|
Cap. XXIIl Maggiordomo, anzi l’Ubbriaco, racconta una storia. Don Giovanni, sorretto dal fedele Maggiordomo, preceduto da Biagio che rischiarava la strada con una malinconica torcia a vento, più fumo che fiamma come molte cose di questa vita, e seguito da Alfonso seccatissimo perché tolto troppo presto alle servette fra cui aveva avuto agio per ore di fare da gallo della Checca, giunse in dieci minuti al suo palazzo. Suo? Si,
probabilmente suo, perché egli non dubitava più di essere figlio di don
Giovanni - di colui che aveva denominato don Giovanni primo e che appariva a lui
come un simbolo. Eppure egli si sentiva estraneo a quella casa; mai se n'era sentito
tanto estraneo come stavolta, montandone le scale piene di echi
beffardi. Mesi prima, all'atto di prenderne possesso, si era sentito invece
tutt'altro cuore. Le sale erano vuote e fredde. Gli altri servi dormivano e non avevano avuto cura di mantenere accesi i caminetti. Solamente in quello della sala da pranzo un po' di brace ancora languiva e faceva sentire di tanto in tanto un sospiro da una crepa che s'apriva, come una bocca, nei tizzi consunti. - Mettetevi
a sedere qui un momento, signore. - propose il fido socio offrendogli un
seggiolone -Le emozioni sono state forti, troppo forti, stasera: avete avuto
degli accenti di cui io, da filosofo e da uomo di lettere, avrei motivo di
compiacermi e tributarvene ammirazione. Da uomo pratico invece sono costretto
a condannarvi, perché il vostro bel gesto si risolve in una solenne fregatura. Il giovane
non rispose. Non aveva pronunziato una parola da quando erano usciti dall'Alkazar. II
Maggiordomo continuò: - Ravviverò
il fuoco nel camino per riscaldarvi, prima di mettervi a letto. È ancora
presto: mancano dieci minuti al tocco. Ci riscalderemo col fuoco all’esterno e
con un po' di liquore all'interno. Prenderò quel rum autentico delle Antille e
che vi fu donato da non ricordo più quale delle vostre ammiratrici che ha il
marito governatore alla Giamaica. Vi servirò io stesso; mando prima a letto la
servitù... Quel bravo e vigoroso Alfonso dormirà male, stanotte! È un
giovanotto da valorizzare, Alfonso! Beh, ci ripenseremo. Sono subito a voi. Ritornò
dopo cinque minuti, portando due bicchierini e, come una reliquia, la bottiglia
del vecchio rum. - Beviamo.
Non volete bere? Avete torto. Avreste avuto ragione, forse, a rifiutarvi lì
all'Alkazar, dove (debbo riconoscerlo) lo Xeres vi ha prodotto un effetto
oratorio sì, ma negativo. Strano come ci siano dei temperamenti che abbiano
l'ebbrezza triste. Voi siete evidentemente di questi. Però di solito accade che
quelli che l’hanno triste sulle prime, finiscono con l’averla allegrissima
in fine. Sarebbe come dire che al principio della bottiglia trovino lacrime e
che il riso lo trovino in fondo. Nella mia carriera, invece, io vi ho trovato
sempre un moderato benessere che sale alla beatitudine agli ultimi fiaschi. Non
so se e dove troverei lacrime. Sono sicuro che non ci riuscirebbe nemmeno
questo rum che pure è eccezionalmente robusto. Peccato che non vogliate
provarlo. Un gocciolino appena, ve ne prego: un gocciolino. Esso brucia tutto,
anche i pensieri cattivi e i ricordi penosi, pure se s'inpersonano in una
cameriera. Ecco, un goccetto... benissimo! Ne sentite la forza trionfante? II
rum è il leone dei liquori. Capace, forse, alla lunga di vincere anche me.
Ebbene, che importa alla fin fine essere vinto da una forza della natura qual'è
l'alcool, piuttosto che lasciarsi vincere da una passione indecorosa? Non che io
sia stato vinto da passioni simili alla vostra, badiamo,... lo
preferisco i bei sogni che il vino e i liquori fabbricano
nella anima mia, alle realtà amorose e ad ogni altra realtà che voi perseguite
con tanto sprecato candore. Non crediate con ciò che io in vita mia non sia
stato che un sacerdote della quint'essenza... oh, no! anche io....
Ma lasciamo stare me. Beviamo. Un'altra stilla? No? Proprio
no? Berrò anch'io quella per voi. "Se
provaste a mandarne giù un sorso piano piano, come faccio io, sentireste uno
strano calore, che somiglia a una carezza ardente, scendere giù per
l’esofago e,
passando, rapirvi il cuore e liquefarlo
deliziosamente. Il cuore con tutti i suoi mali... Non credete voi che si possa
adottare il rito di Bacco appunto per rimedio a certi mali cardiaci e a certi
pensieri fissi, che v'ossessionano, che fanno della vostra vita allo stato
normale un supplizio? lo si. Io... voglio dire un mio amico, intimo, intimissimo,
che amavo quanto me stesso... dico "amavo,, e non "amo „ perché ora
io non mi amo più... Ho uno sdegno profondo contro la mia entità mondana,
mentre voglio ancora bene alle immagini e alle immaginazioni che mi
frullano pel cervello quando sollevo la
fantasia sulle ali eteree dello spirito di vino!... Dicevo, dunque, un mio
amico al quale non occorre assegnare un
nome. Che cosa è un nome, in fin dei conti? Un'arbitraria marchiatura verbale. Ma
un uomo che cosa ha in comune col suo
nome? Che cosa ha da farsene? Ogni uomo ha un suo grandissimo nome che vale per
sé solo pur essendo comune: "lo,,. E per chi gli vuol bene è "Tu,,.
Sono questi i due soli nomi umani che contemporaneamente appartengono alla
stessa persona. Il mio amico si chiamava, dunque, Io. Era un buon diavolo,
figlio adottivo di un piccolo mercante che lo aveva collocato a studiare
presso un parroco, vecchio burbero benefico, che si pagava facendosi servire
la messa. Dopo quattro anni di studio col parroco, studiò da sé finché,
divenuto adulto, cominciò a sua volta a insegnare. E così viveva,
mediocremente sì, ma libero e quasi in letizia. Amò qualche donna; ma non fu
fortunato, in genere, in amore, anzi neppure riuscì da giovane a conoscere bene
le donne, quasi come voi... Ne trovò una un giorno che gli parve angelica al punto
di meritare di farla compagna della vita. E la sposò. "Che
matrimonio felice, i primissimi anni! Vennero dei figli, uno, due, tre,
quattro…, però…: appunto: però. Avete mai badato all'enorme importanza
della parola "però„? È la parola più distruttiva dei dizionario. Due
sillabe che valgono quanto un esplosivo. Annullano, appena pronunziate, tutto
l'edificio di bene, di bello, di ottimistico. C'è quando la parola però
agisce a
rallentamento, come un tarlo, che perfora il cervello. "Tu sei un uomo
felice, - pensa di sé stesso un soggetto - hai di che vivere, hai il tuo sapere
che infonde un tono elevato alla tua vita, hai una famiglia... però... però...
però..." Il
però della
persona di cui vi parlo penetrò nel suo cervello un giorno, aprendovisi un
forellino piccino piccino, in forma di dubbio… "Però i due tuoi ultimi
figli, un maschio e una femmina, non somigliano né a te né a tua moglie, che
non siete biondi dagli occhi celesti; somigliano piuttosto al tuo allievo Tale,
quel giovanotto ventenne e ben piantato che da tre anni assiduamente frequenta
la tua casa e vi si indugia a tutte le ore, anche quando tu non ci sei, e si
presta in modo così amabile e disinteressato a far giocare i due figli più
grandicelli e perfino ad aiutar la signora nelle faccende domestiche... Un
caso accidentale, è certo. Strano, però!... Sarebbe una bassezza sospettare a
torto di tua moglie e di quel bravo figliuolo. Però... "Permettete,
signore, che io intercali il mio dire con qualche sorso di questa ambrosia degli
dei. Mi rendo conto che essa mi trae verso i baratri della tristezza: fatto
nuovo per me, cui il vino, più ne siano le coppe e perfino le pinte, reca buon
umore e dolce levità di mente; ma stavolta, nell'esperimento a fondo che io
sto tentando con questo liquore leonino, sento la necessità di sottomettermi al
particolare genere d'influenza che il suo spirito esercita sul mio. E il mio
spirito scende lentamente, sospeso su ali di farfalla color violetto, in un
pozzo alquanto buio ma odoroso, di un odore non da tutti percepibile, che io
solo so, in questo momento essere quello delle lacrime... "Rieccomi
alla storia del mio amico. A farvela breve, egli ebbe presto la convinzione e
poi la certezza che il sospetto era fondato. Ma non poté prenderne in pugno
le prove materiali. Vi confesserò anzi che aveva una grande paura di quelle
prove e non ardì forzare la situazione fino a procurarsele, per evitare di
morirne dal dolore, di vedere - gli pareva allora, povero ingenuo! - la sua vita
distrutta. Aveva sempre creduto nella fedeltà delle donne e nella lealtà degli
uomini, sentimenti sovrapposti da secoli sull'anima umana, e che il maledetto
istinto bruto annulla in pochi secondi. "Non
ne fece allusione alcuna alla moglie, ma indusse il suo allievo a diradare le
sue visite, ad allontanarsi. Fu un rimedio peggiore del male: la donna, che in
dieci anni di matrimonio aveva avuto agio di saggiare la debolezza del marito,
divenne sfacciata. Si procurò un altro amante, e poi un terzo, e, precipitando
sempre più nel vizio, contemporaneamente al terzo anche un quarto... E io...
voglio dire il mio amico che abbiamo stabilito
di chiamare Io e Tu, soffrendone atrocemente taceva, fingeva di non vedere e non
sapere, per mantenere intatta l'entità familiare, per non versare scandalo e
turbamento nelle anime delle sue creature. "E
passava il tempo, e la vita in casa diventava un inferno. Le creature, le sue
e le non sue, erano legate alla madre e sempre più, crescendo, si staccavano
dal padre dotto, pedante, privo di quella leggerezza di carattere che piace
tanto agli adolescenti, ai ragazzi e anche alle donne. Gli amici della signora
si succedevano, mutavano di rango, erano danarosi, la gratificavano di doni che
il marito non si era sognato mai, date le sue modeste entrate, di farle. La
signora, appunto, si lagnava di cotale modestia, di cui risentivano le
conseguenze essa e i figli, che non potevano avere calzature nuove quante ne
occorrevano, e il vestitino di velluto in luogo di bigello, e le camicie di lino
o di seta e l’oggettino prezioso, e questo e quell'altro. E Io a soffrirne, e
a faticare di più per accontentarli, senza riuscirci. Disgustato e stanco,
cominciò a bere per stordirsi. Ma le prime bevute, senza che ci avesse fatto
ancora l’abitudine, ebbero conseguenze disastrose. A ogni sbornietta una lite
spaventosa in famiglia, un baccano da non dirsi. Siccome, però, a non
ubbriacarsi la vita gli era resa impossibile da quello che vedeva e udiva e
subiva in casa, non si emendò, anzi fece peggio. Finché una notte che la testa
gli trottolava più del consueto, fu depositato dinanzi alla sua porta da alcuni
compagni pietosi che bussarono e scapparono via per non essere coinvolti
nell'inevitabile cataclisma familiare. La sua Santippe agì più inesorabilmente
delle altre volte. Cosa abbia detto e fatto al momento, il mio amico non ricorda
perché non ne ebbe la sensazione esatta. Egli sa soltanto che la mattina dopo,
all’alba, il freddo pungente lo fe' rinsavire: era di febbraio ed egli aveva
pernottato sul lastrico, ammollato da un secchio d'acqua che in parte aveva
formato croste di ghiaccio sul suo viso. Attorno e su di lui erano stati gettati
alla rinfusa i suoi pochi libri e i pochissimi indumenti di ricambio che
formavano tutto il suo avere personale. "Era quello il benservito che gli davano i suoi. Non osò, o forse non volle, bussare, insistere, pretendere di rientrare in casa sua. Raccolse i relitti del suo naufragio e se ne andò, più carico ma meno saggio di Democrito, in giro pel mondo. "Pel mondo„ è un'esagerazione. Lasciò la sua città ch'era Granata, per passare a Murcia. Anche lì trovò qualche allievo e, malgrado gli emolumenti più scarsi, provò a rifarsi una vita, da solitario. Smise di bere. Con quel che gli restava dei magri guadagni, pagato lo stambugio in cui alloggiava e i suoi frugali pasti, acquistava di tanto in tanto qualche altro libro e godeva a trovarsi a tu per tu con le grandi menti. "La
mia gola si asciuga. Concedetemi un'altra parentesi liquida. Ahimè, questa
bottiglia si vuota: è come una lampada che si spenga. Sento che il fondo è più
amaro. Ha lo stesso sapore di quello che sto per narrarvi. "Una
sera Io... il
mio amico rincasava. Era buio fondo nella sua strada, ove una sola lucernetta a
olio ardeva dinanzi a un tabernacolo. Passando presso l'arcata di un cortile
avverti un accento fioco, un gemito di bestia o di creatura umana ferita. Si
appressò e scorse una specie di fardello buttato sul lastrico. Era quel
fardello a gemere. Si chinò e lo sollevò. Si trattava di un essere umano in
vesti femminili: diciamo meglio in brandelli di vesti. L'amico batté
l’acciarino accendendo un pezzo d'esca, per cercar di decifrare l’essere
umano che stava dentro quei brandelli. "Al
barlume dell'esca accesa intravide una ragazza meno che ventenne, i capelli
scarmigliati, lacera anche in faccia ove si mescolavano lacrime e sangue.
"Sarebbe lungo e inadatto al mio stato attuale riferirvi il dialogo, in
parole e sottintesi, che si svolse fra i due. Ve lo dirò in succinto. "La
ragazza era la servetta di una bettola prossima all'arcata, venuta a servire
in città da un paesetto montano. Poche ore prima, in quella bettola erano
capitati otto o dieci alabardieri che si erano messi a trincare e a giocare a
dadi. Avevano cominciato col giocarsi il vino, poi altro vino, poi il denaro e
quanto avevano addosso di giocabile, poi avevano litigato tra loro e due ne
erano rimasti feriti. Ribevvero per rappaciarsi e giocarono, casa c'era più
da giocare? la ragazza che andava e veniva dal loro tavolo portando boccali,
caraffe e bicchieri. "Il bettoliere fece loro osservare che quella era una povera figliuola onesta e intatta, e che a ogni modo nel suo locale certe cose non erano ammesse. Gli alabardieri lo presero, gli riempirono la faccia e il ventre di cazzotti e lo lasciarono mezzo morto a terra. Poi chiusero la porta della bettola dopo aver mandato via quanti avventori v'erano rimasti, e giocarono il turno per la ragazza. Poi se la passarono l’uno dopo l’altro con scrupoloso rispetto al turno stabilito dai dadi. Essa si dibatté col primo, urlò col secondo, pianse col terzo, svenne col quarto. Lasciarono mezza morta anche lei, ruppero tutto il vasellame che si trovarono sottomano e andarono via. La moglie del bettoliere, furibonda per l’accaduto e per suo marito conciato in quel modo, appena la ragazza rinvenne la mise fuori della porta, come causa di tanto sconquasso. "Maritana
(era il nome della vittima) aveva paura di morire, ma anche d'andare
all'ospedale, e altrove non sapeva ove andare. Io, l'amico mio, le propose di
venire a casa sua, ove si sarebbe curata e avrebbe potuto poi rimanere a badare
alle faccenduole domestiche. Era filantropo, umanitario e pietoso, l'amico:
ho trascurato finora di dirvelo. Essa accettò, benedicendolo, gli baciò le
mani e gliele imbrattò di lacrime e di sangue. "Quel
sangue e quelle lacrime, espressione della riconoscenza e del dolore, lo
commossero. Era filosofo, ma anche tenero. La tenerezza, si diceva egli
stesso, è un fiore dell'anima umana. Sicuro: ma è anche un grave torto. "Maritana
aveva diciannove anni e, rimessasi e rasserenatasi dopo qualche giorno, gli
apparve anche belloccia. Egli aveva quasi cinquant'anni, ma era già così
grigio da dimostrarne quasi sessanta. Essa cominciò a chiamarlo "papà
padrone,,. Era. attivissima nel servire: sotto le sue mani le due stanzette che
formavano l'alloggio del maestro luccicavano per la nettezza, il desinare
risultava sempre cucinato a puntino, e la sera, quando egli se ne stava in casa,
l'aria era piena di canti di lei, accompagnati dalla musica delle stoviglie che
essa rigovernava. "La
notte egli dormiva nel suo lettuccio, lei in un giaciglio alla buona che s'era
fatto da sé nell’altra stanza. Ma egli cominciò presto a non poter più
dormire tranquillo: la presenza di quella giovane donna nella camera accanto gli
dava un certo turbamento, quasi nuovo per le sue carni divenute caste in
parecchi e parecchi anni di solitudine. Pensava allo stupro che essa aveva
patito e, dopo il senso di pena dei primi giorni, ne risentiva sempre più un
senso - eh, sì, non c'è eufemismo che 1' esprima meglio - d'eccitazione. "Una
notte non seppe resistere e andò a trovarla. Essa si destò e se lo vide
dinanzi in camicia e berretto da notte, col candeliere in mano, e scoppiò a
ridere. Mortificato, egli si ritirò, dopo aver giustificato la sua
apparizione con un bisogno di bere. Ma da quel momento essa gli parve così
semplice e graziosa che se ne innamorò. Se ne innamorò come di una signorina
per bene, meritevole dell'amore più rispettoso, pure se più appassionato. Le
sue carni autunnali ardevano al calore di quelle carni primaverili, aumentato
dalla temperatura sempre elevata della sua fantasia di uomo di studi, che non
sapeva pensare che letterariamente. Cominciò a vivere una specie d'egloga
teocritea, in cui l'umile donnetta rivestiva le forme d'una semideità
rusticana. "I
suoi approcci per conquistarla, per conquistarne il cuore e l’anima, insieme
con la persona, divennero riguardosi, spingendosi in qualche momento fino al
lirismo. Ed essa ne rideva. "Essa
non lo capiva, o se ne capiva le intenzioni, gli sembrava buffo. Essa
preferiva il garzone del macellaio o del panettiere, e il vaccaio che ogni
mattina veniva puntuale con la sua bestia dinanzi alla porta di strada a mungere
il latte che il mia amico divideva con lei per la loro prima colazione. Assorto
nei suoi studi in casa e gran parte del giorno fuori casa per impartire il suo
sapere agli allievi, egli non se ne accorgeva. E quando finalmente un giorno se
ne accorse per caso, sporgendosi dalla ringhiera della scala, per vedere cosa ne
fosse di lei che perdeva tanto tempo col vaccaio, credette di aver traveduto. E
quando si accorse anche del panettiere, pure per caso e in circostanze quasi
analoghe pensò che il mascalzone fosse l’uomo che aveva abusato della
semplicità della povera ragazza. Ma quando, alla fine, dopo averla spiata,
ritornò a casa improvvisamente e la colse col garzone del macellaio, cacciò
costui a bastonate e fece a lei una scenata da pazzo. " -
Questo tu fai della mia casa, della casa dove io t'ho raccolta e t'ho tenuta
come degna d'amore, aspettando che imparassi a volermi bene? " - E
non sto qui con voi solo a farvi la serva, dunque? Che vorreste da me? Sono
giovane e mi svago un poco, come tutte le giovani. " Lo
chiamava svagarsi un poco... Io
restai... oh, il rhum mi fa impappinare. Il mio amico Io restò senza fiato.
Essa ne approfittò per toglierglisi dinanzi e andarsene a letto. Anche lui fece
lo stesso, stordito, pesto nel cervello e nel cuore. "La
mattina dopo non la trovò più in casa. Essa era scappata via durante la notte,
portando con sé la sua poca roba, e non si fece più rivedere. Egli, che era
disposto a perdonarle, per poco non fu preso da un accidente. "-
Maritana, dove sei? - gridò e lamentò più giorni, aggirandosi nel suo piccolo
alloggio, guardando e toccando gli oggetti, il lettuccio, che gli parlavano di
lei. Certi momenti rinsaviva e si dava dell'imbecille, si schiaffeggiava e si
tirava la barba per punirsi di così bassa stupidità erotica. Ma, mio signore,
l’amore, il più vero e più inutile, è di rado un colloquio, spesso un
soliloquio, in cui tutto quel che vediamo nell'oggetto della nostra passione è
un dono che gli fa la nostra fantasia. "Un
tardo pomeriggio d'autunno egli ambulava fuori della città, sul lungofiume
alberato, lì dove la Sangonera si versa nella Segura, e ritardava a rincasare e
a sentirsi il quotidiano stringimento di cuore a trovar fredde e vuote le due
stanzette che già così colme e calde erano state per lui. I due fiumi, gonfi
per le piogge recenti, s'incontravano muggendo e schiumando al vertice di una
penisoletta ad angolo acuto, tutta macchie e forteti. Egli s'avviava verso
l’estremità di quella penisoletta quando, tra il lusco e il brusco dell'aria
ormai diventata color di viola, da una di quelle macchie vide uscire un uomo e
dietro una donna. Ciarlavano e ridevano. Egli riconobbe la voce, la figura e
il passo della donna, benché non apparisse che un'ombra. I due, fatti pochi
passi insieme, si separarono: lui, risalendo lungo la Segura, andò verso un
villaggetto poco distante; lei ritornò verso la città, incontro a quel
mentecatto dell'amico mio. Tanto mentecatto, che col sangue bollente a un tempo
per la gioia d'averla ritrovata e per l'ira d'averla sorpresa ancora una volta a
svagarsi, le si parò dinanzi cori un urlo: "-
Maritana! " - La
selvaggia sbigottì; ma appena lo riconobbe si mise a ridere: " -
Fin qui venite a scovarmi? "-
Maritana, perché mi hai lasciato? Torna a casa. Non posso vedermi senza di te.
Ti perdono tutto, ti farò un bell'abito, belle scarpe, belle camicie, ma dammi
un poco d'amore come lo dai per niente a quegli altri. " - Se
volete, tornerò a servirvi perché ancora non mi son trovata bene in nessun
posto e ho anche sofferto la fame. Ma amore, non mi va. Lo dò per niente a
quelli che mi piacciono. "-
Tanto mi detesti, Maritana? "-No,
papà padrone. Ma siete vecchio e buffo e mi vien da ridere a vedervi pretendere
di fare quel che fanno i giovani. „E lì a
ridere da scompisciarsene. "Egli,
umiliato e ferito, sentì la voglia improvvisa di schiaffeggiarla, di
prenderla a pugni, forse anche di strozzarla. Era un'eccitazione erotica anche
quella: maltrattarla, sarebbe stato un po' possederla. Le si scagliò addosso.
Essa non se ne impaurì; rise anzi più forte, ma volle sfuggirgli, quasi per
gioco, non farsi acchiappare; e, con mossa vivace, guizzò di fianco. Non so
dirvi come avvenne che scivolasse, le mancasse un piede all’orlo della ripa,
cadesse all’indietro, precipitasse giù per l’argine ripido. La risata finì
in un urlo, che si spense gorgogliando nell'acqua turbinante della confluenza. "Lui,
esterrefatto, rimase lì, nell' attesa di vederla riemergere. Chiamò
disperatamente : "-
Maritana ! "Ma
essa non rispose né riapparve più. "Il
mentecatto si mise a correre, scese giù fino a immergere i piedi nell'acqua,
costeggiò il fiume sino al vertice della penisoletta, sempre chiamando e
disperandosi. Sentì di essere lui l'assassino, l'omicida del suo amore, del
suo eccessivo ed inutile amore. Ma anche il suo dolore eccessivo fu inutile. "Non
ritornò a casa sua né quella sera, né mai. Lasciò Murcia, girovagando a
piedi e consumando il poco denaro che aveva seco, a bere, per annegare nel vino
la sua disperazione. Non amò più nessuno, non credette più in niente.
Ridivenne beone e non volle più correggersene. A che valeva? Da uomo costumato
e astemio aveva sempre visto male la vita. Il vino lo rese ilare. Il vino,
meglio di questo maledetto rum, che nel fondo ha lacrime per feccia... Così 1'
Ubbriaco concluse il suo racconto, e dagli occhi gonfi e socchiusi gli scorreva
un pianto che avrebbe sorpreso chi lo aveva visto sempre sorridere. Ma don
Giovanni, col capo riverso sulla spalliera del suo seggiolone, non lo
guardava. Forse non lo aveva neppure ascoltato. Cap. XXIIIn cui si comincia a sentire odor di catastrofe. II giorno dopo le finestre e la porta restarono chiuse fino a tardi nel palazzo dei conti di Marana. Qualche visitatrice che si presentò nel pomeriggio si sentì dire da Biagio, con aria compunta: - Il signor
conte dorme. Ma egli non
dormiva: si può dormire profondamente la notte avanti la battaglia di Rocroy,
non si può chiudere occhio la mattina dopo la sconfitta dell'Alkazar. Stava
disteso nel suo vasto e deserto letto, con gli occhi fissi al soffitto. Si
presentarono, dunque, delle visitatrici, con lieta sorpresa del Maggiordomo, il
quale si era aspettati effetti più disastrosi dall'ultima figura fatta dal
suo padrone alla malaugurata festa. Oltre il risentimento del governatore
c'era da attendersi quello delle dame. Invece
l’opinione pubblica femminile (quella maschile non conta, ai fini della nostra
storia) si era divisa in due correnti: l’una, delle più puritane e quindi
delle meno numerose, in aperta ostilità contro l’uomo che aveva insultato
così scandalosamente le signore oneste; l’altra, numericamente più forte,
disposta a giustificare e indulgere a quello che
chiamava un eccesso di piccanteria carnevalesca, ma forse, sotto sotto,
eccitata dalle sferzate dello sdegnoso giudice delle donne e dell'amore. Non poche
delle signore che la pensavano così, non resistevano al desiderio di una
conversazione più particolareggiata col burlador di Siviglia; e ciascuna sperava, in cuor suo, di convincerlo non essere
essa da disprezzarsi. II
Maggiordomo, trascorso quel giorno e la notte seguente credette opportuno fare
un passo presso il suo padrone e pupillo. Andò a trovarlo in camera da letto,
spalancò le finestre per dare adito alla luce di una delle più belle giornate
delle idi di marzo, e lo abbordò con queste paroleo : - Signore,
da trentadue ore non toccate cibo né bevanda. Ho dato ordine che vi sia subito
servita un' abbondante refezione. - Non ho
fame, - rispose debolmente il giovane. - Non vi si
richiede d'aver fame. Basta che abbiate appetito. E se neanche appetito avete,
meglio! Mangiate: l’appetito viene mangiando. Sapete che io tengo in grande
considerazione i detti popolari. Ho da parlarvi di cose importantissime e
forse decisive, e non è conveniente per voi affrontare a digiuno i miei
argomenti e le mie argomentazioni ben nutrite. Don
Giovanni si acconciò di malavoglia a mangiare qualche cosa dal vassoio che
Alfonso gli porgeva, colmo di cioccolata, latte, biscotti, marmellate e burro. - Non
vorrei - disse il Maggiordomo, un po' esitante - che sul vostro umore influisse
lo stupido racconto che io, sotto la brutale azione del rum, credo di avervi
fatto. Ogni volta che mi lascio andare a bere liquori traditori, mi scappano
di quei racconti senza capo né coda. Non credetene un'ette. Don
Giovanni scosse il capo senza parlare. - Veniamo
ad altro, - proseguì il Maggiordomo - che cosa opinate voi che io potrei fare
per accelerare la vostra guarigione ? Don
Giovanni lo guardò
con occhi velati, quasi spenti. -
Guarigione di che ? Io non sono malato. Dimmi, piuttosto: hai avuto notizie di
lei? - Lei ? -
fece l’uomo di lettere e sopratutto di filosofia, con accento di
commiserazione - Fanciullo mio, soffrite d'infiammazione alle meningi, da
dimenticare che la lei cui alludete, non più tardi di trentatré ore or
sono vi cadde dal cuore appena apprendeste che è all' incirca una cameriera ? - Ebbene, e
che vuol dire questo ? Mi è stato detto così; ma chi mi assicura che sia vero? - Come?
Avreste per caso già mutato opinione? - Lo so:
gli spiriti meschini non giudicano che dalle apparenze, attraverso le grettezze
sociali. Nessuno di voi è capace di approfondire se sotto un umile aspetto si
nasconda una bella persona una anima pura... - Tutte
coteste virtù angelicali sono da dimostrare. Per ora l’unica certezza è
che abbiamo da fare con una servetta, o, se preferite la parola più letteraria,
un'ancella. -
E sia.
Ma che
importa, se
io l'amo? La nobiltà, la ricchezza non sono necessarie all'amore. -
Dato e non concesso cotesto assioma, nelle nostre condizioni, vossignoria
vorrebbe fare all' amore cibandosi d'aria ? - Tu credi,
dunque, d'avere impegnato definitivamente la mia persona, non solo, ma anche
la mia anima e il mio cuore, per servirtene da panie nelle tue losche cacce? Io
dovrei ancora prestare a materia dei tuoi mercimoni i miei sentimenti, confondere
non soltanto il mio onore, ma anche l’amore mio con coteste tue mene
criminali? È vero, io accettai le tue proposte, ma in un momento di follia,
sperando ritrovare colei che era ormai il centro della mia vita... I1
Maggiordomo lo interruppe, glaciale come un giudice del Santo Uffizio: - Non
cercavate anche vostra madre? Don
Giovanni sbigottì. - Chi mi
ricordi, ora? Ardisci pure mescolare la santità di questo nome nelle nostre
faccende immonde? La tua bassezza non ha limiti! - Insultate
in me il ricordo della vostra filiale intenzione? Ma io non insulto quei colombi
dei vostri ineffabili genitori che, appena nato, vi misero una medaglia al collo
e vi dissero: «Arrangiati come puoi».
Se è vero che le persone si giudicano dalle azioni, io
sono costretto a pensare che ci sia più bassezza in quest'atto che nelle mie
parole. - Che vuoi
dire, allora? che ho tutto perduto, che non mi resta più nessuna meta, se mi
fallisce l’amore e se non so più cercare gli affetti?... Ma perché dovrebbe
fallirmi l’amore? - Io credo
che il fallimento stia nella vostra testa. - Forse
basta un minuto a ridarmi ogni cosa: basta che io riveda ed ascolti Catalina.
Uscirò, andrò a cercarla dappertutto, me le mostrerò col mio vero volto e con
le mie vere vesti. Se essa è una creatura umile, io che cosa sono in fondo!!
Un novizio, un... Me ne andrò via, subito! Da oggi ti tolgo il disturbo. - Dunque,
volete andare proprio in fondo alla vostra sublime scemenza? E dire che avreste
buoni numeri per trionfare nella vita: sareste anche un giovane d'ingegno, se
cotesto stolto amore non vi ottenebrasse. Stolto per la sua purezza. A ogni modo
siete maggiorenne e io non ho facoltà di trattenervi a forza. Fate quel che
credete e andate pure. Il
rinunziatario balzò giù dal letto e passò nello stanzino attiguo a vestirsi.
Il Maggiordomo, volgendosi, si trovò faccia a faccia con Alfonso che, servita
la colazione, era rimasto in un angolo ad ascoltare. - E noi
dove andremo? - domandò Alfonso, preoccupato. Il
Maggiordomo rispose con una serie di domande: -
Andarcene? E tu mi credi uomo da andarmene? Qual'è il capitano che abbandona
la fortezza prima d'averla strenuamente difesa? Non hai capito che io ho già
un' idea?... ma tu non capisci, non puoi capire. Si vede dall'impalcatura della
tua persona, in cui la testa è troppo piccola in proporzione del corpo, pur
avendo la nuca taurina delle nature fortemente virili. Tali erano gli atleti
greci; ma nessun atleta, lo attestano la storia e la poesia, ebbe il cervello
fecondo del poco venusto Socrate, del gobbo Esopo e del deforme Democrito. Alfonso,
che non sapeva di storia e d'arte greca, si limitò a rispondere modestamente: - Mi
dispiacerebbe abbandonare il servizio: in fondo, ci sto bene in questa casa. - Ci starai
meglio, Alfonso, non dubitare; e quanto al servizio, lo abbandonerai per
migliorarlo. - Che vuol
dire ? - Vieni di
là con me. Parleremo a nostro bell'agio. Andarono di
là, dove nessuno poteva sorprenderli o udire la loro conversazione, che fu
densa di propositi. - Senti,
Alfonso, - cominciò il Maggiordomo - sforzati di capirmi. Dice un antico
proverbio: val meglio un asino vivo che un dottore morto. Quel giovanotto, il
nostro fino a stamane padrone, come dottore non è da disprezzarsi: è
intelligente e ha una certa cultura. Ma è defunto. Tu sei quel che si dice un
asino; ma un bell’asinone di grossa portata. Se riuscirai a essere vivace
quanto egli è malinconico, noi saremo a posto. - A posto
per far che cosa? - domandò Alfonso, diffidente. - Diamine!
per fare quel che fa lui, o meglio quel che non fa lui. Un raggio
si aprì varco attraverso la dura scatola cranica del vigoroso servitore e si
rifletté anche nel suo volto. - Con le
signore? -
Precisamente. - Giurammio!
mi piacerebbe un'enormità!… Ma se poi si accorgono che sono uno staffiere?...
-
Ignorante! e non era uno staffiere Ruy Blas, che appena pochi anni fa è stato
amato dalla regina di Spagna? L'importante per noi, del resto, è che non se ne
accorgano prima. Ed io ho il mio piano. Sarò io che accudirò con finezza alla
parte discorsiva. Io riferirò le frasi più adorne, i madrigali più fioriti
del mio padrone alle sue amate, poiché egli non avrà troppo tempo da dedicare
a ciascuna. Dopo questa preparazione sentimentale, introdurrò volta a volta 1'
eletta nel sancta sanctorum, ove tu starai in una dolce penombra e avrai cura di
esprimerti a monosillabi svolgendo la parte fattiva. - Oh sì, sì,
purché non ci sia da chiaccherar troppo, come fa lui, vedrete di che cosa sarò
capace! In quel
momento si udì squillare la campanella della porta esterna. Entrambi corsero
verso l’anticamera. Alfonso guardò dal buco della serratura. - Uh, bella! - esclamò - Una dama. Queste che cominciano a venire da
adesso toccano già a me? - Con l’altro
ancora dentro, la situazione è delicata. Lasciamela studiare caso per
caso. Aprì la
porta e ne entrò, come una ventata, Estrella. Il
Maggiordomo ne rimase un po' sconcertato. - Oh, donna
Estrella!... non vi aspettavo... - Che mi
aspettassi o no giusto tu, - rispose Estrella, aggressiva - me ne infischio. - Già; ma
non aspettatevi di essere aspettata da lui... - Non
immischiarti più in quello che mi riguarda. Sei stato tu il cattivo genio fra
me e don Giovanni. Non ti voglio neppure per mezzano. Dimmi dov' è e basta. - Avete
torto a giudicarmi così severamente. Il cattivo genio del mio ex-padrone è lui
stesso. In questo momento si riveste, corpo e anima. - Digli che
l’aspetto. Alfonso
volle tentare un primo esperimento. Si fece avanti, inchinandosi a Estrella, con
grossolana smanceria: - Se
posso esservi utile io, al suo posto... Estrella lo
squadrò con sdegnoso cipiglio: - Tu, mulo?
Non ho nessuna carretta da farti tirare. Va, e appiccati. I due servi
si ritirarono mogi mogi. - Mi pare
che cominci male. - commentò Alfonso, estremamente mortificato - Se sono
tutte così... - No, mio
caro, - lo consolò il Maggiordomo - con le donne come lei non sempre i
bestioni della tua risma fanno effetto. Hanno bisogno di friandises.
Speriamo
nelle signore oneste. Passò
dinanzi a loro, senza notarli, don Giovanni, negli abiti da novizio di
Salamanca che gli vedemmo indosso al suo arrivo a Siviglia. Estrella gli andò
incontro. - Ah,
voi... con cotesto abito? Uscivate, così vestito?... per un' avventura,
forse?... Egli rimase
un momento interdetto. Ricordò che la sera della festa era stata lei, con un
tratto bellissimo, a garantire la sua ritirata. - Vai a
fare il sentimentale con un' altra? - prosegui Estrella, eccitandosi al suono
delle sue stesse parole - E io vengo qui, come una stupida, a cercare chi mi
trascura... Ma, del resto, che mi importa di voi, quando posso avere quanti e
quali uomini voglio?... Su, rispondi, dimmi qualche cosa, dimmi che m'inganno,
che ho torto... Non capisci che mi annoi con quell'abito nero e quell' aria da
funerale? - Questo è
il mio vero abito. - rispose egli. Essa non ne
rimase stordita che per un attimo. Poi sorrise indulgente crollando il capo. - Su per giù,
lo sai, l’avevo capito. Ho paura, però, che se la cosa diviene pubblica, tu
finisca con una collana di canapa. Beh, e che è avvenuto di nuovo? Tu non hai
più la costanza di recitare la tua parte? -
Disprezzatemi, - diss'egli amaramente - Non vale la pena parlarne... E fece per
andarsene. Essa lo trattenne. - No,
senti... forse ancora non è finito tutto. Non fare un'altra sciocchezza. Io ti
voglio bene. - Me,
Estrella ? Ne siete sicura? Non è finito il vostro capriccio per don Giovanni? - Cosa ti
piglia, ora? Vorresti persuadermi contro te stesso? Ti voglio bene, ti dico,
anche con quel brutto vestito e senza il becco d'un quattrino. Egli si
rischiarò un momento. - Allora io
potrei essere amato per quel che sono? - Ma lascia le frasi fatte - proruppe essa, ilare e tenera - delle fiabe e
dei drammi morali, del reuccio che si traveste
da contadino per provare la sua villanella!... Mi piaci anche per questo misto
di amaro e di ingenuo che è nel tuo carattere: a momenti sei vecchio e a
momenti bambino... No, non risentirti... Ecco, ti voglio bene pure pel tuo spropositato
orgoglio fondato su niente. Eh, sì, questa lasciamela dire, caro: su niente,
perché la dignità è sorella del fumo. Ascoltami: andremo via da Siviglia e
dalla Spagna, tu ed io... venderemo la mia palazzina, la terra, i gioielli ed il
resto, se occorre. Vedi? romanzesca anch'io. Ma io sono ricca da far paura:
quasi più ricca che bella... E tu mi piaci tanto!... Non so che cosa tu abbia,
ma è certo che sono pazza di te, mi capisci? Ho bisogno di averti tutto mio, di
essere tutta tua solamente. Detesto l’umanità potente e ricca che mi ha posta
in alto. Abbandono le cime, ritorno al piano da cui partii: il mio piccolo sogno
sei tu, nudo e crudo, col miele della tua voce sul mio cuore, col velluto dei
tuoi occhi su la mia pelle... e col tuo dolore inutile, ma pure così pieno di
passione, che somiglia a qualche non so che cosa di mio!.. . Ma che hai? Non
rispondi... e temi quasi che ti tocchi? Più
attristato che mai, egli le disse, esitante: - Estrella,
lasciami andar via. Non so risponderti. Essa rizzò
il capo, come una giumenta che adombra. - Perché?
un'altra sciocchezza a ogni costo? Egli preferì
ormai essere sincero, fino alla crudeltà, - Anch' io
sono innamorato, come te. - D'una
dama che non ti cura? rispondi. No? Ah, della cameriera della marchesa de Acuña,
quella dell'altr'ieri sera! Ebbene? non te la vieto. Basta aumentarle il
salario. La prenderemo al nostro servizio e ti spasserai un'ora al giorno a
parlarle di amore casto... Don
Giovanni proruppe in un grido di rivolta: - Che dici?
Catalina! essa è pura come non siamo né tu né io! Tu non sei capace di
comprendere che basta la purità a far felici! Non aveva
finito di dirla, che la sua frase gli parve eccessiva. Ma ritirarla non era più
possibile, ed Estrella non gliene diede il tempo. Essa fece un balzo, come per
una sferzata. Poi rispose calma e sprezzante, ma con un filo di spuma agli
angoli delle labbra: la giumenta mordeva il freno volontario: - Ah, sì?
Ti odora d'ideale, invece che di rigovernatura? Tienti, dunque, la tua poetica
cameriera... Anzi sposala, mi raccomando!... Avrete i confetti stasera stessa,
spero... Penserò io anche al bere! E, se la trovo, vi mando l’orchestra per
la serenata. Tutto pagato: lo sai già che non lesino. Prosit, mio caro.
Salute... e figli maschi ! Fece una
profondissima riverenza da gran dama e subito dopo un gesto tremendamente
volgare, di insulto e di minaccia, da facchino del mercato. E andò via di
corsa. |
|