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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

VI.

Ritornarono che cadeva il crepuscolo.

Appena usciti, salutate ancora una volta le Moretti che s’erano affacciate a le finestre, con inchini e sorrisi, mentre Elena già rideva rumorosamente, Claudio che non ne poteva più, esclamò con aria di corruccio:

— Ma come mai tu non odï quegli esseri?

— Ah, ah, ah, bimbo mio, zitto per carità, o scoppio!

E si mordeva le labbra, rossa in viso, per non dar nell’occhio ai passanti.

— E poi son tutte attorno a te le sorde di Pisa? In casa vostra ce n’avete una e, come se non bastasse, vai a scegliere delle famiglie ove ce n’è a mezze dozzine.

— Oh, non nominare la mia povera zia! Dicono che l’aria di Pisa produca questo effetto nei vecchi.

— E passi pei vecchi; tua zia e quest’altra non debbono vedere gli ottant’anni. Ma Teodora?… così giovane! perché certo non li ha ancora gli ottanta

— Ah, ah, ah, sta zitto... mi fai scoppiare!

Le risate d’entrambi furono infrenabili. Claudio dissipava così il suo malumore e, vedendo ridere la cugina, raddoppiava in facezie; la lunga ora trascorsa in quella casa che puzzava di mobili vecchi, d’aria rinchiusa e d’aglio fritto, gli avevano intorbidito lo spirito come le gambe; ed ora egli batteva forte al suolo i piedi intirizziti, per riscaldarsi.

— Senti Claudio, si ritorna per lung’Arno? Facciamo una passeggiatina prima di rincasare: ti va?

— Figurati!

Poca gente per via, poi che il freddo ventava, malgrado il cielo quasi spoglio di nuvole: l’autunno insidiava col barbaglio delle sue luci e dei suoi colori portentosi. Il sole era tramontato lasciando soltanto fra due colli lontani una striscia rossa in cui pareva a Claudio di vedere le bronzee mura d’un’antica città in fiamme.

A un tratto, dopo aver camminato un bel pezzo in silenzio, egli sentì la mano inguantata di Elena scivolare sotto il suo braccio.

— Fa fresco — diss’ella con un tremito ed un sorriso, rannicchiando il volto nella pelliccia di lontra che le cingeva il collo.

Egli non disse nulla: ma un’onda di gioia esuberante gli salì pel seno fino alla gola, palpitandogli nel cuore, arrossandogli il viso. Sentì per la prima volta la felicità del momentaneo possesso ideale, la felicità di avere a fianco una donna bella, giovane, desiderata.

Egli la desiderava, si: era questo il fremito, la commozione, lo spasimo gioioso che lo assaliva quando le era vicino. E se anch’ella lo amasse? Bisognava domandarglielo. Preparò in mente, quasi assaporandone con delizia, le parole che le avrebbe detto, piene d’ardore e di passione:

« lo non ho più anima, poi che tu me l’hai rubata; essa è in te, diventa l’anima tua, lascia un istante che io la ripigli! ». Queste parole gli piacquero e le rimuginò a lungo dentro di sé, aggiungendovi e mutandovi qualche cosa.

Un giovanotto che passava loro accanto li guardò attentamente, con curiosità indiscreta: poi si volse. Gliela invidiavano, lei così bella, pensavano forse che fosse la sua amante. Oh, s’ella potesse esserlo davvero! Si figurò Elena fra le sue braccia, abbandonata, delirante; poi Fabio che se ne accorgeva e rideva, senza dir nulla, poi la zia Clotilde che vedeva pure e si segnava, scandalizzata — e lo zio Francesco che diceva:

— Fate, fate pure — e sua madre... Un giorno l’adorata morta gli aveva detto: come amerei una donna che t’amasse!

Passò un monello, cantando:

All’acqua, all’acqua! Alla fontana nuova!
chi non sa far l’amor, là ci s’impara,
e chi non à l’amante ce la trova...

— È sempre quella famosa canzone? — domandò Claudio, scotendosi, tanto per dir qualche cosa. Ma Elena annuì solamente con un sorriso, lo sguardo perduto e fisso lontano, in qualche suo pensiero.

Egli lasciò fluire un’altra volta le immagini nella mente fervida: l’ora li rendeva taciturni, mettendo loro forse nell’anima tutta la maestà suggestiva del tramonto. E Claudio ebbe per un momento la sensazione indefinibile d’un qualche cosa di insolito e di bello che poteva pure essere nella sua vita, vuota fino a quel giorno. Intravide così, come di scorcio, per un baleno, un futuro pieno di palpiti di gaudio e di gesta, quali non aveva saputo, non aveva pensato mai: eco, forse delle sue fantasticherie di fanciullo. Tutto l’essere suo si dilatava nell’ esultanza del sogno senza nome.

Ed Elena pensava come lui? Ogni tanto la sua mano gli pesava di più sul braccio, come se ella mancasse.

— Vedi — gli disse piano ad un tratto — malgrado tu mi veda spesso ridere e ciarlare, io sono così disgraziata!

— Perché?

— Non ho nessuno che mi voglia bene. — E poi che egli non rispondeva continuò:

— Nemmeno mio figlio, che ama troppo suo padre.

— lo credo che t’amino tutti.

— Ma non come io vorrei essere amata!

Tacquero di nuovo, camminando lentamente a capo chino. Poi si scossero simultaneamente con un sospiro e si guardarono.

Stavano già per svoltare l’angolo della via XXIX Maggio, quando s’udì il fischio acuto d’un treno che passava sul ponte di ferro. Claudio guardò, ed i suoi occhi incontrarono un piccolo edificio che sorgeva più innanzi su l’altra riva dell’Arno.

— Che cos’è quello? — domandò, fermandosi.

— E’ Santa Maria della Spina. Appunto, non l’avevi vista ancora?

— No. È bellissima: pare un gingillo d’avorio.

Il crepuscolo dava a le cose un po’ più lontane aspetti rigidi di bellezza severa, benché tutto si distinguesse più nettamente, anche nei minuti particolari: solo quella chiesetta sull’argine, più bassa di tutti gli edifici vicini, così bianca e delicata, con le piccole guglie acute, si staccava da l’uniformità maestosa, circonfusa dalla semiluce, che le dava come una vaporosità d’illusione.

— Si potrà visitarla?

— Non credo, è troppo tardi.

— Appressiamoci. Vorrei vederla un po’ più da vicino.

Passarono sul ponte Solferino e, nell’ebbrezza ch’egli aspirava da l’aria crepuscolare, parve a l’accesa fantasia di Claudio che quel ponte bianchissimo gittato su le acque torbide e gorgoglianti dell’Arno ancor gonfio delle piogge recenti, lo conducesse fino al suo sogno.

Avvicinandosi man mano a la chiesa e osservandone l’architettura bizzarra, mista di gotico e di toscano, con gli archi rotondi, le fasce nere, le guglie a cappellette e, su la facciata, le dodici nicchiette. con Gesù e gli apostoli, egli si accorse ch’era un po’ tozza e meno elegante di quel che la lontananza non lasciasse apparire.

— Oh, guarda, è aperta; possiamo entrare.

Ed Elena lo condusse verso la socchiusa porticina della facciata.

Entrarono e vi trovarono il custode che passava la granata sul pavimento.

— Vengono per vedere la chiesa? — domandò costui con un sorriso fra la barba, interrompendo la sua bisogna e squadrandoli acutamente.

Claudio rispose di sì col capo, e si fermò con Elena nel mezzo alla cappella, di fronte alle due ampie finestre a vetri impiombati, che davano sul fiume, e da le quali entrava la luce lenta del vespero. Le pareti bianche a fasce nere come l’esterno raccoglievano quel barlume, rilucendone per la vernice fresca. Si montava nel coretto per un gradino largo quanto tutta la chiesa, con due colonne quadrangolari che sostenevano tre piccoli archi; su l’altare, semplicissimo di marmo bianco stava il trittico della Madonna col Bambino, San Pietro e San Paolo. Ai lati dell’altare si aprivano due finestre ogivali a vetri rotondi e sulle pareti opposte si vedevano le immagini marmoree di Santa Teresa e della Maddalena. Accanto a questa un piccolo tabernacolo con un’immaginetta sbiadita della Vergine, dinanzi a la quale ardeva una lampada prossima a spegnersi. Attorno correva uno zoccolo di marmo a bassorilievi impolverati. Su la parete opposta a l’altarino, la croce pisana e la data MDXX VIII.

— Conta già quattro secoli, sanno? — ciceronava l’uomo, mentre i due visitatori osservavano — Vede, signore, questa cappelletta contiene una spina della corona di Gesù. Se la vedesse: è una spina lunga così.

La lampada fioca illuminava il coro, si contorceva, sfavillava, crepitava invocando alimento. Claudio restava muto nella penombra, ascoltando la voce rauca del custode che s’infrangeva contro le pareti e sotto la volta sonora, oscillando e vibrando, quasi palpabile. La luce saltellante della piccola lampada si esauriva mettendo presso l’altare guizzi sanguigni che avvampavano le pareti lucide, strisciavano, su le colonnine lisce, lampeggiavano nelle dorature, si perdevano negli angoli bui, illuminando a tratti il viso di Elena che il barlume esterno imbiancava a pena. Ed egli si assorse a guardare quel viso immobile, che non pareva più della stessa donna.

— Se permettono, mentre stanno qui i signori, vado a prendere l’olio.

E il custode appoggiata la scopa al muro, in maniche di camicia com’era, uscì accostando l’uscio. Elena e Claudio restarono soli.

— Ti piace?

Egli non rispose, ma fece un passo verso di lei. La debolissima luce della finestra l’avvolgeva tutta, come un velo tenuissimo, o come una nube. Nel silenzio mistico non s’udiva che il gorgoglio del fiume che scorreva a pie’ de la chiesa e il crepitio della fiammella agonizzante, i cui piccoli lampi rossicci mostravano ancora alla muta contemplazione di Claudio quel viso che così sembrava raggiasse ad improvvisi flussi di sangue luminoso. Claudio s’obliava in quel silenzio e in quella semioscurità, ove, pur pensando, gli pareva che il suo essere si fosse immedesimato e dissolto in quelle tacite e immobili cose.

— Non puoi mica veder bene... C’è troppo buio.

E le parole, dopo aver girato e fremuto tutt’intorno, cadevano su di lui tremolando più forte, e gli serpeggiavano lungo la persona con brividi strani che invece di scuoterlo lo immergevano vieppiù in quella sensazione indefinita. Egli si sentiva commosso; almeno, non sapeva spiegare con altra parola il suo sentimento.

La sua attenzione fu tutta per un istante, per la lampada che crepitò e sfavillò vivacemente, si contorse, cigolò, emise un piccolo zampillo di fuoco che si sparpagliò in cento stelline rosse, e poi tacque d’un subito spegnendosi.

Tutto restò al buio, ora, ma il viso di Elena continuava ad essere illuminato da l’albore della finestra e dai riflessi morenti delle pareti, la chiesa vaneggiava tutt’attorno, in linee incerte, in ombre imprecise; soltanto una colonna e mezza statuetta di santa raccoglievano i pallidissimi raggi ultimi; il resto si perdeva nella penombra, con profondità ed ampiezze esagerate.

Claudio si sentì più commosso nel silenzio fatto più profondo da l’estinguersi della lampada e volle avvicinarsi a lei, a piccoli passi, senza far rumore per non disturbare quella pace religiosa; intravide ch’ella gli rivolgeva un sorriso. S’appressarono alla finestra, guardando a traverso i vetri appannati la sponda opposta del fiume che appariva più lontana.

— A restar qui sola a quest’ora avrei paura, con tanto buio. Io amo la luce. La notte dormo con una lampadina accesa e tu?

Egli l’ascoltava forse con attenzione straordinaria; le parole si spandevano nell’aria ora più tacita e vibrante facendo bisbigliare tutti gli angoli; ponendovi mente gli parve che qualcuno le ripetesse con un borbottio cupo.

Ella parlò ancora. Le risposero da l’orologio del Palazzo del Comune i rintocchi dell’Angelus, ma lenti, fiochi, lontanissimi, come gelida eco d’un altro mondo. Gli parve che tutto per lui fosse lì dentro, in quell’istante nuovo. Ebbe ancora la sensazione fugace di poco prima, grande ed indefinita.

Poi Elena tacque, come compresa anche lei dallo stesso sentimento. E restarono entrambi immobili, un po’ ansanti, ascoltando unicamente il battito dei loro cuori e il gorgoglio eguale ed incessante dell’Arno, guardando dalla finestra appannata la fila di case che pareva affondassero sempre più nel lividore vesperale.

Claudio pensava incoscientemente, tutt’assorto nella sensazione misteriosa e beata, con la gola stretta da una tenerezza incomprensibile che a poco a poco lo invadeva, mettendogli un lieve tremito nelle membra. Di tanto in tanto dalla strada s’udiva qualche passo affrettato, qualche rotolare di carretta, qualche voce, ma velata, soffocata dall’ampiezza dell’ora. Egli fu sfiorato da le vesti di lei e un brivido lo spinse ad appressarsi vieppiù a quel tepore voluttuoso. Nel silenzio solenne 1’ombra li abbracciava; essi erano in quell’ombra stessa. Al riscuotersi da lo stupore della sua mente, Claudio si sorprese con l’immagine di Elena spasimante d’amore, nell’anima.

Il freddo della chiesa vuota e buia gli gelava le mani nude, ma il suo respiro, anelava e intese anche in lei quell’anelito. Non osava guardarla, e la vedeva. Sentì allora subitamente che l’amava assai, assai più di quanto non avesse immaginato prima, comprendendo nell’istesso tempo che la sua vera vita, cominciava da quel minuto, che la vita era immensa, piena di vaste e belle cose per tutti, anche per lui, che ali nuove impennavano la sua giovinezza; e tutto per Elena, per Elena che certo lo amava, per Elena che lo avrebbe amato. Allora il desiderio, la tenerezza che lo soffocava, serpendogli nelle vene come cosa viva, gli fece alzare il braccio per recingere lei alla vita. Ma lo alzò timidamente timoroso forse che ella potesse adirarsi.

Elena, sussultò ma non disse nulla a l’abbraccio lievissimo come una carezza che le sfiorò appena i fianchi e le reni. Anelante, ma incoraggiato da quel silenzio, egli premé di più il braccio e inghiottì come un singulto la saliva copiosa con cui il desiderio lo affogava.

Ella non si muoveva, si guardarono un attimo con un simultaneo volger di capo. Era forse l’ultima luce che li faceva pallidissimi?

Uno scricchiolio improvviso li fece distaccare precipitosi, ma, ritornato il silenzio, egli la recinse di nuovo premendola anzi contro il suo fianco, appassionatamente: sentiva una vampa bruciargli le tempie, eppure tremava.

Ella volle parlare.

— Il custode non torna più.

L’ombra rabbrividì a quel suono e il bisbiglio degli angoli balbettò una risposta confusa. Ma la voce di lei era rauca. Volsero entrambi gli occhi a un fulgore improvviso che apparve come un faro nel cielo: la prima stella. E Claudio immaginò una notte più buia, una tenebra più completa in cui avere Elena tra le braccia, possedere Elena nell’ombra, senza essere veduti, senza vedersi - una foga infinita di baci - baci, baci, amare sovrumanamente in quell’ora di mistero... Egli la strinse ancora e d’improvviso con l’altro braccio l’afferrò a le spalle e la premé forte contro di sé, sentendosi sul petto la turgidezza morbida di quel seno, inebriato dal profumo delle sue vesti, dei suoi capelli

— Che fai?… che fai?… — sussurrò Elena con un alito, smarrita, ma senza resistere; ed egli muto e tremante, le gote ardenti, la strinse di più e sporse il capo, cercando con le labbra aride la bella bocca splendente ch’ella ardentemente gli offrì, con le reni curvate sul suo braccio, e il corpo con abbandono rovesciato indietro, le palpebre socchiuse, le iride morte.

Un attimo, in cui si tennero avvinghiati, affannosamente…

Fuori una vociona rauca gridò:

— Ah! monelli, monelli, se vi piglio!

Essi si distaccarono, con paura, allo scricchiolio dell’uscio che si riapriva.

— Sono al buio?... Scusino, veh! ma è stato per quelle canaglie di ragazzi che ò tardato...

Il custode ritornava con l’olio.

 

VII.

 

Per tutto quel giorno essi non scambiarono più parola, e separandosi davanti la porta di casa Mauri, si salutarono timidamente, con una stretta di mano frettolosa, non osando neppure guardarsi.

— Addio.

Poi ella s’immerse con un passo nel buio denso dell’andito, ed egli si allontanò senza voltarsi come soleva fare altre volte.

Ma il giorno dopo dovette ritornare a prenderla per condurla al concerto d’organo, pel quale aveva già ricevuto il biglietto dal barone Roberti.

Non poteva farne a meno poiché glie lo aveva promesso e, a casa, avendo manifestato a zio Francesco il desiderio di non andare in quel luogo ove era sicuro di annoiarsi, lo zio gli aveva detto:

— Ma Elena se ne adonterà. Gliel’ hai proposto tu stesso.

E la zia Clotilde aveva aggiunto:

— Sicuro, andate non c’è mica da spendere danaro, ed è uno spasso lecito.

Andò. Il concerto era fissato per le undici del mattino, ed egli s’avviò da casa alle nove e mezzo: non aveva coraggio e intanto ardeva dal desiderio di rivederla. Per via pensava che Elena fosse adirata e dovesse accoglierlo male. Se avesse narrato ogni cosa al marito? Fabio avrebbe fatto uno scandalo certo. E se ella invece gli venisse incontro sorridente, e lo baciasse dicendogli: Vieni, vieni, amiamoci!

Se la immaginava con la gonna tirata in sù, mostrando una gamba calzata di nero, col legaccio rosso dal fermaglio d’argento sopra il ginocchio.

Arrivato dinanzi alla porta e sonato il campanello, se ne pentì subito e fu sul punto di tornare indietro, quando venne ad aprire Venezia, col suo sorriso sdentato.

— Buon giorno signor Claudio.

— Buon giorno, Venezia. Fabio è in casa? — Non seppe dire « Elena».

— Sissignore.

Ciò lo contrariò. Trovò infatti in sala da pranzo Fabio che fumava il suo sigaro accanto a Guiduccio che si sporcava tutto mangiando una zuppa di caffè e latte coi crostini imburrati, mentre Elena ritta dinanzi a la credenza, preparava la bevanda per Kate, la quale seduta anche lei a tavola, continuava un suo lungo discorso condito di risate e mugolii.

— Oh, zietto, zietto caro!

— Ben venuto Claudio, O che hai fatto iersera? Non ti s’è veduto!

Mentr’egli rispondeva una scusa, Elena gli dava il buon giorno senza voltarsi e Kate continuava:

— ...Sonnino, Sonnino ha fatto un discorso tant’ pello... Ah! ah! ah! Ha ragione, perché il divorzio ora è a tant’ parti... La sinistra non vuole perché son tutti cesuiti. Ah! ah! ah !...

L’accoglienza riserbata di Elena confermò in Claudio i timori: ella era seccata con lui; egli non sapeva che contegno prendere per apparir tranquillo, temendo che i presenti potessero capire.

— Oggi resti a desinare con noi — disse Fabio.

— No, oggi no...

— Sì, sì, zio

— Ma sì, è vero Elena?

— Sì.

— Nel foro roman’ ànno trovat’ tant’ cose, tutt’ pelle antichità. Aaaah! e l’ha vist’ Cuito Baccelli?

Elena le portò la tazza di caffè e latte, gliela pose dinanzi su la tavola e le passò una mano sul capo, affettuosamente, dicendo con un sorriso:

— Mangia, mangia, Katina, e sta zitta; non vedi che nessuno t’ascolta?

Ella alzò il capo, fissandole in viso gli occhi spenti, abbozzò un sorriso, mugolò e tacque; udendo quindi strillarsi - Ssss! - rise borbottando un — Yes! — Mugolò più forte cercando la tazza con le mani esili e prese a mangiare in silenzio.

— Oggi la mia Kate è nervosa; questa notte gli spiriti non le hanno fatto chiudere un occhio.

— Andiamo a messa? — domandò Fabio.

— Che domande! — rispose la moglie.

— E allora ci si va tutti insieme; anche te, Claudio.

— Sei un devoto? — gli chiese Claudio.

— Eh, qui bisogna esserlo per forza, con Elena... — e sorrideva fumando.

— Via non scherziamo, seccante! Sai che non amo certi tuoi scherzi stupidi.

Fabio s’alzò senza rifiatare e andò in camera sua ammiccando con un occhio e sorridendo a Claudio, tanto per darsi un’aria. Il bimbo terminò la sua colazione domandando:

— Debbo indossare il vestitino grigio, mamma?

— Sì... quale ti piace.

Elena non aveva l’umor solito quella mattina; ma Claudio in cuor suo non ne era scontento, perché la vedeva così stizzosa verso il marito.

Finalmente uscirono tutti per recarsi a messa, e andarono proprio lì accanto, ai Cavalieri, che Claudio non aveva ancora visitato. Fabio conduceva per mano il figlio, Elena precedeva col cugino.

Entrando in chiesa Fabio bagnò la punta della destra nell’acqua santa, si fece il segno della croce e strofinò le dita umide su la fronte del piccino che si toglieva il berretto con le due mani, adoperandosi a disimpicciare la fettuccia elastica di dietro le orecchie. C’era molta gente.

— Vedi — spiegò Elena a Claudio, passando dinanzi a trofei, a bandiere bizzarre e multicolori, disposti lungo le pareti — queste sono bandiere che i Cavalieri Gerosolimitani hanno conquistate nelle guerre contro i turchi.

Ella parlava piano, avanzando; ma le devote, a sentirla, si voltavano continuando a bisbigliar preci e guardavano lei e il compagno che era certo un forestiere. Alcune interruppero anche le preghiere, per squadrarli; una sartina dié di gomito ad una compagna, indicandole con un cenno del capo la bella veste dì velluto della nuova venuta, su la quale tanti occhi s’indugiavano; un’altra, una becera inginocchiata, al suo passaggio glie la toccò facendola scorrere tra le dita, qualche voce sussurrò

— È la Mauri, guardala... Si crede una regina! E una signora grassa domandò a una vicina chi fosse quell’altro.

Elena passava fra la curiosità, l’ammirazione, l’invidia, conscia e sicura, senza guardar nessuno, avendo sul volto un raggio di sorriso superbo.

I due uomini sedettero subito; Ella e il bimbo restarono in piedi, orando, appoggiati a la panca durante 1’Evangelo.

Ad un certo punto Fabio disse piano a Claudio:

— lo soffro tremendamente a entrare in questi luoghi, perché bisogna star senza fumare.

Poi Elena sedendo gli sussurrò a sua volta:

— Vedi quel donnone li in terza fila: è la Guiccioli.

Claudio guardò verso la signora indicata: era una magnifica bionda.

— E una bella signora.

— Uh!… ti pare? Già voialtri uomini

Aprì il libro delle preghiere e lesse senza più aprir bocca. Guiduccio, seduto coi piedi su le sbarre della panca, barbugliava paternoster seguendo con gli occhi, avanti e indietro, un lampadario che dondolava. Fabio taceva con un qualche:

— Ehm! — tonante di tanto in tanto e segnandosi ogni volta che lo scaccino squillava la campanella da l’altare. All’Elevazione, col corpo curvo innanzi, disse:

— Meno male: fra poco siamo in fine. Così potrò fumare.

Quando il prete finalmente ebbe detto l’«ite»sacramentale, egli fu il primo ad alzarsi ed avviarsi fra la folla, volgendo ogni tanto gli occhi freddi verso la moglie la quale restava in piedi ridendo piano col cugino e trattenendo il bimbo che avrebbe voluto correre dietro il padre. Le donne e i giovanotti, passando, le lanciavano gli occhi addosso. Presso la porta Fabio chiamò forte:

— Elena!

Ella si fece rossa e si morse le labbra. Claudio la intese imprecare tra i denti.

— Che imbecille!

Fuori lo trovarono col sigaro già acceso.

— Non volevate venir via dunque?

Elena non gli rispose subito, ma quando furono usciti di tra la folla gli disse irosamente:

— Possibile che tu debba farne sempre una delle tue?

— Cosa?

— Metterti a gridare, a chiamarmi in chiesa! Sta male, non lo capisci?

— Toh! non volevi muoverti!

— Madonna mia che uomo insoffribile! - mormorò tra sé.

— Hai ragione, hai ragione Non ne parliamo più.

E continuarono a camminare in silenzio, andando verso lung’Arno. Svoltando per Sottoborgo, ella parlò di nuovo:

— Adesso io e Claudio si va al concerto in casa Fortini. Tu dove vai?

— Ma vado per quell’affare di stasera.

— Sì bravo — e a Claudio — Sai, bimbo, stasera avremo gente in casa per distrarci un poco.

— Col mio lutto?

— Oh! non si balia né si canta; ma siccome domani è il mio compleanno e noi s’usa festeggiarlo ogni volta, anche stasera verranno gli amici a farmi gli auguri Già, gli auguri per ricordarmi che compisco ventisette anni, come se ciò mi facesse un grande piacere

Fatti assieme pochi altri passi, si separarono dinanzi ai portone del palazzo Fortini. Guiduccio volle andar col babbo.

— Oggi, dunque si pranza alle tre? chiese Fabio ad Elena.

— Si, eh?

— Claudio è con noi.

— No, perché…

— Ma si, è con noi non gli dare ascolto.

Ed Elena se lo trasse via, verso l’ampia scalea di marmo, coperta da un tappeto e fiancheggiata da vasi antichi ove verdeggiavano piante esotiche. Ivi ella lo guardò come non aveva ancora fatto in quel giorno; ed egli sentì nel petto qualche cosa che gli si scioglieva.

— Cara, cara! — Volle sussurrarle stringendole un braccio, furtivamente; ma alcune persone montavano dietro di loro.

Nel salone trovarono una gran folla che, come in chiesa, li accolse con occhiate e commenti stornando l’attenzione dal concertista, il quale suonava un pezzo del Mosè di Rossini. Arrivati in mezzo alla sala pel corridoio lasciato tra le sedie, Elena si fermò un momento a guardar senza però posar gli occhi su alcuno in particolare, con le palpebre battenti, sentendosi guardati. Entrambi, passati così d’un tratto da l’aria libera a l’atmosfera grave della galleria, si sentivano affluire il sangue al viso.

Videro in un angolo il barone Roberti in piedi contro una parete che, avendoli scorti li salutava con un cenno del capo e un sorrisetto. Elena gli sorrise e, ostentando noncuranza per tutti gli occhi che la fissavano, disse piano al cugino:

— Hai visto com’è elegante oggi quel barone?

Una vecchia signora, la quale dovette levare da una sedia un monte di scialli e mantelli, per far loro il posto, borbottò.

S’udirono due o tre: — Zitto! Sssst! — e la sala tornò come prima.

Claudio, dopo aver girato gli occhi tutt’intorno su l’adunanza, si diè ad osservare ad uno ad uno i ritratti degli antenati del padrone di casa, disposti in giro alle pareti.

Finito il pezzo di cui egli non aveva inteso niente, scrosciarono gli applausi e tutta la sala si agitò ondeggiando con rumori di seggiole e stropiccii di piedi sull’impiantito, Il barone Roberti profittando dell’intervallo, lasciò il suo posto e, dopo avere ammaccato qualcuno nella ressa con: «permette» e «scusi» li raggiunse per stringer loro la mano. Attorno era un cicaleccio generale e un brusio da alveare.

— Signora Elena… signor Claudio

— Oh, signor barone!…

— Buon Dio, quanta gente! — fece Elena — noi siamo venuti un po’ tardi.

— E si è finita con quest’ultima sonata la prima parte. Ora ci sarà la seconda: era fissato per le undici.

— Sono appena le undici e mezzo

— Che vuole non si va per le lunghe; il pubblico è venuto presto. Hanno inteso, eh?

— Veramente…

— Già non possono aver inteso bene, son arrivati alla fine. E suo marito sta bene?

— Sì, grazie. È andato col bimbo...

— E quel caro piccino?

— È diventato un demonio... Ma vedesse che intelligenza!

— Si eh!? Lo credo. E lei si tratterrà ancor molto a Pisa?

— Ma... qualche altra settimana...

— Siiii... Non gli dia retta, barone. L’ha da far con me, questo signore.

Ed Elena guardò di nuovo Claudio, come poco fa. Egli voltò il capo, turbato, Il barone arrossì guardandoli entrambi e si picchiò su petto un pugno formidabile.

— Io verrò stasera a fare gli auguri… s’intende. Vedono il concertista è quel signore in abito lungo... Ora incomincia la seconda parte.

— Come si chiama?

— Sposito, mi pare. E’ suo compaesano signor Claudio...

— Esposito, allora.

— Ecco, Esposito. È bravo, sanno... Suona molto bene... Mi permettono? Io ritorno al mio posto.

— È solo di là, barone?

— No, sono con le signore Barnetti.

— Oh, Ada, la salutie dica che stasera le aspetto.

E il barone, ammiccando e sussultando come una ranocchia galvanizzata, tornò al suo posto ripetendo i «permette?» e gli: «scusi!» di poco prima. Alcune signore vicine avevano ascoltato con le orecchie tese, fingendo indifferenza, il piccolo dialogo, tra il chiacchierio generale.

Il barone, appena ritornato presso le signore Barnetti, comunicò loro l’invito di Elena; in quel crocchio erano anche le Fabbrini, le Ferrari, la Centoni, che si alzarono tutte per veder meglio là Mauri e la salutarono con cenni e sorrisi. Lidia Centoni le gridò:

— Vieni qui.

Ella le rispose coi gesti, sorridendo, per farle capire che avrebbe dovuto incomodar troppa gente, e quelle, tutte in coro, allora le proposero di vedersi all’uscita e d’andar via assieme.

L’organo gemette le prime note. — Zitti. Sssst

— La marea viva ondeggiò di nuovo, rumori di sedie e scalpiccii — Silenzio — Esposito sonava una vecchia romanza del Paisiello.

Claudio pensò che Elena pareva avesse dimenticato quel che era accaduto fra loro il giorno avanti. Dunque ella era insensibile? Rabbrividì al ricordo della dolcezza voluttuosa delle sue labbra! Se quel custode non fosse venuto, egli avrebbe continuato a baciarla ancora... Quando le avrebbe dato quel bacio infinito che avvince due esseri per un’eternità, in un minuto? Egli la voleva, così, come altra volta aveva avuta Mary, l’unica piccola, facile e puerile passione del suo breve passato... Ed Elena era più bella, più eletta, più amata di Mary.

Gli applausi a la romanza lo riscossero un momento.

Egli s’era obliato. Nell’aria calda di respiri si mescolavano sottili emanazioni di violetta, di corylopsis, di stoffe nuove: alla sua sinistra Claudio sentiva un acuto odore di naftalina. Una penombra molle addolciva i toni, con misteriosità. voluttuose. Elena, vicinissima, quasi addossata a lui nell’angusto spazio, leggendo in un programma che aveva ricevuto da un giovanotto cerimonioso, gli disse:

— Ora suona la Fantasia Pastorale di Guilmant.

S’udì, com’eco lontanissima, un accento isolato di zampogna. Claudio divenne attento. Poi il suono si avvicinò, si fece più chiaro. Era un richiamo; il pastore innamorato che andava nella campagna, in una giornata di sole, verso il suo amore. Claudio vedeva al suo fianco il petto di Elena sollevarsi al respiro ampio e cocente, forse pieno di desiderio. Risposero alcune brevi modulazioni di flauto, che poi si unirono a gli accordi lenti e melanconici d’una cornamusa. Quel suono egli lo udiva dentro di sé, era una parte del suo essere che s’esalava in melodie liquide, scorrenti con fluidità lussuriosa. S’udì anche il canto d’una voce quasi umana. Egli si sentiva intenerito, pressoché istupidito; gli pareva di divenire un bambino innocente, aveva bisogno di dire qualche cosa di dolce, di sentirsi baciare, cullare... Da le griglie dell’organo spalancate la melodia eruppe gloriosamente, simile ad un coro pieno d’impeto, in cui palpitava tutta la natura; un coro di zampogne, di tibie, di fistule, di cennamelle, a le quali rispondevano i gorgheggi da soprano d’una nota limpida. I pastori levavano i loro suoni, invocazione piena d’ardore e di passione, a cui l’estate inebbriante satura di verde e di profumi acri applaudiva col suo riso luminoso. Egli passò un braccio su la spalliera della sedia di Elena che teneva gli occhi socchiusi ascoltando, ed ansimò, dimenticò nei suoni, senza veder bene, senza pensare bene:

— Elena ti amo!

Possedere Elena come aveva posseduto Mary, quattro anni prima, pure in Marzo! No, possederla in campagna, al sole, col caldo, vederla tutta madida di sudore… Elena e Mary, le due immagini s’unirono, s’alternarono, si fusero con altre figure più sbiadite, in pose varie, strambe, intrecciate Se Elena fuggisse con lui? Avrebbe condotto Elena ad Agnano, in quella casetta con un pesco sul muro del giardino. Tutte le più acri voluttà dell’amore gli passavano per la fantasia, ma senza febbre, con una certa sonnolenza, quasi con dolcezza calma. Egli sentiva il bisogno di obliarsi interamente, di più, di più! Appoggiare il capo sul seno di Elena, e dormire carezzato dal suo respiro. In quel momento senti che, sotto la pelliccia una mano di lei cercava la sua mano: e allora glie la strinse con forza, comunicandole tutta la sua febbre. Ella reclinò il capo e chiuse gli occhi col respiro più frequente tra le labbra dischiuse nell’atto del bacio. Da le griglie aperte dell’ organo si riversavano torrenti di vibrazioni, di fremiti, di gemiti, di grida, di canti, di scoppi sonori che s’aggiravano nell’ampia sala colmandola sempre più dei loro vortici squillanti…

L’anima di Claudio in sogno vi galleggiava fluttuando e — come un’atmosfera sovrumana — aspirava le ondate ampie di quell’armonia…

— Ti amo… ti amo…

 

VIII.

A l’uscita tutte le amiche vennero ad accompagnarsi a loro.

— Oh Elena, un bacio. Da quanto tempo non ti si vede? Ti sei ritirata dal mondo?

Ella non sapeva rispondere con la sua solita disinvoltura, s’era fatta un po’ rossa e sembrava contrariata. Quelle la circondavano, avendo risposto con un cenno del capo, che intendeva mostrare noncuranza, allieve saluto tacito di Claudio, struggendosi però di conoscerlo. Poi quando Elena lo presentò loro, tacquero tutte guardandolo e contraccambiando con un’ altro cenno del capo il suo inchino. Ida Fabbrini gli piantò addosso il suo occhialetto impertinente ed EIsa Ferrari gli rivolse un’ occhiata melliflua; la sola Centoni gli strinse la mano a l’inglese. Il barone sopraggiunse carico di ombrellini delle signore e la compagnia s’incamminò, empiendo la strada del suo chiasso gaio.

— Lidia Centoni domandò a Claudio:

— Ella è proprio di Napoli?

— Si, signorina.

— Ah, come desidererei vederla quella città. 

— Non c'è mai stata?

— lo? Chissà come il babbo mi ha condotta fino a Firenze... e basta, Sono le mie colonne d’Ercole. E dire che il viaggiare sarebbe la mia passione! Oh, Elena, a proposito; sai che la Martini ha sposato finalmente quel suo famoso tenentino?

— Il quale invece ha sposato... la sua dote.

— Ah! ah! ah! bimbe mie, che ridere l’altro ieri quando li ho visti passare in carrozza con valigie e bauli!… Fanno il viaggio di nozze.

— Ho sentito che vanno a Parigi.

— E lei come si pavoneggiava nel dir Parigi!

— Sicuro, paga il babbo, il tenente non poteva condurla che a Caprona.

— Ah! ah! ah!

Claudio andava a fianco del Barone, il quale badava ad ammirare, a sussultare e a sonarsi grandi colpi sul petto col manico della sua canna, sorridendo a quel leggiadro pettegolezzo e sembrando approvarlo con moti bruschi della testa.

Claudio era tuttavia commosso, qualche accordo della fantasia pastorale gli vibrava ancora nell’anima. Ed ora egli ed Elena cosa avrebbero fatto? Il pensiero del più tardi, del domani, gli metteva in cuore un certo sgomento. Avrebbe voluto che ogni cosa si fosse già decisa... l’indugio, l’incertezza lo tormentavano, odiava tutti coloro che si frapponevano fra lui e lei, Fabio, gli zii, Guiduccio, il custode di Santa Maria della Spina che ieri aveva interrotto i loro baci, queste donne che non li lasciavano soli. Intorno a lui si parlava ed egli udiva quelle voci e quelle parole mescolandole ai suoi pensieri. Lo scosse un’altra domanda di Lidia:

— E da quanti giorni ella è a Pisa?

— Da sei giorni appena, Signorina.

— Le piace?

— Si, molto, certo è un po' monotona, ma…

— Ah! vede! Sentite, sentite voialtre? Ho ragione io? Oh questa antipaticissima Pisa!..... E'  peggio d’un villaggio.

Pure — obbiettò Elsa Ferrari, che parlava come un’ispirata, girando sempre gli occhi verso il cielo e modulando studiatamente la voce — io credo che una città silenziosa e pacifica, dove si ammirano tanti antichi monumenti, in una città, che ha avuto una storia gloriosa, l’anima possa godere certi sentimenti che una città rumorosa non suscita mai. — Sì — ribatté Lidia — per esempio il sentimento dell’uggia.

— Ah! ah! ah! — risero le altre.

— Tu sei troppo chiassona, Lidia mia, e quindi...

— Chiassona quanto vuoi: ma lasciamo dire, che se non si facesse qualche cosa fra noi, qui ci sarebbe da morirne.

— E vero! è vero! approvarono tutte. E Maria Ferrari aggiunse:

Mia sorella vive un pochino nelle nuvole.

— Eh, non è poetessa per nulla

EIsa Ferrari non rispose, disdegnosamente; ma gettò uno sguardo sul viso di Claudio, per vedere che effetto gli avesse prodotto il sentire ch’ella era poetessa. Claudio però non diede importanza a quella rivelazione.

Discorrendo così arrivarono davanti alla casa delle Ferrari.

—Dunque è inteso: — disse allora Elena salutandole —. stasera venite.

EIsa salutò Claudio con una stretta di mano languida, dicendogli:

— Spero che ella finirà col darmi ragione — e alzava gli occhi al cielo.

Appena le due sorelle furono andate via, tutte le signore si guardarono in faccia l’un l’altra maliziosamente.

— Che pose, bimbe mie.

— Oh, come declama!

— Con quella faccia!

— Malgrado tutte le sue storie però, 1’ hanno lasciata lì…

E continuarono, tra risatine discrete.

Claudio ed Elena si separarono, salutandosi davanti al barone.

— Non vuoi venir su?

— Vado almeno ad avvisare lo zio che mi aspetta.

— A più tardi allora.

— A più tardi.

E si guardarono negli occhi: ella gli disse tutto con quello sguardo.

Pel resto della via, mentre il barone gli parlava, accompagnandosi con sussulti e colpi sul petto, egli non pensò che a Elena; la quale lo amava, come gli avevano detto i suoi occhi.

La sera infatti, le signore vennero tutte in casa Mauri. Vennero anche gli zii Massano, e le Moretti accompagnate dal loro fratello. Lidia Centoni, ch’era accanto a Claudio, quando esse arrivarono, gli domandò:

— Conosce le tre Grazie?

— Sì — egli rispose — ma vedo con loro Antinoo…

La fanciulla rise clamorosamente.

Elena era affaccendata a ricevere, ma trovava sempre il tempo di rivolgersi a lui per sorridergli ed appressarglisi per dirgli qualche parolina futile. Ella andava avanti e indietro, con piccoli scoppi di riso, con gesti vivaci, era nervosissima, forse per via di Guiduccio che ogni momento le si aggrappava a le vesti per domandarle quando sarebbe venuta la volta dei dolci, pressato anche da Maria, Dante e Torquato, che non sapevano star cheti.

Le Moretti, dopo aver salutate le signore in giro, vennero col loro fratello verso Claudio, il quale si alzò per stringer loro la mano.

— Buona sera, come sta?

— Buona sera, come sta?

— Buona sera, come sta?

— Le presento — disse poi Clorinda — mio fratello, l’avvocato Cencio Moretti. Vedi — al fratello — questi è il cugino di Elena.

Il fratello, senza curvare l’altissima e magrissima persona, senza muover gli occhi che gli aveva piantato addosso fin da quando lo aveva scorto andandogli incontro, gli porse l’enorme mano, borbottando sotto il lungo naso, con voce incatarrata che strideva in falsetto nelle note acute:

— Buona sera, come sta?

Poi gli si assise accanto intrecciando le dita e appoggiando un gomito sulla spalliera della seggiola: così stava rivolto verso di lui, fissandogli in faccia i fastidiosi occhioni di pesce, con le lunghe gambe ossute, raccolte insieme come se fossero appiccicate. Ogni tanto alzava una mano per grattarsi il naso o la fronte e la spanna da gigante gli nascondeva tutto il viso piccolo e giallo. Se qualcuno della compagnia parlava un po’ forte, egli storceva verso di quello il collo e gli occhi, e restava così a guardarlo anche dopo che aveva finito di parlare.

— Che bel Cencio, eh? sussurrò Lidia a Claudio e gli rideva accanto.

llia che stava seduta dall’altro lato del fratello, si chinava ogni tanto sorridendo per le loro risate che non capiva, finché disse:

— Sa, signor Claudio? Mio fratello c’è stato a Napoli. Ci ha passato un mese.

— Ventisei giorni — corresse quello, senza muoversi.

E Claudio, per mostrarsi gentile benché non sapesse che dire, parlò con loro un pezzo di Napoli, apprese che Cencio era impiegato a le Regie Finanze, mostrò d’interessarsi della sua carriera.

Frattanto Clorinda aveva afferrato per la veste Elena al suo passaggio e le domandava:

— E la signora Kate? Non si lascia vedere stasera?

— È stata un po’ male oggi; ha preferito mettersi a letto di buon’ora. M’ha incaricata di far le scuse...

— Vede sempre le anime ?...

— Non me ne parlare! Certe volte fa spavento. Potesse almeno cavarne tre buoni numeri pel lotto.

Più in là la signora Luchini parlava con le Ferrari, descrivendo un suo nuovo abito, da lei commissionato espressamente, per la messa di Requiem in memoria del duca Agostini, che diceva aver luogo il ventisei.

— E conoscono il musicista che ha composto il Requiem?

— Si chiama Guidi, se non erro.

— Guidoni, Guidoni... È un mio concittadino, si... io lo conoscevo a Firenze; veniva a trovarci ogni tanto... Ricordi Leopoldo? il Guidoni.

— Ah, sicuro! — approvò suo marito, ripigliando subito con lo zio Francesco e Fabio il discorso interrotto: si trattava di un aumento di paghe al personale delle Ferrovie.

— E quelli del mio Banco — esclamava il marito di Elena — non vogliono sapere di aumentarmi...

— Ma neppure questo nuovo organico contenta tutti...

— Si sa, ci son sempre partigianerie — sentenziò lo zio Francesco, dando sottomano uno spintone a sua moglie che si appisolava.

Il sor Paolo, marito di Maria Ferrari, contraddiceva il barone che, appunto a proposito della zia Kate di cui s’era parlato, narrava a lda Fabbrini, ad Ada Barnetti e ad altre, d’avere assistito ad una seduta spiritica tenuta pochi giorni avanti in casa del professor Masserani.

— Le assicuro che ho visto bene: erano tre stelle, nella stanza buia...

— Saranno state tre lucciole...

— Oh sì, giusto ! La signora Giuseppina svenne per lo spavento...

— Quella vede sempre le stelle... a mezzogiorno.

— E non ha visto altro barone?

— Senta barone — ripetè Nino Bernetti, figliuolo maggiore della signora Ada, studente al terz’anno di medicina, il quale aveva ascoltato fumando la sigaretta in silenzio, con un sorrisetto di disdegno — la scienza queste cose non le ammette, dunque non esistono. Sono pregiudizi dei gonzi. Lei sarà stato vittima del trucco volgare d’un illusionista o pure avrà avuto un’allucinazione, poiché...

Claudio intese queste erudite parole e si volse a guardare l’oratore che con una gamba a cavalcioni dell’altra, sdraiato con disinvoltura, su una poltrona, impartiva il suo sapere, ascoltato, con attenzione compiaciuta, da sua madre che coi movimenti del capo e della bocca accompagnava e rifaceva le sue parole, mentre il signor Paolo gli prestava la sua attenzione, senza guardarlo, ma nella posa graditamente stupita con cui si ascolta chi ci difende.

—…un’allucinazione — finì lo studente— è facilissima a manifestarsi in chi vada con l’animo preparato a vedere cose straordinarie.

—Precisamente! — scattò il signor Paolo allargando il sorriso e dandosi una palmata sul ginocchio — Volevo proprio dir questo!

—Si, si, non lo nego — annuiva il barone, remissivamente.

Claudio sentì un moto intimo d’avversione per quel sapiente quasi imberbe, tanto più vedendo Elena ritta ad ascoltare con attenzione. Ma poi ella si mosse, domandò licenza per la decima volta, e passando dinanzi al cugino, gli indirizzò un sorriso a cui egli trasalì.

Il signor Paolo a voce alta, sorridendo cominciava a narrare:

— Una volta mi capita questa…

Tutti avevano interrotti i discorsi e lo ascoltavano, in varie pose. Il Luchini, al silenzio generale, troncando a metà un gesto fogato, s’era guardato attorno e poi aveva taciuto anche lui, ma un po’ malcontento. I bimbi facevano cerchio, guardando con meraviglia atterrita i narratori di quelle paurosissime istorie. La signora Ada ascoltava appoggiata a la spalliera del divano, con il viso appoggiato sul seno ridondante, rimirando Guiduccio attraverso la lorgnette.

L’avvocato Moretti, le gambe appiccicate, le mani intrecciate, spalancava nell’attenzione gli occhi di pesce senza sorridere mai. Il dottor Bernetti, sempre nella sua posa disinvolta, dondolava una gamba tutt’intento a contemplare lo svolgersi per l’aria delle spire di fumo della sua sigaretta. La zia Clotilde, risvegliata dall’improvviso silenzio, dato uno sguardo alla pendola, faceva cenno al marito che era ora di andar via.

Claudio, inosservato uscì in punta dei piedi per seguir la cugina. La trovò che andava in salotto per consegnare a Venezia un vassoio di dolci.

— Badi... piano.., attenta nell’entrare.., e faccia prima servir le signore. E intanto ella versava il marsala nei bicchierini schierati su un altro vassoio pronto.

— Vedi — gli disse scorgendolo — mi tocca far tutto da me, perché il mio signor consorte non è buono a niente.

Egli le venne accanto, tacendo, poi guardò verso la porta, per essere sicuro che nessuno li vedesse.

— Hai già finito di chiacchierare con Lidia Centoni? — ella gli domandò piano, un tantino ironica.

Claudio che aveva pensato di dirle molte cose grandiose, appassionate parole che gli bruciavano l’anima, guardandosi un’ altra volta attorno, la prese improvvisamente fra le braccia.

— Bada! bada! fece ella vivamente, piano, sciogliendosi, ci vedono.

— Ma io non so più vivere — egli le sussurrò.

— Domani — gli disse Elena frettolosamente, versando il vino nell’ultimo bicchiere — domani vieni… la mattina, o il pomeriggio… potremo stare insieme... anch’io ho tante cose da dirti…

S’udì nel salotto un generale scoppio di risa, poi un rimescolio di sedie, fra commenti animati, il brusio dei bimbi che accoglievano Venezia, e la voce squillante della Luchini.

— Ma Dante, dico, ti sporchi tutto!...

— Io vorrei — diceva Claudio alla spalle di Elena — venire quando non c’è nessuno, perché non so parlarti dinanzi a gli altri.

Ella ebbe, guardandolo, uno smarrimento.

— Claudio.., oh mio Dio!... ma che cosa facciamo noi?! — mani alle spalle, fissandolo con un viso che non pareva più quello: poi gli afferrò il capo, e lo baciò dieci, venti volte febbrilmente, fin che gli si abbandonò sul petto, pallidissima.

Questa volta fu lui a temere che qualcuno potesse sorprenderli, tanto più che s’udiva in una delle stanze attigue, ma non in quella della festa una specie di brontolio.

— Chi è? — gli chiese piano staccandola da sé.

Elena si passò le mani sul viso sconvolto, guardando verso la camera buia di sinistra.

— E' mia zia che parla da sola.

Il borbottio s’appressava. Claudio si mosse per ritornare in salotto ove le voci gaie degli invitati facevano una vera babele.

— Vede le ombre —  disse Elena, un po’ seccata, ravviando con le mani il piccolo disordine della sua pettinatura.

In quell’ istante nel vano buio della porta di sinistra apparve una forma bianca. Claudio trasalì vivamente: era Kate in camicia, che abbandonato il letto sorridendo e mugolando qualche parola in inglese, con gli occhi di pietra sbarrati, piccola, scarna, terribile, seguiva una visione che vedeva ella sola.

 

 
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