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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

XV.

Ma il pensiero ritornò nell'anima di Claudio, insistente, terribile, ossessionante. Egli aveva un bel tentare di scacciarlo, di rimproverarsene nei momenti rari di tranquillità: sentiva che non avrebbe potuto più vivere in quello stato. Era come se in lui qualche cosa si sfasciasse e pensava con rammarico immenso alla cosa nuova e bella senza nome che aveva desiderato pel suo avvenire, il giorno ch'era stato a Santa Maria della Spina, e di cui il suo amore per Elena non poteva dirsi che un pallido cominciamento.

Cosa nuova e tremenda, era questo sospetto, sorto dal niente, reso a poco a poco più saldo dalle sue continue fantasticherie. Una volta poi il suo sospetto prese forme più certe ricollegandolo a quel ricordo della sua infanzia, quando aveva udito a traverso un uscio la sommessa e acerba contesa tra sua madre e suo padre. Costui, certo, aveva capito qualche cosa a carico della moglie, e glielo rinfacciava quel giorno.

La sua mente riandava ai particolari della sua tresca con Elena e il dubbio angoscioso rivestiva, nelle fantasticaggini, la cugina dell'immagine della morta e sentiva allora quasi un pugno di ferro stringergli il cuore.

Però, vicino a Elena, il piacere stravinceva sempre qualunque sentimento; bastava ch'ella lo baciasse per obliare, per non credere e per non pensare.

Forse, se Elena fosse stata sempre così egli non avrebbe avuto mai momenti di stanchezza e di disgusto, non l'avrebbe considerata mai come una creatura banale.

Fabio, sempre, gli destava la più grande avversione, la quale però era, strano, temperata da certi moti di pietà, di compassione profonda, quando Claudio pensava a lui e al suo stato, ma da lontano: perché quando lo aveva dinanzi, bastava a renderlo spietato nell'odio. Un giorno che Fabio lo guardò acutamente al momento che egli salutava Elena, fissandolo negli occhi, Claudio pensò che quell'uomo avesse tutto capito e che volesse fargli del male. E allora, rimuginando timori e propositi nella sua mente gli parve che il marito di sua cugina dovesse una volta o l'altra assalirlo a tradimento per fargli violenza, magari per ucciderlo. Egli allora lo avrebbe respinto con tutte le sue forze, gli sarebbe saltato addosso, si sarebbero dibattuti, lo avrebbe stretto al collo fino a fargli uscire da una vena, spremendolo tutto, il sangue come aveva visto fare a Nanni colla gallina. E in questi pensieri si eccitava talmente da contrarre i muscoli e digrignare i denti quasi si trovasse già in quella lotta immaginaria. 

La mattina del ventotto dicembre Claudio recatosi in casa della cugina trovò Guiduccio a letto colla febbre: Fabio non era ancora andato all'ufficio e, tenendo le mani in tasca e il sigaro spento fra i denti stava ritto a piè del letto, fissando il figliuolo con un'espressione un po' preoccupata negli occhi di pesce morto. Elena introducendo il cugino gli veniva dicendo:

— Ma sì, sarà nulla! Il bimbo conosce tutte le malizie. A me non pare che abbia la febbre: Farà apposta per non andare a scuola, che te ne pare?

Claudio s'era appressato al lettuccio, ove il fanciullo stava rannicchiato tacitamente, accesissimo in viso, volgendo di volta in volta gli occhi su chi parlava. Quando Claudio, introducendo le mani sotto le coltri gli mise fuori un braccio per tastargli il polso, egli lo secondò dolcemente, fissandolo fra attento e rispettoso. Nei pochi istanti che seguirono, lo sguardo stupidamente timoroso di Fabio e quello ansioso di Elena stettero posati su Claudio che guardando la parete di rimpetto, un poco rivolto su l'origliere del bimbo sentiva fra le dita le pulsazioni delicate di quel braccino.

Un momento egli si obliò, non sentì più nulla pensando che quel piccolo essere poteva morire come era morta sua madre. poiché anche i bimbi si possono spegnere così teneri e innocenti allo spezzarsi di un filo, di quel filo che è tutta la vita: tutta la vita che è amare, soffrire, gioire, straziarsi, sempre per cose vane, quale era per lui!

— Dunque che ti pare? interrogò un po' impaziente la voce di Elena riscuotendolo.

Egli lasciò il braccino del piccino che si raggomitolò di nuovo dando un gran sospiro, e rispose:

— Ha realmente la febbre! — e intanto pensava all'atto di Elena nel coglier l'oleandro quando l'aveva così vista simile a sua madre e appariva preoccupatissima.

Marito e moglie si guardarono, con un simultaneo impallidimento, poi gli occhi della madre passarono sul figliuolo.

— Bisognerà chiamare un medico — osservò Fabio, con la voce gonfia di commozione sibilante fra i denti che serravano la punta del sigaro.

— Vedi, vedi lo rimproverò a voce bassa e persuasiva accomodandogli sotto il mento la rimboccatura delle lenzuola — la gola! la gola, se tu m'avessi obbedita ieri e non avessi fatta quella scorpacciata di frutta!

S'udirono pel corridoio appressarsi i passi strascicati di Kate che entrò colla lingua fra le labbra, s'approssimò al lettuccio, stette un momento in silenzio, voltando il capo qua e là, finché rivolta a Claudio le chiare indi fisse sulla sua cravatta stridette:

— Come sta Guiduccio?

— Ha la febbre — rispose Elena guardando Guiduccio che pur così muto sembrava lusingato d'esser l'oggetto di tante attenzioni.

Kate si volse allora verso il punto da cui la voce era partita. Fece un mugolio, guardò di nuovo la cravatta di Claudio, sporse il viso appressandolo alla faccia di lui per distinguerlo meglio, mugolò di nuovo e restò, mano in mano, lì ferma.

Elena intanto, vedendo che Fabio rimaneva immobile, tutto costernato in faccia, gli diceva concitata:

— Ma su muoviti dunque! Se abbiamo da chiamare questo medico! Vuoi che venga qui da sé!... Sbrigati... Muoviti...

Egli andò a prendere il cappello. Elena domandò a Claudio che le si era seduto di fronte:

— Credi che sia grave?

Claudio si scosse: la sua mente era dietro l'immagine di Fernando Guacci, il compare di sua madre.

— No... Speriamo...

— Sarà indigestione, dico io, perché ieri ha mangiato tanta di quella frutta. Che hai?

— Eh? niente!...

Kate s'era appressata al tavolino, cercandovi qualcosa tastoni; poi uscì. Fabio ritornò, pronto ad uscire: guardò suo figlio, guardò Elena.

— Vado dal Donnini — disse.

— Va, va purché ti spicci.

Il marito fece per andarsene; ma sull'uscio si fermò; si volse dì nuovo a guardare il piccino.

— Come ti senti? Eh?

Guido fece spallucce e non disse nulla. Fabio uscì dalla stanza.

Dopo che egli se ne fu andato Kate ritornò per dir forte:

— Pisogna chiamar un metico — ma poiché nessuno le rispondeva, se ne ritornò via  brontolando.

Il medico, un vecchietto grasso da gli occhiali d'oro, paterno ed affabile nei modi, osservato il malatino, prescrisse un purgante:

— E' necessario pulire gli intestini... capiranno... Sono il focolare delle infezioni. Nulla... si tratta di magnesia e di cremortartaro: una bibita gustosissima. Goloso il signorino; sbaglio eh! ah! ci terremo a dieta, dieta: per oggi, un po' di brodo e basta... Sicuro, nient'altro. Va bene!

Ma dopo tre giorni l'infezione si manifestava, con tutte le sue poco rassicuranti caratteristiche.

— Eh; eh; tumore di milza — gracchiò il medico — suderemo... suderemo... è necessario. Va bene? Dieta, sempre dieta... Qualche pillola di salicilato, latte bollito e basta... Curiamoci.

Il primo settenario trascorse. Fabio nelle ore che passava in casa sempre con le mani in tasca, girava muto e istupidito per le stanze finché veniva a fermarsi dinanzi al figliuolo di già emaciato ed acceso stranamente nelle pupille. La notte non si concava mai: ed il sonno lo sorprendeva ogni tanto sulla sedia con lo scaldino in grembo, facendogli cadere il sigaro spento dalla bocca e svegliandolo di soprassalto a gli scrolloni bruschi del capo che gli si abbandonava sul collo magro.

Il giorno seguente a l'Epifania il piccino stava malissimo. Il medico venuto la mattina alla otto, aveva fatto un cenno espressivo e poco confortante con la bocca: andando via aveva chiamato Claudio in disparte per dirgli, assai riserbato e compunto, che se fra il domani e doman l'altro non si fosse manifestato un sensibile miglioramento, nelle condizioni depresse del piccolo ammalato, il caso poteva divenir disperato...

— Va bene!

Fabio non era andato alla Banca e stava a piè del lettuccio, il suo posto favorito, le mani in tasca ma senza sigaro in bocca, scosso nel mento da un tremito visibilissimo. Ogni tanto si muoveva, girava per la camera, usciva, andava in cucina a dare un'occhiata al latte che bolliva, macchinalmente, e ritornava al posto di prima. Se gettava uno sguardo sulla moglie, la scorgeva, seduta al capezzale dell'infermo, le mani in grembo serrando un fazzoletto, lo sguardo perduto nel vuoto, penosissima, emettendo ogni tanto qualche sospiro e volgendo il capo di qua e di là.

Il malatino non aveva parole. Il respiro sibilante e affrettato gli affaticava il petto che gonfiava ed abbassava le coltri col ritmo dell'anelito irregolare. Ogni tanto i suoi occhi brillanti del fuoco febbrile, avevano un'espressione tenera e la bocca socchiusa balbettava:

— Babbo.

E il padre, se gli si avvicinava, finiva sempre sciogliendosi in un pianto silenzioso.

Claudio assisteva quasi perennemente, notte e giorno, a queste scene. Egli si faceva un dovere di prender parte al dolore dei suoi parenti, ed era, si può dire il più attento infermiere del bimbo. Ma l'eccitazione datagli dalla continua insonnia, la tensione nervosa prolungata lo tenevano cupo e tediato. Dopo i primi giorni tutto ciò finì per seccarlo. Lo stare in quella camera chiusa, dinanzi a quel letto ove il corpicino di Guido sotto le coperte, assumeva spesso l'immobilità di un cadavere, lo faceva soffrire indicibilmente e aumentava sino al delirio le sue fantasticaggini più strambe. Egli non poteva, in quei lunghi momenti, che pensare: e pensava infatti, tormentando assiduamente se stesso. Quei due genitori accorati, che di tanto in tanto si asciugavano delle lacrime furtive, non gli facevan pietà: arrivò anzi in qualche momento ad odiare Elena che da tanti giorni non gli dava più un bacio.
Venivano quasi quotidianamente, or l'una or l'altra delle amiche di Elena, a vedere Guiduccio. E il chiaccherìo banale, studiato, di quelle visite era per Claudio nuovo motivo di tedio. Gli pareva tutto artefatto ed innaturale: le parole di quella gente, le risposte dei due genitori, magari le pose del piccolo malato. In costui gli pareva, in qualche momento di vedere se stesso piccino, quando pure aveva avuto una malattia grave, e sua madre lo aveva assistito così come ora faceva Elena. Allora egli, incosciente, non sospettava, non si tormentava di nulla; la madre era una santa per lui: così come ora era Elena per Guiduccio. il bimbo forse sarebbe morto ignorando nella sua innocenza la colpa della madre che mostrava d'amarlo tanto, che piangeva tanto sulle sue sofferenze, ma che pure non aveva pensato a lui quando si era data in braccio all'amante. E questo amante era esso, Claudio: egli aveva concorso alle torture che fra qualche anno farebbero straziare l'animo di Guido: quelle torture stesse che adesso straziavano lui. Oh, ma perché dunque accadevano queste cose? Non sarebbe stato meglio vivere più semplicemente senza tormentarsi mai, senza muoversi mai, senza cambiar mai d'abitudini, senza lasciare la nostra mente aprirsi a i pensieri, a i desideri, ai dubbi?

Vivere senza pensiero: ecco la felicità per Claudio. Ancora una volta, un giorno, un crampo lo strinse al capo e gli parve che fosse la sua stessa mano a scavare nella cavità ossea, scavando in mezzo all'encefalo molle e strappandolo a poco a poco, mentre le unghie stridevano contro le pareti irregolari del cranio.

Una sera, per sottrarsi alla vista del malato e dei genitori, si ritrasse in sala da pranzo, ove Kate sedeva sola smagliettando una calza. Claudio volle provarsi a leggere un giornale; ma ad un tratto un brontolio sordo della vecchia gli fece alzare gli occhi su lei. E la vide eretta, pallida, con gli enormi occhi sbarrati, schizzanti fuor delle orbite, fissi a un punto della stanza ove egli pure guardò, spinto da un lontano terrore senza veder nulla. Kate tremava per tutta la persona, paralizzata, priva di forze.

— No... no... — balbettava. Poi, dalla sua bocca uscirono ad un tratto confuse e cozzanti, tumultuose parole in inglese che egli non comprese ma di cui capi solamente un nome, ripetuto due o tre volte, un nome che era anche quello di sua madre: Maria. Che cosa aveva quella vecchia!? Che cosa vedeva? Attraverso il terrore di lei nei suoi occhi fissi, nel suo viso contratto, egli vide pure, quasi nettamente, qualche cosa di terribile e di disgustoso, una visione tremenda in cui lampeggiavano anche stranamente, come due stelle infernali, gli occhi dilatati del gatto nero di suo zio, e una mano spietata che spremeva sangue da una vena recisa...

Claudio proruppe in un urlo che fece accorrere Elena... Poi tutto passò con un sorriso.

Un giorno Elena, dopo aver dato una cucchiaiata di medicina a suo figlio, forbendogli le labbra pianse. Furono da prima lacrime che le gocciarono da gli occhi gonfi e a poco a poco divennero più spesse, finché eruppero i singhiozzi.

— Dio! Dio !... Creaturina mia... Il Signore non ti deve prendere !... Ci farà morire insieme... Insieme ci farà morire.

Fabio, che aveva aperto la bocca più volte, strozzato dalla commozione, finalmente poté articolare qualche parola:

— Elena, Elena mia...

Ma un singulto gli troncò la frase, e, col viso rigato di lucciconi, se ne andò a piangere altrove.

Kate era presente, ritta, percependo a pena quell'impeto di pianto che non capiva e, avendo chiesto invano a Elena: — Che cosa c'è, che cosa c'è? — rimaneva a guardare il quadro di San Giuseppe che pendeva dalla parete di fronte.

Claudio, comprendendo che toccava a lui consolare, si appressò alla cugina, tentando di calmarla con parole ch'egli stesso sentiva fredde e stupide:

— Via, Elena, non fare così... Che debolezza è cotesta? Non è nulla.., il bimbo guarirà...

Ella, docile, si tolse di là, singhiozzando sempre. Kate sporse la testa per riconoscere Claudio, lo ravvisò ed ebbe il suo mugolio.

— Il mio piccino brucia, brucia, povera creatura!

E alla crisi spasmodica Elena si abbandonò sul cugino, nascondendogli il viso su l'omero, perdutamente.

— Claudio mio,.lo vedi, lo vedi, Claudio mio.

— Taci! sei pazza, le bisbigliò egli concitato, dando tino sguardo sgomento a l'uscio, al bimbo, alla sorda, temendo che tutti potessero sentire, potessero capire.

Kate, discernendoli abbracciati gracidò ridacchiando:

— Pravo! pravo! voi molto pene a sua sorellina!

Essi si lasciarono senza guardare: Claudio sorprese negli occhi di Guiduccio fissi su lui, con uno sguardo che gli parve stranamente profondo. Fu certo che il piccolo malato avesse tutto compreso.

La vecchia si appressò al lettuccio e l'infermo le piantò in volto due occhi insofferenti e malevoli ch'ella non vide.

— Come stai? stai pene?

Guiduccio le tirò un calcio sotto le coltri. Elena si sdraiò su una poltrona, scossa ancora dagli ultimi tremiti del pianto aspettando con fede impaziente il miglioramento che il medico aveva vaticinato, al più tardi, per quel giorno.

Claudio andò dinanzi alla finestra, a guardar fuori. Il suo pensiero vacillava. Il bimbo aveva certamente intuita la colpa passata tra la madre ed il cugino. Che avrebbe fatto ora Claudio? E nella mente gli ronzavano le inconsce parole di Kate che aveva chiamato Elena, sua sorellina.
Ciò gli dava un'angoscia indicibile, perché, infatti, se non proprio sorella Elena era sempre sangue suo... Tante volte egli stesso aveva notato la grande somiglianza di lei con sua madre, la morta. Somiglianza grande ed inesplicabile. Ma, chissà se per un caso tremendo a cui egli non aveva mai posto mente, Elena fosse veramente sua sorella? Se fosse figlia di sua madre? Questo pensiero l'agghiacciò, gli annebbiò la mente, senza ch'egli più osasse insistervi o spiegarselo: non si volle render conto come ciò fosse possibile, come potesse essere accaduto: ma penso che occorreva andare a Napoli, a rivedere suo padre, a indagare in casa sua, presto, senza indugio, per cercar di chiarire quel dubbio. Pensò anche fra tutto questo che quanto avveniva nell'animo suo era sciocco e incomprensibile: torturarsi a tal segno per un pensiero! Ma tant'è, decise di partire il giorno dopo, di nascosto a tutti, a Elena specialmente ora che essa era tutta assorta nella malattia del figlio, il figlio che forse poteva morire domani, con l'assillo dello stesso pensiero della colpa materna...

Nevicava. Nell'aria grigia, spinte ogni tanto da un soffio lieve di vento, le falde candide cadevano vorticando. A traverso a quella discesa di fiocchi bianchi, che a gli occhi pensosi di Claudio pareva un gran velo picchiettato scendente dal cielo ugualissimo e perdentesi nel suolo, s'intravedevano i contorni biancheggianti degli alberi e delle case attorno alla piazza. A poco a poco, nella illusione del suo sguardo, quei fiocchi si confusero, si fecero come una bianchissima muraglia che scese dinanzi a gli occhi fissi del pensiero
A mezzogiorno Guiduccio domandò da bere!

XVI.


Claudio, arrivando a Napoli, trovò suo padre alla stazione, e balzando giù dal vagone fra le braccia di lui, si sciolse in pianto improvviso, un pianto che gli fece tanto bene.

Anche Don Gennaro pianse baciandolo, I viaggiatori che passavano con le valige in mano non si curavano di loro; qualcuno, affrettato, li urtò e li mandò a la malora, un facchino, passando di corsa, gridò in tono di scherno:

— Piove!

Nella carrozzella scoperta che li portava a casa stettero muti quasi per tutto il tragitto, soltanto Don Gennaro parlò due volte.

— A Pisa ti sei divertito?

Claudio rispose con un cenno evasivo; mentre domandava a sé stesso un po' trasognato come mai egli fosse di nuovo veramente a Napoli, e se avesse una ragione di trovarvisi. Poi il padre gli disse:

— Sai, Nennella, la figlia dei portinaio, s'è maritata.

Due o tre volte aprì la bocca per dir qualche cosa, ma le parole gli si arrestarono sempre in gola. Claudio passava per quelle vie rumorose e popolate, trasportato velocemente dal legno rimbalzante sul suolo irregolare; e gli pareva di essere stato assente chissà quanto. Gli parve quasi strano di ritrovare piazza Medina, via Nicola Amore e piazza Municipio così come le aveva lasciate. Più in là, senza vederlo, sentì il mare e dilatò le narici per sentirne l'odore salato, mentre in fondo all'anima lo riassaliva, triste, sconsolata ed immensa, la nostalgia indefinita di cose grandi, di cose degne e belle che avrebbe voluto pel suo avvenire.

Appena la carrozza si fermò dinanzi a casa sua, Claudio sentì nuovamente stringersi il cuore da un nodo di pianto. Dopo aver risposto con un gesto e uno sforzato sorriso ai portinai che lo accoglievano con giovialità terribile, urlando: «oh! Signorino!... ah! Signorino... uh! Signorino!...» montò gli scalini in fretta e baciò Assunta, la vecchia serva di casa, che gli veniva incontro giù per le scale, afflitta nel volto rugoso.

Poi corse nella camera ove Lei era morta, trascinato da un istinto irragionevole, e vi sentì, entrando, un odor di rinchiuso che gli ricordò gli odori misti di quel funestissimo giorno. Dinanzi al lettuccio bianco, rifatto, dalla coltre di seta, che pareva tuttavia pronto a ricevere il corpo della defunta, egli cadde in ginocchio, vi si abbandonò perdutamente e singhiozzò un'altra volta.

Piangeva, guardandosi attorno. L'armadio, il comodino, la specchiera, tutto era allo stesso posto: ella sola mancava. C'erano anche i fiori ch'ella amava, rinnovati ogni tanto dal pensiero gentile d'Assunta; tutto c'era: ella sola mancava. Forse il suo spirito però era presente e sentiva il pianto del marito e del figliolo e s'aggirava, non visto, attorno a loro senza poterli consolare...

E s'ella non fosse morta? Se egli avesse sognato e se quel sogno perdurasse tuttavia? Forse ella era uscita e sarebbe tornata tra poco, con le Cappiello.

Così muto, acquietati i singhiozzi, poggiando il capo su l'origliere di quel lettuccio, vedeva suo padre in piedi dinanzi al comodino sul quale appoggiava i gomiti, nascondendosi il viso nelle pugna, scosso ogni tanto da sussulti.

Ma alla fantasia di Claudio s'affacciò per un momento l'immagine di Fernando Guacci, di colui che poteva essere stato l'amante, e si staccò del letto, torvo.

Per tutto quel giorno, padre e figlio non si scambiarono troppe parole; soltanto Don Gennaro informò Claudio dei suoi divisamenti per l'avvenire, e cioè ch'egli avrebbe abbandonato per fine d'anno il servizio, ma non era deciso ove stabilirsi dopo, se a Napoli o a Pisa. Claudio non propose, non aggiunse nulla.

Il giorno dopo egli volle recarsi al cimitero ove Ella dormiva, per... perché? Non seppe dirselo, ma andò di buon mattino.

La giornata era alquanto ventosa, e sotto il cielo coperto e opprimente, i cipressi svettavano, rabbrividendo per ogni fronda come cose vive. Le erbe alte nel recinto tragico ondeggiavano, si curvavano sotto l'impeto del nemico invisibile, si risollevavano tentennanti nei momenti di sosta, per rovesciarsi ad ogni nuova folata in uno scompiglio frusciante.

Claudio, dopo aver girato un pezzo tra monumenti pomposi e ceppi modesti, giunse alla croce di marmo recante una breve scritta sotto la quale era sepolto il corpo della sua morta. Il luogo era deserto: solo un momento, tra due alte tombe gentilizie, si vide passare il berretto gallonato d'un custode.

Claudio a passi lenti da ipnotizzato, si appressò alla croce:

ALLA BENEDETTA MEMORIA
DI MARIA GIULIANI NATA MASSANO
UNA PRECE

Vi si leggeva.

Un uccello zirlò su un ramo vicino, ma un improvviso soffio di vento lo fece tacere. Claudio cercò con gli occhi la bestiola canora, pensando che potesse essere l'anima della sua morta. Chissà... ella era là, a due passi da lui: forse proprio lì sotto i suoi piedi, arrivava un estremità di quella bara di cui si rammentava in ogni particolare. Sì, rammentava. Dunque non era possibile ch'egli si ingannasse, che cercasse ingannarsi, che volesse credere d'aver fatto un lungo, lunghissimo sogno. Ma allora che cos'era quello stordimento strano, lieve lieve, ch'egli si sentiva nella coscienza, sì che i suoi stessi pensieri gli sembravano come lontani da lui, come non suoi, benchè spessi e tumultuanti?

...NATA MASSANO - UNA PRECE

Egli rilesse varie volte quest'ultimo rigo di caratteri neri, allungati, tetri. Era vero! era vero! La terra che i suoi piedi premevano era terra di morti, terra della morta. Ella non era più, e il passato era incancellabile, ancora torbidamente gravido di ignote conseguenze per lui. Non c'era nulla di non accaduto: la malattia, la morte dell'amatissima, la partenza per Pisa, Elena, l'amore, l'adulterio, la prossima nascita di un figlio, la malattia di Guiduccio, anche la sua visita a le tre zitellone aveva avuto luogo, e la visita a Santa Maria della Spina, quella chiesa ove aveva sentito il principio di una nuova vita che aveva creduta piena di gioie mentr'era intessuta di soli affanni; e il sospetto, e la ricerca disgustosa Quel sospetto! Ma sua madre, la buona, la devota, la santa, che s'era sacrificata per lui durante la sua infanzia malaticcia, e che una volta aveva pianto tanto durante una lunga tempesta, temendo per la vita del marito viaggiante lontano, poteva essere la donna adultera ch'egli aveva sospettato?!

Oh, come e perché questo pensiero che un altro avrebbe subito discacciato, aveva preso talmente ferme radici in lui? Se fosse un presentimento strano e terribile? Se fosse soltanto un bisogno che lo spingeva ad assicurarsi che nel mondo fatto di menzogne e di tradimenti, ella sola, l'adorata, si fosse mantenuta pura?

NATA MASSANO - UNA PRECE

Ah, bisognava uscire da quell'incertezza angosciosa. Ricordò che spesso, quando la madre viveva, egli l'aveva vista riporre nell'armadio della propria camera delle lettere, delle carte ove conservava tutte le piccole cose della sua semplice vita intima. E decise di cercare tra quelle una qualche cosa che lo illuminasse, che estinguesse alfine questo stupido e odioso dubbio nato da nulla.

Quel giorno stesso, ritornando a casa, trovò una lettera di Elena che gli rimproverava violentemente la sua partenza clandestina, quella inesplicabile fuga. Le parole bruciavano. Egli la immaginò nell'atto di dirgli quelle stesse parole e ne rivide i grandi occhi, illanguiditi dalla voluttà.

— Elena... Elena !... — ah; no, non poteva starne lontano. 

Occorreva ormai quetare lo spirito, convincersi che la madre era pur sempre degna d'ogni venerazione, e così con l'anima in pace ritornare a Elena, e, presso di lei, amare, tentare di vivere quella vita indefinibilmente gaudiosa ch'egli desiderava. Sì, Elena non era buona; se n'era accorto e convinto ormai: vana, egoista, magari pettegola, ma che importava? Era la sua gioia. Avendola tra le braccia egli l'aveva trovata sempre divina.

La sera uscì di nuovo camminando senza mèta, agitato da immagini e da concupiscenze lussuriose. In una via solitaria una donnetta che lo precedeva lo tentò, e allora la seguì, passo passo. Ella avendolo squadrato con la coda dell'occhio, se lo tirò dietro fino a uno stambugio al quarto piano d'una casetta di via Nardones. Uscitone dopo mezz' ora si sentì penetrato da uno scoramento e da una stanchezza infinita. La nausea lo stringeva alla gola, e gli pareva che lo perseguitasse il lezzo di quella casa, l'odore acre dei baci di cento uomini che avevano lasciato su le carni flaccide di quella creatura.

Fatti pochi passi per Toledo s'imbatté in Peppino Capuano, che gli aprì le braccia con un «Oh, ti rivedo!» di gradevole sorpresa.

Costui lo stordì con un mondo di ciarle e lo condusse verso Santa Lucia, senza notare la sua cera insolita e il suo mutismo, ma facendo sempre lui le spese del dialogo. E prese a narrargli tutto quel ch'era accaduto a Napoli, nei cinque mesi ch'egli n'era stato lontano.

— Mary, ti ricordi ?... L'ho rivista in ottobre; cantava al Salone Margherita! Spillò un sacco di denari a quel collegiale del Cacciapuoti !... ti ricordi Cacciapuoti ?...

Claudio l'ascoltava, camminando al suo fianco, e così arrivarono alfine a Santa Lucia, sotto uno stellato magnifico in cui rideva il marzo imminente. Da le taverne illuminate giungevano grida e canti e suoni di chitarra e di mandolino, che si mescolavano nell'aria, ove pareva fluttuasse una nostalgica onda di sogno, che metteva tra quella orgiastica festevolezza, come una nota lenta di melanconia.

Un organetto di Barberia gemeva querulo là giù nel buio, a tratti fra tanto frastuono, timidamente, quasi la sua modesta voce cogliesse solo le pause della generale prepotente gaiezza per essere udita.

Giunse un canto accorato, un bel canto d'uomo, un momento, simile a un lembo di melodia passante fuggevole sotto le stelle come una nuvola bianca:

O' core e' tutte e' femmene
è fatto a mantice, Margarite'...

E tutto ciò era sì dolce e sì immenso che soverchiava l'animo di Claudio, facendogli pensare che il dolore è vano, che la gioia è vana, e che una cosa sola è vera e bella: la malinconia senza perché, la malinconia che dimentica tutto della vita e si assorbe i desideri senza forme e senza scopo.

— La contessa, figurati — diceva Peppino Capuano camminandogli a lato — ebbe allora il coraggio di andarlo a cercare una bella mattina fino in piazza d' Armi...

Ma Claudio non udiva più la monotona voce cicalante al suo orecchio. Pensava con insistenza a quel vespero autunnale in cui aveva visto nel cielo violaceo palpitare una stella attraverso le ampie invetriate di Santa Maria della Spina. Pensava che forse sarebbe stato meglio restare per lui bambino, eternamente bambino, dall'anima tenera e rosea, restare quale era stato fino a poco tempo dopo la morte di sua madre. Sua madre lo aveva tenuto sempre sotto il suo occhio vigilante, curando di evitargli ogni emozione nuova, ogni dolore ed ogni gioia violenta; in una vita calma ed eguale, fatta di studi leggeri, di piccoli piaceri famigliari. Ella che lo aveva amato più d'ogni altro, forse capiva che doveva essere questa la vita per lui. E pensando così Claudio non afferrava che di tratto in tratto, il senso delle parole del suo loquace compagno, a cui in certi momenti si sforzava di interessarsi, mentre s'indugiava a contare mentalmente le fiammelle rossastre dei fanali che gli passavano dinanzi riflettendo una lunga striscia di luce sul lastrico umido dei marciapiedi. Udiva pure lo sciabordio lento del mare, sulla ghiaia del lido.

Si fermò un momento, volgendo lo sguardo al mare, sepolto lontano dalla tenebra costellata qua e là di punti luminosi di qualche battello; su le onde gemeva il grecale. Capuano, spintosi innanzi di altri due passi, si voltò di fianco, fermandosi anche lui.

— Che accade allora? Un pasticcio: il fratello manda i padrini.., il marito manda i padrini, il primo amante va a schiaffeggiare il rivale fortunato e invece piglia lui gli schiaffi...

Claudio sbarrava le pupille, come a vedere oltre il buio pesto. Guardò il lume lontanissimo del faro che singhiozzava tra le stelle, lo guardò a lungo, tanto che nella fissità dello sguardo non lo vide più. Il mare borbottava sommesso sul greto, come narrando una qualche storia tenebrosa; ogni tanto s'interrompeva, e subito dopo il borbottio si riudiva più lontano, e poi più lontano ancora pari ad un'eco, quasi volesse ripetere il suo racconto a tutte le selci e i frantumi della spiaggia: e le selci qualche volta gli rispondevano a coro con un acciottolio sghignazzante; a un tratto però gli orli candidi di due o tre ondate biancheggiavano e scrosciavano correndo sulla superficie nerastra e venivano a cozzare contro il lido, troncando le confidenze con un rombo sonoro che si estingueva in un cigolio, simile a quello del fuoco su cui si versi del l'acqua. E i ciottoli allora ribollivano, flagellati, sghignazzando più forte.
Claudio, guardando ed ascoltando intensamente, sentì a un tratto i rumori confondersi e gli parve di vedere lo stellato alto ritirarsi e i fuochi che punteggiavano la tenebra marina ritrarsi e tutto allontanarsi da lui isolandolo. Si voltò verso il compagno, barcollando, e vide anche costui rinculate parlando a voce sempre più bassa che alfine si tacque... e attorno a sé non percepì più che un'oscillare di ombre e un confuso ronzio. Allora diede un grido... Due braccia lo sorressero... Per qualche momento rimase inerte sentendo solo un odio profondo contro qualcuno, non sapeva chi, che gli faceva del male.

Si riscosse alfine, vedendosi accanto il viso inquieto dell'amico, il quale gli domandava:

— Che hai, Claudio? stai male?

E allora comprendendo qualche cosa di inspiegabile, terribile, con uno sgomento disperato egli udì la propria voce di fanciullo impaurito esclamare:

— E' la notte, la notte... Ma che cosa dunque mi avviene?...

XVII.

Due giorni dopo non ricordava più questa sua debolezza momentanea, e ritornava come prima.
Ritornava come prima, a pensare a sua madre, al suo divisamento di cercare, di appurare qualche cosa che gli desse la certezza affermativa o negativa, quale si fosse, ma che gli pareva dovesse sempre essere una liberazione.

Un giorno suo padre era uscito, contro l'usato, solo, per andare a fare le provviste giornaliere; nei giorni precedenti egli era andato sempre col figlio, per vederselo accanto e per goderne quanto più fosse possibile; ma questa volta Claudio aveva accusato una lieve indisposizione.
Solo in casa con la vecchia Assunta che accudiva a certe pulizie in cucina, egli restò lunga pezza immobile, palpitando, preparandosi ad un fatto grave. Fuori rombava un gran vento che faceva impeto a le invetriate e mugolava a traverso le fessure de le porte e de le imposte. A intervalli giungevano i rumori della città. Si udiva soltanto nella casa un gran strofinio di rena contro gli utensili di metallo, a cui Assunta intercalava ogni tanto un affrettato strascinar di ciabatte.

Claudio si diresse verso la stanza della morta, chiudendosi dietro a chiave tutti gli usci per timore che lo sorprendessero: non voleva essere veduto da alcuno e procurava di fare quanto meno rumore era possibile.

Su la soglia di quella camera si fermò un istante, indeciso, e sentendosi mancare un po' l'anima per un oscuro senso di ribrezzo, dinanzi al buio in cui la stanza dormiva. Si vedeva luccicare nell'ombra un pezzo di specchio sul quale la poca luce diffusa si racchiudeva, e biancheggiare distintamente, simile a vapori, il letto e le cortine. Una raffica di vento fece oscillare più forte i vetri, squassò qualcosa sul tetto con uno strepito indiavolato. Ne la voce del vento ululavano mille cani, lontani, vicini, sinistri, in tono di malaugurio. Egli entrò a tastoni nell'ombra e giunse ad aprire le imposte, dando varco a la luce.

Claudio guardò ad uno ad uno quegli oggetti inerti, nella loro immobilità e nel loro mutismo, fra la gran rabbia che schiamazzava fuori, non gli parvero naturali. Per un istante temette che essi vivessero e assumessero quell'immobilità tacita per vigilare attentamente su lui.

Guardando così, non scorse più il piccolo mazzo di chiavi, tutte le chiavi di lei, sul comodino ove ricordava che erano rimaste dopo la sua morte e dove, fino al giorno prima di partire per Pisa, egli le aveva lasciate. Le vide invece pendere da la serratura dell'armadio, che qualcuno, suo padre o Assunta, aveva certamente aperto durante la sua assenza, trascurando di rimetterle dopo al suo posto.

Nel piccolo cassetto a destra di quell'armadio, egli lo ricordava, sua madre conservava le lettere e le carte. Claudio aprì lo sportello; ma al cigolio dei cardini volse un subito sguardo a l'uscio per tema che qualche essere immaginario avesse sentito e vi si affacciasse.

Pareva un ladro.

Anche il tiretto era aperto, egli non ebbe che a tirarlo a sé. Ma non trovò, come ricordava di aver visto qualche volta, lettere e carte ordinate in pacchetti, legati da nastrini rossi o cilestri; le lettere erano tutte rimescolate, a la rinfusa, frammiste a i nastrini stracciati e sgualciti. Perché ciò?

Cominciò a scorrere quelle lettere; ne trovò molte di suo padre: carte ingiallite, inchiostri sbiaditi, bolli postali d'ogni paese, che rimontavano fino a trent'anni innanzi. Vide fra gli altri un francobollo cinese che in altri tempi avrebbe attratto la sua attenzione.

Non volle leggere nulla di quello che quel caro uomo le aveva scritto, del quale aveva dubitato essere figlio. Solo, senza volerlo, scorse alcune righe di un foglio privo di custodia:
«e vorrei che tu fossi qui con me, nascosta nella mia cabina deserta, ove, entrando ogni volta, io m'illudo di poterti trovare, e vi grido, senza udirlo, il tuo nome quando la tempesta mi assorda... »

Sì, l'aveva amata molto quell'uomo appassionatissimo, nella sua sensibilità primitiva, nel suo romanticismo da marinaio. Ma ella aveva finto? lo aveva amato?

Altre lettere trovò: la corrispondenza delle amiche, dei parenti, lettere banali di convenienza, sgrammaticate, insulse, volgari, affettuose, superficiali: tutta la corrispondenza d'una donna del medio ceto, insomma, che non frequenta troppo il mondo, che non ha troppe relazioni e non coltiva troppo quelle che ha. Vi trovò pure sei o sette lettere dello zio Francesco e otto o dieci di Elena.

Queste ultime lo interessarono di più. Elena aveva scritto in epoche diverse, a lunghi intervalli: la prima era vecchia di sedici anni, e l'ultima di quattro soltanto; quella annunciava la prima comunione, questa l'infelicità del matrimonio. Le lettere di zio Francesco trattavano argomenti vari ma specialmente d'interessi economici. Claudio notò che tutte cominciavano:
«Cara sorella» e finivano: «il tuo aff.mo fratello».

Egli stava per riporle tutto pentito della bassa indiscrezione, peggio del vile spionaggio commesso contro la morta, quando gli cadde sott'occhio una busta vuota, su cui l'indirizzo di sua madre era vergato da una calligrafia maschile, allungata, elegante, che egli non conosceva. La guardò, la studiò attentamente. Chi aveva scritto? Cercò tra il disordine di quelle carte il contenuto di quella busta, ma inutilmente. Chi l'aveva preso?

Un pensiero l'assalì. Ricordò il diverbio a bassa voce tra suo padre e sua madre, che egli, piccino, aveva tentato invano di ascoltare dietro l'uscio... Suo padre, forse, temeva, sapeva qualche cosa contro la moglie? Durante l'assenza del figlio, certo, egli era venuto in quella camera a frugare anche lui tra le carte della morta per sciogliere un dubbio, per trovare una verità. Ricordò anche quella stessa frase di una lettera paterna che pochi mesi prima aveva ricevuto a Pisa: «Troppa pena mi rimane nella mia anima che da nessuna fede, da nessuna speranza potrà mai essere consolata. E questa pena non è la sua sparizione solamente, ma anche la fine della tranquillità sa tante cose che la sua presenza, e le sue parole sapevano darmi».

Si stupì di ricordarla tanto nettamente. Era chiaro, anche suo padre, dunque, prima di lui, aveva avuto un sospetto, un timore, che ella, la moglie, era riuscita a fargli credere falso. Sapeva parlare così bene, convincere così bene, lei! E, torturato alfine dal dubbio, rinato dopo che ella era morta, il povero marito aveva cercato di sapere completamente; e perciò aveva ricorso allo stesso metodo di lui; ecco perché l'armadio e il tiretto erano aperti, le lettere in disordine, quella busta vuota.

Ma di chi era quella lettera? Di chi aveva sospettato suo padre? Questo, Claudio voleva sapere.

Volle allora con rabbia leggere tutte le lettere di suo padre, sperando di trovare in queste un indizio. E lesse, lesse, lesse saltuariamente, tutte, con foga. Molte ne mancavano, di certo, perché tra alcune correva un divario di parecchi mesi; e forse sarebbero state queste le più luminose. Una però, ne lesse, di vent' anni innanzi, che cominciava così: «Sta bene, ti credo. Ma rimane sempre immutata la mia avversione per quell'uomo e la vecchia inglese che mi ha tutta l'aria di una mezzana». E nient'altro; ma fu un lampo.

L'inglese era lei, Kate, la prozia di Elena, la vecchia sorda e cieca per la quale pure lui, dopo suo padre, aveva sentito fin dal primo vederla un'avversione istintiva profonda. Gli parve a lungo, restando così attonito, fulminato, di vedere innanzi a sé, occhi enormi, dilatantisi in cerchi concentrici simili a quelli d'un bersaglio da fiera. Ecco la luce finalmente, e tremenda, quale egli aveva voluta!

Rilesse quelle parole, dieci venti volte ancora. La sua mente vacillava. Ma no, ma no, ciò non chiariva nulla. Era ancora il sospetto non una certezza. La certezza gli poteva essere solo data da suo padre o, meglio ancora da lei, da la vecchia. Macchinalmente frugò ancora, rilesse febbrilmente tutte le lettere che aveva appena scorso con gli occhi, senza tralasciare una parola, senza lasciarsi sfuggire una virgola; appuntamenti, descrizione d'abiti, piccoli pettegolezzi, inviti, banalità sempre, un'altra volta banalità stupide.

Rovesciò sul suolo il contenuto del cassetto, mise sossopra tutto l'armadio, trovò altri fogli; conti di modiste, di sarte, di spese caserecce, qualche polizza del lotto. E nella ricerca affannosa gli pareva di non essere più lui, ma suo padre, che certamente aveva pure fatto così.
Ad un tratto il suo sguardo cadde sullo specchio nel quale si ravvisò pallido, contraffatto, e si fermò interdetto a guardarsi, parendogli forse di trovarsi in presenza di un estraneo. Era lui, quello, lui. E che cos'era questo lui!? Un essere, una creatura esistente, che pensava in quel modo maledetto... Gli fece un effetto strano il sorprendersi a vivere, a essere quello, e lo prese, come già un'altra volta, la vertigine interiore. Poi si guardò paurosamente attorno, sentì le voci della strada, sentì il gran silenzio freddo della camera turbato soltanto dal suo frugare scomposto, ed ebbe coscienza del male commesso, coscienza d'aver violato un sepolcro.

Udì il campanello della porta tintinnare, qualcuno veniva in casa sua. Rimise a posto ogni cosa precipitosamente, non curando nemmeno di prendere quella lettera accusatrice, perché il breve periodo gli era rimasto impresso nella memoria. Uscì e s'incontrò in anticamera con Assunta, la quale gli veniva ad annunciare la visita di Peppino Capuano e di Nicola Sanchez.
Costoro, festevolmente, gli proposero di andare a far quattro passi in via Caracciolo, e se lo trassero dietro.

Il vento era cessato. Tramontava. Claudio passeggiò un pezzo coi due amici, sforzandosi d'apparir tranquillo, finché seccato da quella loquace compagnia, li salutò accusando la vicina ora del pranzo.

Egli prese la via del ritorno, lentamente sotto il crepuscolo che illividiva il cielo, dal quale cominciavano a sgorgare ad una ad una le stelle più fulgide, tremolanti ed incerte, così annegate ancora nel barlume estremo del giorno.

Claudio guardò Espero che palpitava suI suo capo, chiara e lucente, simile ad un cuore d'oro, no, anzi ad un occhio, l'occhio di qualche anima che lo rimirasse, sua madre. Sua madre! No, non poteva essere lei, poiché egli non l'amava più quanto prima, ed era anzi assalito da tanti dubbi a suo riguardo. Ella, sapendosi colpevole, non poteva guardarlo. E se fosse di Elena quell'occhio? Elena lo desiderava tanto; l'ultima sua lettera vibrante di passione lo invocava disperatamente:

«Vieni, vieni! lo sento che ogni giorno qualche cosa in me si perde, muore: tutti i baci che potrei darti e che la tua bocca non può accogliere!». No, ma non era vero: non era, non poteva essere amore quello di Elena, l'egoismo, la forma più appassionata del suo più prepotente egoismo.

Ella non l'amava; perché poteva amarlo? Chi poteva amarlo? L'amore, egli si diceva, è un sentimento subbiettivo che noi riponiamo in un oggetto fuori di noi solo perché in esso troviamo qualche cosa che ci dà piacere. Forse lo aveva amato sua madre... ma no, neppure lei: una volta ella lo aveva picchiato perché le aveva accidentalmente gualcito una gonna di seta. Suo padre? No, suo padre non poteva amarlo perché dubitava, forse, che egli fosse suo figlio. Gli amici? Oh, gli amici! tutta una relazione superficiale, passeggera: parole, qualche favore reciproco; passatempi assieme, conquiste di cocottes... che cosa era lui per tutta questa gente ?...

Lo scossero alcune parole d'un dialogo colto in aria, fra due persone che gli camminavano dietro:

— ...Non è facile, sapete?

— lo ci conto molto, procurerò di parlare col ministro in persona, perché capite, mi tocca di diritto: sono un benemerito, ho tre medaglie, sono stato ferito al Volturno...

Claudio affrettò il passo: gli annoiava la gente che parla d'interessi e d'affari. Capitò fra un crocchio di giovanotti eleganti, che ridevano e ciarlavano rumorosamente, parlando di donne. E lì, si indugiò un poco ad ascoltarli, afferrando faticosamente il senso della loro chiacchiere, con la mente intorpidita dai pensieri.

Via Caracciolo, ove i fanali cominciavano ad accendersi, era piena di movimento: i cocchi in lunghe file trascorrevano rumoreggiando, i pedoni a fiumane andavano pei marciapiedi col calpestio d'un esercito. Un cavallo impaziente nitriva, alcuni altri sbuffavano scalpitando allor che le carrozze erano costrette a sostare. Il golfo calmissimo a chiazze regolari opalee e brune, si dislogava beatamente qua e là tremolante d'oro: due o tre vele candide vi sorvolavano e un piroscafo lontanissimo si perdeva tra le brume e le nuvole del proprio fumo. Claudio sentiva la gran pace silenziosa del mare e il frastuono della passeggiata, ov'egli vagava come un perduto.

Poi si trovò dietro due signore che discutevano animatamente di certi cappellini e di certi mantelli lunghi. Allora egli si domandò perché tutta questa gente vivesse; si domandò qual potesse essere la ragione della vita e come potessero vivere tutti costoro così vuoti che certamente non pensavano mai all'esistenza, alla morte. Guardò il cielo e lo considerò come un gran sudario, sotto il quale si agitano tutti questi esseri incoscienti, sotto il quale si muove questo ridicolo cimitero di vivi.

Si sorprese in tali pensieri e trasalì. Anch'egli viveva, era uno di questi, camminava anche lui, senza essere considerato, senza che nessuno potesse immaginare i suoi pensieri, le sue angosce; aveva una mente anche lui e somigliava a tutta quella folla! Ma perché era nato? perché doveva vivere? e perché doveva morire? Che cosa importava a gli uomini, all'universo, della sua vita e della sua morte? Dopo la sua morte che sarebbe accaduto? Nulla. La gente avrebbe continuato a vivere senza che niente restasse conturbato nelle sterminate compagini dell'esistenza. Questa passeggiata resterebbe sempre, questo cielo, questa gente, questi cavalli, quel monello che correva... Chi baderebbe alla sua scomparsa? Forse suo padre. Ma avrebbe finito col rassegnarsi anche lui, dopo il primo pianto; si piange sempre per questa illusione che si chiama dolore, e che altro non è se non una ferita a l'egoismo. Perché doveva vivere egli? Per Elena? per suo padre? per scoprire la verità, quella verità che lo faceva tremare? Meglio evitarla quell'indagine tremenda! Forse il suo vero padre era uno di quelli che aveva attorno. Forse era quel vecchietto panciuto, dalla mazzetta dal pomo d'argento, disteso nella victoria!... Oh inutile e vacua la vita!

E pure no, c'è qualche cosa. Egli sentì per un attimo, l'unico in tutta la sua vita, chiarirsi nell'anima sua quella grande nostalgia senza nome che da tempo lo assaliva, mal chiara ed indefinita. Egli sentì che forse l'esistenza non sarebbe stata inutile per lui se avesse potuto cancellare ogni piccolo dolore e ogni piccolo amore, per conoscere molto del mondo, per compiere qualche opera grande e nobilissima che gli facesse ad un tratto assaporare tutte le ebbrezze più vere, e lo iniziasse su gli uomini, e lo additasse a l'umanità e lo balzasse a la luce.

Ma sentì anche con angoscia infinita che non l'avrebbe mai fatto...

 
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