III - IV - V
Home Su I - II III - IV - V VI - VII - VIII IX - X - XI XII - XIII - XIV XV - XVI - XVII XVIII - XIX - XX XXI - XXII - XXIII XXIV -  XXV - XXVI XXVII - XXVIII

 

Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

III.

Il giorno dopo Claudio fece una conversazione quasi lunga con la vecchia zia Kate.

Mentr’egli s’intratteneva in anticamera con Elena e Guido al quale aveva portato dei dolci, la cieca passò col suo andare affrettato, appena un po’ incerta e brancolante su gli usci e presso gli spigoli, con gli occhi chiari placidissimi nella faccia immobile; non li vedeva.

— Zia — gridò in inglese Elena, arrestandola. C’è qui Claudio, ti saluta.

Ah, ah !... — rise ella, e guardando verso Elena tese la mano a Claudio che la strinse — non è v’nuto occi? Noi l’abbiam tant’aspettato. Sta pene?

Egli si scusò senza che ella capisse, ma pur rispondendogli con un « si » rauco, seguito dal mugolio di riso approvativo.

— Bisogna che tu gridi, bimbo — esclamò Elena — Ella non ode che me e le cannonate.

La vecchia restò un momento ferma, mano in mano, sorridente, poi:

— Sente fretto a Pisa?... lo son stata a Napli e c’era tant’ caldo è un tempo tant’ pello. Ah! Ah! Ah!

— Già — urlò Claudio con quanta più voce potè; sì che Elena rise, e rise anche lui, mentre Kate incoraggiata da quell’approvazione, proseguiva terminando ogni periodo col suo breve mugolìo:

— Londra ora c’è tanto fretto, noi siamo v’nuti in Italia, pel tempo ch’è tanto pello. Mia madre ticeva: è un ciardino. Ah! Ah

— Il patre di El’ na è nato a Pisa e si martò con una pisana. Lei pur è poco pisano. Sua matre era pisana, sorella della matre di El’ na... pov’ rine!

Il suo viso quasi mummificato ebbe una smorfia che parve un sorriso ma gli occhi immoti le si fecero umidi e gonfi. Claudio invece di commuoversi, ebbe un moto interno di strano fastidio.

Perché mi narra queste cose? — osservò a mezza voce, non nascondendo la sua contrarietà — Crede che io non lo sappia?

Che vuoi? — tentò scusare la cugina —Ha ottantadue anni, sai? Ha visto morire mio nonno, ch’era suo fratello, le sue sorelle, mio padre, mia madre, tutta la famiglia... Non sa rispettare bene i dolori altrui...

E la vecchia, non udendo nulla, dopo essere rimasta ancora un pezzo lì immobile, a mugolare, disse a la fine:

Permett’ io vado a lavorar — e s’allontanò.

Guiduccio era andato a baloccarsi coi figli della signora Adele Luchini, la vicina, e ogni tanto giungevano da l’appartamento attiguo gli strilli acuti e le risa flautate di quei piccini che facevan gazzarra.

Claudio lasciò condursi da la cugina, e andarono ad affacciarsi a la finestra del salotto.

Come, non hai incontrato Fabio, nel venire? Forse non abbiam fatto la stessa strada.

— E stamane dove sei stato?

— In casa, mi sono indugiato a letto più del dovere, per tema che mi ritornasse il mal di capo.

— Ne soffri? Dovresti usare l’emicranina che risana miracolosamente. Eisa, una sentimentale amica mia, bruttina assai, e perseguitata come te da questo male... poco gradevole, ne fa uso con buon effetto... Però! rimanere a letto fino alle quattro... significa essere pigroni !...

Ma no, mi son levato a le dieci, ho scritto al babbo, ho letto un poco, e ho tenuto compagnia a la zia Clotilde che mi narrava quanto è ladra la sua serva.

— Ah, la zia Clotilde !... E lo guardò in faccia, poi sorrise, esprimendo il suo pensiero poco favorevole, con una mossa di naso e di labbra, tanto grottesca quanto. espressiva.

— Ti piace la zia Clotilde?

—Ma...

— Oh sai, è un vero pleonasmo, quella brontolona! Ti confesso che non la posso sopportare.

Egli pensò che condivideva i suoi sentimenti, ma non lo disse, e rispose con un sorriso vago guardandole i fini merletti delle maniche. E gli raccontò qualche cosa a proposito dell’avarizia di quella pinzochera, come la chiamava.

— Sai, non ho mica paura di dirgliele in faccia queste cose, io! Lei lo sa che non l’amo; tanto il parente vero è lo zio, e quello sì ch’è un tesoro. E poi m’adora. Se tu vedessi che bei doni m’ha fatto ogni anno pel mio onomastico! Li conservo tutti. E lei, la vecchia, lo rimbrotta sempre per que’ regalucci. Che arpìa, Dio buono! Chi sa per la tua venuta quante ne avrà dette dentro di sé. Spesse volte, vedi, quand’ero ancora ragazza stavo con loro, mi toccava fare certi pianti!… Per lei, che ti pare?! Se non avessi qui lo zio Francesco!…...

— Come?... — Claudio trasalì, voltandosi tosto a guardarla, appoggiato al davanzale della finestra, e facendosi per quel moto più vicino a lei che teneva gli occhi rivolti verso la strada, già commossa da le sue stesse parole, e continuava:

— Sì, sì..., se non ci fosse mio figlio ad incatenarmi, chissà ora dove sarei! Credi che io possa essere felice con quell’uomo! Me l’han fatto sposare nella mia insipienza di fanciulla dicendomi che l’avrei amato. lo non ne capivo niente, e poi, sai, ero in condizioni cattive, mio padre, benedetta l’anima sua, ci aveva rovinati lasciando dopo la sua morte solo la metà della dote, pochissima, de la povera mamma; lo zio è un pensionato; e, a questi patti un matrimonio è un avvenimento. Le mie amiche m’incoraggiarono, e allora... patatrac! Tu lo vedi quanto fuma. Questo solo? Si lascia crescer la barba, si trascura nella persona... mi tocca ripetergli spesso di pulirsi le unghie... gli piacciono troppo le ulive e ne mangia libbre intere... E poi è così stupido nelle tenerezze... Se tu sapessi che vita, la mia! Non mi par vero che ci sia tu, adesso. Figurati che, nei primi tempi, non mi voleva condurre a teatro, in società... niente! Ma io glie l’ho fatta capire, e ora non mi nega più nulla, perché dice di volermi felice. Ma sì! altro che felice1... Certi momenti maledico d’essere nata!

E il pianto le gonfiava le palpebre.

Claudio, fra sorpreso e intenerito, la guardava in silenzio, pensando quanto aveva errato nel suo primo giudizio sul conto di lei. Era quasi irato con se stesso d’averla creduta leggera. Quel pianto lo commosse fino a ridestare nell’animo suo il sopito dolore. E, mentre la cugina parlava, egli vedeva mentalmente la grossa mano di Fabio che raccoglieva le molliche sulla tovaglia; sentiva la sensazione di quel suo primo bacio ispido di barba. E gli ballonzolò dinanzi a gli occhi il viso di un uomo, un’antica conoscenza, che fumava quanto Fabio. Elena doveva ogni momento bisticciarsi col marito ed egli suppose che l’omaccio l’avesse qualche volta battuta. Aprì la bocca per chiederglielo, ma non seppe formulare la domanda. In mezzo a tutto questo, però, sentiva, senza sapersene render conto, come una sorda soddisfazione crescente man mano che le parole e i sospiri di Elena incalzavano.

— E una vita infame, specialmente in questa città ch’è una noia! Nove anni fa, nei pochi mesi che passai a Napoli, ove io nacqui e trascorsi anche i primissimi dimenticati anni della mia vita, fu lì che tuo padre conobbe la povera zia... Qua è morta mia madre, sei anni dopo avermi messa al mondo, c’è morto anche lui, babbo mio... Dio, spesso si diverte, a far le cose storte... Ha fatto morir mio padre perché io restassi sola, a quindici anni, sotto la tutela dello zio Francesco. Tua madre m’avrebbe voluto con voi, lo sai, ma gli altri non l’hanno permesso, nemmeno tuo padre, credo...

Ciò gli diede una lieve puntura di gelosia. Egli non poteva tollerare che sua madre avesse amato altri che lui.

Tacquero. Il sole era tramontato in un orizzonte d’oro; l’aria restava inerte nella calma rosea del crepuscolo; alcuni abbaini e comignoli alti su le case, brillando nei mattoni inverniciati e nei ferri lucidi, sembravano in fiamme. E il cielo, in cui si libravano nubi sottili simili a strati di porpora, pareva più alto. Essi guardavano.

— Oh! la Diana! — esclamò Elena ad un tratto, segnando col capo una sartina che attraversava la piazza — Non ci ha nessuno dietro, oggi?

— Chi è?

— Una becera che fa la superba perché crede di esser bella!

Parlava con sarcasmo iroso. Claudio guardava la sartina, mentre Elena gli narrava certe scappate di quella ragazza, che ora s’era proposta di trovarsi per marito un signore.

— Ma ti pare che i signori abbian occhi per quella scema?

Egli, nondimeno, notò che la ragazza era vezzosa. Doveva essere ben infelice sua cugina se invidiava la sorte d’una popolana!

— Si dice tanto della tua Napoli!… Tutto il mondo è paese, caro mio!

Egli, benché in cuor suo non approvasse, rise, ed ella lo imitò, rumorosamente, fatta lieta dalla sua stessa facezia.

Tacquero ancora. Si udì, poco lontana, una voce di ragazza che cantava:

    Per passar l’Arno
    ci voglion le barchette,
    le Pisanine
    sono tutte civette

—Senti questa canzone? L’ànno composta per una certa... — Ed a bassa voce, con fare spigliato e malizioso, Elena narrò un’avventura, assai scabrosa, che per lei raffigurava la pietra di scandalo della città.

Poi lo guardò con un sorrisetto furbo che finì in una. grande risata. Ora Claudio approvava la libertà dì linguaggio della cugina, anzi, ella gli piaceva di più, dopo l’intima disapprovazione del primo momento.

Pensò qualche cosa di lascivo ed ebbe il corpo percorso da un fremito strano. Ricordò Mary, la canzonettista, e la signora amata a quindici anni. Aspirò voluttuosamente il profumo di corylopsis che Elena esalava, misto a un sottile odore di carni giovani e fresche che gli fecero palpitare le narici. Chinati entrambi sul davanzale, vicinissimi, qualche filo ribelle dei capelli di lei, gli solleticava leggermente una gota. Un desiderio improvviso gl’inumidì la gola e volle alzare un braccio per cingerle la vita con atto che credeva di render naturale... Ma la voce di lei lo arrestò.

— Sicché tu non hai visto ancora nulla Pisa?

— No.

— Nemmeno il Duomo, il Campanile?

— No, no.

— Bravo, meglio, allora! Domani si va a vederli assieme. Ti va?

— Altro!

— Bravo, bravo, si va noi due... Io debbo fare qualche piccola compera e ne profitto. Vedrai com’è bello ! Se venisse teco la signora Lucchini, la nostra vicina, potrebbe benissimo farti da cicerone, perché à una mania speciale per queste cose. Che donna! Parla tutta saltellante, sloggiando una saccenteria di seconda mano, con le braccia irrequiete che sembran - pale d’un mulino a vento... "Ma guardi! Ma ammiri! Questo è del trecento. Questo... del diavolo che se la porti!"

E rise. Rise anche lui per compiacenza, distratto.

— La vedrai. Forse verrà oggi stesso, per conoscerti... Non siamo divise che da un pianerottolo.

E continuò per un pezzo sullo stesso argomento, mentr’egli la guardava parlare, lieto dentro di sé d’avere quella donna bella, vivace, desiderabilissima; e si lasciava cullare l’anima da la voce argentina. Poi, quand’ella tacque, stanca di parole e di riso, dicendo più piano nel ravviarsi i capelli un po’ sconvolti: — Che ridere, che ridere ! — egli, che non aveva capito nulla di ciò che aveva sentito, continuando un suo pensiero, le disse dopo un istante:

— Sai? Io conservo ancora tutte le tue lettere.

Ella lo guardò fugacemente, appoggiandosi di nuovo a la finestra e sporse il capo con un sorriso da cui parve s’effondesse per le guance un lieve rossore adorabile.

— Oh! — sussurrò fra sorpresa e lusingata, con gli occhi volti alla piazza.

— Sì, tutte quelle che scrivevi a me, e a mamma e babbo.

— Ma anch’io conservo le vostre.

— Davvero?

— Sì! lo ho una passione speciale per la corrispondenza, tanto vero che faccio collezione di cartoline illustrate... Ne ho già più di duemila sai? Me ne mandano fino da Borneo; un corrispondente inglese datomi da una corrispondente di Parigi... Divertenti tutti questi amici che non ho mai visti e che certamente non vedrò mai...

— Tre giorni fa, prima di partire, io le ho lette tutte quelle lettere.

— Anch’io le ho rilette ogni tanto. E poi, tu scrivi così bene!

— Eh?...

— Cosa?

— Nulla — Voleva chiederle qualche sciocchezza, ma al momento di profferir la parola, non osò più.

La sera era caduta. Un lumaio frettoloso accendeva i fanali nella piazza, ove le case tutt’attorno biancheggiavano ancora. Nel cielo restava ancora un barlume incerto, d’un azzurro quasi diafano, verso occidente. Le stelle sbucavano ad una ad una dal lividore vesperale, come se una mano, invisibile, le accendesse lassù. Un alito freddo tremò nell’aria.

Vollero rientrare; ma, volgendosi, l’ombra che invadeva tutta la stanza li precluse.

— Che buio! — essa disse.

Toccò il bottone del campanello elettrico per chiamare la serva, e Claudio credette accorgersi che la sua mano tremasse.

Quando Venezia portò il lume, entrambi si guardarono in viso...

Poi ella gli volle mostrare la sua collezione di cartoline illustrate.

Poco dopo venne infatti la signora Lucchini coi suoi tre bimbi, condotti da Guiduccio, che li annunciò da l’anticamera, gridando:

— Mamma, c’è Dante, Torquato e Maria con la signora Lucchini...

Elena le corse incontro, lasciando Claudio con una gomitata, come per dirgli: attento! e si udì la sua voce nell’altra stanza:

— Oh signora, che bella improvvisata! Venga, venga!

—Non disturbo, spero. Volevo prima mettere questi sbarazzini a letto, ma il suo Guido li ha trascinati... Dante, dico! Non cominciamo !...

Ed entrò a braccetto di Elena, col codazzo dei bimbi che facevano crocchio, sussurrando e ridendo, curiosi. Claudio s’alzò inchinandosi.

Compiuta la presentazione, sedettero. Ella nei punti più salienti del suo discorso, spiccava le sillabe, alzando il capo sul collo eretto. I bimbi, seduti accanto a lei, continuavano a ridere fra loro, col viso nascosto fra le mani e guardando Claudio di tra le dita; Guido li imitava, per fare il chiasso.

— La signora non è pisana?

— Io? Son di Firenze! — e lo disse alteramente, quasi risentita.

— Dev’essere una bella città Firenze.

— Io ci sono stata due anni fa soggiunse Elena — Dovremmo ora andarci insieme.

— E’ un giardino, signore! E poi, chi giunge in quella città deve fremere d’entusiasmo pensando che fu essa la culla delle lettere e delle arti. Entrando in Santa Maria del Fiore o in Santa Croce, lei rivive nei tempi d’oro della nostra storia, fra tutti que’ mausolei.

Animata, gestiva nervosamente, dimenando anche tutto il corpo di gattina. Elena evitava di guardar Claudio negli occhi pel timore di ridere. Ed ella continuò a tutta lena...

I bimbi frattanto sussurravano fra loro.

— Non li ha mica tanto lunghi, tuo zio.

— Il mio babbo li ha più lunghi...

— E li ha neri. E poi porta gli occhiali, e cotesto zio no.

— Gli occhiali, babbo li mette quando sorride. E li tiene in un astuccio, nel taschino del panciotto.

— lo provai una volta quelli di babbo... e vedevo tutto piccino piccino.

E risero. La madre tutta assorta a descrivere la piazza della Signoria, non badò a rimproverarli.

— E i tesori di Palazzo Pitti? C’è fra gli altri capolavori, un quadretto ove si ammira della frutta, che par così vera !...

Ma in quel momento il piccolo Torquato finiva una domanda birichina a l’orecchio di Guiduccio, mentre gli altri sorridendo curiosi tendevano il capo per ascoltare. E, udito, scoppiarono tutti in una solfa di riso che andavi dal si al do maggiore, come accenti discordi di flauto e d’arpa, uniti a lo strepito delle sedie dimenate sul pavimento.

— Oh, insomma, che cos’è? Un’altra voltavi metto tutti a letto. Maria, dico, giù quella gamba! E tu, Dante, via il dito dal naso, maleducato!

Silenzio... I bimbi allungati su le sedie con le gambe ciondoloni, tenevano gli occhi chini; Dante si rosicchiava le unghie; Guido, solo, sbuffava risate tacite nelle mani.

— E la Loggia de’ Lanzi...

 

IV.

Il pensiero di sua madre morta assalì ancora Claudio il giorno dopo, quando vide la cugina, pronta ad andar fuori con lui, uscire dalla sua stanza in una bella toilette di lutto. Osservò quel nero e guardò poi se stesso, un po’ pallido. Elena sorrise lievemente, credendo forse che quel pallore gli venisse al vederla più bella del solito in quell’abito.

Uscirono con un bel sole quasi primaverile. Guiduccio li precedeva impettito, volgendosi ogni tanto per vedere se lo guardassero, tutto d’un pezzo nel vestitino a la marinara, con le dita rigide nei guanti nuovi.

Elena era magnifica. Claudio rallentò un momento il passo per ammirarla di dietro. Sotto la gonna nera, stretta con grazia sui fianchi, appariva il piede snello, arcuato, elegante, chiuso in una scarpetta sboccata la cui caviglia pareva sbocciasse lasciando trasparire il roseo della carne a traverso le maglie della calza ugualmente nera. E quel piede premeva con forza il suolo, sicuro e ardito, con passo di dominio. I fianchi armoniosi avevano nell’incesso un dondolarsi lene, una stanchezza languidamente procace. Il dorso si slanciava dritto, quasi virile nelle spalle robuste, serrato nella giacca sul cui colletto s’arruffavano alcuni fili indocili della chioma bruna dai riflessi di rame, attorta su la nuca e trafitta da vari spilloni. Ella, da tutta l’alta persona, dal passo, dal gesto, emanava quel fascino sensuale che non è di tutte le donne belle; aveva, per Claudio, la mollezza superba ed elegantissima della cerva.

— Che hai? — gli chiese rivolgendosi.

— Nulla; sono felice che tu sia mia cugina.

Sorrise ella, alzandogli in faccia i grandi limpidi occhi glauchi, che a l’ombra delle lunghe ciglia nere pareva ardessero d’una dolcemente molesta cupidità voluttuosa. Le gote, bruno dorate, si colorirono vieppiù ad un improvviso rossore.

— Complimenti...

— E poi, oh, come le somigli!

— A chi?

A mia madre. Se tu fossi meno alta, ti si potrebbe scambiare per lei.

— Le nostre mamme eran sorelle per nulla? Per istrada ella parlava poco, sbirciando senza darsene l’aria, tutti i passanti per vedere se la guardassero. Claudio non vi badò.

Arrivarono nella gran piazza del Duomo. Claudio si vide ad un tratto dinnanzi quei tre edifizi che parevano cesellati dal paziente bulino d’un gigante. Invero egli se li aspettava un poco più grandi e maestosi, specialmente il campanile che non gli appariva più alto della volta a vetri della Galleria di Napoli. Ammirò il Battistero così rotondo e ricamato, e lo paragonò anzi ad un pasticcio di bocca di dama. Rimase fermo un pezzo ad ammirare in silenzio, mentre Elena gli diceva accanto:

— Carino, eh? Peccato che qui lascino crescere l’erba tutt’intorno, sembra un pascolo..

Guiduccio, fermo anche lui, stava un più in, là, guardando lo zio; poi, impazientito esclamò:

— Mamma, o che si rimane qui fermi? Elena lo ammonì con una severa occhiata.

Entrarono nel Duomo da la porticina posteriore, su la cui soglia un vecchio cieco questuava, movendo una ciotola sonante di soldi.

Girarono silenziosi per le cinque navate del tempio vuoto e sonoro, illuminato da la luce fioca che pioveva da le alte invetriate, come polvere d’oro nella penombra, disegnando sul suolo gl’intrecci delle inferriate. Alcuni ceri in ordine palpitavano, senza spandere luce, su gli altari.

Mentre Elena ed il bimbo, inginocchiati su i gradini dell’altar maggiore, sospiravano una breve preghiera, Claudio guardava in tutta l’ampiezza della chiesa, con le spalle rivolte al gran Cristo. Osservava il soffitto a travi dorate e gli archi dei colonnati in pietra bianca e nera a fasce, ma distratto. Pensava a cose futili e lontane e, frattanto non gli pareva l’ora che Elena s’alzasse, per uscire. Si pose a contar le colonne a una a una, ma, arrivato a la diciassettesima, sua cugina cessò d’orare e si mosse verso la porta. Egli allora s’indugiò dietro di lei, per finire di contarle con gli occhi.

Al Battistero fu lo stesso; guardò il fonte troppo semplice, il pulpito di marmo bianco troppo ricco, girò attorno a la gradinata lucida, senza apprestarvi troppa attenzione. Elena gli diceva qualche parola vuota; anch’ella, ma forse per ragioni diverse, si sentiva commossa da queste cose.

— Se ci fosse la signora Lucchini, sentiresti che paroloni! Ma non ne capisce nulla... Ha cacciato a mente tutte le spiegazioni dei custodi.

Camminando sotto l’ampia volta rotonda i loro passi avevano risonanze sonore. La porta si schiuse per dar adito a un nuovo visitatore ed il rumore del battente destò nell’atrio un fremito ampio che si perdé lentissimamente nell’altezza della cupola, simile al gemito d’una canna d’organo.

— Si va ora nel Campanile, mamma? — domandò Guiduccio all’uscita.

— Sì, sì, noioso! Vedrai Claudio che colpo d’occhio!

Prese i biglietti per andar su, e cominciarono l’ascesa della stretta scala che conduce fino in cima, con le pareti decorate d’iscrizioni a matita; date, nomi, figure, che ogni visitatore vi aveva segnati. Essi lessero alcune di quelle firme d’ignoti.

— Scriveremo anche i nostri nomi — propose Elena — ma lassù, in cima, sopra tutti gli altri. Bada. Guiduccio, dammi la mano, non t’affacciare a le finestre...

Al primo piano s’affacciarono avanzandosi sul ballatoio.

Pareva loro di esser quasi sulla piazza, ma pure si sentivano lontani ed isolati, e vedevano l’abside del Duomo che ai loro occhi nascondeva quasi tutto il Battistero. Si udivano alcune voci a parlare; un cocchiere, il cieco che chiedeva l’elemosina, i due custodi sotto di loro.

— Vuole una vettura?

— Signora mia bella l’elemosina a un povero cieco.

Continuarono a salire ansando leggermente; Claudio cominciava a sentire quasi un mal di mare, Elena diventava sempre più rossa, il bimbo solo avanzava saltellando spedito.

— Ti ricordi mamma, quando si venne tutti con la signora Lucchini? tu eri al mio braccio e il signor Poldo veniva dietro con il babbo... E Maria che cadde, ti ricordi?

Passando dinanzi le ampie finestre vedevano la piazza da tutti i lati, fuggevolmente. Qua come un tappeto verde, con un pezzo di cielo e un’ala del Duomo, la porta del Camposanto poco lontano; là un lembo di piazza selciato, con le prime case della via Santa Maria, il negozio a vetrine su la cui tabella si leggeva « Marbres de Carrara » e uno squarcio di cielo più chiaro pei raggi del sole, incorniciato nel quadrato delle finestre, con gli effetti d’un caleidoscopio enorme. E, salendo, la vista s’allargava.

Al quarto piano si fermarono per riposarsi, guardandosi sorridendo. Elena sporse timidamente il capo dal vano.

— Brr! che altezza!

Claudio restava indietro, guardando anche lui. S’era al livello del tetto nereggiante del Duomo, su cui giganteggiava la cupola, maestosa, di là dalla quale luccicavano le pietre lisce del Battistero che nella luce assumeva riflessi d’argento. L’erba del suolo appariva come due grandi scacchi verdi, tagliati in mezzo da la viottola gialla. Guiduccio tentava di liberarsi dalla madre che lo tratteneva per una mano.

— Oh mamma non mi butto mica giù.

— Ma vuoi star fermo, birichino!

— Vedi, non lasciano mai salire una persona sola, per timore che si precipiti. Si sono buttati molti, sai? Pochi anni fa un inglese!... si disse anzi che fosse venuto a Pisa unicamente per quello... Che gusti, Dio mio!... in cima vedrai com’è bello.

Arrivati sul terrazzo delle campane, sbucando dalla scala, fu per i loro occhi come uno scoppio di azzurro e di luce. Claudio si vide tutto il cielo sui capo, e gli parve anche più vicino. Nei raggi tiepidi del sole tremolava uno zeffiro leggero, come il brivido dell’aria e il bacio della luce. Tutta Pisa si distendeva sotto i loro occhi, velati nell’acceso del sole da una sottile polvere aurea.

Il Duomo, e più in là il Battistero, erano anch’essi circonfusi di chiarore, e nell’inganno dello sguardo sembravano tanto vicini che si credeva di poteri toccare. Giungevano, ogni tanto, chiarissimi, suoni che si levavano dalla piazza e, così squillanti, pareva che attraversando la luce si arricchissero di vibrazioni d’oro.

— Signora bella l’elemosina a un povero cieco. La voce del questuante, saliva ancora, ma un po’ velata.

Elena, avvicinandosi a Claudio che s’era appoggiato alla ringhiera di ferro, gli disse:

— Non te lo aspettavi che quassù si godesse questo spettacolo, eh?... Ma Guido!...

Guido voleva essere lasciato, per andare a picchiare la gran campana.

— Vedi, Claudio, le sette campane hanno i toni delle sette note. La più grande è il do... senti?

E con la punta del suo ombrellino diede con forza su la campana, che rispose lamentevolmente: do... do... do...

— Vedi come suono bene? Ah! ah!...

E la più piccola, percossa, pianse: si... si... si.

— Dice proprio si mamma.

E Guido si divertì a battere in giro su tutte le campane, poi propose a la madre di suonare assieme e batterono disordinatamente, in un concerto da romper le orecchie, applaudito da le loro risa.

Claudio guardava su la piazza, ove le carrozze e le cose sembravano giocattoli, Il vuoto si spalancava sotto di lui. Pensò a l’inglese che s’era precipitato e ne immaginò la caduta fulminea. Trattenne il respiro, rabbrividendo con raccapriccio, come se lui stesso cadesse, quando sentì una volontà sfrenata di buttarsi giù a capofitto, per provare anche lui quella sensazione terribile. Affacciato così nel punto d’inclinazione, non vedeva la base della torre, sembrandogli invece d’essere sospeso su un corpo librato nell’aria; e gli parve ad un tratto che il campanile pendente s’inchinasse a poco a poco di più, che la terra girasse sollevandosi vorticosamente verso di lui. Diede un grido soffocato e si rovesciò indietro. Elena gli balzò accanto con terrore.

— Claudio!

Egli si senti afferrare e si volse, pallidissimo, col sangue tempestante nel cuore, il petto dilatato dai palpiti e da esuberante respiro. Elena si fece subito più pallida di lui e la vide abbandonarsi un istante, come se stesse per svenire.

Mamma, mamma! singhiozzò Guido attaccandosi a lei, senza aver ben capito.

Claudio, riprendendo i sensi, la sorresse; ma ella si svincolò, dicendogli con ira:

— Stupido; m’hai fatto paura!

E cercò il figlio, chinandosi per abbracciano più volte, mentr’egli le si appendeva al collo, convulso.

No, no, perché piangi, tesoro?

E gli asciugava le lagrime, aiutata da Claudio che badava a carezzarlo stordito ancora dalla vertigine e dalla parola con cui ella lo aveva rimproverato.

— Orsù, basta ora... Sii buono, tesoro

Parlando, ella si voltava ogni tanto verso il cugino a guardarlo fra incollerita ed affettuosa, con un lampo di sorriso in fondo a le pupille; finchè gli si fece più presso con un moto repentino, e gli passò la mano sotto il braccio, sussurrandogli con lo sguardo rivolto a gli scalini:

— M’hai fatto paura davvero, cattivo!

Egli fu contento subito, mai Elena gli era parsa sì gentile e bella.

— Sai, io soffro di vertigini.., specialmente da qualche mese, dopo che la mamma...

Notò di nuovo ch’ella somigliava a la morta, la quale le apparve nell’anima, così vestita di nero, com’era nel giorno dei morti, nel novantotto. Ma quell’immagine somigliantissima a sua cugina durò un baleno, ed egli non seppe vederla più, per quanti sforzi facesse. Scendevano.

Mi vuoi bene tu è vero? — ella chiese piano.

Tanto!

Molto, sì, sì, mi piace sentirmelo dire!... Non me lo ha mai detto nessuno.., nemmeno mio figlio!

E gli si strinse di più; egli rievocò la sensazione di poco fa, quando l’aveva avuta un momento fra le braccia, senza goderne nel turbamento.

Al ritorno presero una carrozzella volendo fare una piccola passeggiata; e per via, risero di quella loro sciocca paura sul Campanile.

A casa trovarono Fabio ritornato allora dal Banco, che andò loro incontro col sigaro in bocca e le mani in tasca, guardando la moglie e il figlio con quel suo sguardo stupidamente affettuoso.

Guiduccio lo abbracciò a le gambe, narrandogli tutti gli episodi più salienti di quella mattina, insistendo specialmente su la paura dello zio.

— E che sei divenuto una signorina? — chiese Fabio sorridendo a Claudio che non avrebbe voluto parlare di quell’incidente.

Poco dopo, entrando nell’anticamera per deporvi il soprabito, vi trovò Elena che uscita da la sua stanza, dopo aver cambiato abito, vi s’era fermata un momento per ravviarsi qualche ricciolo ribelle davanti alla specchiera.

— Hai fame? — gli domandò traversando la stanza per recarsi in cucina.

— Non molta — e deponendo il cappello e il paltoncino sul canapè, egli non ardiva guardarla e si sentiva a disagio; pareva pensoso, senza che pensasse a. nulla.

— Bravo, se stasera non mangi l’avrai da fare con me.

A tavola Claudio si mostrò preoccupatissimo. Aveva accanto Elena, che, a certi moti, nel mangiare lo sfiorava or con un gomito, or con le dita. La rivedeva nell’atto grazioso di poco prima, profilata contro la finestra donde la luce le metteva riflessi azzurrognoli nei bruni capelli: Elena gli apparve a la mente nello spasimo della voluttà, con gli occhi socchiusi, le indi sommerse nelle palpebre ombrate... ma la vedeva in braccio a Fabio e tentò invano di scacciare quest’altra visione. E la voce del marito, ingrata, lenta, monotona, che gli domandò: Perché non mangi? Egli se la finse mentalmente al momento di pronunciare le parole del piacere -Elena! Elena! — egli le gridava dentro di sé col desiderio vivissimo di sentirsela tutta fra braccia

Ma la sera, andando via, non ardì — come le altre volte — baciarla dinanzi a Fabio.

 

V.

Lo zio aveva già parlato a suo nipote del Barone Roberti, prima ancora che costui venisse a fare una visita in casa Massano, sicché, quando si presentò, la sera del venerdì, per Claudio non era affatto uno sconosciuto.

— Questo barone è nobile, nobilissimo. Ha fatto in gioventù molte pazzie che gli sono costate tutto il suo patrimonio, ed ora vive in una soffitta assai mal messa, ove non riceve mai nessuno... Ma è un gentiluomo, e di tutti i suoi conoscenti, che sono moltissimi, sai chi preferisce? Noi.

Il barone venne tutto striminzito in un soprabitone incolore, dal bavero sudicio e consumato, e in mano una canna dal pomo d’oro; pioveva. Dopo le presentazioni, stretta la destra dei padroni di casa nella sua mano enorme paonazza pei geloni, egli si sfilò il tabarro fradicio, e lo depose sopra una sedia, dicendo col viso rivolto a Claudio:

— Fa freschetto, stasera.

S’intirizziva. Egli parlava compassato, con la pronuncia toscana impasticciata fra i denti e, col suo grosso naso sui baffi grigi, aveva l’aria di annusare le proprie parole. Claudio notò che, scosso da un tic nervoso quasi continuo, non stava un momento fermo; e ciò appariva strano in lui, che — si vedeva benissimo — aveva soltanto voglia di star tranquillo. Ora strizzava gli occhi storcendo la bocca; ora alzava sussultando una spalla inchinando la testa sullo stesso lato, ora con una mano si batteva colpi sul petto o su la fronte.

— Venga nella sala da pranzo, barone — diceva Francesco.

— Ma si, senza complimenti.

— S’accomodi e ci racconti qualche cosa — aggiunse la zia Clotilde scemando un po’ la fiamma del lume, prima di sedere. — Che vuole, io sto sempre in casa, e non so nulla de’ discorsi del mondo. O che si fa dunque a Pisa? Non s’offende mica eh? s’io lavoro alla calza?

— Le pare? Eh, non abbiamo tante novità, per ora

— Che ne dice lei barone, dell’affare dell’acqua?

— Oh quello, signor Massano; mi lasci stare che non ho più fiato tanto ne parlo.

E giù un gran colpo sul petto, che risonò come una gran cassa.

Il dialogo su l’acqua durò a lungo fra il barone e lo zio, con qualche parola della zia. Poi si passò a parlare del pane che non si poteva mangiar più e che la signora Clotilde trovava troppo caro. Poi del matrimonio della Ronchetti con quel gran signorone russo, il quale aveva dovuto provvederla sin della camicia; la zia diceva di conoscere lei troppo bene, e calcava su queste parole. Claudio taceva, ascoltando appena; poi pensò cosa potesse aver fatto questa donna e da un tal pensiero la sua mente andò ad Elena, con un trasalimento di tutto l’essere.

— Ora il barone prenderà il ponce con noi.

— Oh, senza complimenti, sanno!

— Ha cenato?

— No, la mia cena non è un lusso, prendo qualche cosetta leggera, un ovo, un po’ di brodo, che so io, un ditino di vino.., fumo un sigaro e vado a letto... tanto per non aver freddo la notte, a stomaco vuoto.

— Via Clotilde, dacci il ponce.

— Ma il signor barone ha anche lui l’abitudine?

— Sicuro che l’ha! Lo prende nero o bianco?

— Bianco, bianco, ma non s’incomodino

— No, a me basta una tazzina di caffè.

— Sente barone? sono altrettante signorine questi giovanotti d’oggi; lo spirito dà loro al capo. Ai nostri tempi eh? dica lei. Sai che ho fatto io una volta? Ho bevuto mezzo litro di rhum! a la tua età!

— E napoletano il signor… signor Aristide, dico bene?

— Claudio per servirla. Napoletano a metà, sissignore, perché la mamma era pisana e il babbo delle Marche, ma stabilito a Napoli da gran tempo, per ragioni di servizio; egli è capitano marittimo.

Il barone, restò un momento solo con Claudio, perché lo zio Francesco andò a raggiungere la moglie in cucina. E conversando col visitatore, Claudio udiva, da un incerto borbottio, che gli zii si bisticciavano fra loro.

Da li a poco marito e moglie rientravano coi ponce e il caffè. Lo zio Francesco disse:

— Scusi, barone, se ci siamo eclissati. Quando si ànno le donne di servizio a ore, è un po’ una schiavitù per i padroni.

Il barone sorbiva lentamente, portando il bicchiere a la bocca col braccio irrigidito per non rovesciare la bibita calda in uno dei suoi improvvisi sussulti, e lo posava poi battendolo due o tre volte su la tavola come per rafforzarvelo meglio.

— E i miei parenti dimorano in via Chiaia -diceva a Claudio.

— Si, li conosco di nome e di vista. 

— E quando ci fui io mi posero a dormire nella camera che ha proprio la finestra su l’angolo, e ogni mattina, dal letto, vedevo il Vesuvio con quel fumo… è bello, è bello!

Questa esclamazione la ripeté in tono calmo e persuasivo, come se volesse convincer qualcuno. Claudio lo ascoltava con piacere: quell’uomo gli era simpatico.

— Attualmente a Pisa abbiamo un suo compaesano... si, e un maestro di pianoforte e d’organo, bravo dicono. Anzi, domenica terrà un concerto privato, nella gran Galleria del Palazzo Fortini; il marchese gli concede il suo nuovo organo, che ha comprato in Fiandra per ottantamila lire.

— Il marchese Fortini? E fratello dell’assessore?

— No, sor Francesco, cugino. Molto più ricco questo. E lei ha avuto biglietti per quel concerto?

— No, e mi piacerebbe per mio nipote...

— Ma sì, sì, diamine! Ne ho due a casa, e glie li porterò domani.

— Grazie, signor barone - soggiunse Claudio — ma non vorrei per lei ?...

— Non si dia pensiero per me signor Cesare; io ci andrò lo stesso.

— Ti pare? Qui lo conoscono tutti. Condurrai teco Elena.

Il pomeriggio del giorno dopo Claudio parlò a Elena di quel concerto, comunicandole anche le sue impressioni su quel tipo ameno del barone.

— Oh quel barone, che ridere, bimbo mio! Quando viene qui da noi ci racconta le più matte storielle, con quella sua vociaccia sgangherata contorcendosi ed ammiccando... Ah! Ah! Ah!

Claudio rispose a quei gorgheggi di riso, ridendo anche lui. E rideva ancora quand’ella lo lasciò solo un momento poi che Venezia la chiamava, ma ad un. tratto un pensiero sopito scoppiò nella sua mente: sua madre! Egli rideva, e sua madre, l’adorata, era morta! Restò un istante annichilito davanti al ricordo doloroso che aveva dimenticato e che adesso sopraffaceva l’anima sua; pensò a colei che non avrebbe riveduto mai più, la pensò qual’era l’ultimo giorno, cadavere, vestita di bianco, come una sposa. Rigida sul letto infiorato, nella stanza soffocante pel caldo e per quell’odore strano che ancora lo nauseava.

S’abbandonò a quei pensieri appoggiando il capo su la spalliera della poltrona, e lasciò scorrere qualche lacrima di tra le palpebre socchiuse e l’invocazione delle visioni dolorose.

Elena ritornò ridendo.

— Quella mia zia è un bel tipo! Assicura di vedere uno spirito, col quale è in gran conversazione...

Egli si sforzò di rimettersi, e sorridere. Poi che nessuno poteva più comprendere l’intensità sempre viva del suo dolore, bisognava ch’egli non lo dimostrasse; ma ridere più tosto, lasciare che la materia dimenticasse; l’anima non avrebbe dimenticato giammai.

— Dunque, andremo a questo concerto?

— Ma sì, bimbo: noi due soli però, poi che Guido si addormenterebbe. Lo zio ci verrà?

— No non credo. E Fabio?

— Sii.., quello !... Non potrebbe fumare, e poi ti pare che io abbia gusto a cacciarmelo dietro!

Claudio ne ebbe piacere.

— Però, sai, mentre ieri da zio Francesco ricevevi la visita del barone Roberti, altri son venuti qui, pure per te, senza trovarti.

— Chi?

— Le mie amiche, le Moretti! Te n’ho mostrato il ritratto in salotto, sai bene? Quelle tre buffe...

Ah, si!, Sono venute iersera per conoscerti, insieme coI fratello... Ah, se tu vedessi quest’altro, che figura! Ha un naso lungo così, secco, allampanato, con gli occhi di lucertolone, e certe mani... quasi più grandi di quelle del barone. Non t’hanno trovato e vogliono che adesso si vada noi da loro.

— E andiamoci. Ma se tu non ti vesti...

— Scappo subito.

Passò Kate già avvisata della presenza di Claudio. Questi la salutò con un urlo.

— Buon giorno.

Avrebbe voluto domandarle subito degli spiriti che essa asseriva di vedere; ma come farsi intendere?

— Pon ciorno! Ah, ah, ah!

— Son venuto a prendere Elena.

— Sta pene?

— Si, grazie e lei?

— Occi è una pella giornata. Ieri ha piovuto tant’ tempo!

— Tutta la notte, sino a poche ore fa; il cielo s’e rimesso da poco.

— Si… aaaaah!

Elena udendo gli urli, rideva tra sé e gridava da la sua camera.

— Più forte, bimbo! strilla! strilla!

— Ha pranzat’?

— Si.

— Anche noi. Cuito è andato con 1’ signora Lucchini e i pimpi alle Piacce. Ah! ah! ah!

— Lei resta sola ora: e che cosa farà in casa?

— lo non vato più fori da tre ani: la mia maltia a gli occhi. Veto molt’ male, ma coi lent’ lecco il ciornale. Ah! ah! ah! Lei ha lett’ il ciornale iers’ era?

— No.

Il dialogo mutò piega, poi che la vecchia Kate cominciò della probabile guerra degli inglesi con i boeri, dell’affare Dreyfus che non finiva mai, dell’enciclica del papa, dei fischi a l’ultima tragedia di Gabriele d’Annunzio, e chissà quando avrebbe esaurito i suoi argomenti se Elena non fosse ritornata, pronta per uscire. Allora ella li salutò col suo mugolio soddisfatto e con qualche parola affettuosa, sorridendo con tutto il suo viso ove solo i grandissimi occhi parevano di pietra.

In istrada Claudio disse:

— T’assicuro che non ho più gola.

Elena rise.

Erano le quattro del pomeriggio: restavano ancora quasi due ore di giorno. Le Moretti abitavano in piazza Santa Caterina, si che i due cugini vi giunsero in pochi minuti.

Sul pianerottolo, dopo aver suonato il campanello, Elena, ansante per l’ascesa, guardò ancora sorridendo il cugino, dicendogli con una smorfietta:

— Vedrai che roba!

— Uh, la nostra Elena! — esclamò Teodora che venne ad aprire, facendo accorrere a quel grido le altre due sorelle. Pareva non la vedessero da dieci anni.

— Uh! Elenuccia! come stai?!

— Vi presento mio cugino.

Qui le esclamazioni, pronunciate con gli occhi fissi in lui, tacquero d’un subito, le tre voci divennero piane, le persone si fecero composte, i visi mellifluamente dignitosi.

— Tanto piacere!

— Tanto piacere!

— Tanto piacere!

Poi guardarono Elena con un abbozzo di sorriso, guardarono di nuovo lui, si guardarono reciprocamente le mani.

— Ilia, andiamo in salotto!

— S’accomodi, s’accomodi... Vieni avanti Elena, tu sei di casa.

Nel salotto buono, che puzzava di mobili vecchi e d’aria rinchiusa, sedettero: Elena nel canapè fra Ilia e Teodora, una mezza sorda, e Claudio dirimpetto a Clorinda, su le poltrone. Appena seduti, le tre donne lo guardarono un’altra volta, quasi per vedere che impressione gli avessero fatto esse e la casa. Ilia bisbigliò all’orecchio di Elena.

— E’ un bel giovanotto tuo cugino.

Gli parlarono da prima con compunzione e interesse dolente, di sua madre, della catastrofe, dei dolori, della morte in genere.

A lui spiacque, nel cuore, che l’amato nome fosse profferito da l’ipocrita piagnisteo di quelle estranee,che non potevano sentirne alcun dolore. Anche queste donne gli rimasero subito insoffribili..

— Che glie ne pare di Pisa? E una città molto carina.

— Non è certo la sua Napoli. Ma ci son molte cose belle, n’è vero?

Clorinda guardò bieca Ilia che s’esprimeva così grossolanamente.

— Mia sorella crede che queste cosette che ci sembran belle debbano esserlo pure pe’ forestieri.

— E perché no? lo dicono tutti

— Veramente la signorina ha ragione; a Pisa ho veduto dei monumenti bellissimi e son rimasto ammirato. Non credano poi che a Napoli abbiamo abbondanza di simili preziosità monumentali...

Lo guardarono sbarrando gli occhi, con grande attenzione e serietà. Egli continuò

— ...lì è tutta la bellezza naturale e caratteristica, perché poi l’opera d’arte più notevole e più paesana è, secondo i buongustai, un bel piatto di maccheroni al pomodoro...

L’attenzione quasi drammatica si sciolse in tutte con uno scoppio di risa; rise anche Teodora, che non aveva bene udito, ma poi si volse a Elena, domandandole piano:

— Che cosa ha detto?

E dopo ch’ebbe inteso, rise di nuovo convinta, girando gli occhi su tutte le facce che tornarono a ridere anche loro.

— Cotesto abito nero è lo stesso dell’altra volta? chiesero a Elena.

— No, è oggi la terza volta che l’indosso.

— Senti, devi proprio indicarcela la tua sarta; lavora molto bene.

— Signor Claudio, anche a Napoli le signore si servono dalle sartine?

— Credo di sì.

— Qui lavoran bene... Le grandi sarte hanno troppe pretese...

— Ma la tua, non sarà mica quella tale? !…

Oh no, no, ti pare! L’ho licenziata.

— Sa signor Claudio, una ragazza che vendeva le stoffe delle clienti, per dar denaro al suo innamorato...

Teodora, che non sentiva a qual punto fosse arrivata la conversazione, domandò a Claudio:

— Da loro li faranno bene i maccheroni? Eh, si...

Sopravvenne la zia, una vecchia piccolissima e sordissima, tutta rattrappita dai suoi novant’anni.

— Oh, la zia Brigida! Zia, questo è il cugino di Elena.

— Tanto piacere.

Elena non poteva più star ferma e parlava intanto con Teodora della maniera di preparare i vermicelli a le vongole, con certi sorrisi infrenabili a cui sorrideva anche quella, senza capire. Claudio si seccava a morte, non gli pareva l’ora di andarsene e di star solo un pezzo con Elena, per via. La guardava sempre, ammirandone la voce, le movenze, la bocca quella deliziosa bocca splendente — non tollerava più la compagnia di quelle donne vecchie e brutte, il tanfo di stantìo di quella camera.

— Come le piace la nostra Pisa? domandò la zia, con una vocetta tutta tremante.

— Gli sembra bella — urlò Ilia.

— Bravo; non è certo la sua Napoli.

Poi Ilia, vedendo che egli guardava verso alcuni ritratti su la parete, disse

— Vede quello è la benedett’anima del babbo... Clorinda, mostragli un po’ que’ ritratti.

Egli si alzò con Clorinda, mentre Teodora ed Pia restavano ad ascoltar Elena, e la zia le guardava dicendo sempre di sì col capo e sorridendo ai loro gesti animati. La sua attenzione era specialmente pel cappello grande della visitatrice, in cui vedeva brillare qualche cosa. Finalmente si alzò e le si appressò, per veder da vicino che fosse.

— Vede, questo è il babbo — spiegava Clorinda a Claudio — morì a cinquantasei anni, era il fratello minore... Quello è il nostro medico, che ci voleva un gran bene !... Ci chiamava le su’ bimbe. E morto... Guadagnava molto, sa? Più di quattromila lire l’anno...

Claudio sentiva una voglia sfrenata di saltare da la finestra. Egli stesso non riusciva, in fondo a capire perché, ma quella gente gli era odiosa, gli pareva che gli volesse del male. Rivolse alfine a la cugina uno sguardo d’implorazione; quella capì e si alzò. Tutte in coro protestarono per trattenerli.

 
Home ] Santa Maria della Spina ] La vita al vento ] L'avventura... ]