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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

XXI.

Un brivido lungo ed intenso, da arricciare tutta la pelle...

Claudio, svegliandosi, si rizzò a sedere sul letto, attento, quasi per ascoltarsi, per ascoltare le sue carni. Era tutto intronato; l'epidermide delle sue gambe s'era fatta si sensitiva che non poteva tollerare il contatto delle coperte. Intuì che qualche cosa avveniva in lui. I brividi si ripeterono, meno intensi, ma più frequenti. Egli si cacciò di nuovo sotto le Coperte, poiché a stare disteso provava un senso di riposo. Le tempie gli martellavano forte e, tastandosi il polso, ne sentì i battiti celerissimi; aveva la febbre. Non ne fu inquietato. Si ricordò del suo colloquio con Fabio, a cui aveva promesso di interessarsi per l'affare delle dodicimila lire, ma ancora non aveva scritto niente a don Gennaro; lo avrebbe fatto quel giorno. Che cosa era accaduto a Fabio da spingerlo a quella richiesta urgente?

Che cosa succedeva in quella casa? La zia Clotilde gli aveva confidato una mattina che i Mauri si rovinavano in spese troppo superiori alle loro condizioni finanziarie. Dunque, la pinzochera aveva ragione. Pensando a tutte queste cose egli si ascoltava sempre, e sentiva il sangue acceso palpitargli nelle vene e come delle lievi passeggere vertigini annebbiargli ogni tanto la mente. 

S'era già fatto giorno: dagli spiragli della finestra e della porta la luce entrava, ferendo l'ombra, e a lui, che fissava quelle sottili strisce di luce, pareva, nell'insistenza dello sguardo, che esse or si fondessero tutte, come un raggio più grande, ora si cancellassero, sparendo momentaneamente, a somiglianza d'un faro.

Poi cominciò a spazientirsi di quel buio e della sua solitudine. Si diceva: adesso verrà Martina. Ma pareva che Martina tardasse. Pensò di contare fino a cento, per occupare il tempo, certo che la serva sarebbe venuta durante quel tempo. Ma Martina non venne, ed egli s'indugiò a contare lentamente fino a centocinquanta... 

Sbuffò, impaziente, s'alzò di nuovo a sedere sul letto, si decise a scendere per aprire egli stesso le imposte della finestra. Una vertigine più forte lo prese, e ritornò in letto barcollando, ansimante.

Era una malattia grave, dunque, che gli si annunziava? Ah, bisognava sapere, subito da qualcuno; ebbe desiderio di qualcuno che lo rassicurasse, come faceva la mamma, la buona mamma che soleva ogni mattina venire presso il suo letto a svegliarlo con un bacio e un sorriso. Quand'egli, qualche volta, si sentiva male, ella gli baciava la fronte, preoccupata, col massimo interesse, e gli diceva le più tenere parole. E pareva che ogni male cessasse o diminuisse, almeno sotto l'alito amoroso di lei.

Perché la mamma lo amava molto... Oh, questo era certo! Anche se ella era stata un'adultera, lo aveva amato più d'ogni altra cosa al mondo. Egli non ricordava, neppure nella sua infanzia lontana di aver mai visto la madre in intimità con uomini, mai era andata fuor di casa sola. Se pure ella aveva tradito don Gennaro, lo aveva fatto prima che egli, Claudio, nascesse. E perciò, forse, era vero il sospetto angoscioso ch'egli fosse figlio d'una colpa e che don Gennaro non fosse nulla per lui!... Ma chi era allora suo padre? La sola Kate poteva saperlo, la vecchia che il giorno avanti aveva stralunato orridamente gli occhi al nome di Maria… si ricordò degli occhi fosforici ch'egli aveva estinto la sera innanzi, ed ebbe paura. 

— Martina — chiamò. La sua propria voce gli parve strana, insolita, rauca, dall'accento mutato. 

Nessuno udì. Claudio chiamò di nuovo più forte, impaziente, e un momento dopo s'udirono dei passi che s'appressavano. Gli fece l'effetto che quei passi fossero troppo rumorosi, sì da tremarne tutta la casa. Martina entrò.

— Martina, per favore chiama lo zio, io non posso alzarmi.

Lo zio accorse inquieto.

— Che hai figliolo?

Lo toccò, ansioso, stette muto un momento.

— Credo d'avere la febbre.

— Non è niente, non sarà niente, non ti preoccupare.., chiameremo subito un medico; sarà influenza.

Nell'attesa del medico, Claudio restò un poco solo con la zia Clotilde, la quale gli parlò delle malattie più spaventevoli che, a sentirla, ella aveva avute tutte. Egli non l'ascoltava: pensava a una sensazione curiosissima e inesprimibile: gli pareva di aver tra le dita una cosa imponderabile, sferica, piccolissima quanto un atomo, che a poco a poco si dilatava, gonfiandosi sempre restandogli fra le dita, fino a diventare enorme.

La malattia di Claudio era una febbre tifoidea, come la chiamò il medico nella sua diagnosi: e durò a lungo.

Egli sentì che dopo due o tre giorni tutto il suo essere si tumefaceva, sì che i sensi diventavano deboli pel suo corpo che gli sembrava divenuto colossale. Vedeva ogni tanto intorno a sé delle persone muoversi e le udiva parlare. Ma quelle figure gli apparivano piccole e lontane, come se le guardasse attraverso il fondo di un bicchiere di vetro, e udiva le voci pure lontane con risonanze ineguali. Credeva che i suoi occhi e le sue orecchie si fossero addentrati nella carne, ricoprendosi d'una pellicola, che ne rendeva più stentate le facoltà.

Vide spessissimo una donna che gli pareva assai bella e che era sicuro di aver conosciuta in tempo assai lontano. Essa lo curava, gli sollevava il capo per mettergli un cucchiaio fra le labbra, gli toccava la fronte ove gli pareva che s'indugiasse assai a lungo con le mani che erano freddissime: e quel freddo gli comunicava un po' di benessere. Per questo amò quella donna, che una volta credette fosse sua madre. La vedeva afflitta e pensava che lo piangesse perché forse egli era morto. Ma non era troppo dolorosa quella morte: solo il calore scottante della sua bara lo seccava.

Vide molte facce ignote e, tra queste, una sola riconobbe: quella dell'uomo dal naso rosso, dell'uomo che faceva sempre smorfie, storcendo il capo, battendosi nervosamente le palme sulla fronte e sul petto. Non curò di ricordarne il nome. Ma a vederselo dinanzi così irrequieto con le mani e col capo, ed ora lontano e piccino, ora gigantesco e vivissimo come se gli gravasse addosso, volle dirgli di star fermo, ma invece dalla sua bocca uscirono altre parole:

— Gioca sempre a nascondersi?

Quando si faceva buio Claudio soffriva molto. Quasi sempre Nerone veniva ad accovacciarglisi sul letto, piantandogli in faccia i due ossessionanti occhi fosforici. Una volta invece gli parve che quelle due luci fossero una lampada che la zia Clotilde aveva acceso dinanzi a un immagine sacra, di fronte al suo letto. Ma certo era un errore: il gatto nero egli se lo sentiva gravare sui polmoni, fino a impedirgli il respiro, sì che ne smaniava e con le dita tremanti, brancolava sulle coperte, cercando di strozzarlo.

Una volta egli s'era assopito a notte alta. Sentiva un grande silenzio, anche in se stesso che pure di solito tumultuava. A un tratto cominciò udire un rumore sordo, che s'appressava lentissimamente e che partiva dalla stanza più remota della casa, una piccola stanza senza finestre, che faceva da ripostiglio a tutti gli oggetti fuori uso. Quel rumore era fatto di colpi cadenzati, come di due bastoni di legno sul pavimento, e veniva poco a poco, da stanza a stanza, verso la camera di Claudio. Avanzando, esso, si faceva più forte, sempre più forte, finché giunse dietro la porta. E allora nel semibuio, gli occhi sbarrati i Claudio, videro
l'uscio silenziosamente aprirsi e dal vano spalancato entrò, camminando da sola su due piedi una sedia occupata da qualche cosa che a tutta prima egli non ravvisò. La sedia, passo passo, con i suoi tonfi sordi, s'appressò al letto ove il malato giaceva, ed egli vide che essa portava un vassoio, su cui stava, diritta, una testa umana recisa. Con terrore egli la vide appressarsi di più, di più e tentò disperatamente di gridare, ma nessun suono usciva dalla strozza serrata... Finalmente la sedia col suo macabro peso fu accanto al letto, e
allora s'abbatté con forza sì che il capo mozzo balzò e venne a piombare sul seno di Claudio... Egli ebbe un guizzo orrore, e l'urlo aggrovigliato della sua bocca proruppe mentre la visione orribile spariva. Ma finalmente, quasi d'un tratto, le sofferenze e gli incubi lo abbandonarono. Una mattina egli aperse gli occhi con la mente lucidissima benché il suo corpo fosse stanco ed affaticato. La luce entrava dalla finestra, a fiotti brulicanti d'atomi, l'azzurro d'un lembo di cielo che dal vano s'intravedeva era d'una lucentezza tenera,
quasi madreperlacea.

Claudio vide dinanzi al letto lo zio Francesco, il quale gli teneva gli occhi addosso, con quella sua aria bonacciona.

— Come va? come va? — esclamò — ha finito questo bei signore, di dire e di fare sciocchezze?

Claudio senti una gran tenerezza e gli sorrise.

— Sto ancora male, zio.

— Ma che! vuol dire che t'accorgi d'essere stato male; oggi ti si può chiamare un uomo guarito. Sapessi quante ce n'hai fatte passare!

La voce dello zio era troppo chiassosa; Claudio però l'ascoltava con piacere, e percepiva frattanto un acciottolio d'utensili nella cucina, ove certo di già Martina sfaccendava.

— Sono passati molti giorni, zio?

— Da che ti sei messo a letto? diciotto.

Claudio non se ne stupì: gli pareva anzi che il tempo trascorso fosse stato assai più lungo.

— E il babbo?

Non abbiamo voluto telegrafargli per non spaventarlo d'un colpo. Gli abbiamo scritto, ma pare ch'egli non sia più a Napoli.

— Difatti, doveva ripartire, mi ricordo...

Si ricordò anche dei viaggio che suo padre gli aveva proposto di fare: Corfù, Patrasso, Atene, Costantinopoli... E provò, con piacere a immaginare quei luoghi e quelle cose belle.

— Sai chi è stata la tua infermiera? — gli chiese lo zio.

— Chi? la zia Clotilde?

— Elena.

Sentì, nel suo petto debole, battere il cuore, insolitamente, a quel nome. Elena lo amava, oh, se lo amava!... Egli glie ne fu grato dentro di sé ed ebbe per la diletta donna un trasporto di tenerezza infantile appassionata.

Entrò la zia Clotilde, la quale non parve affatto sorpresa di trovano così sveglio e di buona cera.

— Lascialo stare; — disse un po' duramente al marito — il medico ha detto che non deve affaticarsi.

— Buon giorno, zia — soggiunse Claudio, quasi gaio, per esperimentare la sua voce, il suo respiro, i suoi sensi.

— Eh, buon giorno, buon giorno... Ce n'hai fatte vedere di tutti i colori, in questo mese... Non c'era niente che bastasse. Quegli avvoltoi de' medici son venuti a due a due, perché tuo zio e tua cugina debbono far sempre le cose alla grande...

— Bene, Clotilde, esclamò Francesco infastidito — cosa gli racconti? Lascialo stare, più tosto. Son questi discorsi da farsi a un malato?

Ma Claudio non s'infastidiva di nulla; provava un piacere nuovo a udire a parlare, senza badare troppo alle parole.

Quando più tardi quel giorno stesso, venne Elena, e lo zio glie la annunziò prima ch'ella entrasse. in camera, Claudio sentì di nuovo il batticuore della mattina. Ella entrò, premurosa, sollevando sul viso il gran velo che le scendeva giù dal cappello, corse al letto e prese fra le braccia il capo del suo caro malato, baciandolo sulla fronte, su gli occhi.

— Sei vivo! Sei vivo un'altra volta!

E piano, perché lo zio non udisse, gli sospirò sulla bocca:

— Caro! Caro! bimbo mio caro!

Claudio la baciava e l'accarezzava... E allora egli si ricordò, confusamente, di qualche cosa, di cento cose passate e un po' sopite nella sua memoria, di cento cose oscure e cattive, che passarono come un nuvolone torbido su la limpidità ingenua della sua anima di convalescente.

XXII.

Da pochi giorni Claudio era guarito, quando un sabato su le cinque del pomeriggio Venezia si presentò tutta affannata in casa Massano, ansimando, che la signora domandava di tutti loro, perché stava male.

— Abbiamo capito! — brontolò lo zio correndo a mettersi in fretta e furia il cappello. La zia Clotilde, borbottando, s'indugiò a cercare uno scialle, lasciando chiaramente intendere che avrebbe preferito restarsene a casa.

Per Claudio fu come uno scoppio di folgore. Non c'era da ingannarsi: non poteva essere che quello. Fino allora egli aveva avuto quasi una inconfessata speranza che l'avvenimento terribile non s'effettuasse o s'avesse a ritardare ancora. E poi, durante la sua malattia e la breve convalescenza, egli aveva dimenticato ogni cosa, nella beatitudine obliosa e nel tormento nuovo. Ma adesso, bruscamente, vedendo già arrivato lo scioglimento, egli si ritrovava atterrito e stupito, sentendo un pericolo. Non solo: egli calcolava anche che
nove mesi non erano trascorsi; perché, dunque, giusto a lui, accadevano fatti sì insoliti? O pure — ed era l'ultima sua speranza — si trattava di tutt'altro male?

La zia Clotilde, vedendo che anche lui si avviava con loro, domandò piano al marito scandalizzata:

— Cosa viene a fare tuo nipote?

Francesco le rispose con una gomitata, per dire di lasciar correre, e partirono tutti e tre. Salendo le scale di casa Mauri, udirono un urlo che non pareva umano. Claudio ebbe un fremito per tutto il corpo: era vero! Era il fatto temuto! Appena in sala s'imbatterono in Kate, tutta affaccendata, che portava una catinella colma d'acqua. L'irrompere che essi fecero dall'uscio spalancato la fece trasalire, e si fermò su due piedi, sì che l'acqua, agitata dai passi, a quel brusco arrestarsi traboccò riversandosela in parte sulla veste. S'udì un altro urlo rantolante.

— La levatrice? — domandò la querula voce. 

— Siamo noi! — le urlò all'orecchio zio Francesco; ed ella, che guardava un battente dell'uscio, a quella voce si volse col solito sorriso strano a guardare la fronte del suo interlocutore.

— Sta mal!

Entrarono tutti nella camera di Elena che trovarono supina sul letto scomposto, pallida e stravolta, le labbra umide di bava.

Guiduccio, impaurito, guardava da un angolo, piagnucolando ad ogni gemito della sofferente.

— Mamma !... Mamma !...

Elena, scorgendoli, fece un gesto per chiamarseli vicini.

— Che c'è? che c'è? — domandò zia Clotilde.

— Coraggio! coraggio! — diceva zio Francesco, baciandola in fronte e carezzandole i capelli.

Claudio s'era arrestato sulla soglia, senza cuore né d'avanzarsi né di nascondersi, stretto da un sentimento indefinibile: pietà, rimorso, disgusto, chissà? Anche odio contro se stesso.
Ella si sollevò un poco sul cuscino, chiamandolo prima con gli occhi e poi con la voce:

— Claudio!

Zia Clotilde si volse a guardare lui, poi lei, sempre più scandalizzata: vide il giovane appressarsi macchinalmente al letto di Elena, la quale appena l'ebbe vicino, lo afferrò per una mano e, se zio Francesco non si fosse frapposto, gli si sarebbe certamente gettata al collo. Il viso della pinzochera parve dire: «Che vergogne mio Dio! ».

Guiduccio s'era attaccato alle gambe di Francesco e andava piagnucolando: «Mamma!... Mamma !...» tirando ogni tanto in su, forte, col naso. Elena ebbe un nuovo spasimo che la scosse tutta, ed un urlo.

Kate, entrata con la catinella, volle deporla su di una sedia, ma non discernendo bene, la posò troppo in margine, sì che quella cadde innaffiandola un'altra volta e fracassandosi con un rumore indiavolato.

—Tio mio!

Elena si volse per guardare, contrariata, e per dir qualche cosa, ma ebbe un altro grido, lungo, da lupa ferita.

— Niente... non è niente... fece zio Francesco accorrendo per aiutare la cieca, col bimbo sempre alle costole, mentre Clotilde, sollevando il guanciale della partoriente, brontolava stizzita:

— Che baraonda! che baraonda!

— Venezia, uno strofinaccio! — gridò lo zio. Elena fu assalita da una crisi che durò un pezzo, e si contorse sul letto, ruggendo, mordendosi le braccia, scarmigliandosi, invocando ed imprecando. Guiduccio scoppiò a piangere strepitosamente, e Kate, intuendo più che sentendo, accorse accanto al letto, tutta colante d'acqua dalle vesti, toccando a tastoni le coperte e la nipote, con gli occhi pieni di lacrime fissi sul cuscino.

— Che c'è?, che c'è? — ripeteva Clotilde, avanzando un braccio per tentar di frenare Elena, e ritraendolo dopo essere stata respinta da un moto convulso. Venezia, con lo strofinaccio, rossa in viso come un pomidoro, si adoperava ad asciugare il pavimento ripetendo:

— E la levatrice, non viene, non viene!... oh, Dio bono!... oh, Dio bono!

Zio Francesco che raccoglieva i cocci del catino rotto, interruppe a un tratto la bisogna, e, con le mani piene, s'appressò al letto:

— Via Elena! via, Elena !... ora viene la levatrice... Pazienza, via, Elena !...

— Andate a chiamar suo marito — propose la zia.

— No! — urlò ella piena d'energia.

Claudio, che assisteva sempre trasognato e sgomento alla scena, non volendo né potendo far nulla, all'udir nominar Fabio trasalì. Tutta quella gente non sospettava la verità, tranne zio Francesco, forse! Che sarebbe accaduto all'arrivo di Fabio, che egli non aveva più visto? I1 marito avrebbe compreso ogni cosa, e allora che farebbe? Forse in un impeto di furore lo ammazzerebbe, svenandolo, e stringendolo poi fortemente al collo per spremergli il sangue... Oh perché erano accaduti tutti quei fatti terribili? Meglio non fosse mai venuto a Pisa, non avesse conosciuto i parenti, non fosse morta sua madre !... E sua madre? Era accaduto forse lo stesso per lei? Forse tutto così, come ora: forse l'altro era presente, il marito non c'era, la levatrice tardava...

— Voglio le Moretti — mormorò Elena estenuata dopo la crisi, tra un sussulto e un grido, tenendo gli occhi socchiusi — voglio le mie amiche... qualcuna...

— La Luchini, non c'è? — chiese a Venezia la zia Clotilde.

— No signora è fuori.

— Va, va subito Claudio — disse lo zio, con le mani sempre piene di cocci — va tu a chiamarle: llia è una mezza isterica...

Claudio andò via a precipizio, imbambolato, automa nelle mosse e nello sguardo. L'aria della serena notte estiva lo fece un po' rinsavire e si domandò ancora, e sempre senza sapersi dare risposta, se quanto accadeva fosse realtà o sogno.

Nel breve tragitto incontrò vari viandanti, a crocchi, a coppie, soli, e si stupiva di non vederli che come ombre, tutte stranamente taciturne. Solo passando dinanzi a una bettola aperta, intese un po' di frastuono, ma strano anch'esso.

I lumi lontani che si rincorrevano in due file parevano occhi, il ritorno di quella molesta persecuzione d'occhi che gli ricordava Kate, la sua nemica e il gatto nero ucciso. Ucciso? Dopo tanto tempo si ricordò della bestia massacrata da lui e ne ebbe un terrore grandissimo, domandandosi come mai avesse fatto ciò e perché. Un altro non avrebbe fatto lo stesso? Zio Francesco, il barone Roberti, non avrebbero ammazzato il gatto così per nulla, e nemmeno il sig. Luchini, e Gaspare Talli, e quell'avvinazzato che ora lo precedeva
barcollando... Perché egli non agiva come tutti gli altri uomini?

Sonato il campanello alla porta di strada di casa Moretti, s'affacciò alla finestra una testa do
mandando:

— Chi è?

— Io.

Aprirono. Egli montò in fretta, ma gli toccò bussare di nuovo alla porta interna; un'altra voce domandò:

— Chi è?

— Io.

L'uscio fu aperto.

— Oh è lei, Giuliani?

— No, non sono Giuliani!

— Ma chi è!... llia fa un po' lume...

— Vengo.., vengo...

— Signorina Clorinda, sono io, non mi riconosce? Claudio, il cugino di Elena...

— Uh, è lei ?... Con questo buio... S'accomodi! llia! Ilia !... entri.., entri.., che c'è?

— Elena le desidera...

Accorse llia col lume.

— Che c'è?che c'è? ..., oh, sor Claudio! È ben guarito adesso, entri, entri,... qual buon vento? troverà tutta la casa in disordine. Teodora...!

— Va a prendere un altro lume... oh, che disordine !... Entri pure nel salotto.., tenga in capo...

— Teodora... Quella! è sorda come una campana, sa? Teodora !...

Entrarono nel salotto che puzzava di rinchiuso e di vecchi mobili. Claudio in poche parole informò le due donne del motivo di quella visita. Teodora intervenne interrompendo.

— Oh, come va? — strillò — come va, signor Claudio? Noi si stava per andar a letto...

Clorinda, ch'era accanto a Claudio la fulminò con un'occhiataccia.

— Non l'ascolti, sta zitta stupida...

— Uh, la mia Elenuccia! — esclamò llia appena ebbe sentito Claudio — ... Ma sicuro che vengo io... Non poteva anzi mandare fin da prima da me?

— Andiamo, andiamo! — aggiunse Clorinda.

— Si balla anche? — domandò Teodora che, pur avendo guardato tutti in bocca non aveva capito un'acca.

— Zitta tu! — le gridò la sorella maggiore.

— Rimani a far compagnia alla zia. Elena sta male.

— Ah, va bene... Tanto io, ho sonno.

— Ma lei deve accompagnarci, sor Claudio... Cencio è fuori...

Le due sorelle scapparono a vestirsi, lasciando Teodora con Claudio in piedi accanto alla consolle tutta ingombra di vecchi ninnoli e di ritratti scoloriti. Claudio era sempre in quello stato stranissimo quasi di dormiveglia: ora s'accorse di avere parlato, di aver fatto la sua commissione senza averne coscienza, chiedendosi sempre come e perché queste cose accadessero in lui.

— Ha la febbre Elena? — gli domandava Teodora.

— Credo.

E la sorda vedendo che egli guardava verso alcuni ritratti gli disse:

— Vede il babbo, benedett'anima? era un bell'uomo, non le pare? e questo era il nostro medico, che ci conobbe bambine: un medicone... altrove avrebbe fatto fortuna... Entrò la vecchissima zia tutta tentennante, con un sorrisetto timido fra le rughe.

— Ho saputo che era qui — disse a Claudio porgendogli la manina rinsecchita — e son venuta a salutarlo prima d'andare a letto.

Teodora, prese licenza di andare a informarsi dalle sorelle della ragione di quel richiamo urgente, e Claudio sempre allo stesso posto restò solo con la vecchia.

— Elena sta male?

Egli fece cenno di sì.

— Le giovani donne hanno sempre qualche cosa. Ai miei tempi la gioventù era più forte! Io fino a cinquant'anni non ebbi a dolermi neppure d'una infreddatura...

E vedendo che Claudio guardava verso i ritratti — attentamente, le pareva — aggiunse:

— Questo era il mio medico, vede? che non poté curarmi mai — e fece un risolino — Per me era solo un buon amico, con lui si parlava delle malattie altrui... Un uomo dotto. E quest'altro era mio fratello, il padre delle ragazze, che ne prese una sola delle malattie e fu la buona...

Claudio, ascoltava quella vocetta timida e piagnucolosa con un intimo senso di molestia. Guardando la vecchina timida ed asciutta gli parve per un momento Kate. Sentì come un bisogno prepotente di afferrarla, sollevarla di peso, batterla contro le pareti, per sentirne lo scricchiolio delle ossa, o di spremerle da una ferita al collo tutto il sangue a poco a poco... Sopravvennero llia e Clorinda, pronte ad uscire: salutata la zia, in fretta andarono.

Per via le due sorelle gli camminavano a fianco. Clorinda, pur ansimando, non poteva star zitta e lo tempestava di domande a cui egli rispondeva a monosillabi. Nelle strade quasi deserte i loro passi rimbombavano, come se calpestassero una pelle di tamburo. Qualche raro passante si voltava a guardarli, incuriosito dalla lor fretta loquace. Claudio sentiva un'angoscia infinita, un bisogno di buttarsi lungo e disteso sul lastrico, sotto lo stellato e riposare per sempre, dimenticando tutte le inutili e affaticanti cose che gli bollivano nell'anima. E camminando così, contava i fanali alla sua destra: ne contò cinquantasette prima di giungere a casa.

Montando le scale udirono gli urli di Elena: e la sua voce non pareva più umana.

— Poverina! compassionò Clorinda — come soffre!

Trovarono gli usci spalancati. In saletta, entrando, s'incontrarono in Venezia che passava di corsa.

— E venuta, disse loro — è venuta finalmente con suo comodo...

Claudio non capì a chi alludesse e seguì le due sorelle che si cacciarono nell' anticamera difilato, verso la camera di Elena. In anticamera scorsero Fabio, in piedi dinanzi alla finestra, il quale si voltò al loro entrare, e li squadro torvo e silenzioso, fumando.

— C'è già la levatrice signor Fabio? — domandò llia porgendogli la mano e andando avanti.

Fabio le fece un cenno, indicandole ch'era là. E guardò Claudio in faccia, ma incontrando il suo sguardo abbassò subito gli occhi su una sedia rovesciata in mezzo alla stanza. Passate le donne egli rialzò la sedia.

S'udì la voce della levatrice gridare:

— Fuori gli uomini.., non voglio nessuno...

Entrò zio Francesco tutto sconvolto.

— Povera figliola come soffre!

Nessuno gli rispose. Egli guardò Claudio e poi Fabio, con visibile titubanza; dopo un momento aggiunse:

— L'ostetrica sostiene ch'è un parto prematuro... Pare che ciò faccia soffrire di più.

Un urlo seguito da rantoli rauchi. La voce fessa di Ilia giunse a traverso gli usci:

— Ma no!... ma no!...

Claudio, non sapendo più star fermo, dinanzi a Fabio, andò via, a rifugiarsi nella stanza più remota. Ma anche lì le voci di tutti, gli urli di Elena lo perseguitarono. Stava rannicchiato al buio, col capo fra le mani, invocando ed aspettando che tutto finisse; e frattanto la fantasia gli diceva che ventitré anni prima alla sua nascita, in casa sua era accaduto lo stesso, che sua madre, adultera come Elena soffriva così, e pure non malediceva l'amante... Gli parve per un momento di assistere ai suoi stessi natali, natali di delitto, e si sentì dissolto, immateriato nel buio, parendogli di vivere soltanto perchè a ogni urlo terribile una mano frugava nella cavità ossea del suo cranio...

Quegli urli a un tratto si fecero più spessi, più lunghi in un delirio atroce. Altre voci di donne
gridavano parole di incoraggiamento, lo zio Francesco, gridò anche lui, Fabio passeggiava, innanzi e indietro... Claudio si turò le orecchie maledicendo tutti, maledicendo sua madre, e serrando i pugni come se vi chiudesse il collo sanguinante di Kate, la nemica, causa di tutto... Poi, sonora, acuta, imperiosa, squillò una voce nuova: un vagito.

Claudio si rizzò in piedi, fece per accorrere. Scoppiarono tutte a un tempo quattro voci di donne, ma giubilanti; gli urli tacquero e furono invece gemiti fiochi.

— Mio figlio — pensò Claudio.

E ciò gli pareva una cosa strana ed impossibile, che gli metteva curiosità e terrore: che sarebbe accaduto adesso?

S'udì l'aprirsi d'un uscio e la voce di Clorinda arrivò a lui più chiara:

— Maschio, maschio, signor Fabio!

— Finalmente! esclamò zio Francesco.

E Claudio udì ancora Clorinda tra il parlottio di tutti gli altri esclamare:

— Venga, venga signor Fabio, a vedere com'è bellino... E guardi se non è tutto il suo ritratto...

Poi un silenzio, che gli parve terribile.

XXIII.

Kate seppe che il bambino era nato, e fu per lei un intimo scoppio di giubilo quando glie lo posero in braccio la prima volta. Lo riconobbe: era lui, era lui, il più caro, il più desiderato visitatore del suo sogno. Ella lo vide, lo vedeva nettamente, come se non fosse più cieca. Vedeva il bel visino paffuto e rubicondo, i bei riccioli d'oro, gli occhietti azzurri vivacissimi ed era felice di possederlo, finalmente vivo e palpabile.

Perciò domandò spesso a Elena di concederglielo, di poterlo tenere con lei e cullano e dirgli le più dolci cose:

— Caro... caro... angiolo mio!...

E le pareva che la creaturina l'ascoltasse, comprendendola, col più radioso dei sorrisi che comunicava una gioia infinita al suo vecchio vergine cuore.

Non aveva mai pensato, e non pensò mai a chiedere d'onde venisse né il perché di questa sua tenerezza appassionata per quell'esserino; non comprendeva neppure perché e come l'immagine di lui fosse già venuta tra le visioni che l'assediavano.

Niente chiedeva, niente sapeva. Adesso la sua esistenza fu mutata d'un subito, ebbe uno scopo sicuro, si. raccolse tutta in quel bambino, che la sua fantasia romantica arricchì di pregi sovrannaturali. Le pareva di esser diventata più giovane, più prossima a quella tenera vita in boccio, sentiva, quasi, qualche cosa di beatamente insolito fremere e palpitare in lei, rianimando il suo essere in dissoluzione, il palpito della maternità che fino allora non aveva conosciuto. Qualche volta ancora egli, fra le sue braccia — cattivello — si fece gioco di lei. Kate lo vide più volte mutarsi improvvisamente nell'aspetto, assumere sembianze brutte,
ridicole, ora facendo curiose smorfie, ora spalancando due occhi grifagni, ora vestendo le gote d'una barba da pirata algerino. E ciò le faceva male e, intimamente ferita lo chiamava cattivo.

Elena aveva voluto che al neonato fosse apposto il nome di Ettore; ma ella non approvò e dentro di sé, volle chiamarlo Johnny. Da giovanissima aveva amato questo nome, che racchiudeva per lei ogni poesia.

Un giorno però che lo aveva in braccio ebbe una visione spaventevole. Mentre lo cullava
canterellandogli con la voce querula un antico motivo di ninna nanna, le parve che a poco a poco il bel visino paffuto e rubicondo s'illividisse facendosi smunto, che gli occhi s'impietrissero e che la lingua molle e cascante pendesse giù tra le violacee labbra socchiuse. Allora gridò, disperatamente, chiamando, invocando aiuto, stringendolo forte forte contro il proprio seno per rianimano.

E ci volle del buono perché Elena, accorsa in preda ai terrore, la convincesse che s'era ingannata, ch'era una visionaria. Infatti Johnny vagì e a lei parve d'udire:

— Son vivo!

 
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