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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

XII.

Verso la fine di novembre Claudio ricevette una lettera di suo padre, il quale gli comunicava che, ritornato dal lungo viaggio in levante, il suo piroscafo andava in riparazione, ed egli avrebbe ripreso il mare fra due mesi, al più presto. Lo pregava, frattanto, di venire a Napoli a trovano, qualora non gli dispiacesse, e gli parlava della tetra malinconia che lo invadeva nella camera solitaria. Un passo di quella lettera specialmente era pieno di tristezza: « Troppa pena rimane ancora nell'anima mia, che nessuna fede, nessuna speranza potrà mai consolare. Pena che non è la sua sparizione soltanto, ma anche la fine della tranquillità, su tante cose, che la sua presenza e le sue parole sapevano darmi ».

Don Gennaro scrivendo così semplice e sincero, non avrebbe certo preveduto quale  impressione avrebbe prodotto sul figlio. Claudio credette che suo padre amasse la morta più di lui che già cominciava a dimenticarla. Egli s'era ingannato nei primi giorni, ritenendo suo padre poco addolorato da quella sventura, ma ora, raccozzando nella mente piccoli fatti inosservati, ricordando lo sguardo buono dei suoi occhi, vedeva il padre incompreso e non abbastanza amato... Bisognava rivederlo, partire, al più presto!

Andò a trovar Elena, deciso a manifestarle la sua intenzione di ripartire, almeno per qualche giorno; se non fosse stato per lei, già da tempo egli sarebbe scappato via.

— Bravo! — ella esclamò saltandogli al collo appena lo vide — hai fatto bene a venire più presto oggi. Il bimbo è a scuola, Fabio verrà più tardi, perché ogni sabato ha da regolare i conti, il bilancio...

— Ebbene?

— Non vedi che bella giornata? È un mese che non se ne vedono di simili. Ora si va fuori.

— E dove andiamo?

— In città o in campagna? In campagna è meglio... La città è sempre la stessa noiosa... In campagna, in campagna !... Tu non sei stato ancora a San Rossore? Andremo là.

— San Rossore a le Cascine? Lo conosco di nome, son contento di andarvi.

— E allora scappo a vestirmi.

— Si, facciamo presto... La campagna è più bella al mattino.

— Vado... ma prima baciami...

— Elena! Elena! — pensava lui baciandola, colla mente annebbiata, ma dicendosi che era
impossibile partire, ché troppa gioia gli dava quella donna! 

Il suono del campanello, che annunciava al solito qualcuno, li separò.

Poi Elena andò in camera sua a vestirsi, e Claudio si gettò sopra un divano. Ricordò la prima volta che l'aveva baciata e alla sua mente corsero in folla pensieri e ricordi voluttuosi, e rimase lungo tempo sotto il loro dominio, in una specie di sonnolenza febbrile. Anche Nerone, il gatto nero, gli si presentò alla memoria, tutt'occhi, quegli occhi che gli avevano fatto paura, e gli occhi della zia Kate, spalancati, gli danzarono dinanzi, pieni di malaugurio S'alzò, irritato contro se stesso, e andò incontro a Elena che, dinanzi allo specchio, si appuntava il cappello. 

— Son pronta — e l'odore acuto di corylopsis gli mise nell'anima la sua strana nostalgia...

Partirono in una carrozza che li trasportò veloce, tremando sul lastricato. La brezza fresca li
carezzava nel sole. Essi tacquero durante il non breve tragitto. Per uscire dalla città, la carrozza dovette passare da piazza del Duomo festevolmente irraggiata di luce, ove scorsero e salutarono le Ferrari, insieme a una signora che da l'aspetto sembrava forestiera.

— Quelle amano far sempre da cicerone: che gusto tirarsi dietro una simile figura!

Dopo queste parole, accompagnate da un breve riso, Elena tacque di nuovo. Claudio taceva pensoso.

Avviatisi pel viale che s'allungava tra l'immensità verde dei campi uguali fino all'orizzonte, egli si sentiva penetrato dalla carezza tiepida del sole, alla cui luce i colori vivi brillavano. Ogni tanto un soffio improvviso di vento faceva tentennare le rame seminude e rossicce degli alberi fiancheggianti lo stradale. Egli si assopiva in una beatitudine nuova: quell'aria, quella luce, quel verde, quell'immensità radiosa tramandavano mille vibrazioni delicate che si adunavano tutte nel suo essere estatico, simile a musica tenue. In un punto a destra dello stradale, sorgeva una palazzina verde pistacchio, situata in un piccolo giardino.

— È la casa d'un jokey inglese, arricchitosi in poche corse. Figurati che vittorie... E che danari! Gli è costata cinquantamila lire! — disse Elena indicandola.

Egli l'udiva senza interesse. Elena parlò ancora a lungo: alla sua voce sonora e squillante l'aria palpitava. Nella campagna non s'udivano che quella voce e il calpestio monotono del cavallo, le cui zampe facevano schizzar la mota con ciaccichii continuati; ogni tanto rispondeva, lento e sonnolento, l'immenso fruscio dei campi e dei giardini. E Claudio taceva pensoso, senza coscienza dei suoi pensieri.

Quando la carrozza entrò nella tenuta reale, egli se ne accorse appena. Passavano sotto una fitta volta d'alberi che si arrotondava sul viale muscoso, ove il passo saltellante del cavallo risonò, spaventando i passeri nascosti tra i fogliami. Nell'ombra fredda, allora Claudio si riscosse e volse gli occhi a Elena che gli sorrideva continuando un discorso:

— E dopo Vittorio Emanuele rimase a lungo disabitato, perché Umberto cacciava poco in questi posti. La Regina Elena l'ama moltissimo, ora: ma la palazzina, vedrai, è una cascinetta da borghese agiato...

Oh! Quanto egli sentiva d'amare questa donna! La gioia di vedersela accanto, profumata, morbida di panni, di pellicce e di veli, gli dava quasi una commozione strana. Il suo viso, attraverso alla veletta nera a piccoli fiocchi, pareva più bello. Era come nuotante in una misteriosa penombra da cui emergevano i glauchi grandi occhi lucenti.

— Ti amo! Ti amo! — le sussurrò fissando quegli occhi.

Ella gli porse le labbra, rispondendo:

— Mia vita!

La carrozza entrò nel piazzale ove sorgeva la cascina reale: un edificio a due piani, di pietra gialla ed ardesia, semplicissimo. Gli girarono attorno lentamente e il cocchiere, un mascalzone brutto e cencioso, si volse un istante verso di loro tendendo la frusta per indicare un portone.

— Quella, vedono, è la rimessa de' cavalli.

— Vedi — diceva Elena — pare una casa rustica: non c'è proprio niente di bello. Ma l'interno, dicono, sì. Il posto è delizioso. Quella casetta più in là, la vedi? È un'osteria: hai fame?

Egli rispose un: « non so » distratto.

— Che hai?

— Ho te nella mente, che mi assorbi, che mi vieti ogni altra facoltà di pensiero e di azione... Vedi, non so nemmeno più dirti se ho fame o no.

— Vada verso l'osteria — disse Elena al cocchiere — Uhm! Non ti credo! Gli uomini si innamorano più facilmente delle donne, e sanno meglio, forse, parlare d'amore... Ma non durano a lungo. Io non ti so dire invece che una sola cosa: che non sono più come prima, credimi. Forse perché mi vedevi ridere e folleggiare? Mi annoiavo, ecco, e ridevo per illudermi. 

Ella lo carezzava parlando, così, piano. Il suo volto era soffuso d'un rossore lieve. Egli ascoltava quelle parole, prestando orecchio nello stesso tempo a lo scalpitio del cavallo, seguendo mentalmente la cadenza monotona di quel passo faticosamente affrettato. Pigolavano e trillavano dovunque i richiami degli uccelli, rispondendosi da un punto all'altro. Le piante si dondolavano al sole con indolenza. Quando la carrozza si fermò davanti l'osteria, s'affacciarono sulla porta il padrone e la padrona, mentre un giovanotto si precipitava premuroso incontro a gli avventori.

— Desiderano rinfrescarsi i signori? O far merenda? Vogliono ova, pane, formaggio, salame? Vino? Chianti? Monte Pulciano?

— Non c'è modo d'aver altro?

— Carne niente, signora. Pesce è un pezzo che non se ne vede: ova, pane, formaggio, salame e
vino!...

— Dateci quel che avete.

— Bon giorno, signora — salutò l'ostessa sorridendo a Elena con tutta la persona, grassa, nasuta, tenendo le mani intrecciate sul ventre prominente — s'accomodi.

I1 padrone, in maniche di camicia, si sberrettò introducendoli premurosamente nello stanzino
riservato ai signori, li fece sedere su una rozza panca dinanzi alla tavola un po' rustica, e uscì un momento, ritornando col servo il quale distese una tovaglia sulla mensa, e vi depose due piatti di terraglia, due posate di stagno, due bicchieri e un fiasco panciuto.

— Chianti — soggiunse.

Dalla finestra socchiusa una striscia di sole brulicante d'atomi cadeva sul capo e su le spalle di Elena ed egli, guardandola, ripensò al giorno in cui l'aveva vista al barlume del tramonto, dentro Santa Maria della Spina. Oh, quel giorno! Il giorno in cui era cominciata la sua passione, la sua nuova vita! Se avessero potuto ritornare indietro, per sentire di nuovo la voluttà infinita del desiderio insoddisfatto, come quel giorno!

La colazione finì in silenzio.

— Si va un poco a passeggiare? — propose ella — ho le gambe intorpidite.

Egli annuì e uscirono. La padrona, tenendo sempre le mani sul ventre, piena di sorrisi nella faccia larga e rubiconda, domandò se i signori avessero mangiato con appetito.

— Sì — rispose Elena garbatamente s'è voluto prendere un boccone soltanto, perché fra poco si va a desinare a casa.

— Che vuole, cose alla buona! Qui non s'hanno mica tutti i comodi... Non siamo in città. Cecco... è mio marito: Cecco, un omo come ce ne son pochi, sanno? È vero, Cecco? Vieni qua, i signori ti vogliono vedere...

Il marito si fece avanti sorridendo e forbendosi in una pezzuola le mani sporche dal vino che finiva di versare in alcuni fiaschi.

Ella lo guardò con un sorriso di compiacimento.

— In ventidue anni che siamo sposi eh, Cecco? sempre come il primo giorno.

— E qui fanno affari?

— Si tira avanti signora bella — rispose Cecco — Si tira avanti !... Un tempo c'erano i forestieri...

— Adesso non se ne vedono più tanti. Non vendo mai più di duecentocinquanta fiaschi al mese... E sì che sono il fornitore di Casa Reale.

Usciti, appena fuori di vista, scoppiarono a ridere entrambi.

— Che buona gente!

La carrozza teneva loro dietro. S'avviarono per l'ampio viale della Sterpaia, in fondo al quale si parava il gran fabbricato ove s'allevavano i puledri: una strada magnifica tra pini rigogliosi che non scotevano fronda nell'immobilità maestosa del meriggio e il bosco odoroso di resine trasaliva ogni tanto di qualche trillo isolato. Claudio si sentì piccolissimo insieme colla sua compagna nell'immensità solenne del momento. I suoi passi crepitavano sulle foglie morte di cui il suolo era ingombro, mettendo quel leggèro rumore molesto nel gran silenzio. E  camminando gli pareva di non arrivar mai, quasi che gli edifici in capo al viale si allontanassero sempre da lui così piccolo, da lui così debole, fra tante cose immense.

— Senti — esclamò d'un tratto Elena — si corre un poco tra i viottoli interni, fra gli alberi? Cocchiere ci aspetti. Vieni, non c'è soddisfazione arrivare laggiù per vedere i cavalli. Ho sete: anche tu devi averne. Conosco nella pineta un ruscelletto al quale potremo bere... Tu mi farai bere in una foglia, o nel cavo delle tue mani.

E, preso il suo braccio, lo trascinava così dicendo verso una viottola serpeggiante fra l'erbe e gli arbusti, ove si posero a correre tenendosi sempre a braccetto.

— Presto, bimbo, corri, corri… Ah, ah, ah! Io ho un folle desiderio di correre, di respirare tutta quanta l'aria pura e sana di questa incantevole pineta!...

E raccolte le gonne colle mani si diede a correre più spedita, avanzandolo, rossa in viso, e si volgeva a gridargli fra le risate:

— Corri, bimbo, corri.., non sei buono a raggiungermi...

— Vediamo! minacciò lui, e, serrando le labbra, si slanciò a corsa sfrenata dietro di lei.

— Ah, ah, ah! Non così !... Non così !... Sarai stanco presto

— Se ti acchiappo!

— Cucù!

Ma ella era affaticata, e suo malgrado rallentava il passo; ma gridandogli sempre qualche parola fra le risa, finché egli la raggiunse perdendo il cappello, l'avvinse fra le braccia, la sollevò, e riprese a correre ridendo, stringendosela al petto.

— Sei mia! Sei mia! — esclamava.

— Ah, traditore!... Traditore! — rideva fra sue braccia sospendendoglisi al collo per appoggiare il viso al viso di lui.

Alcuni passeri s'involarono dalle macchie vicine.

Quando ritornarono verso la carrozza ancora agitati, ella gli si appoggiava al braccio, e andavano lentamente, silenziosamente, a capo chino. Egli si compiaceva a mettere i piedi su le frasche e sulle foglie secche per udirne il crepitio. Un nitrito lamentoso giunse al viale grande, passò per l'aria una folata alta improvvisa di vento che fece ondeggiare gli ombrelli ampi dei pini, con un fruscio lunghissimo.

Elena indicò a Claudio un roveto presso quale passavano:

— Guarda dove hai buttato il tuo cappello.

 

XIII.

I1 cocchiere li accolse con un sorrisetto malizioso, celato a mala pena fra i peli irti delle labbra e delle guance, e togliendosi dalla bocca la canna di una pipa nera e puzzolente, esclamò:

— Credevo che non ritornassero più!

Claudio, sentendo salirgli un infrenabile rossore alle gote, senza guardarlo gli rispose sforzandosi di rendere tranquilla la propria voce:

— Siamo andati a cercar acqua. Non se ne trova in questi paraggi?

— Sì, si trova! rispose il cocchiere ficcandogli in faccia due occhi impertinenti e maliziosi più del sorriso di prima.

— Noi non ne abbiamo trovata! —  fece Claudio irritato.

Elena per non dare a veder nulla del suo imbarazzo, s'era appressata a un oleandro ove rosseggiava dimenticato l'ultimo fiore. Il cocchiere si tirò su a cassetta e Claudio si volse per invitar la cugina a rimontare in carrozza.

— Ritorniamo?

Ma guardandola mentr'ella si rizzava sulle punte dei piedi, alto il braccio per spiccar dal cespo l'oleandro, il busto arcuato sul fianco sinistro e il capo un po' riverso sul lungo collo ergentesi arditamente di fra le spalle quasi maschili, tutta nel desiderio di quel fiore, s'accorse che somigliava proprio a sua madre, quando aveva colto un arancio nella Villa Gravina a Sorrento.

Ella, staccato l'oleandro, ritornò col suo incesso diritto e fiero di cerbiatta. Il cavallaccio riprese il suo passo stanco ed affaticato: le bardature unte e vecchie gli ballavano ritmicamente sulla groppa e sulla schiena ossuta. Il cocchiere ogni tanto gli lasciava cadere addosso una frustata, con fare annoiato, zufolando un'arietta fra i denti.

S'era mosso un po' di vento che spingeva le foglie cadute a rincorrersi pel viale in sciami brunastri, fruscianti e affollantisi verso la sponda sinistra, fra il polverio. Ogni tanto qualcuna schizzava dal branco e in balìa del vento, volava in alto, simile a una mostruosa farfalla; qualche altra, diritta a taglio continuava a rotolare per un istante dopo che l'impeto del vento era caduto, piombava distendendosi d'un subito. Parevano una torma di topi fuggenti pazzamente. Altre foglie, staccate dalle rame stormenti s'involavano rapide, senza aver toccato suolo.

— Berremo l'acqua all'osteria — disse Elena a un tratto.

Claudio non le rispose, pensava che ella somigliava a sua madre specialmente vista di fianco e perciò, nel tedio che al ritorno dalla pineta, lo aveva d'un subito invaso, egli sentiva pure una certa tenerezza per quella donna che gli rammentava così dappresso la creatura da lui più adorata. 

Ma quel tedio e quella tenerezza lo assorsero nel ricordo della morte, che da parecchi giorni non s'era più affacciato che fuggevolmente e quasi indifferentemente alla sua memoria. 

Era morta da circa quattro mesi ormai; morta voleva dire finita, per sempre. Questa idea gli dava ogni volta uno sbigottimento, una vertigine interiore; morta: e ritornando a Napoli a casa sua, avrebbe ritrovato tutto tranne lei; non l'avrebbe veduta più, non ascoltata più, non baciata più! Tutto era finito. Ma come accade ciò? Come tutto passa, muore, finisce? Anche la sua sciocca passione per Mary era passata. Anche i giorni che studiava al liceo. Il professore di matematica era morto; un suo compagno giovane di venti anni, era morto, suicida. Un dì finirebbe anche il suo amore per Elena, quest'amore strano, fatto di trasporti deliranti e di stanchezze tediate, quasi nausee. E anche lei doveva morire. Doveva morire anche Fabio. E Guiduccio e lo zio Francesco. Lidia Centoni, le Moretti, il loro fratello, zio Totonno, il cocchiere che li portava, tutti, tutti coloro che amava, che conosceva, che aveva visto una sola volta, anche gli sconosciuti di altri paesi disseminati pel mondo. Per dar posto ad altri che dovevano venire per vivere un po', affaticarsi, amare come egli amava Elena, e poi dissolversi silenziosamente... E così senza fine!... E Kate, anche Kate, forse più presto degli altri, lei così vecchia, cieca, sorda, inutile... pensò, anzi, che costei dovesse portarsi via anche lui. Perché anche lui doveva morire; doveva non vedere più il cielo, la campagna, le giornate come questa, né baciare più, né pensare... Nulla! Ed era possibile? Ma come? Per un momento ebbe la sensazione che ciò fosse accaduto ch'egli fosse morto, e non fosse più lui, a pensare quelle cose, a veder gli alberi e le foglie svolazzanti ma uno spirito misterioso entrato per un istante nel suo cadavere...

La carrozza si fermò davanti all'osteria, facendo affacciare la padrona, padrone e servo, l'uno più premuroso dell'altro.

— Comandi signore, comandi!

— Vorremmo un po' d'acqua — rispose Elena alla signora nasuta.

Dopo cinque minuti la carrozza riprese la via trascinata dal trotterello stentato del ronzino.

— Che acqua! — soggiunse Elena — cattiva! Non è certo quella del Serino di Napoli... come mi deliziavo io con quell'acqua!

— Ah! E tutto bello nella nostra città...

— E tu, ti ricordi quando noi si venne a Napoli, appena dopo le mie nozze?

Ella parlava un po' mollemente, languida, tuttavia commossa senza i soliti scoppi d'allegria o l'esuberanza di lena nella voce. E la voce all'aria aperta, tra il vento si perdeva un poco, pareva attutita da la lontananza.

— Si — rispose Claudio, quasi dormente — ricordo.

— Non puoi ricordartene! Si può dire che in quel tempo eri ancora un fanciullo.

— Avevo tredici anni.

— Ed io ero sui diciotto. Tu, mi parevi un così bel bambino!... Ma che hai?

— Nulla.

— Come nulla? Taci, sei pallido e d'un umore degno d'un funerale. Sei scontento? Sei scontento di me?

— Oh no! No Elena, no — protestò lui debolmente — ma sono soverchiato da idee tristi, ho un gran desiderio di vedere mio padre che mi vuole presso di lui.

— Di già? esclamò ella spalancando gli occhi — tu vorresti dunque partire?

— Per pochi giorni soltanto.

Egli sentiva il suo cervello stranamente affaticato, come per un bisogno prepotente di dormire, e le parole gli cadevano di tra le labbra senza ch'egli le avesse volute o preparate nella mente. Ella lo pressò con domande inquiete, premurose, timorose, ed egli non seppe dire che:

— Qui c'è qualche cosa che non mi fa bene, che mi soffoca: io sono odiato da molti.

— Claudio — soggiunse Elena sgomenta — ma che dici? Tu non ragioni! Che idee passano per la tua mente?

Claudio si scosse e comprese il senso delle sue ultime parole. Non capì perché le avesse dette, scosse il capo, sorrise, si volse meglio a lei, passandole un braccio dietro il busto sulla. spalliera della vettura.

— Si vede che ho dormito male stanotte — spiegò — sono istupidito; no, non partirò, se tu non vuoi.

La carrozza trotterellava ancora fra i campi mareggianti e i giardini ove gli alberi, al loro passare, li salutavano con un festoso squassar di rame. Non si vedeva un'anima, tutt'intorno. Il vento li accompagnava soffiando loro sulla nuca, il suo alito frizzante che li spingeva sempre più l'uno verso l'altra.

Elena alzò la mano per passargliela sul viso carezzosamente.

— Che hai piccolo mio? gli chiese con voce dolce, piena di moine — che hai? Dillo a la tua Elena; che cosa ti accade? Perché sei così cattivo da pensare di lasciarmi quando io non so più vivere senza di te, senza i tuoi baci, senza i tuoi occhi?

Claudio sentiva qualche cosa a poco a poco gonfiargli il cuore, un desiderio di piangere, di diventare bambino.

— Elena, Elena, non so Ho qualche cosa che non so... Ho bisogno di non so che di novo che mi dia una gioia completa, una gioia continua e mi dispero, perché non so che cosa vorrei.

— Ma come, l'amor mio non ti basta? Cattivo: a me bastano i tuoi baci... Quando tu non mi baci, quando non siamo accanto, io penso con gioia che mi bacerai ancora. Non è forse tutto questo? lo so che per qualunque uomo sarebbe tutto, so che qualunque uomo sarebbe felice di me, solo per questo... Ah, bimbo, mio cattivo bimbo viziato, chiudi un istante questi occhioni tristi, ch'io possa con un magico soffio farteli subito riaprire sorridenti e sereni...

Egli s'acquetò un poco, s'obliò un poco ai baci di lei... Quelle labbra avevano sempre la virtù di un sollievo per l'anima instabile. Pure, nella sua coscienza, oltre alla gioia sensuale, restava sempre come una velata antipatia, c'era sempre qualche cosa di lei che lo urtava, che lo lasciava scontento, intuiva indefinibilmente la fatuità e l'egoismo di Elena che perduravano inalterabili in lei anche quando la passione le occultava un po' la superficie. E a Claudio in certi momenti cominciava a disgustargli la propria sensualità.

— Sì diceva Elena — forse hai ragione: qualcosa di più ci vuole, qualcosa che ci unisca di più...

— Non so, non so...

— E dimmi... cosa? Se tu avessi un figlio, l'ameresti molto?

Egli la guardò sorpreso.

— Certamente... ma... perché questa domanda?

— L'ameresti?

— Oh sì molto! Oh più di me forse... Ma perché mi dici tali cose?

Passò una pausa d'esitazione. Si disegnavano già in fondo alla via i profili dei tetti di Pisa. Su tutti si levava il campanile inclinato quasi a guardarli, presso il Duomo e il Battistero. Da lontano sembrava un paesaggio di zucchero bianchissimo, con qualche scintillio, sulle cime.

— Ecco... cominciò Elena.

— Che?

— Ma ti piacerà poi?

— E una notizia? Dimmela, presto.

Dopo avere ancora un pezzo esitato, ella finalmente, appressandogli ad un orecchio le labbra, gli sussurrò:

— Credo che diverrò madre.

Egli da prima non capì, poi restò tacitamente stupito; non se lo aspettava, non l'aveva pensato mai. E pure la notizia non gli riusciva sgradevole, l'idea di avere un figlio suo gli dava una certa soddisfazione e nello stesso tempo uno smarrimento.

— Davvero?!

Tacquero. Un bambino, o meglio una bambina, sarebbe stata una gioia grande per lui, ma l'assalì anche il pensiero che, nata in casa di Fabio, ella dovesse essere considerata qual figlia di costui, portare il suo nome. E Fabio che cosa avrebbe fatto? Che sarebbe accaduto? Il marito poteva ingannarsi? E la gente? E lo zio Francesco?

S'arrivò in piazza dei Cavalieri. Era già il tocco e mezzo, l'ora del pranzo per Elena. Ella scese di carrozza ed egli ordinò al cocchiere di proseguire per il Lungarno Mediceo. Si salutarono a voce bassa:

— Ritorna presto... stasera... sei contento?

— Oh sì, tanto.

Ma no, non lo era: s'ingannava, mentiva a se stesso. Elena, nella gestazione, avrebbe perduto la sua grazia sformandosi, disgustosa.

E poi tutto questo ignoto che si preparava, gli faceva quasi spavento. Una bambina si; l'avrebbe conosciuta anche Don Gennaro. E che avrebbe detto il brav'uomo apprendendo le relazioni colpevoli del figlio colla cugina? Se ci fosse stata sua madre, forse l'avrebbe perdonato, le mamme sono più indulgenti. E poi la sua mamma avrebbe provata la stessa felicità di quando era nato lui... Allora certamente somigliava di più a Elena, forse aveva fatto come Elena per confidare la sua maternità al marito? Fors'anche quella volta ella era pure in campagna col marito, come Elena e lui... La mente di Claudio eccitata sostituì nel ricordo suo padre e sua madre a se stesso e a la sua amante, quali erano stati poco innanzi... Ma egli non era marito di Elena: Elena aveva un altro per marito e lo ingannava. E se anche sua madre avesse ingannato il marito? !...

XIV.

La sera, dopo aver cenato pensoso e taciturno, rispondendo a monosillabi alle premurose domande di zio Francesco, quando si fu ritirato nella sua camera, Claudio, col cranio serrato dalla morsa dell'emicrania, sentì risorgersi nell'anima, più frequenti ed acuti i pensieri dolorosi.

S'era alzato un gran vento che urlava giù in istrada fra i platani delle prossime Piaggie, fischiava fra le fessure delle imposte, pareva in certi momenti che un impeto tempestoso scotesse la casa fin da le fondamenta.

E se sua madre avesse avuto un amante? Uno? Forse più?... Riandò col pensiero ai giorni trascorsi, e mentre con le mani lente ed incerte si svestiva, alla sua mente si presentarono visioni mostruose di amori colpevoli. La donna, nei quadri che l'anima sua rappresentava aveva sempre il viso di Elena o di sua madre.

Quando spense la candela, pareva che il vento schiamazzasse più forte tra gli alberi delle Piaggie e s'abbattesse con furia contro la finestra. L'idea terribile che incolpava sua madre lo tenne ancora un momento agitato. Ma no, ma no, i suoi non erano che pensieri, nemmeno si potevan dire sospetti. Di che sospettava egli? Dell'amico forse, di suo padre? Di quel Guacci, che veniva così di frequente in casa loro ?... Perchè sarebbe venuto così spesso quell'uomo ?... Certo sì, era lui, lui! Un bell' uomo alto, bruno, maschio, odioso per bellezza e mascolinità! Spesso le donne amano questi uomini vuoti, questi stalloni di razza, tutti muscoli e niente cervello. La morta aveva dovuto amarlo: una volta gli aveva detto: «Siete un vero cavaliere Guacci!» Avrebbe voluto strapparsi il cervello dal cranio, e questo suo desiderio si fece tale in lui che gli parve sentire la sua stessa mano adunca frugare nel cavo della testa, scavando nell'encefalo molle, e strappando a poco a poco, vuotando la cavità ossea, con dolori acuti, che a mano a mano si facevan meno sensibili... Aveva chiusi gli occhi, si riscosse di soprassalto, quand'era già quasi addormentato, mentre pensava di camminare in aria e di voler sempre camminare così... Nel dormiveglia mille sbiadite immagini bislacche gli frullarono nel capo... s'assopì convinto che lo Francesco e il ciabattino lì accanto fossero la stessa persona...

Ma quel pensiero non ritornò più, per alcuni giorni, che in forma larvata e fuggevole nella sua mente ed egli si affrettava a cacciarlo, distraendosi.

La vigilia di Natale, Claudio, in una visita in casa Mauri, apprese da Guiduccio, il quale era in vacanze, che Fabio aveva comprato due tacchini giovani, per far loro la festa. Il bimbo, anzi volle condurlo subito a vederli, dando in esclamazioni di giubilo e di meraviglia. Le due bestie, che Venezia aveva rinchiuse in una specie di granaio attiguo alla cucina, buttando loro in un angolo una manciata di fave, stavano strette l'una contro l'altra, timorose in quella nuova dimora. All'apparir di Guido e di Claudio, una che beccava timidamente e senza voglia fra le immondizie, s'interruppe tosto per serrarsi di più alla compagna, la quale erse attentamente il capo guardando di sbieco i due nuovi venuti; quindi chiocchiolarono assieme un accento breve e triste. La prima, incrociando il collo sul dorso dell'altra, sporse innanzi a varie riprese la testa rossa e cartilaginosa, inquietamente.

— Lo vedi zio? Sono bruttine, nevvero?

— Sono eccellenti da mangiare però

— Lo .credo; ma io non mangio che il petto... Pochino, pochino... veh!

— Sei un sibarita.

— Cosa ?... Ah, ah, ah! Cosa è la parola che hai detto ?... Ma dimmi zio, perché queste non hanno il bernoccolino sul becco?

— Non vedi?

— O perché? L'hanno solamente i loro mariti, allora?

— Sicuro.

— E perché?

— Per distinguersi dalle mogli.

— Ah! Come il babbo che ha i baffi...

— Ecco.

— Bello se gli uomini invece dei baffi ci avessero un cornetto sul naso!... Vedere il babbo così conciato... Ah, ah!

Claudio restò alquanto mortificato delle incoscienti parole del bimbo. Pensò che quel piccino non sapeva, non poteva aver capito nulla... Ma certamente, se fosse stato più grandicello, avrebbe già scoperto ogni cosa. Al posto di Guido egli invece, si sarebbe accorto... perciò ora gli parevano stupide le sue idee di pochi giorni innanzi, di quella notte in cui aveva tanto sofferto. Pensando a ciò udiva la voce di Guiduccio che gli parlava, ma non capì che le parole: «con la salsa gialla» e «giovedì grasso dell'anno passato». Fra quei pensieri poi aveva visto mescolata l'immagine insistente di Fabio senza baffi. Si scosse con un moto brusco, importunato da quelle idee, e riprese per una mano il piccino dicendo:

— Via, lasciamole in pace, ora, quelle povere bestie.

— Poverine! Le ammazzeranno oggi stesso?

Ritornati presso Elena, che nella sua camera, in piedi su di una sedia, riadattava in alto una tendina scucita del suo letto, ella senza volgersi domandò a Claudio:

— Ti sembrano abbastanza grasse, bimbo?

— A me pare di sì.

— Come le vorresti cucinate? — chiedeva Elena, continuando il lavoro.

— Con la salsa gialla, mamma - saltò su Guido — con la salsa gialla, come l'anno passato!

— Ma che salsa gialla; sta zitto! — esclamò lei lasciando il lavoro e voltandosi è indigesta...—  Meglio in forno... no?

Si decise che per il domani ne avrebbero mangiata una, da infornarsi, l'altra l'avrebbero lasciata per capodanno.

— L'ammazziamo stasera perché sia più tenera domani - propose Elena ma, poverina, io non voglio, sai? Non voglio assistere alla scena.

Infatti alla sera si mandò Venezia a chiamar Nanni, il ciabattino, al quale essi ricorrevano ogni tanto per qualche servizio.

Quando costui suonò alla porta, Claudio stesso andò ad aprirgli, e io vide presentarsi, coi gran naso rosso fra i peli ispidi e grigi della barba, tutto sciamannato, rattoppato e mai  calzato. Al cospetto del signore sconosciuto, si sberrettò esageratamente servile, con la sua aria d'avvinazzato furbo:

— Siete voi Nanni?

— Sissignore — rispose con la bocca piena di saliva — ànno bisogno di qualcosa?

— Si, entrate: c'è d'ammazzare una gallina d'india.

— Vuoi dire una tacchina — corresse il ciabattino trasformandosi in faccia per un sorrisone da orco.

Accorse Guiduccio seguito da Elena, che li guidò al granaio, ove le due bestie stavano impaurite, una emettendo brevi accenti queruli, l'altra spingendo innanzi e ritraendo il capo sul lungo collo quasi rettilineo.

Designata quella che si doveva ammazzare, Nanni si cavò la giacca, si rimboccò le maniche, e domandò un coltello che arrotò alla meglio sulla selce dello sciacquatoio della cucina. Indi prese la bestia e, legatole il becco, la diede a tenere per le zampe a Venezia, mentre egli la teneva per il collo fra le ginocchia e si tirava innanzi un tegamino di creta per raccogliervi il sangue. La tacchina, dopo aver gemuto ed essersi dibattuta fra le mani di coloro che intuiva essere i suoi carnefici, si quietò un poco, lasciando fare; ma la sua compagna che l'aveva vista così afferrare, s'era andata a rintanare in un angolo, tra la parete e la cassa della spazzatura, gridando disperatamente.

Quando Nanni diede il primo colpo di coltello alla pappagorgia della vittima, questa ebbe un sussulto vivissimo, e con una stratta furibonda, si divincolò dalle mani e dalle ginocchia che l'immobilizzavano fuggendo con alti gemiti nel becco chiuso. L'altra, a vedersela passare dinanzi rapida, le corse dietro con urli che parevano di bambino, e si volsero entrambe così, starnazzando e lasciando dietro una scia di sangue, verso la porta dinanzi alla quale stavano Elena, Guiduccio e Claudio. Elena diede un grido di terrore e si tirò indietro col bimbo impaurito attaccato alle sue gonnelle: e le due tacchine, prima che Nanni, colto all'improvviso potesse afferrarle, si avventarono a le gambe di Claudio per trovarsi un passaggio. Egli non seppe, talmente fuori di sé, che tirare un calcio contro quella furia di penne insanguinate; al colpo, la bestia ferita stramazzò; sì che Nanni poté riafferrarla. L'altra corse ancora attorno un pezzo, schiamazzando, finché andò a rincantucciarsi nuovamente al posto di prima. Claudio coi calzoni e le scarpe macchiati dal sangue spruzzatogli addosso dalla moritura, si recò in sala da pranzo ove Elena glie li pulì alla meglio con una pezzuola umida. Ella era pallida e commossa; Guiduccio sbarrava gli occhi non riuscendo a profferir sillaba e Claudio si sentì eccitato, inspiegabilmente: lo spettacolo di quella bestia che non voleva morire, di quel sangue, il calcio che egli aveva dato, gli destavano un senso di rimorso, che pure egli comprendeva essere esagerato, trattandosi di un animale fatto apposta per essere ucciso.
Elena dovette andare di nuovo in cucina per bagnare la pezzuola e ne tornò agitatissima esclamando:

— Che cretino! Che animale, quel Nanni! Avrei dovuto immaginarlo!

E, nel ripulire i calzoni di Claudio, gli aveva posto una gamba su una sedia, vicino al tavolo, su cui stava il lume, ella rialzava ogni tanto il capo lasciando di strofinare per dirgli che Nanni non aveva saputo ammazzare la tacchina, che il coltello non tagliava, che la bestia era tuttavia semiviva e quel tanghero del diavolo la faceva soffrire.

Claudio, pentito del calcio dato all'innocente animale, attratto dal bisogno di vedere, ritornò nel granaio donde venivano le strida della seconda tacchina più disperate di prima. E affacciandosi, scorse la bestia viva che si contorceva sul suolo, come in convulsioni, gemendo e chiamando con appelli strazianti la compagna, il cui corpo stretto fra le gambe del ciabattino sussultava ancora e la testa si dondolava ogni tanto fra le mani di Nanni che ne spremeva il sangue da la pappagorgia aperta. La lucerna deposta al suolo, illuminando la scena, metteva un riflesso sinistro nel tegamino colmo di grumi rossi, e lasciava all'ombra delle spalle del vecchio, Venezia, la quale teneva sempre imprigionate le zampe della tacchina. 

Nanni, senza voltarsi, tutto intento al suo ufficio, scacciando ogni tanto con un gesto vivace la tacchina spasimante dinanzi alla compagna straziata, illuminato di sbieco nel viso chino dalla luce fioca della lucernetta, borbottava con la bocca piena di saliva:

— Hanno la vita dura queste bestie... hanno la vita dura!

Claudio ebbe la sensazione di una sofferenza terribile. Per un momento sentì come se quell'animale svenato fosse una parte di se stesso; sentì in sé quella mano spremere il sangue rosso da una vena recisa. Una vertigine interna gli annebbiò la coscienza e udì ad un tratto una voce, la sua stessa voce, ma mutata, rauca, che non pareva più sua, esclamare con impeto:

— Canaglia! È un'infamia. lo spremerei così a te tutto il sangue dal tuo collo...

S'accorse che tutti si volgevano a guardarlo attoniti: Nanni si interrompeva alzandosi quasi spaurito, e sentì ancora la sua voce urlare, mentre un fremito lo assaliva per tutte le membra:

— Il sangue !... Il sangue terribile !... E una creatura viva...

Altre parole che non comprese egli profferì, poi ogni sentimento in lui si annebbiò di più, tanto che si sentì mancare la terra sotto i piedi, come se il pavimento della stanza volteggiasse vorticosamente...

Quando riprese i sensi si ritrovò in una poltrona nella camera di Elena... la quale gli stava accanto china sui viso, con una boccetta in mano. Dinanzi si vide Fabio, col cappello in capo e il tabarro indosso, il sigaro tra le dita, e Guiduccio attaccato a lui, Venezia reggeva un lume. Aprendo gli occhi, li vide tutti a un tratto come allo schiudersi d'un velario, e, da prima, gli parvero lontanissimi: notò specialmente gli occhi spalancati del bimbo e l'anello d'oro luccicante all'anulare di Fabio.

— Ti sei rimesso? gli domandò la voce ansimante di Elena.

Egli si raccapezzò, si sentì umiliato, ebbe vergogna della sua debolezza da femminuccia, fece un riso breve, e si alzò.

— Vi sarò parso un bambino!

— Se io avessi immaginato questo! — disse Elena con rammarico.

I visi a poco si spianarono. Fabio spiegò che son molti coloro che soffrono a simili scene.
Ma più tardi Claudio, rincasato, trovando un'altra volta sul letto Nerone, il bel gatto nero da gli occhi allucinanti, chiamò lo zio Francesco perché se lo portasse via. E la notte non dormì, ripensando a sua madre che certo aveva avuto un amante e vide tra le varie figurazioni di questo pensiero enormi occhi lucenti dilatati, e sangue, fiumi di sangue, che gorgogliavano nella voce dell'Arno scorrente sotto la sua finestra...

 
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