IX - X - XI
Home Su I - II III - IV - V VI - VII - VIII IX - X - XI XII - XIII - XIV XV - XVI - XVII XVIII - XIX - XX XXI - XXII - XXIII XXIV -  XXV - XXVI XXVII - XXVIII

 

Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

IX.

Kate vedeva gli spiriti. Spesso, specialmente di sera, i suoi occhi impietriti si sbarravano nel vuoto con attenzione inquieta, seguendo il cammino di forme innaturali. Allora la cieca vedeva delle cose che gli altri non vedevano. Attorno a lei, seduta presso la lampada a lavorare macchinalmente alla calza, la stanza vuota e silenziosa, si animava, si popolava di figure ignote, ora sorridenti, ora tristi, ora lugubri, che lasciavano arrivare soltanto al suo orecchio sordo i loro accenti inauditi.

I medici, interrogati da Elena, avevano spiegato trattarsi di allucinazioni: erano, secondo loro, immagini che la scarsissima luce che i suoi occhi accoglievano formava sulla retina, e che l’immaginazione ingrandiva e completava, illudendo poi anche la facoltà uditiva.

Ma sì! Ella disdegnava quelle grette spiegazioni scientifiche!

Ella li vedeva e li sentiva!

Vedeva e sentiva. Talvolta, quando si sapeva sola, restava immobile e come estatica a fissare con le pupille aride que’ nuovi esseri fra i quali viveva una nuova vita, così lontana dall’ordinaria, talaltra ella parlava con loro in inglese, in lunghi discorsi ora commossi, ora pieni di risate e mugolii, con gli occhi tranquillamente chini sul lavoro, alzando ogni tanto il viso per guardare i misteriosi interlocutori, ed ascoltarne le risposte. Ella non era più sorda e cieca.

Fra tutti quegli incogniti, poiché i più le erano tali, aveva gli amici assidui e prediletti.

Quasi ogni sera ella restava sola nella stanza da pranzo, prima o dopo cena, tutt’intenta a infilzar maglie, brontolando qualche vecchia canzone dei suoi paesi. Appena levava gli occhi, vedeva da l’angolo più lontano e più oscuro sorgere una forma indistinta, velata, simile dapprima a un fiocco di nebbia, che s’avanzava nella fioca luce della lampada come trasportata da un venticello, sfiorando il suo volto, e a poco a poco assumeva un aspetto più chiaro, si componeva in linee precise nell’appressarsi al lume, diventava una figura, e attraversava la stanza dileguandosi di nuovo come fiocco di nebbia nell’angolo opposto, ove l’attento e impietrito sguardo della cieca lo smarriva. Erano donne in parrucca o dai capelli incipriati, vestite di sfarzosi guardinfanti di broccato, che passavano sorridendole, salutandola col gesto della mano, erano monache tutte nere, col volto nascosto nell’ombra del cappuccio e nel soggolo bianco, che trascorrevano tacite senza volgersi a lei, sì che parevano tuniche vuote, animate soltanto da uno spirito diafano, erano frati da le lunghe barbe bianche, arcigni nel viso smunto, salmodianti litanie e preci dei defunti con la voce cupa che la faceva rabbrividire.

Il trenta aprile dell’anno avanti, ricorrendo il suo onomastico, aveva avuto una visione meravigliosa; si era veduta in un campo sterminato, inondato dal sole, ricinto a l’orizzonte dalle vette bianche di Alpi strane, ove cavalieri chiusi nelle armature, impennacchiati di azzurro e di rosso ai cimieri, passavano a cavallo seguiti da valletti e da scudieri, cavalcata stupenda che la sbigottì e l’estasiò, facendola rivivere nei tempi sognati da fanciulla, al ricordo arruffato d’inconsapevole dei romanzi di Walter Scott e dei canti di Shakespeare.

Vedeva spesso amorini, angeli, satirelli, fate, ninfe silvane, stringersi aleggiando attorno a lei, e si sentiva carezzata da mille tocchi lievissimi, baciata da mille soffi soavi, fluttuando in un mare di chiome bionde, sparse e lunghe che la circondavano, la blandivano, crescevano, la deliziavano, la stringevano, finivano col soffocarla.

Ella, lasciato cadere il lavoro da le mani inerti, restava con languore abbandonata, come una pubescente fanciulla al primo calore voluttuoso. La sua vecchia verginità romantica s’animava nelle visioni di quest’altra esistenza. Ell’era nuova. Nell’anima le tumultuavano i ricordi più lontani della giovinezza desolata e vana che aveva vissuto, e quei ricordi ritornavano, ma più gai, più sorridenti: la sua vera giovinezza era questa. Sentiva l’aria d’intorno vibrarle di cento miste armonie, armonie di colori e di suoni, di palpiti e di sentimenti, con una festa beata che le colmava il seno d’una dolcissima angoscia.

Chi le appariva spesso era un bimbo roseo e paffuto, i cui capelli d’oro parevano un’aureola attorno alla fronte. Forse, per lei che aveva adorato i bimbi, era il figlio del suo sogno, desiderato ed atteso invano dalle sue viscere sfasciate. Egli le si appressava ridente con passo leggero, più distinto nelle forme di tutte le altre apparizioni, e veniva a posarle sulla fronte un bacio ch’ella riceveva avanzando il capo e socchiudendo gli occhi, con un mugolio soddisfatto fra le sorridenti labbra. Un tempo egli non si mostrò per molte sere di seguito, ed ella lo invocò e lo cercò sera per sera premurosamente tra i suoi vari visitatori. Quando finalmente riapparve, era più lieto nella faccina rosea, come un bel pomo; i suoi capelli d’oro luccicavano e una luce pura e bianchissima emanava dalla sua persona. Ella lo accolse con un riso di giubilo e lo guardò amorosamente, esclamando:

— Oh, finalmente sei ritornato!

Ma egli non le rispose e quando le fu presso, mentre lei si aspettava vedendolo inchinarsi il solito bacio, s’involò svanendo. Ella se n’ accorò: ma lui, birichino, le ripeté più volte quello scherzo contento di vederla in pena.

Altre sere, ma assai più di rado, non vedeva persone, si trovava bensì in qualche salotto elegantissimo, decorato di mobili strani, di tappeti e d’arazzi istoriati, di vasi straordinari in cui fiorivano piante mai viste, o in gabinetti e serre all’orientale, con gingilli giapponesi, con divani turchi, con parati persiani. Ad un tratto tutte queste cose si animavano, si movevano, si agitavano, correndo, saltando, ballando, in una danza sfrenata e portentosa, con capitomboli prodigiosi, con balzi a scatti di palle di gomma, una ridda convulsa e scompigliata che l’attoniva e finiva col tramutarsi in un pauroso trenone di demoni e di folletti.

Altre volte, mentr’ella chiacchierava smagliettando con Elena o con qualche altra sedutale vicino, rivolgendo gli occhi ogni tanto al suo non visibile interlocutore, lo vedeva d’un subito chiaramente, ma in una posa ridicola, con una oscena smorfia sul volto, che l’offendeva, o pure vedeva in quel posto una scimmia seria ed immobile, o un pascià che fumava tranquillamente la pipa, o una donna coi baffi, e ciò la faceva ridere di cuore.

C’erano anche visioni che la molestavano: un uomo che veniva a correre nella stanza su un triciclo di ferro, con un fragore indiavolato; o un suo vecchio conoscente ora morto, il quale le si appiccicava addosso soffiandole tra i radi capelli e battendo monotamente il tavolino con le nocche delle dita; i morti, muti a le sue interrogazioni, immobili nei sudari in cui li aveva visti per l’ultima volta. Altri fantasmi, venivano ogni tanto, che le facevano spavento. Ella li temeva e pregava sempre il cielo in cuor suo di allontanarli. Due o tre volte s’era visto seduto di fronte un prete da gli occhi enormi e stranamente fissi, che la guardava immoto, in silenzio. Ella non poteva resistere a quello sguardo che le dava un brivido di paura, e diceva al sinistro visitatore:

— Ma perché mi guardi così male? Perché, dimmelo?!

Quello, non rispondeva stando sempre fermo e fisso, ed ella cercava di evitarne il fascino terribile chinando la faccia sul suo lavoro; ma invano, perché la suggestione di quelle pupille le faceva rialzare il capo a guardarle.

— Fuggi, fuggi, per carità!

E quando il fantasma spariva, ella respirava di sollievo.

Ma c’era qualche cosa che le faceva persino più senso di un operaio che martellava sopra una bara piantando chiodi nelle assi nere rimbombanti lugubremente, persino più della mano adunca, che una sera, a cena, le aveva impedito di mangiare ghermendola al polso ogni volta ch’ella faceva per portare il cibo alla bocca, persino più di quel corpo nero, che una sera mettendosi a letto, le si era fatto accanto, con la testa nera sul suo stesso origliere: c’era qualche cosa che le faceva più senso, un senso di pudore offeso e di disgusto, unito ad un lontano e inesplicabile terrore.

Ed era l’immagine di Armando, suo nipote, padre di Elena, che le si presentava nelle più oscene visioni, era una donna nei più ributtanti atteggiamenti, era se stessa ch’ella vedeva in fine, sotto forma nauseante, orribilmente spettrale, ritta ed immobile come una sentinella, davanti a quelle due figure lascive e disgustose.

A tale visione si disperava, per l’oltraggio che questa faceva ad un piccolo, casto segreto della sua vita lontana, gelosamente custodito; si disperava per la sua pudicizia e per la calunnia che l’illusione terribile lanciava al suo amatissimo Armando ed a quella santissima donna che era...

 X.

A letto, Claudio non dormì. Il pensiero Elena, ma più l’immagine di Kate, lo tennero desto tutta la notte. La vecchia, la terribile vecchia che gli metteva nel sangue un’inspiegabile spavento, fu il fantasma della sua insonnia. E pure, mentre ne aveva terrore l’odiava, egli si domandava la ragione di questo suo sentimento, perché riconosceva che Kate era una povera creatura debole, inadatta al male.

Alzatosi andò in sala da pranzo, ove gli già prendevano il caffè continuando una discussione accalorata.

— Moglie mia, sei una mala lingua!

— Eh, uno stupido come te, non sa dire altro... Dio buono! Bisognerebbe non aver voce per tacere quando si vede tanto sciupio di roba… Avranno almeno speso cento lire ieri sera.

— E che ti fa, che ti fa! Son venuti forse domandarli a te i denari?...

— Siii, proprio! Li butterei più volentieri dalla finestra, li butterei

— E allora perché chiacchieri?

— Perché non si può assistere a tali scene... O che son diventati signori, loro? Perché far tanto spreco?... Ma siccome tu sei un burattino...

— Oh! Clotilde!?

— ...L’hai da difendere per forza quella vanesia di tua nipote...

— Vuoi tacere, vipera!?

— Ma vedi se Fabio lo farebbe!... Lei, lei, l’ha costretto... Chissà che diavolerie avrà fatto ieri sera, e quel pover’uomo, ch’è un bonaccione, dovette dir di sì... come fa sempre... Si rovinano, te lo dico io! Uh, Madonna Santa! — e si coprì il volto colle mani.

— Senti — esclamò Francesco riscaldandosi per suggestione — se non la finisci, faccio un inferno!

— Tu, tu vai d’accordo con lei... Dovreste prendervi per mano... e ne fareste delle belle 1...

— La finisci, corpo di...!

— Uh, eretico, eretico...!

— Che cos’è? — chiese Claudio sopravvenendo.

— Uh, anticristo!... Madonna! Madonna! Che uomo, che uomo...! Oh, fossi morta quando lo sposai!

— Vedi, vedi, che femmina! Ed è toccata giusto a me!...

— Su via, zio, finiamola Che scene son queste ?...

— Non ne posso più di quella megera!... Non ne posso più!...

— Ah, son megera ?... E perché m’hai sposata, allora? Per sprecare i miei denari? Per vivere a le mie spalle, eh?... Per fare un bel negozio?... Oh, Santa Vergine!...

— Clotilde!

Claudio, lo trattenne e, un po’ con le buone, un po’ con la forza, riuscì a trascinano fino in camera sua ove si chiusero, lasciando Clotilde a sbraitare ancora dietro l’uscio.

— E non tace!... Vedi?... Ho torto io! Ho torto io!...

— Li vorrebbe spendere tutti i miei denari, eh?... Ma si, aspetta!... Non metterò più fuori nemmeno un soldo! Se vuoi mangiare, hai da spendere del tuo, hai da spendere!...

— Brutta carcassa, se non taci, ti strozzo!...

E zio Francesco s’avventava all’uscio coi pugni stretti, rosso in faccia come un’aragosta, divincolandosi dal nipote costernato che tentava di placano.

Finalmente, con l’intromissione di Martina, che condusse via la signora, il grosso litigio ebbe termine; i due contendenti gridarono, brontolarono ancora un pezzo ciascuno dal canto proprio, finché il silenzio fu ristabilito, minaccioso e ancor grave della tempesta recente.

Claudio poté allora ritornare in sala da pranzo, ove Martina, soffocando qualche risata, gli servi la zuppa di latte.

Claudio restava fra ilare e dolente: egli non era abituato a tali scenate. Mai a casa sua era accaduto nulla di così penoso, né aveva mai immaginato che potesse accadere fra i suoi zii; ciò lo urtava e gli seccava. Ricordò che una volta sola, quando egli era bimbo ancora, suo padre, ritornando da uno dei soliti lunghi viaggi, aveva avuto con la moglie un caloroso diverbio, ma a bassa voce, restando chiusi in camera, sì che egli non ne aveva capito niente, aveva solo udito la voce piangente di sua madre ripetere: «t’inganni! t’inganni!» Poi egli era scoppiato in singhiozzi dietro la porta, e i genitori erano accorsi per calmano… Solo ora ricordava questo episodio triste della sua fanciullezza, per tant’anni rimasto sepolto nella sua memoria...

Pensò che sua madre era tanto devota al marito e che questi era sì buono e sì premuroso Pensò a suo padre con la stessa commozione che aveva avuto alla stazione di Napoli, nel separarsi da lui. Si ricordò incidentalmente di Gaspare Talli. Egli doveva scrivere al babbo, rimasto a casa solo... Povero babbo! Aveva già ricevuto tre lettere da lui, mentr’egli una sola gliene aveva mandata, poiché tutto il tempo gli era rubato da Elena. Elena, Elena! Che trasalimenti in tutte le sue fibre al pensiero di lei! Gaspare Talli. Gaspare Talli. Questo nome si mescolò ad altri pensieri, ed egli se lo ripeté mentalmente più volte. Poi gli apparvero i terribili occhi sbarrati di Kate che inseguiva gli spiriti, ed ebbe la sensazione come se essa gli dovesse portare sventura...

Si sentì in quell’istante carezzare le gambe.

Era Nerone, il bel gatto castro di zio Francesco, che gli chiedeva un po’ di zuppa, strisciandogli russando il capo contro i calzoni. Egli se lo tolse in braccio, e gli offrì quasi tutta la tazza. Quella bella bestia che non miagolava mai, tacita, elastica, buona, coi rotondi occhi d’oro, lo interessava. In una settimana non lo aveva visto che tre volte, né sapeva ove s’annidasse a trascorrere le sue ore. Carezzava il gatto, quando lo scosse la voce di Martina, che appoggiata con le mani alla tavola, curva un po’ verso di lui, e gettando qualche sguardo nella camera della signora, per timore d’essere sorpresa, gli disse piano sorridendo:

— Non tema signorino, può uscire se vuole. Non faranno mica niente gli zii. Fan sempre così!... Son cani che abbaiano senza mordere.

E rise piano.

— Posso dunque uscire?

— Vada, vada, sicuro. E poi ci sono io. L’altro giorno, che lei non c’era, àn fatto pure un gran chiasso...

— Si? E perché?

— Perché la signora... Ma stia zitto, mi raccomando !...

— Parla, parla...

E lei continuò, a voce più bassa, curvandosi ancora:

—La signora non voleva comprare quei polli

E scappò in cucina ridendo.

Claudio, con la bocca schiusa ad un sorriso, si voltò a guardarle dietro; era belloccia e assai simpatica quella ragazzona bruna e sanguigna, ch’emanava un odore caldo e acuto di carne sana. Non l’aveva considerata mai. Gli passò per le vene un brivido di lussuria e pensò ad Elena.

Per via, andando verso la casa di lei, si tormentava dicendosi che ella forse non avrebbe mai potuto essere sua. Che avrebbe fatto? Voleva escogitare ogni mezzo buono a conseguir quel che gli appariva come lo scopo più vasto e migliore della sua vita. Nulla di naturale e di pratico, seppe trovare; la sua riscaldata fantasia ricorreva a tutti gli espedienti più romanzeschi ed impossibili.

Era una giornata grave ed uggiosa, pioveva a stille. Il lastrico delle vie, fatto lucido dalla pioggia, rifletteva capovolti gli edifici, i fanali, i passanti, i contorni sfumanti, indefinitamente. E Claudio guardava il suo riflesso che procedeva sotto di lui a pari passo, penzoloni, con l’ombrello aperto, e vi si assorse tanto che ogni altro pensiero in lui svanì, considerando quell’ombra melensa, che gli dava una strana molestia. Guardando sempre fissamente quel suolo lucido in cui si rifletteva anche l’infinito del cielo, gli parve un istante di camminare librato su di un abisso, ove una vertigine potesse ad un tratto precipitarlo... Si fermò, si riscosse; poi si chiese come mai gli venissero ogni tanto così brutti pensieri. Giungendo in casa Mauri, guardò l’orologio: eran le dieci. Prima che avesse sonato il campanello, la porta si aprì ed apparve il sorriso mostruoso di Venezia:

— Buon giorno a lei.

— Oh Venezia... Son tutti fuori forse?

— No; il padrone è al Banco e Guiduccio a scuola.

— Elena è dunque in casa?

— S’è levata ch’è poco. Vada, vada, è nella sua camera... La signora Kate fa la calza accanto al foco.

— Sola?

— Sicuro; ci sta tutta la giornata senza muoversi. Poi, quando è l’ora, apparecchia per desinare.

Claudio aveva intanto deposto l’ombrello ed il soprabito.

— Piove, signorino?

— E come!

— Mi tocca uscire con questo tempaccio. A rivederlo.

— A rivederci.

Venezia si chiuse dietro l’uscio ed egli, contento ch’ella uscisse per molto tempo, entrò nella camera ove Elena in accappatoio, seduta su l’ottomana, senza sentir il suo passo sul tappeto aveva appoggiato il capo alla parete, con gli occhi socchiusi da un pensiero.

Claudio, s’arrestò un momento sulla soglia guardarla.

— Si può? — chiese poi a bassa voce.

Ella ebbe un soprassalto e lo guardò, poi passandosi la mano sul viso arrossito:

— M’hai fatto paura — rimproverò sorridendo — T’ha aperto Venezia? Vieni... Siedi...

E gli fece posto accanto a sé, su l’ottomana, ov’egli s’assise, mentr’ella, trovato un pizzo a cui lavorava, cominciò a dar qualche punto.

— Avevo sonno — gli disse — siamo andati a letto assai tardi, stanotte...

— Ah!

— Guiduccio, poverino, avrebbe voluto dormire ancora stamane, quando m’è toccato svegliarlo per mandarlo a scuola. M’ha fatto pena, povero piccino, con quegli occhietti imbambolati

Parlava lavorando, senza alzare gli occhi; i capelli spettinati le ricadevano in dense matasse color di bronzo su la fronte e sul collo.

Claudio aveva acceso una sigaretta e la guardava; ma le ginocchia e le mani gli tremavano.

— Non ti dispiace che io fumi nella tua stanza?

— Ti pare? Fuma, fuma... L’odore della sigaretta mi riesce gradito. Se fosse quel puzzolente sigaro... Piuttosto !... — e abbassò su le ginocchia le mani col pizzo, volgendo il capo a guardarlo.

— Perché non me ne offri una?

— Mi dai una lezione... Eccola...

Ella accese la sigaretta sorridendo, e le sue labbra inesperte aspirarono qualche piccola boccata di fumo. Claudio si accorse che anche lei tremava impercettibilmente.

— Sei una fumatrice?

— Così, ogni tanto... Non capisco però perché voialtri uomini ci trovate tanto gusto...

— Ma... T’assicuro che nemmeno io so rendermene conto. Fumo, così... perché fumo.

Egli parlava, domandandosi frattanto perché dicesse tali banalità, un po’ irrequieto intimamente: si sentiva lievemente ridicolo, ma non sapeva che dire.

Ella fece una boccaccia e s’alzò per buttare la sigaretta dalla finestra sputando.

— No, no... E’ inutile, non mi va.

— Meglio. Ti confesso che non mi piace troppo una donna che fuma.

Successe un istante d’incertezza. Claudio aspettava che l’altra parlasse. Erano soli, nemmeno Kate si udiva, nelle altre stanze; solo la pioggerella discreta, fuori, picchierellava ai vetri finestra, e di tanto in tanto rotolava qualche tuono in lontananza. Da le invetriate entrava luce scialba e fredda, illuminando bene il lettino candido che ancora non era stato rifatto. La coperta di seta ricadeva sul tappeto neglettamente, scoprendo nei materassi l’incavo lasciato dal corpo di Elena. Claudio guardando letto, la immaginò lì, discinta, dilatò le narici per aspirar meglio il profumo acuto che la sua persona emanava come un fascio di fiori freschi, in una camera chiusa.

— Che hai fatto iersera andando via con gli zii? — gli domandò Elena, per rompere il mutismo imbarazzante.

— Sono andato quasi subito a letto e...

Pensò di sfuggita a Kate. Si tacque e poi fece per chiederle che cosa ella gli dovesse dire.

— E? — insistette Elena.

— Non ho fatto che pensare a te.

Elena lasciò di lavorare, appoggiò di nuovo il capo a la parete e porse a Claudio una mano, senza guardarlo, carezzosamente. Tutto l’avambraccio ignudo usciva da l’ampia manica dell’accappatoio ed egli lo strinse...

— Claudio — gemé ella con uno spasimo, chiudendo gli occhi.

Egli, tremante, ma timido come non era stato mai, trasse quella mano alle labbra, e la baciò una, due volte, più volte, con foga crescente, crescendo sempre con le labbra su su verso il gomito ambrato.

Velati da un dolce languore, gli occhi di Elena si socchiudevano alla voluttà del sogno, ma il mugolio di Kate s’appressava, ostacolo incessante all’intimità loro preziosa, rubata a stento.

— Pon ciorno E’ lna... — disse la voce stridente.

Elena le rispose delle parole stizzite che Claudio non capì, e allora la vecchia mortificata mugolò qualcosa in risposta e usci mogia, mogia.

Il rumore della pioggia sempre più fitta ed il ronzio d’un moscone che batteva sui vetri tentando di uscire, davano maggior risalto al silenzio della casa.

Lunghi momenti passarono, senza che più si udisse né la voce stridula della vecchia zia, né il gaio chiacchierare dei nipoti.

Poi, come l’eco d’una voce stanca, sfiorarono il silenzio le parole di Elena, vibranti di un’intima, profonda ansia:

— Claudio !... Che pazzia è stata la nostra?!... Claudio non rispose, rimanendo inerte, spossato, incapace di riflettere e di parlare.

Di lungi, al di là della loro follia, soffocata un po’ dal fitto velo della pioggia, cantava una voce fresca di soprano:

E Ponte Corvo
è tutto sgomento
le fabbrichine
vogliono l’aumento.
Passò, dileguò...

Solo li fece trasalire, a un tratto, uno scalpiccio discreto che s’appressò e due nocche che picchiarono all’uscio. La voce di Kate, umile e gentile, chiese in italiano, tentando di farsi gradita:

— Scusa, El’ na, nol’ sapevo... Ah, ah, ah! Stai meglio ora?

Claudio andò via in uno stato strano. Il suo pensiero gli faceva dire che quello era il più bel giorno della sua vita, che tutti i ventidue anni da lui trascorsi eran nulla al confronto di quelle poche ore, ma il suo cuore frattanto, che poco prima obliosamente lo aveva spinto a l’ebbrezza, era atono, se non proprio tediato.

Pioveva. Quando fu in mezzo alla piazza dei Cavalieri, nella luce opaca del meriggio grave, si volse a salutare ancora una volta con la mano Elena, pallida e immobile alla finestra. Poi prosegui a passo lento, stranamente stordito, senza sapersi render conto dei suoi passi, senza sapere se andasse per la giusta via verso la casa dello zio e la sua mente era ingombra d’un tumulto di pensieri oscuri, che la coscienza non seguiva. Era felice e triste. Dopo dieci minuti gli pareva che un tempo immemorabile fosse passato. Sopratutto, se qualche brivido gli trascorreva ancora le carni, nessuna tenerezza per la donna che aveva amata gli rimaneva nell’anima. Soltanto aveva nella mente, chiara, qualche immagine futile e insulsa, quasi senza ragione: il lettuccio bianco nella luce, la ninfa marmorea ignuda che reggeva lo zampillo della vasca nel giardino dei Cappiello, a Napoli, il pettine d’oro che di fra i capelli di Elena, era caduto sul tappeto...

Quell’amore, continuò così.

Il giorno dopo, appena alzato dal letto dove aveva goduto a indugiarsi in immaginazioni voluttuose, decise di ritornare da Elena; preparandosi ad uscire e poi camminando in istrada, egli pensava a quel che avrebbero detto, e che cosa avrebbero fatto quel giorno e a quel che avevano fatto il giorno prima, accoppiando tali pensieri con qualche sbiadito ricordo del suo amore per Mary e della lontanissima passione per una matura signora. Ogni tanto un brivido gli faceva accelerare il passo. Non aveva nemmeno aperto l’ombrello sotto la pioggia fitta, refrigerio su la fronte calda.

Giungendo in piazza dei Cavalieri alzò gli occhi a la finestra di lei e la scorse dietro le vetrate. Allora corse, quasi, infilò la porta, salì le scale ansimando, e pensò di entrare nella sua camera ed abbracciare la bella persona di dietro e baciarla a l’angolo dell’occhio o presso la nuca, dicendole: Elena, tu sei la mia vita!

Ella lo aspettava ritta sull’uscio: lo scorse dal pianerottolo del primo piano; era venuta ad aprirgli essa stessa. Gli apparve sotto un aspetto nuovo, in un altro accappatoio, turchino, guarnito di nastri neri, sul petto e a le maniche, che le ricadeva ampio sul corpo. I capelli erano scompigliatamente arruffati su la sommità del capo ove li tratteneva quel pettine stesso che il giorno avanti era caduto sul tappeto.

Ma egli, più d’ogni altra cosa, vide i suoi occhi, grandi, aperti, glauchi, tra le ciglia nere.

— Non c’è nessuno? — domandò montando gli ultimi scalini.

— No... È fuori anche Venezia.

Di Kate non parlavano neppure; per essi la vecchia sorda e cieca non esisteva, adesso.

La voce di Elena tremava; la gola le palpitava di singulti. Era esitante e commossa. Mutata, mutata! Non sorrideva più, quasi non parlava più.

Rinchiuso l’uscio restarono un pezzo immobili, egli non sapeva che cosa dirle, ella non aveva il coraggio di abbandonarglisi.

— Sai — soggiunse ella alla fine — stanotte ho fatto un bel sogno.

— Io non ho potuto dormire...

Entrarono nella sala da pranzo e sedettero l’uno di fronte a l’altra. Claudio era un poco a disagio pel silenzio che regnava in tutta la casa e si risovvenne del ronzio del moscone del giorno prima.

Ella narrava il suo sogno:

— Mi sono coricata di buon’ora, visto che tu non venivi... Avevo bisogno di sognare o di pensare a belle cose, tranquilla e sola, fuor dalla vita di chiunque. Appena chiusi gli occhi — ero stanca — mi parve di trovarmi al tuo braccio, in una città tanto grande che si girava, si girava, e non s’arrivava mai a vederne la fine... E poi tutte le case e le strade erano uguali. Si camminava senza fermarsi mai, finché io mi sentivo stanca e ti pregavo di farmi riposare. E tu mi prendevi in braccio come una bambina, e mi portavi camminando, sempre, sempre, senza fermarti mai... Allora il sole, il sole caldo, pareva si sfaldasse e piovesse su di noi come una neve ardente!... Ad ogni suo fiocco che cadeva su di me, era un bacio infocato... Poi io mi addormentavo su le tue braccia...

Claudio l’ascoltava pensoso: la voce amata che lo faceva sognare e che egli paragonava alla musica varia di campane d’oro, gli giungeva alle orecchie qual suono lontano, ne percepiva le più sottili inflessioni, le minime vibrazioni, i lievi tremiti, senza però capirne il senso. Comprese soltanto la parola fine; di tutte le altre non intese che un’armonia la quale non gli sembrava venisse da quell’essere vicino che gli appariva immobile e muto. L’anima sua era piena di stordimento simile a quello che dà il chinino, e i suoi sensi erano sopiti e sentiva solamente il sangue scorrergli nelle vene, martellargli alle tempie, palpitargli nel punto del braccio appoggiato a la spalliera della seggiola. Sì, quella voce era una musica di campane auree. Vedeva con insistenza una mano che muoveva le campane d’oro per trarne quel suono. Le campane: il giovedì quando erano saliti sul campanile, Elena aveva picchiato sulle campane, ridendo. Che riso diverso, che donna diversa, quel giorno! Su una parete della scaletta a chiocciola era, tra gli altri, scritto un nome che egli subito dopo aveva dimenticato. Eligio Graberg, ora lo ricordava. E il cieco che questuava. Essere cieco. E se lui lo diventasse? Come la zia Kate? E se la zia Kate ad un tratto vedesse? E se li sorprendesse abbracciati? Come il giorno prima?...

— Ieri Venezia è ritornata a mezzodì appena uscito te.

Egli udì e si riscosse.

— E mancata tanto tempo?

— Oh… quella quando è fuori dimentica che casa ove deve fare il servizio.

— Resta qui la notte a dormire?

— Ti pare? Ha marito.., e poi...

— E la mattina viene presto?

— Alle sette per prepararci il caffè.

— Ha una chiave della porta?

— No; s’alza Fabio per aprirle.

Al nome di Fabio si guardarono. Tacquero un’altra volta.

— Venezia, ritornerà più presto oggi?

Egli trasalì. Il giorno avanti erano stati troppo audaci... Se li avessero sorpresi?

Ella disse:

— Resti a desinare con noi?

Egli pensò che a tavola Fabio gli siederebbe accanto, e lo fisserebbe, gli sentirebbe forse addosso l’odore di sua moglie.

— No... no...

Ella non insistette. La pioggia cadeva scrosciando. Passò Kate con uno strofinaccio in mano, non sospettando la loro presenza, ed entrò in cucina canterellando nella gola. Dalla cucina poi si sentì il rumore di qualche stoviglia mossa e la voce stridente della vecchia che borbottava tra sé.

Passò un minuto e si sentì tintinnare il campanello. Elena e Claudio si guardarono con un trasalimento uguale.

Era Venezia che ritornava portando due secchie colme d’acqua.

— Buon giorno.

— Buon giorno.

— Vede ?... Mi tocca ogni mattina andare a prender l’acqua alla fonte.

— Ah!...

— A Napoli fanno così?

— No; abbiamo nelle case l’acqua corrente.

— L’acqua corrente? Beati loro! Permette...— e riprese le secchie che aveva deposto un momento, irrigidendo le braccia, le labbra denti per lo sforzo, e le portò in cucina.

Claudio s’era alzato: aveva fatto qualche passo, fermandosi poi con le mani in tasca a riguardare un quadro rappresentante una scena di caccia. La presenza di Venezia lo contrariava. Ma allora Elena propose:

— Vuoi vedere il pizzo a cui lavoravo ieri? È finito.

— Brava, mostramelo.

— E’ in camera mia.

Egli vi si avviò, mentr’ella su la soglia cucina diceva a la serva:

— Senta, Venezia, appena avrà termina pulizia costà, vada un po’ in piazza delle erbe, a far provviste...

Claudio aspettandola presso la finestra, la udì ancora dare gli ordini. Quel momento d’attesa, lo eccitò; la sua mente si chiuse… Ella entrò… palpitando visibilmente… Claudio ebbe un tuffo nel cuore. Balzarono uno incontro all’altra anelanti, illuminati in volto da una chiara luce d’amore e di gioia.

Ma il giovedì Guiduccio ebbe vacanza a scuola, e quando Claudio venne in casa di Elena restò interdetto vedendo il bimbo corrergli incontro festoso.

— Oh, il mio zietto… Non m’hai portato qualche ciambella?

— Che ineducato — rimproverò la madre.

— Guarda — rispose lo zio — hai ragione, non c’ò pensato.

Il bimbo, un po’ vergognoso, aggrappato con una mano a la veste della mamma, lo guardò dondolando una gamba, e gli rispose con voce piana ed esitante:

— Me la porterai più tardi….

Oh! Guido — fece Elena —mi diventi screanzato.

— Ma no, lascialo dire, povero bimbo.

In quella sopravveniva Venezia più losca e più sorridente che mai.

— Buon giorno, signorino, vado per quelle spese

— Ah! si potrebbe rimediare bimbo mio.

— Come?

— Va qui con Venezia ; io ti do i soldi e comprerai tu stesso le ciambelle.

Guiduccio saltò, divenuto ilare d’un tratto, battendo gioiosamente le mani, e gli abbracciò le gambe.

— Oh il mio zio! oh, il mio zio… Quanto ti voglio bene!

— Ebbene adesso tanto chiasso? — disse Elena con un sorriso.

— Ma, piove, signor Guido.

— M’importa assai; prenderò l’ombrellino… è vero zio?

E s’affaccendò festosamente per prepararsi ad uscire. Lo zio gli mise in mano facendogli uno scherzoso cenno di tacere, una moneta d’argento che mandò in visibilio il fanciullo. Elena andò un po’ preoccupata, a consultare il cielo dalla finestra, poi tornò portando al figlio la mantellina nella quale lo imbacuccò bene.

— Bada di non prendere freddo. Glielo comando, Venezia.

Quando fu sola con Claudio, gli disse impensierita:

— Non vorrei che quel bimbo avesse a prendere un malanno.

Ma dieci minuti dopo non ci pensava più.

Kate restava sempre nella sua stanzetta, e quando Guiduccio ritornato festoso, le strillò mostrandole le ciambelle e il resto della moneta, il nome dello zio, ella seppe che Claudio era venuto e siccome da più giorni non lo vedeva s’alzò per andarlo a salutare col suo più espansivo:

— Bon ciorno: Sta pene? Ah! ah! ah!

Quel giorno egli si trattenne più a lungo vicino ad Elena, famigliarmente. Il non poterla avere tutta per se, a suo agio, l’esser costretto a mantenersi contegnoso indifferente dinanzi al figlio, a la serva, a la zia Kate, che, pure non avrebbe visto — gli davano un più prolungato desiderio di lei che si mutava in tenerezza. Il bimbo folleggiava giocando dinnanzi a loro, Kate lavorava a l’interminabile calza. Anche Elena lavorava, a un ricamo tacendo, e ogni tanto alzava sull’amato i grandi occhi illanguiditi dalla passione acuta. La vecchia era la persecuzione di Claudio, non la poteva patire. Glielo faceva apposta, sempre lei, quella cieca e sorda, quel mezzo cadavere, a frapporsi a inacidirgli il godimento. Era il cattivo genio: pensava malgrado gli si mostrasse gentile ed affettuosa, che ella lo odiasse e cercasse di tutto per fargli male.

Era ancora in tali disposizioni di spirito quando tornò Fabio per il pranzo. Guiduccio gli andò incontro:

— Oh babbo — gridava tirandoselo dietro pel lembo del tabarro, verso la camera di Elena — sai? lo zio m’ha dato due lire perché comprassi le ciambelle… Ne ho comperate due, però ho conservato il resto per domani e doman l’altro… Voglio comprare anche una schiacciatina

Fabio entrò sorridendo, sempre il sigaro tra i denti, e rivolse il suo sguardo lungo e freddo ai due. Claudio s’era alzato, turbatissimo, da quattro giorni non lo vedeva: che gli avrebbe detto? e se egli si accorgesse?… e se il bimbo gli dicesse che era stato lungo tempo seduto accanto a Elena? Sentendosi caldo in viso, capì ch’era diventato rosso, e andò vicino a Fabio volgendo le spalle alla luce, per non fargli notare il suo rossore, e gli stese la mano procurando di parer disinvolto.

— O dove ti sei cacciato in tutto questo tempo? —domandò quello.

— Ma… che vuoi io temo il freddo!… sono venuto sempre di giorno… un momento.

Fabio gli strinse la mano guardandolo e tacendo. Quel silenzio d’un attimo torturò Claudio. Che sospettasse? Che sapesse già qualche cosa? Nello stesso tempo però aveva lo strano desiderio di narrargli tutta la verità per deliziarsi del suo dolore. Ma Fabio sedé senza neppur deporre il tabarro, aprendone solo il bavero con un moto delle sue braccia, e si trasse il figlio sulle ginocchia.

— Dio buono, non ne posso più! Tu non immagini che vita da cani sia la mia.

Guiduccio continuava.

— Una ciambella l’ho mangiata subito, e ne ho data anche al canino di Giovanni, ma pochina, veh! L’altra la mangeremo te ed io....

Fabio l’ascoltava col sorriso distratto, continuando a fumare, finché Elena sdraiata sull’ottomana a dar punti al lavoro, senza degnarsi di alzar gli occhi sul marito, gli disse asciutta, asciutta:

— Fabio, ti prego, almeno in camera mia, non fumare.

— Hai ragione — rispose egli alzandosi e uscendo dopo un momento col bimbo in braccio.

— Claudio, vado a svestirmi, vieni?

Claudio lo seguì, ma ebbe prima il tempo di lanciare a Elena una occhiata di rimprovero per quella maniera di trattare l’uomo da cui essi avevano da temere: ella gli rispose con un gesto:

— Che importa!? — Ed egli ne provò un acre piacere.

Mentre, nella sua camera Fabio si toglieva il tabarro, e poi le scarpe con degli: ah! di soddisfazione, narrando al cugino che finalmente il direttore della Banca gli aveva fatto intravedere la possibilità d’un aumento di stipendio pel prossimo anno, e Guiduccio, in ginocchio sulla seggiola davanti alla finestra, si divertiva con un dito a disegnar figure su i vetri appannati, Claudio rifletteva, preoccupato alquanto dal contegno di Elena verso il marito. Ma in verità ella si mostrava troppo audace, troppo audace, perché Fabio vedendosi così maltrattato, avrebbe potuto accorgersi.... E allora che avrebbe fatto? Si sarebbe vendicato uccidendo, forse? Così fanno, e la società li giustifica, tanti mariti ingannati! Egli poteva, magari restare ucciso da quell’uomo sacrificato al lavoro, privo di soddisfazioni, lusingato di poter scorgere da un momento all’altro un lembo di rosa nella sua vita, a traverso la nuvola grigia dell’eterno sigaro acceso. E se egli morisse, così magari per un delitto proditorio, nessuno forse lo compiangerebbe La notizia della sua morte forse arriverebbe anche a Napoli, a suo padre, intento a fumare nella vecchia pipa turca, portata da uno dei suoi lunghi viaggi. Caro papà: sempre lontano, sempre in viaggio ed in pericolo! Si sentì commosso al ricordo di quell’uomo che undici giorni innanzi, sì triste e già quasi vecchio aveva singhiozzato rimanendo solo, al separarsi a lui. Povero caro papà, solo, così solo nella casa deserta, o tornato ormai in mare, ripreso alla sua vita errante! Oh poterlo riabbracciare, per rimediare a vent’anni d’indifferenza piangendogli d’affetto sul viso. Sentì un grande, grande bisogno di lui, della sua casa, di qualche tra cosa indefinita e frattanto, stranamente, gli tornava nell’animo il riso inconsapevole di Kate

Venezia venne a bussare all’uscio, annunziando che il desinare era pronto.

Oh! I maccheroni! esclamò Fabio quando sedé a tavola tuffando il naso nel vapore della pietanza calda, per annusarla — eh, eh... che buon odorino!

Ma quando Claudio sentì sul volto l’aria profumata scossa da Elena che gli sedeva al fianco, si dileguarono ad un tratto i pensieri tristi e gli ritornò impetuoso, il desiderio che la vicinanza di lei accendeva nelle sue fibre, però con una lieve scontentezza larvata in fondo all’ardore momentaneo della passione.

— Siedi Kate — gridò alla zia che restava ritta ed immobile dinanzi al suo piatto, i grandi occhi fissati sulla cravatta di Claudio, di fronte a lei.

Kate all’invito della nipote, fece il suo mugolio di riso, cercò su la tovaglia il cucchiaio, e disse incatarrata, in stonato falsetto:

— A New-York c’è tant fredto. Son morti tre uomini...

E prese a mangiare lentamente.

Odiosa, odiosa a Claudio! Odiosa quanto l’omaccio volgare a lei accanto, odiosa quanto tutta quella casa, tranne una stanza sacrata alla gioia, odiosa quanto tutta la gente che aveva conosciuto... Ecco che cosa egli avrebbe voluto: involare Elena, solo con lei, andare incontro a qualche altra cosa... Che cosa ?... Non lo sapeva. Una cosa grande, bella, una cosa in cui vivere, per cui vivere... Sì, perché la donna della sua passione non gli bastava; un desiderio simile a una lenta angoscia non dolorosa, rimaneva indefinito dentro il suo cuore.

Guardò un momento Elena e lasciò pendere un braccio per stringere furtivamente la mano ch’ella gli abbandonò. Gliela strinse col pensiero occupato dal ricordo dei recenti baci di lei, e dalla sua nostalgia senza nome...

XI.

La sera dell’ultimo di novembre, Fabio, al ritorno dalla Banca, trovò Claudio seduto presso la scrivania di fronte a Elena, che lavorava l’uncinetto. Guiduccio, che aveva cominciato a sonnecchiare su una poltrona, scattò in piedi per correre incontro al padre.

— Ebbene babbo, si va domani, si va ?...

— Ssst... piano, piano! Mi assordisci.

Elena gli piantò addosso un duro sguardo interrogativo, a cui egli rispose con ira e impazienza sordamente frenate:

— Si, sì...

— Ma che avete? — domandò Claudio guardandolo in faccia.

— Fattelo dire da lei — borbottò Fabio tra i denti, mordendo il sigaro: e parve a Claudio di sentire nella sua voce monotonamente sta un sottile accento di stizza sgarbato, ma nel viso non esprimeva nulla, ed egli lo seguì con gli occhi, vedendolo avviarsi verso la sua camera.

Trasalì; mille pensieri dubbiosi lo assalirono, i timori infondati di due giorni prima gli si affacciavano alla mente e per un momento ebbe anche paura di rimanere in quella casa. Ma subito dopo si vergognò della sua pusillanimità, e sforzandosi di apparire tranquillo, domandò a Elena:

— Che cosa c’è?

— Nulla... Si tratta di farti un’improvvisata.

— Me ne volete far sempre dunque?

Ella sorrise stentatamente, perché dal suo volto traspariva una contrarietà indispettita.

— Vogliamo condurti a Livorno domani.

— A Livorno? Come?

— Sì, ci sono le feste per l’arrivo della squadra navale. Noi partiremo la mattina presto, per far ritorno col diretto notturno.

Egli aprì la bocca per farle un’altra domanda, ma non riuscì a formularla. Passò un istante di silenzio, durante il quale si udì nella stanza solo il ticchettio dell’uncinetto. La voce fresca di Guiduccio diceva dalla camera di Fabio:

— Il cerchio posso portarlo a Livorno, eh babbo?

Finalmente Claudio si decise:

— Che cos’ha tuo marito?

— Nulla, cosa vuoi che abbia?

Ella, all’apparenza tranquillissima, non levò neppure gli occhi dal lavoro.

— Ma... ora m’è parso che fosse di cattivo umore...

Ella non si mosse. Egli stracciava in quadratini alcuni pezzi di carta trovati su la scrivania. Finì:

— Non vorrei essere io, indirettamente, causa di dissapori... Tu ti preoccupi troppo di procurarmi delle distrazioni, ed egli...

Elena si alzò nervosamente: buttò il lavoro su la seggiola e, senza rispondere alle allusioni di Claudio, gli sorrise, scotendo sensibilmente il capo. Entrò nella camera di Fabio, apostrofandolo per prima, con acerbe parole che scatenarono un improvviso diverbio, aspro, pungente, il quale non preludeva di certo ad un lieto fine. Ma di tutto quel furioso battibecco, a Claudio non giunse chiara che una sola frase, poiché fu solamente quello, l’unico istante in cui la voce femminile si tacque.

— So io solo quanto costano questi capricci!...— diceva forte la voce di Fabio.

Elena allora proruppe con violenza in una sequela di frasi, dove il risentimento appariva in tutta la sua cruda realtà. Si sentiva offesa, si sentiva ferita nell’amor proprio, ed infuriata come una belvetta si difendeva con le parole più velenose ed offensive. L’eccitazione dei nervi le rendeva maggiormente affilato il viso bianco come un cero, poi dall’esaltazione passò alla spossatezza più esausta e si lasciò cadere sul divano impregnato di fumo. Accorse Guido lacrimoso e singhiozzante e Claudio pensò ch’era giunto il momento in cui doveva intromettersi lui pure, quale paciere. Entrò. Trovò Fabio che balbettava ancora qualche parola forzatamente crucciata, mentre il mento gli tremava convulso e gli occhi intontiti gli si rigonfiavano.

Ebbe un impeto di parole a la gola, ma la sua voce soffocata seppe dire solamente:

— Che avviene?!...

E nella mente, confusa, gli passava l’immagine di sé stesso colpito a morte da Fabio.

Elena, sempre adagiata sul divano, pallidissima, non dava segni di vita. Guido non aveva ancora smesso di piangere e di urlare:

— No mammina... mammina mia no !... — Fabio allora si sciolse in lagrime, con degli: — ah!... ah!... ah!... — sguaiati, s’appressò alla moglie, tentando con mosse premurose di recarle un po’ di giovamento. E la chiamava lamentosamente neI pianto:

— Elena, Elena... perdonami !... Elena...

La zia Kate, che non aveva udito nulla, nella sua camera zufolava, rauca, una canzone scozzese.

Claudio, con le mani di Elena strette fra le sue, fissandola intensamente, udiva Fabio che singhiozzava, e sentiva un’indefinita uggia di quella scena disgustosa, un tedio, senza sapere precisamente contro chi.

— Guiduccio — balbettava il marito — va nella stanza di mamma... Va a prendere l’Acqua

di Colonia... Presto Guiduccio...

Quando Elena rinvenne e scorse Fabio piangente ai suoi piedi, lo guardò duramente, tornando poi a socchiudere gli occhi.

— Elena, Elena, perdonami... Non ho forse fatto sempre quello che tu hai voluto ?...

Ella ebbe una crisi di lacrime e si trasse il figlio su le ginocchia, baciandolo più volte, stringendolo con frenesia:

— Tu vuoi bene alla tua mamma, è vero? È vero che le vuoi bene?

Il piccino le rispose un «sì» piagnucoloso, abbracciandola forte. E poi che Fabio le restava sempre dinanzi, a soffiarsi il naso lacrimoso, Elena gli fece al fine una carezza indulgente.

Claudio osservava in disparte, un po’ torvo, perplesso. Ella cercò con lo sguardo gli occhi di lui senza incontrarli. Deposto dalle ginocchia il figlio, si alzò allora andando dal cugino e si diede a ridere nervosamente, esageratamente, con gli occhi ancora rossi pel pianto.

— Ah, ah, ah! Sono stata amena, è vero? Son così io... Ah, ah, ah! Come ti sarò parsa ridicola!...

E se n’andava ravviando i capelli scompigliati, con uno sguardo allo specchio e uno a lui. Ma poi che egli rimaneva muto, aggrottò la fronte e gli domandò piano:

— Che hai? — non udita da Fabio il quale, tuttavia scosso da sussulti nervosi nel mento, riaccendeva il sigaro alla lampada.

Claudio era seccato: non gli pareva l’ora di trovarsi solo. Fabio, con la voce e l’accento solito, a pena a pena più rauco, gli disse:

— Domattina devi alzarti di buon’ora, perché si va via a le sette. Speriamo che non piova...

— C’è stellato, babbo — avverti Guiduccio, che pur sempre aggrappato alle vesti della madre, s’era sporto tendendo il collo verso la finestra per dare un’occhiata al cielo a traverso i vetri.

— Tanto meglio.

— Va bene — disse Claudio congedandosi —allora, a domani.

— Te ne vai ?

— Non resti a cena con noi?

— No, ho promesso oggi a lo zio che sarei ritornato a casa.

— Allora è inteso.

— Sì. A rivedervi.

— Arrivederci, zietto.

Su l’uscio Elena poté domandargli di nuovo:

— Che hai?

Ma egli andò via senza rispondere.

A casa, appena solo, si pentì di essersi mostrato così con Elena. Ma aveva qualche cosa che non riusciva a spiegarsi: una scontentezza ostinata e triste. Quel pianto di Fabio lo aveva esasperato, gli avrebbe gridato: — Taci stupido! — E anche Elena quella sera non gli era affatto piaciuta, la carezza poi che ella aveva fatto al marito, gli appariva odiosa... Ma infine erano marito e moglie: Guiduccio era stato il loro fiore. Fabio, certamente, acconsentiva a tutti i desideri di lei, pur d’averne qualcosa.

Ma come era ributtante tutto ciò!

Nella sua camera sorprese Nerone, il gatto, accoccolato voluttuosamente, crogiolarsi nel suo letto. Lo accarezzò, spingendolo dolcemente per mandarlo via. Quello si alzò sulle zampe elastiche e sbadigliò arcuandosi con un ondeggiamento di tutta la flessibile schiena.

— Stavi bene? — gli chiese.

E Nerone, sornionamente, gli si fece presso a passetti eleganti, strusciandogli russando di piacere il capino vellutato contro le mani finché gli saltò leggermente sulle spalle. Egli allora se lo pose in grembo e sedé, carezzandolo, pensoso di nulla. Il gatto russava sotto le sue mani, alzando ogni tanto la bella testa rotonda per provocare e sentir meglio la carezza, e socchiudeva e spalancava a volta a volta i grandi occhi d’oro dalle pupille vellutate grandi occhi misteriosi, che parevano accesi di fosforo dietro le iridi vetrine, come in due buchi profondi. Claudio si assorse a guardare quegli strani occhi lucenti, che gli ricordarono a un tratto gli occhi di Kate secchi alla vita, aperti ad un mondo invisibile a tutti gli altri occhi. Ogni tanto l’animale rizzava le orecchie guardando, per niente, in un angolo di penombra con fare sospettoso, e poi tornava a fissar lui e a chiedere la carezza, russando. Ma quegli elettrici occhi rotondi a fissarli intensamente, cominciarono a dare uno strano senso di disagio a Claudio. Gli pareva che a poco a poco si dilatassero, in centri concentrici come l’onda allargata dal tuffo d’una pietra fino a diventare enormi. Distolse lo sguardo un momento, e le due luci fosforiche lo attrassero di nuovo nella loro allucinante vertigine... La bestia ora si era taciuta e stava raccosciata sulle ginocchia di lui, immobile, il capo alto, le orecchie all’erta, eccitata dalle carezze, in una posa da piccola sfinge. Una vaga inquietudine s’impadronì di Claudio: non si sentì più sicuro in quella stanza, illuminata a pena dalla fiammella vacillante d’una candela, che faceva agitare le ombre sulle pareti e sul pavimento, nel silenzio cupo, con quell’essere che egli non comprendeva e che gl’incuteva quell’inspiegabile malessere. E allora lo prese a un tratto per la pelle della nuca e così penzolante discosto da la sua persona per timore che non avesse a morderlo o graffiarlo, andò a buttarlo fuori della stanza, richiudendo subito l’uscio. Nerone, sempre muto, grattò a la porta, volendo rientrare.

Claudio avrebbe voluto sorridere della propria fanciullaggine, ma non poteva. Si pose a letto, ma il gatto raspava sempre l’uscio colle unghie. Andò per scacciarlo, armato d’un asciugamani arrotolato e quello allora fuggì: ma egli vide le due stelle fosforiche fermarsi, poi, rivolte a lui su la soglia buia dell’altra stanza. Pensò un istante con un fremito, che nel buio la creatura strana si fosse trasformata assumendo un aspetto terribile di fantasma... e s’affrettò a chiudersi in camera un altra volta.

Nerone non tornò più per quella notte: ma Claudio, sovreccitato, smaniando nel letto, fu tormentato da visioni bislacche e paurose. Tutti i ricordi più vari della sua vita gli si affollavano intorno, e pensava specialmente a quel suo prozio materno, ch’egli conosceva soltanto di nome e di figura pel ritratto che se ne conservava in casa sua, morto a venticinque anni suicida nel manicomio. Pensava a lui con una tenerezza grande, tenerezza che a poco a poco addolcì tutti i suoi sensi...

L’indomani, quando venne fuori dalla sua camera, cominciava a pena a pena a far giorno e nella cucina non trovò che la zia Clotilde, intenta a mescolare in un vaso di cristallo due polveri brune che v’aveva versato.

— Buon giorno zia!

— Ben levato; per tempo, oggi!

— Dobbiamo andare a Livorno, non sai?

— Ah, è vero...

Prese una cucchiaiata del suo miscuglio e la buttò in un pentolino che brontolava fumando sul fuoco.

— lo, vedi, sono donna di gusti modestissimi; ma pel caffè c’ho un debole.

— Ah, è caffè quello?

Allorché la funzione difficile ebbe termine, la zia ne offrì a Claudio una tazza.

Prendendo quella bevanda, e soffiando sul liquido che dalla chicchera versava man mano nel piattino perché si freddasse più presto, la zia gli domandò:

— E farete colazione laggiù?

— E pranzo anche, io ritengo.

La zia Clotilde finì di prendere il suo caffè e depose sul focolare la tazza, sospirando

— Dio mio!

— Che cosa?

— Si rovinano! — disse più piano con accento tra il compianto ed il dispetto.

— Chi?

— I tuoi cugini...

— Ah, rovinarsi poi...

— Tu non sai nulla… tuo zio non vuole che se ne parli, ma è purtroppo così. Fabio non guadagna quanto Elena dice, che il suo stipendio non supera le tremiladuecento lire all’anno...

— In una città di provincia basterebbero.

— E basterebbero... se foss’io mi riterrei ricca; noi non abbiamo tanto, no, ma ci sono io a governar la casa... Tuo zio riceve appena centoventi franchi al mese di pensione, e altrettanto, quasi, rende la mia dote, ma è per me, per la mia avvedutezza che si va avanti senza penare.

— Ma allora?

— E, allora, loro, loro... Elena ci ha troppe fisime pel capo: un abito nuovo ogni mese, un cappello nuovo, feste a destra, gite a sinistra... e le centinaia volano... e quel grullo di Fabio...

Ma bisognò tacere perché nella sala da pranzo s’udì la strepitosa aspirazione di tabacco dello zio Francesco che sopravveniva.

Claudio non tenne in gran conto i discorsi della zia: Fabio gli era troppo odioso perché egli avesse a dispiacersi della sua rovina.

Su le sette, Claudio e i Mauri s’avviarono alla stazione.

Elena, con le occhiaie livide dall’insonnia, vedeva Claudio sempre preoccupato e nervosissima gli si rivolgeva ogni tanto per fargli una domanda che fin dal primo vederlo gli era salita alle labbra, ma che aveva dovuto frenare in presenza di Fabio.

Prima d’arrivare alla stazione, costui si allontanò un momento per rifornirsi di sigari e Guiduccio volle accompagnarlo. Approfittando di quell’istante, Elena domandò a Claudio:

— Che cosa avevi insomma iersera?

— Nulla...

— Come nulla? Se t’ho visto una faccia scura da impaurire !...

— Mi dispiaceva vederti in quello stato...

— Uhm !... — fece lei con una smorfietta d’incredulità.

Dovettero tacersi, perché Fabio ritornava in punta di piedi sul fango, quasi ballando, guardando ora loro due, ora il suolo, e reggeva per un braccio Guido che s’inzaccherava sguazzando a posta nelle piccole pozze d’acqua.

A Livorno, Claudio non riuscì nemmeno a distrarsi! Solo all’Ardenza, dinanzi al mare, aprì il petto ad un più ampio respiro refrigerante. Ma il mare gli ricordò Napoli e la sua casa e suo padre, e sentì un’altra volta il bisogno di rivederli...

 

Home ] Santa Maria della Spina ] La vita al vento ] L'avventura... ]