di una restrizione della libertà?

Secondo la migliore definizione, la democrazia esige uno spazio pubblico che sia in condizioni di mediare interessi ed opinioni degli uomini col processo decisionale delle istituzioni politiche, o di mediarli nelle istituzioni politiche. Il caso ideale è rappresentato da uno spazio pubblico costituito da uomini liberi, da individui che però s'incontrano per l'appunto sulla piazza del mercato. Quello che è ancora usuale nelle assemblee elettorali dei cantoni svizzeri si avvicina molto a questo spazio pubblico ideale. In verità questo caso ideale non si è mai verificato per intero, e nelle grandi società è molto difficile che possa verificarsi. Il caso ideale viene sempre influenzato da altri fattori. Lo spazio pubblico, l'ideale spazio pubblico democratico, viene sempre falsificato, sia mediante la rappresentanza, sia anche mediante la manipolazione. E la manipolazione può avvenire in modi molto diversi. Nel diciannovesimo secolo e fino al nostro secolo, la manipolazione degli elettori avveniva spesso ad opera dei potenti del posto, i grandi proprietari terrieri, o proprietari di altro tipo, o comunque persone per questa o quella ragione potenti. Una forma di manipolazione oggi particolarmente attuale è senza dubbio quella che avviene mediante i mass media e i pochi proprietari dei mass media: dunque, la manipolazione dello spazio pubblico è sempre stato un pericolo, e lo è ancora oggi.

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DOMANDA: Lei si è dichiarato a favore di un'attiva politica dell'istruzione; in altra occasione ha però notato che bisognerebbe essere un cattivo sociologo per ritenere che il mondo si possa trasformare mediante l'educazione, senza trasformare le istituzioni. Quale significato ha allora, secondo Lei, l'istruzione nello Stato democratico? E' un diritto civile o essa è anche imposta della ragion di Stato, e comunque quale significato riveste l'educazione per il progresso?

Il mio atteggiamento riguardo il problema dell'istruzione è stato sempre determinato dalla mia fede nei diritti civili per tutti. Mi preme l'accesso all'istruzione: ogni uomo e ogni donna deve aver la chance, l'opportunità, di sviluppare, nelle scuole e nelle università, i propri talenti, interessi e desideri. In questo senso per me l'istruzione è un diritto civile. L'istruzione ha naturalmente anche una funzione nella formazione di uno spazio pubblico democratico, ha naturalmente una funzione allorché si tratta di porre gli uomini in condizioni di far uso dei propri diritti civili. Non sono mai stato convinto, come altri, che con l'educazione politica si possa giungere chissà dove: credo molto — è un tratto anglosassone in me — al common sense, alla capacità di fondo di ogni singolo uomo di formulare giudizi su questioni politiche importanti. Ma in un mondo complicato, questa capacità esige, ad esempio, che si sia in grado di leggere un giornale, e che lo si legga realmente, esige che si sia in grado di ascoltare e comprendere notiziari; e qui è ancora una volta necessario un certo grado di preparazione, di istruzione.inizio_pagina.gif (1503 byte)

DOMANDA: Lei ha sintetizzato l'idea di democrazia nella formula "progresso senza violenza"; e cioè, se nella democrazia ha luogo il progresso, esso è idealmente un progresso senza violenza; ma con ciò non è ancora detto che la democrazia garantisca il progresso. In effetti, il nostro secolo ha visto una democrazia progredita ricadere nel più terribile totalitarismo. E, per quel che riguarda il presente, Lei stesso ha costatato una stagnazione, una crisi della democrazia, e ha sottolineato l'urgente necessità di inventare istituzioni nuove in confronto alla democrazia tradizionale ovvero rappresentativa e parlamentare. Perché?

Certo, è giusto dire che la presenza di istituzioni democratiche non garantisce di per sé il loro funzionamento. Non ha senso cioè produrre semplicemente costituzioni, o imporle dall'alto, fidandosi che vengano poi anche utilizzate. Si pensi all'America latina: l'America latina è quasi un cimitero di costituzioni — spesso costituzioni democratiche — che a un certo momento sono state introdotte e che poi, dopo alcuni anni, sono state spazzate via dall'esercito e da altri dittatori. La democrazia, dunque, dev'essere radicata, dev'essere radicata nel confronto vivente di gruppi sociali, nel riconoscimento delle istituzioni che fanno parte della democrazia. Si può così in qualche modo comprendere, anche se non spiegare compiutamente, il fatto che il nostro ventesimo secolo, almeno nella fase che alcuni hanno definito come la seconda Guerra dei Trent'anni, cioè nel periodo che va dal 1914 al 1945, ha vissuto una storia della democrazia così infausta. Certo, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e un altro paio di paesi come Canada e Australia sono riusciti a sopravvivere come paesi democratici; ma il numero dei paesi democratici che sono sopravvissuti è stato molto ridotto. Al loro interno si sono svegliate forze che non volevano vivere e non potevano vivere in questi rapporti democratici; al loro interno si sono sviluppati processi che hanno portato ad esempio al totalitarismo. Credo che in un paese sussista sempre il pericolo del totalitarismo. Il totalitarismo, e cioè la mobilitazione totale ad opera di un Capo, di un'ideologia, di un partito unico, è un processo che distrugge i suoi stessi presupposti, un processo dunque, alla cui fine non sono più date le condizioni che l'avevano messo in moto. Questo però non significa che non ci siano altri pericoli per la democrazia; e fra questi altri pericoli io inserisco quello peraltro già individuato da Max Weber, e cioè la possibilità che, in un clima di mediocrità, in un clima in cui più nessuno assume l'iniziativa, le istituzioni che in sé rendono possibile il mutamento, finiscano esse stesse per impedire il mutamento. Tutto rimane fermo, com'era prima. Questo è in modo particolare il caso di quelle moderne democrazie in cui è presente un forte elemento burocratico, un ceto burocratico, un gruppo burocratico, sul quale non riescono ad influire né gli interessi della popolazione, né le iniziative dei dirigenti eletti. Democrazia e burocrazia costituiscono forse il più grave problema politico nei paesi dell'Ocse del ventesimo secolo, nei paesi sviluppati, nelle democrazie sviluppate. Gli interessi e le iniziative vengono respinti da un muro di gomma, non interviene alcun mutamento; così la rivendicazione di una maggiore attenzione per le questioni ambientali, o la rivendicazione di una maggiore attenzione per i diritti della donna, ovvero altri interessi che vengono dal basso, tutto ciò si scontra col muro di gomma della burocrazia, così come con esso si scontra il tentativo dei gruppi dirigenti di introdurre, ad esempio nell'economia, maggiore iniziativa, riforme fiscali ecc. In tal modo il processo di mutamento si rallenta fino al punto che si accumulano energie conflittuali, cosicché alla fine sono le stesse istituzioni democratiche a cadere in pericolo. Tutto ciò lo dico in termini assolutamente generali; a tale proposito, i diversi paesi si differenziano tra loro in modo considerevole, e si può persino dire che — se ci guardiamo attorno nel mondo — ci sono istituzioni che reagiscono meglio a tali mutamenti ed altre che reagiscono peggio. A reagire meglio è ad esempio il sistema britannico, data la peculiare combinazione del suo diritto elettorale con i poteri del Primo Ministro e la sovranità del parlamento; ciò vale in qualche modo anche per il sistema americano, col ruolo del presidente e la dialettica tra presidente e Congresso. A reagir peggio è, comprensibilmente, la Repubblica Federale di Germania in cui sono presenti troppi controlli e barriere: non solo le due Camere e i governi di coalizione, ma anche la costante minaccia del ricorso alla giustizia, ai tribunali, la minaccia della messa in discussione delle decisioni politiche nei tribunali. Alla fine ben poco si muove. Ci sono dunque differenze, importanti differenze, ma resta in fondo questo grosso problema: in che modo in un mondo burocratizzato, possiamo suscitare un mutamento senza violenza.

DOMANDA: In altra occasione Lei ha definito la società come rinuncia alla libertà: per un liberale, l'impegno sociale, la solidarietà (di cui oggi molto si parla e che Lei stesso ha interpretato come un aumento delle chances di vita) è sempre solo un mezzo per un fine in ultima analisi individualistico, oppure in questa solidarietà si può riconoscere un compimento della libertà?

Le chances di vita — e di queste soprattutto si tratta nella società umana — collegano tra di loro molteplici cose. Le chances di vita esigono la presenza di possibilità di scelta: non ci può essere un solo partito, non ci può essere un solo giornale, e neppure ci può essere un solo detersivo; le possibilità di scelta si riferiscono cioè ad una molteplicità di cose. Le chances di vita esigono determinati diritti fondamentali (ognuno deve aver accesso a queste possibilità di scelta). Le chances di vita esigono dunque diritti civili. Ma le chances della vita esigono anche che tali possibilità di scelta e tali diritti fondamentali si inseriscano in un contesto di legami — Ligaturen, come io li ho definiti — dunque in un contesto di profonde appartenenze, senza le quali ogni cosa perde il suo senso, senza le quali anche le decisioni sono prive di un sistema di coordinate, sicché diviene del tutto indifferente se uno fa questo o quello, se le cose vanno in un modo o nell'altro. In tal senso le chances di vita sono una cosa molto complessa che implica al tempo stesso legami e possibilità di scelta. Dire, come faccio io, che le chances di vita sono un contenuto desiderabile dell'agire pubblico, significa dire che esse hanno un senso in sé stesse e ciò vale anche per il contenuto unificante delle chances di vita. Ma definendo in tal modo le chances di vita, esse rimangono per me, in ultima analisi, pur sempre individuali: io sono un illuminista inguaribile, il mio eroe nella storia del pensiero è Immanuel Kant e, sulla scia di Kant, cerco chances individuali di vita, e non mi appagherei mai di una cosiddetta " collettività felice ".

DOMANDA: J. Rawls si è pronunciato per il primato della libertà rispetto all'uguaglianza, a condizione però che venga presupposto un reddito minimo per i cittadini. La presa di posizione a favore del liberalismo esclude dunque di per sé il Terzo mondo?

No, la presa di posizione a favore del liberalismo non può escludere il Terzo mondo; rientra nel liberalismo, anzi ne costituisce il presupposto fondamentale, il fatto che ognuno dev'essere in condizione di partecipare al processo sociale, economico e politico. Ciò esige un livello base di diritti civili — di Anrechte, come io li definisco — che sono di natura sia giuridica che economica e politica, e fra i quali rientra dunque anche un certo tenore di vita. Il fatto che abbiamo cominciato a realizzare questo livello base dei diritti civili nei paesi sviluppati (ancora in modo incompleto e tuttavia con considerevoli successi) non ci deve far dimenticare che i diritti civili rimangono del tutto incompleti fino a quando non siano diventati diritti civili a livello mondiale. L'inquietudine che il liberale deve nutrire dinanzi alla mancanza di diritti civili in gran parte del mondo è uno dei presupposti di fondo dell'azione liberale e del pensiero liberale; è dunque sempre motivo di insoddisfazione, e lo sarà ancora per molto tempo il fatto che i diritti civili siano realizzati solo nei paesi ricchi.

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DOMANDA: Qualche tempo fa, in contemporanea con la celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese, ha avuto luogo l'incontro al vertice dei paesi più ricchi e un contro vertice dei paesi più poveri. Quale dei tre concetti chiave della Rivoluzione francese ( Libertà, uguaglianza, fraternità ) Le sembra oggi il più attuale? Secondo Lei, partendo dal presupposto che la ricchezza comporti degli obblighi, quali obblighi derivano all'Europa unita nei confronti del Terzo Mondo?

Ho sempre considerato la fraternità come un affare privato, e dunque non rientro tra coloro che fanno della fraternità o solidarietà un presupposto di fondo dell'azione politica. La mia concezione della necessità di legami non può essere fraintesa come la rivendicazione di un pensiero della fraternità o della comunicazione, alla maniera di Rousseau o anche di Habermas, rivendicazione che io ritengo errata. Si tratta anche in questo caso della libertà e dell'uguaglianza nel loro legame reciproco, e il legame peculiare che sussiste fra libertà e uguaglianza risiede nel fatto che la libertà ha senso solo quando ci siano uguali chances iniziali per tutti, solo cioè quando c'è uguaglianza di diritti civili: non il medesimo status, non la medesima condizione di vita, non il medesimo reddito, ma un medesimo livello-base, una piattaforma comune a tutti. Questo è un presupposto di fondo di società libere in un mondo sviluppato; peraltro, fortunatamente, ciò è, in larga misura, una condizione d'accesso alla Comunità europea ; credo e spero che la Comunità europea non avrà mai un membro che violi questi presupposti di fondo. La Carta sociale discussa in occasione del vertice, e che anche in futuro verrà discussa, è in rapporto con questi diritti fondamentali, e costituisce un elemento fondamentale. La Comunità europea ha fatto qualcosa per i paesi del Terzo mondo a lei vicini, dunque, ha fatto qualcosa soprattutto per le ex-colonie francesi, inglesi e belghe, per i paesi francofoni e anglofoni del Terzo mondo. Certo, essa non ha fatto a sufficienza, ma qualcosa ha pur fatto, e qui risiede — ritengo — uno dei grandi compiti, ma non voglio indulgere alle belle parole, non mi faccio alcuna illusione circa la disponibilità dell'Europa o dei paesi dell'Ocse a far qualche sacrificio per il Terzo mondo: se pure questa disponibilità esiste, essa è minima. inizio_pagina.gif (1503 byte)

DOMANDA: Secondo il Suo modo di vedere è compito anche dei sociologi contribuire a che il razionale diventi reale: in altre parole, passare dall'analisi all'iniziativa concreta. La sociologia implica la teoria politica e anche la prassi politica?

Mi si chiede se la sociologia implica la prassi politica. La mia risposta è decisamente negativa: è un'illusione credere che ci possa essere una collaborazione senza problemi e persino armonica tra scienza e prassi. Questa è una frase vuota degli hegeliani, di regola utilizzata da coloro che non hanno alcuna idea della prassi. Scienza e prassi obbediscono a priorità diverse, fanno riferimento a orizzonti temporali diversi: in linea di principio, la ricerca scientifica è sempre temporalmente illimitata, non si sa se la risposta a un problema scientifico riusciamo a trovarla questa sera, tra un anno, tra dieci anni o mai. La prassi, la prassi politica o economica, o la prassi vitale in generale, è sempre legata ad orizzonti temporali che non è possibile scegliere autonomamente: bisogna prendere decisione, se improvvisamente la moglie si ammala, i genitori muoiono, o comunque avviene qualcosa nell'ambito della nostra vita; e bisogna prendere una decisione, allorché si tratta di combattere una battaglia elettorale o di render noto un dividendo ai propri azionisti. In tal caso i tempi sono fissati dall'esterno, e non c'è il tempo necessario per la ricerca scientifica, dato che devono essere prese decisioni. Ciò conduce a un modo di vedere completamente diverso.

Sono d'accordo senza riserve con le distinzioni tracciate da Max Weber, nei suoi due grandi discorsi sulla Scienza come professione e la Politica come professione; si tratta di due mondi diversi.

Ritengo però del tutto sensato che una persona, già attiva, nella scienza, si dia alla prassi per poi tornare alla scienza. Non è facile dire in che modo l'una agisca fruttuosamente sull'altra, bisogna qui guardarsi da formulazioni semplicistiche. In ogni caso, si tratta di una possibilità di vita interessante, importante. Come potrei esprimermi diversamente, io che ho vissuto conformemente a questa massima? Farei ancora un piccolo passo in avanti e direi: ci sono anche coloro che, ai giorni nostri, cercano in una certa misura di mantenersi, per così dire a cavallo dei due mondi, occupandosi un po' dell'uno, un po' dell'altro. Questo è soprattutto il caso della consulenza in campo politico, di quella scienza dunque che è strettamente legata alla prassi: si tratta di un ambito problematico, ma non del tutto privo di importanza, che ha sviluppato una propria forza e ha raggiunto un notevole peso. Nella sostanza però mi tengo fermo alla tesi che a me, in quanto kantiano, popperiano, weberiano, appare molto importante: la tesi per cui teoria e prassi sono due mondi diversi che è possibile unificare soltanto mediante frasi vuote.

DOMANDA: A partire degli anni '70, la concezione unidimensionale del progresso e dello sviluppo si è sempre più rivelata un boomerang: credo bisogna ammettere che la razionalità strumentale di tipo tecnico-scientifico-economico ha raggiunto i suoi limiti. Ritiene Lei possibile venire incontro sul piano razionale al crescente interesse etico e al crescente bisogno di orientamento? E' possibile cioè sviluppare una razionalità di valori che risponda non alla domanda: cosa possiamo fare, bensì alla domanda cosa dobbiamo fare di quel che è possibile fare? E' possibile sviluppare una razionalità di valori che risponda a quest'ultima domanda con argomenti, e non con semplici opinioni e professioni di fede?

La filosofia pratica costituisce ovviamente un elemento importante del processo del discorso pubblico; e certo era del tutto errato il tentativo di soffocare la filosofia pratica in un piatto positivismo. Non ho mai avuto indulgenze per il piatto positivismo. Il principio dell'incertezza, e cioè la consapevolezza che non conosciamo tutte le risposte e, persino quando le conosciamo, non possiamo essere sicuri che esse siano corrette, questo elemento di incertezza è per me il punto di partenza sia della teoria della scienza che della filosofia pratica e della teoria politica. Penso che, partendo da ciò, possiamo giungere ad ulteriori risultati che ci possono essere d'aiuto allorché parliamo degli effetti collaterali, degli effetti negativi dello sviluppo tecnico ed economico. E cioè, quando parlo di democrazia, faccio sempre riferimento al tempo stesso alle riforme strategiche. Non si tratta dunque di tradurre, per così dire, in pratica un programma che è stato prima sviluppato sul piano scientifico. Le scoperte delle contraddizioni della modernità che abbiamo fatto negli ultimi 15 anni, forse a partire dal 1973, sono importanti e conducono senza dubbio a mutamenti nel nostro comportamento tramite una preliminare discussione pubblica. C'è dunque un atteggiamento kantiano che non si trova in alcun modo in difficoltà dinanzi alla necessità di una filosofia pratica, sia politica che morale.

 

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