Cap. XXI - Cap. XXII
Home Su Cap. II - Cap. III Cap. IV Cap. V - Cap- VI Cap. VII - Cap. VIII Cap. IX - Cap. X Cap. XI - Cap. XII Cap. XIII - Cap. XIV Cap. XV - Cap. XVI Cap. XVII - Cap. XVIII Cap. XIX - Cap. XX Cap. XXI - Cap. XXII Cap. XXIII - Cap. XXIV

 

Cap. XXI

Il Maggiordomo, anzi l’Ubbriaco, racconta una storia.

 

Don Giovanni, sorretto dal fedele Maggiordomo, preceduto da Biagio che rischiarava la strada con una malinconica torcia a vento, più fumo che fiamma come molte cose di questa vita, e seguito da Alfonso seccatissimo perché tolto troppo presto alle servette fra cui aveva avuto agio per ore di fare da gallo della Checca, giunse in dieci minuti al suo palazzo.

Suo? Si, probabilmente suo, perché egli non dubitava più di essere figlio di don Giovanni - di colui che aveva denominato don Giovanni primo e che appariva a lui come un simbolo. Eppure egli si sentiva estraneo a quella casa; mai se n'era sen­tito tanto estraneo come stavolta, montandone le scale piene di echi beffardi. Mesi prima, all'atto di pren­derne possesso, si era sentito invece tutt'altro cuore.

Le sale erano vuote e fredde. Gli altri servi dormivano e non avevano avuto cura di mantenere accesi i caminetti. Solamente in quello della sala da pranzo un po' di brace ancora languiva e faceva sentire di tanto in tanto un sospiro da una crepa che s'apriva, come una bocca, nei tizzi consunti.

- Mettetevi a sedere qui un momento, signore. - propose il fido socio offrendogli un seggiolone -­Le emozioni sono state forti, troppo forti, stasera: avete avuto degli accenti di cui io, da filosofo e da uomo di lettere, avrei motivo di compiacermi e tri­butarvene ammirazione. Da uomo pratico invece sono costretto a condannarvi, perché il vostro bel gesto si risolve in una solenne fregatura.

Il giovane non rispose. Non aveva pronunziato una parola da quando erano usciti dall'Alkazar.

II Maggiordomo continuò:

- Ravviverò il fuoco nel camino per riscaldarvi, prima di mettervi a letto. È ancora presto: mancano dieci minuti al tocco. Ci riscalderemo col fuoco all’esterno e con un po' di liquore all'interno. Prenderò quel rum autentico delle Antille e che vi fu donato da non ricordo più quale delle vostre ammiratrici che ha il marito governatore alla Giamaica. Vi servirò io stesso; mando prima a letto la servitù... Quel bravo e vigoroso Alfonso dormirà male, stanotte! È un giovanotto da valorizzare, Alfonso! Beh, ci ripen­seremo. Sono subito a voi.

Ritornò dopo cinque minuti, portando due bicchierini e, come una reliquia, la bottiglia del vec­chio rum.

- Beviamo. Non volete bere? Avete torto. Avreste avuto ragione, forse, a rifiutarvi lì all'Alkazar, dove (debbo riconoscerlo) lo Xeres vi ha prodotto un effetto oratorio sì, ma negativo. Strano come ci siano dei temperamenti che abbiano l'ebbrezza triste. Voi siete evidentemente di questi. Però di solito accade che quelli che l’hanno triste sulle prime, finiscono con l’averla allegrissima in fine. Sarebbe come dire che al principio della bottiglia trovino lacrime e che il riso lo trovino in fondo. Nella mia carriera, invece, io vi ho trovato sempre un moderato benessere che sale alla beatitudine agli ultimi fiaschi. Non so se e dove troverei lacrime. Sono sicuro che non ci riu­scirebbe nemmeno questo rum che pure è eccezionalmente robusto. Peccato che non vogliate provarlo. Un gocciolino appena, ve ne prego: un gocciolino. Esso brucia tutto, anche i pensieri cattivi e i ricordi penosi, pure se s'inpersonano in una cameriera. Ecco, un goccetto... benissimo! Ne sentite la forza trion­fante? II rum è il leone dei liquori. Capace, forse, alla lunga di vincere anche me. Ebbene, che importa alla fin fine essere vinto da una forza della natura qual'è l'alcool, piuttosto che lasciarsi vincere da una passione indecorosa? Non che io sia stato vinto da passioni simili alla vostra, badiamo,... lo preferisco i bei sogni che il vino e i liquori fabbricano nella anima mia, alle realtà amorose e ad ogni altra realtà che voi perseguite con tanto sprecato candore. Non crediate con ciò che io in vita mia non sia stato che un sacerdote della quint'essenza... oh, no! anche io.... Ma lasciamo stare me. Beviamo. Un'altra stilla? No? Proprio no? Berrò anch'io quella per voi.

"Se provaste a mandarne giù un sorso piano piano, come faccio io, sentireste uno strano calore, che somiglia a una carezza ardente, scendere giù per l’esofago e, passando, rapirvi il cuore e liquefarlo deliziosamente. Il cuore con tutti i suoi mali... Non credete voi che si possa adottare il rito di Bacco appunto per rimedio a certi mali cardiaci e a certi pensieri fissi, che v'ossessionano, che fanno della vostra vita allo stato normale un supplizio? lo si. Io... voglio dire un mio amico, intimo, intimissimo, che amavo quanto me stesso... dico "amavo,, e non "amo „ perché ora io non mi amo più... Ho uno sdegno profondo contro la mia entità mondana, mentre voglio ancora bene alle immagini e alle im­maginazioni che mi frullano pel cervello quando sollevo la fantasia sulle ali eteree dello spirito di vino!... Dicevo, dunque, un mio amico al quale non occorre assegnare un nome. Che cosa è un nome, in fin dei conti? Un'arbitraria marchiatura verbale. Ma un uomo che cosa ha in comune col suo nome? Che cosa ha da farsene? Ogni uomo ha un suo grandissimo nome che vale per sé solo pur essendo comune: "lo,,. E per chi gli vuol bene è "Tu,,. Sono questi i due soli nomi umani che contemporaneamente ap­partengono alla stessa persona. Il mio amico si chia­mava, dunque, Io. Era un buon diavolo, figlio adot­tivo di un piccolo mercante che lo aveva collocato a studiare presso un parroco, vecchio burbero bene­fico, che si pagava facendosi servire la messa. Dopo quattro anni di studio col parroco, studiò da sé finché, divenuto adulto, cominciò a sua volta a in­segnare. E così viveva, mediocremente sì, ma libero e quasi in letizia. Amò qualche donna; ma non fu fortunato, in genere, in amore, anzi neppure riuscì da giovane a conoscere bene le donne, quasi come voi... Ne trovò una un giorno che gli parve an­gelica al punto di meritare di farla compagna della vita. E la sposò.

"Che matrimonio felice, i primissimi anni! Ven­nero dei figli, uno, due, tre, quattro…, però…: appunto: però. Avete mai badato all'enorme importanza della parola "però„? È la parola più distrut­tiva dei dizionario. Due sillabe che valgono quanto un esplosivo. Annullano, appena pronunziate, tutto l'edificio di bene, di bello, di ottimistico. C'è quando la parola però agisce a rallentamento, come un tarlo, che perfora il cervello. "Tu sei un uomo felice, - pensa di sé stesso un soggetto - hai di che vivere, hai il tuo sapere che infonde un tono elevato alla tua vita, hai una famiglia... però... però... però..." Il però della persona di cui vi parlo penetrò nel suo cervello un giorno, aprendovisi un forellino pic­cino piccino, in forma di dubbio… "Però i due tuoi ultimi figli, un maschio e una femmina, non somigliano né a te né a tua moglie, che non siete biondi dagli occhi celesti; somigliano piuttosto al tuo allievo Tale, quel giovanotto ventenne e ben piantato che da tre anni assiduamente frequenta la tua casa e vi si indugia a tutte le ore, anche quando tu non ci sei, e si presta in modo così amabile e disinteressato a far giocare i due figli più gran­dicelli e perfino ad aiutar la signora nelle faccende domestiche... Un caso accidentale, è certo. Strano, però!... Sarebbe una bassezza sospettare a torto di tua moglie e di quel bravo figliuolo. Però...

"Permettete, signore, che io intercali il mio dire con qualche sorso di questa ambrosia degli dei. Mi rendo conto che essa mi trae verso i baratri della tristezza: fatto nuovo per me, cui il vino, più ne siano le coppe e perfino le pinte, reca buon umore e dolce levità di mente; ma stavolta, nell'esperi­mento a fondo che io sto tentando con questo liquore leonino, sento la necessità di sottomettermi al parti­colare genere d'influenza che il suo spirito esercita sul mio. E il mio spirito scende lentamente, sospeso su ali di farfalla color violetto, in un pozzo alquanto buio ma odoroso, di un odore non da tutti percepibile, che io solo so, in questo momento essere quello delle lacrime...

"Rieccomi alla storia del mio amico. A farvela breve, egli ebbe presto la convinzione e poi la cer­tezza che il sospetto era fondato. Ma non poté prenderne in pugno le prove materiali. Vi confesserò anzi che aveva una grande paura di quelle prove e non ardì forzare la situazione fino a procurarsele, per evitare di morirne dal dolore, di vedere - gli pareva allora, povero ingenuo! - la sua vita distrutta. Aveva sempre creduto nella fedeltà delle donne e nella lealtà degli uomini, sentimenti sovrapposti da secoli sull'anima umana, e che il maledetto istinto bruto annulla in pochi secondi.

"Non ne fece allusione alcuna alla moglie, ma indusse il suo allievo a diradare le sue visite, ad allontanarsi. Fu un rimedio peggiore del male: la donna, che in dieci anni di matrimonio aveva avuto agio di saggiare la debolezza del marito, divenne sfacciata. Si procurò un altro amante, e poi un terzo, e, precipitando sempre più nel vizio, contempora­neamente al terzo anche un quarto... E io... voglio dire il mio amico che abbiamo stabilito di chiamare Io e Tu, soffrendone atrocemente taceva, fingeva di non vedere e non sapere, per mantenere intatta l'entità familiare, per non versare scandalo e turbamento nelle anime delle sue creature.

"E passava il tempo, e la vita in casa diven­tava un inferno. Le creature, le sue e le non sue, erano legate alla madre e sempre più, crescendo, si staccavano dal padre dotto, pedante, privo di quella leggerezza di carattere che piace tanto agli adolescenti, ai ragazzi e anche alle donne. Gli amici della signora si succedevano, mutavano di rango, erano danarosi, la gratificavano di doni che il marito non si era sognato mai, date le sue modeste entrate, di farle. La signora, appunto, si lagnava di cotale modestia, di cui risentivano le conseguenze essa e i figli, che non potevano avere calzature nuove quante ne occorrevano, e il vestitino di velluto in luogo di bigello, e le camicie di lino o di seta e l’oggettino prezioso, e questo e quell'altro. E Io a soffrirne, e a faticare di più per accontentarli, senza riuscirci. Disgustato e stanco, cominciò a bere per stordirsi. Ma le prime bevute, senza che ci avesse fatto ancora l’abitudine, ebbero conseguenze disastrose. A ogni sbornietta una lite spaventosa in famiglia, un bac­cano da non dirsi. Siccome, però, a non ubbriacarsi la vita gli era resa impossibile da quello che vedeva e udiva e subiva in casa, non si emendò, anzi fece peggio. Finché una notte che la testa gli trottolava più del consueto, fu depositato dinanzi alla sua porta da alcuni compagni pietosi che bussarono e scappa­rono via per non essere coinvolti nell'inevitabile cataclisma familiare. La sua Santippe agì più ineso­rabilmente delle altre volte. Cosa abbia detto e fatto al momento, il mio amico non ricorda perché non ne ebbe la sensazione esatta. Egli sa soltanto che la mattina dopo, all’alba, il freddo pungente lo fe' rin­savire: era di febbraio ed egli aveva pernottato sul lastrico, ammollato da un secchio d'acqua che in parte aveva formato croste di ghiaccio sul suo viso. Attorno e su di lui erano stati gettati alla rinfusa i suoi pochi libri e i pochissimi indumenti di ricambio che formavano tutto il suo avere personale.

"Era quello il benservito che gli davano i suoi. Non osò, o forse non volle, bussare, insistere, pre­tendere di rientrare in casa sua. Raccolse i relitti del suo naufragio e se ne andò, più carico ma meno saggio di Democrito, in giro pel mondo. "Pel mon­do„ è un'esagerazione. Lasciò la sua città ch'era Granata, per passare a Murcia. Anche lì trovò qualche allievo e, malgrado gli emolumenti più scarsi, provò a rifarsi una vita, da solitario. Smise di bere. Con quel che gli restava dei magri guadagni, pagato lo stambugio in cui alloggiava e i suoi frugali pasti, acquistava di tanto in tanto qualche altro libro e godeva a trovarsi a tu per tu con le grandi menti.

"La mia gola si asciuga. Concedetemi un'altra parentesi liquida. Ahimè, questa bottiglia si vuota: è come una lampada che si spenga. Sento che il fondo è più amaro. Ha lo stesso sapore di quello che sto per narrarvi.

"Una sera Io... il mio amico rincasava. Era buio fondo nella sua strada, ove una sola lucernetta a olio ardeva dinanzi a un tabernacolo. Passando presso l'arcata di un cortile avverti un accento fioco, un gemito di bestia o di creatura umana ferita. Si appressò e scorse una specie di fardello buttato sul lastrico. Era quel fardello a gemere. Si chinò e lo sollevò. Si trattava di un essere umano in vesti fem­minili: diciamo meglio in brandelli di vesti. L'amico batté l’acciarino accendendo un pezzo d'esca, per cercar di decifrare l’essere umano che stava dentro quei brandelli.

"Al barlume dell'esca accesa intravide una ra­gazza meno che ventenne, i capelli scarmigliati, lacera anche in faccia ove si mescolavano lacrime e sangue. "Sarebbe lungo e inadatto al mio stato attuale riferirvi il dialogo, in parole e sottintesi, che si svolse fra i due. Ve lo dirò in succinto.

"La ragazza era la servetta di una bettola pros­sima all'arcata, venuta a servire in città da un pae­setto montano. Poche ore prima, in quella bettola erano capitati otto o dieci alabardieri che si erano messi a trincare e a giocare a dadi. Avevano comin­ciato col giocarsi il vino, poi altro vino, poi il denaro e quanto avevano addosso di giocabile, poi avevano litigato tra loro e due ne erano rimasti feriti. Ribev­vero per rappaciarsi e giocarono, casa c'era più da giocare? la ragazza che andava e veniva dal loro tavolo portando boccali, caraffe e bicchieri.

"Il bettoliere fece loro osservare che quella era una povera figliuola onesta e intatta, e che a ogni modo nel suo locale certe cose non erano ammesse. Gli alabardieri lo presero, gli riempirono la faccia e il ventre di cazzotti e lo lasciarono mezzo morto a terra. Poi chiusero la porta della bettola dopo aver mandato via quanti avventori v'erano rimasti, e gio­carono il turno per la ragazza. Poi se la passarono l’uno dopo l’altro con scrupoloso rispetto al turno stabilito dai dadi. Essa si dibatté col primo, urlò col secondo, pianse col terzo, svenne col quarto. Lasciarono mezza morta anche lei, ruppero tutto il vasellame che si trovarono sottomano e andarono via. La moglie del bettoliere, furibonda per l’acca­duto e per suo marito conciato in quel modo, appena la ragazza rinvenne la mise fuori della porta, come causa di tanto sconquasso.

"Maritana (era il nome della vittima) aveva paura di morire, ma anche d'andare all'ospedale, e altrove non sapeva ove andare. Io, l'amico mio, le propose di venire a casa sua, ove si sarebbe curata e avrebbe potuto poi rimanere a badare alle faccen­duole domestiche. Era filantropo, umanitario e pie­toso, l'amico: ho trascurato finora di dirvelo. Essa accettò, benedicendolo, gli baciò le mani e gliele imbrattò di lacrime e di sangue.

"Quel sangue e quelle lacrime, espressione della riconoscenza e del dolore, lo commossero. Era filo­sofo, ma anche tenero. La tenerezza, si diceva egli stesso, è un fiore dell'anima umana. Sicuro: ma è anche un grave torto.

"Maritana aveva diciannove anni e, rimessasi e rasserenatasi dopo qualche giorno, gli apparve anche belloccia. Egli aveva quasi cinquant'anni, ma era già così grigio da dimostrarne quasi sessanta. Essa cominciò a chiamarlo "papà padrone,,. Era. attivissima nel servire: sotto le sue mani le due stanzette che formavano l'alloggio del maestro lucci­cavano per la nettezza, il desinare risultava sempre cucinato a puntino, e la sera, quando egli se ne stava in casa, l'aria era piena di canti di lei, accompagnati dalla musica delle stoviglie che essa rigovernava.

"La notte egli dormiva nel suo lettuccio, lei in un giaciglio alla buona che s'era fatto da sé nell’altra stanza. Ma egli cominciò presto a non poter più dormire tranquillo: la presenza di quella giovane donna nella camera accanto gli dava un certo tur­bamento, quasi nuovo per le sue carni divenute caste in parecchi e parecchi anni di solitudine. Pensava allo stupro che essa aveva patito e, dopo il senso di pena dei primi giorni, ne risentiva sempre più un senso - eh, sì, non c'è eufemismo che 1' esprima meglio - d'eccitazione.

"Una notte non seppe resistere e andò a tro­varla. Essa si destò e se lo vide dinanzi in camicia e berretto da notte, col candeliere in mano, e scoppiò a ridere. Mortificato, egli si ritirò, dopo aver giusti­ficato la sua apparizione con un bisogno di bere. Ma da quel momento essa gli parve così semplice e graziosa che se ne innamorò. Se ne innamorò come di una signorina per bene, meritevole dell'amore più rispettoso, pure se più appassionato. Le sue carni autunnali ardevano al calore di quelle carni primaverili, aumentato dalla temperatura sempre ele­vata della sua fantasia di uomo di studi, che non sapeva pensare che letterariamente. Cominciò a vivere una specie d'egloga teocritea, in cui l'umile donnetta rivestiva le forme d'una semideità rusticana.

"I suoi approcci per conquistarla, per conqui­starne il cuore e l’anima, insieme con la persona, divennero riguardosi, spingendosi in qualche mo­mento fino al lirismo. Ed essa ne rideva.

"Essa non lo capiva, o se ne capiva le inten­zioni, gli sembrava buffo. Essa preferiva il garzone del macellaio o del panettiere, e il vaccaio che ogni mattina veniva puntuale con la sua bestia dinanzi alla porta di strada a mungere il latte che il mia amico divideva con lei per la loro prima colazione. Assorto nei suoi studi in casa e gran parte del giorno fuori casa per impartire il suo sapere agli allievi, egli non se ne accorgeva. E quando finalmente un giorno se ne accorse per caso, sporgendosi dalla ringhiera della scala, per vedere cosa ne fosse di lei che perdeva tanto tempo col vaccaio, credette di aver traveduto. E quando si accorse anche del pa­nettiere, pure per caso e in circostanze quasi analoghe pensò che il mascalzone fosse l’uomo che aveva abusato della semplicità della povera ragazza. Ma quando, alla fine, dopo averla spiata, ritornò a casa improvvisamente e la colse col garzone del macellaio, cacciò costui a bastonate e fece a lei una scenata da pazzo.

" - Questo tu fai della mia casa, della casa dove io t'ho raccolta e t'ho tenuta come degna d'amore, aspettando che imparassi a volermi bene?

" - E non sto qui con voi solo a farvi la serva, dunque? Che vorreste da me? Sono giovane e mi svago un poco, come tutte le giovani.

" Lo chiamava svagarsi un poco... Io restai... oh, il rhum mi fa impappinare. Il mio amico Io restò senza fiato. Essa ne approfittò per toglierglisi dinanzi e andarsene a letto. Anche lui fece lo stesso, stordito, pesto nel cervello e nel cuore.

"La mattina dopo non la trovò più in casa. Essa era scappata via durante la notte, portando con sé la sua poca roba, e non si fece più rivedere. Egli, che era disposto a perdonarle, per poco non fu preso da un accidente.

"- Maritana, dove sei? - gridò e lamentò più giorni, aggirandosi nel suo piccolo alloggio, guar­dando e toccando gli oggetti, il lettuccio, che gli parlavano di lei. Certi momenti rinsaviva e si dava dell'imbecille, si schiaffeggiava e si tirava la barba per punirsi di così bassa stupidità erotica. Ma, mio signore, l’amore, il più vero e più inutile, è di rado un colloquio, spesso un soliloquio, in cui tutto quel che vediamo nell'oggetto della nostra passione è un dono che gli fa la nostra fantasia.

"Un tardo pomeriggio d'autunno egli ambulava fuori della città, sul lungofiume alberato, lì dove la Sangonera si versa nella Segura, e ritardava a rincasare e a sentirsi il quotidiano stringimento di cuore a trovar fredde e vuote le due stanzette che già così colme e calde erano state per lui. I due fiumi, gonfi per le piogge recenti, s'incontravano muggendo e schiumando al vertice di una penisoletta ad angolo acuto, tutta macchie e forteti. Egli s'avviava verso l’estremità di quella penisoletta quando, tra il lusco e il brusco dell'aria ormai diventata color di viola, da una di quelle macchie vide uscire un uomo e dietro una donna. Ciarlavano e ridevano. Egli rico­nobbe la voce, la figura e il passo della donna, benché non apparisse che un'ombra. I due, fatti po­chi passi insieme, si separarono: lui, risalendo lungo la Segura, andò verso un villaggetto poco distante; lei ritornò verso la città, incontro a quel mentecatto dell'amico mio. Tanto mentecatto, che col sangue bollente a un tempo per la gioia d'averla ritrovata e per l'ira d'averla sorpresa ancora una volta a svagarsi, le si parò dinanzi cori un urlo:

"- Maritana!

" - La selvaggia sbigottì; ma appena lo rico­nobbe si mise a ridere:

" - Fin qui venite a scovarmi?

"- Maritana, perché mi hai lasciato? Torna a casa. Non posso vedermi senza di te. Ti perdono tutto, ti farò un bell'abito, belle scarpe, belle camicie, ma dammi un poco d'amore come lo dai per niente a quegli altri.

" - Se volete, tornerò a servirvi perché ancora non mi son trovata bene in nessun posto e ho anche sofferto la fame. Ma amore, non mi va. Lo dò per niente a quelli che mi piacciono.

"- Tanto mi detesti, Maritana?

"-No, papà padrone. Ma siete vecchio e buffo e mi vien da ridere a vedervi pretendere di fare quel che fanno i giovani.

„E lì a ridere da scompisciarsene.

"Egli, umiliato e ferito, sentì la voglia im­provvisa di schiaffeggiarla, di prenderla a pugni, forse anche di strozzarla. Era un'eccitazione erotica anche quella: maltrattarla, sarebbe stato un po' pos­sederla. Le si scagliò addosso. Essa non se ne im­paurì; rise anzi più forte, ma volle sfuggirgli, quasi per gioco, non farsi acchiappare; e, con mossa vivace, guizzò di fianco. Non so dirvi come avvenne che scivolasse, le mancasse un piede all’orlo della ripa, cadesse all’indietro, precipitasse giù per l’argine ripido. La risata finì in un urlo, che si spense gorgogliando nell'acqua turbinante della confluenza.

"Lui, esterrefatto, rimase lì, nell' attesa di ve­derla riemergere. Chiamò disperatamente :

"- Maritana !

"Ma essa non rispose né riapparve più.

"Il mentecatto si mise a correre, scese giù fino a immergere i piedi nell'acqua, costeggiò il fiume sino al vertice della penisoletta, sempre chiamando e disperandosi. Sentì di essere lui l'assassino, l'omi­cida del suo amore, del suo eccessivo ed inutile amore. Ma anche il suo dolore eccessivo fu inutile.

"Non ritornò a casa sua né quella sera, né mai. Lasciò Murcia, girovagando a piedi e consumando il poco denaro che aveva seco, a bere, per annegare nel vino la sua disperazione. Non amò più nessuno, non credette più in niente. Ridivenne beone e non volle più correggersene. A che valeva? Da uomo cos­tumato e astemio aveva sempre visto male la vita. Il vino lo rese ilare. Il vino, meglio di questo male­detto rum, che nel fondo ha lacrime per feccia...

Così 1' Ubbriaco concluse il suo racconto, e dagli occhi gonfi e socchiusi gli scorreva un pianto che avrebbe sorpreso chi lo aveva visto sempre sorridere.

Ma don Giovanni, col capo riverso sulla spal­liera del suo seggiolone, non lo guardava. Forse non lo aveva neppure ascoltato.

 

Cap. XXII

In cui si comincia a sentire odor di catastrofe.

 

 

II giorno dopo le finestre e la porta restarono chiuse fino a tardi nel palazzo dei conti di Marana. Qualche visitatrice che si presentò nel pomeriggio si sentì dire da Biagio, con aria compunta:

- Il signor conte dorme.

Ma egli non dormiva: si può dormire profondamente la notte avanti la battaglia di Rocroy, non si può chiudere occhio la mattina dopo la sconfitta dell'Alkazar. Stava disteso nel suo vasto e deserto letto, con gli occhi fissi al soffitto.

Si presentarono, dunque, delle visitatrici, con lieta sorpresa del Maggiordomo, il quale si era aspet­tati effetti più disastrosi dall'ultima figura fatta dal suo padrone alla malaugurata festa. Oltre il risen­timento del governatore c'era da attendersi quello delle dame.

Invece l’opinione pubblica femminile (quella maschile non conta, ai fini della nostra storia) si era divisa in due correnti: l’una, delle più puritane e quindi delle meno numerose, in aperta ostilità con­tro l’uomo che aveva insultato così scandalosamente le signore oneste; l’altra, numericamente più forte, disposta a giustificare e indulgere a quello che  chiamava un eccesso di piccanteria carnevalesca, ma forse, sotto sotto, eccitata dalle sferzate dello sdegnoso giudice delle donne e dell'amore.

Non poche delle signore che la pensavano così, non resistevano al desiderio di una conversazione più particolareggiata col burlador di Siviglia; e ciascuna sperava, in cuor suo, di convincerlo non essere essa da disprezzarsi.

II Maggiordomo, trascorso quel giorno e la notte seguente credette opportuno fare un passo presso il suo padrone e pupillo. Andò a trovarlo in camera da letto, spalancò le finestre per dare adito alla luce di una delle più belle giornate delle idi di marzo, e lo abbordò con queste paroleo :

- Signore, da trentadue ore non toccate cibo né bevanda. Ho dato ordine che vi sia subito servita un' abbondante refezione.

- Non ho fame, - rispose debolmente il giovane.

- Non vi si richiede d'aver fame. Basta che abbiate appetito. E se neanche appetito avete, me­glio! Mangiate: l’appetito viene mangiando. Sapete che io tengo in grande considerazione i detti popo­lari. Ho da parlarvi di cose importantissime e forse decisive, e non è conveniente per voi affrontare a digiuno i miei argomenti e le mie argomentazioni ben nutrite.

Don Giovanni si acconciò di malavoglia a man­giare qualche cosa dal vassoio che Alfonso gli por­geva, colmo di cioccolata, latte, biscotti, marmellate e burro.

- Non vorrei - disse il Maggiordomo, un po' esitante - che sul vostro umore influisse lo stupido racconto che io, sotto la brutale azione del rum, credo di avervi fatto. Ogni volta che mi lascio an­dare a bere liquori traditori, mi scappano di quei racconti senza capo né coda. Non credetene un'ette.

Don Giovanni scosse il capo senza parlare.

- Veniamo ad altro, - proseguì il Maggior­domo - che cosa opinate voi che io potrei fare per accelerare la vostra guarigione ?

Don Giovanni lo guardò con occhi velati, quasi spenti.

- Guarigione di che ? Io non sono malato. Dimmi, piuttosto: hai avuto notizie di lei?

- Lei ? - fece l’uomo di lettere e sopratutto di filosofia, con accento di commiserazione - Fan­ciullo mio, soffrite d'infiammazione alle meningi, da dimenticare che la lei cui alludete, non più tardi di trentatré ore or sono vi cadde dal cuore appena apprendeste che è all' incirca una cameriera ?

- Ebbene, e che vuol dire questo ? Mi è stato detto così; ma chi mi assicura che sia vero?

- Come? Avreste per caso già mutato opinione?

- Lo so: gli spiriti meschini non giudicano che dalle apparenze, attraverso le grettezze sociali. Nessuno di voi è capace di approfondire se sotto un umile aspetto si nasconda una bella persona una anima pura...

- Tutte coteste virtù angelicali sono da dimo­strare. Per ora l’unica certezza è che abbiamo da fare con una servetta, o, se preferite la parola più letteraria, un'ancella.

- E sia.                        Ma che                        importa, se                        io l'amo? La nobiltà, la ricchezza non sono necessarie all'amore.

- Dato e non concesso cotesto assioma, nelle nostre condizioni, vossignoria vorrebbe fare all' a­more cibandosi d'aria ?

- Tu credi, dunque, d'avere impegnato defi­nitivamente la mia persona, non solo, ma anche la mia anima e il mio cuore, per servirtene da panie nelle tue losche cacce? Io dovrei ancora prestare a materia dei tuoi mercimoni i miei sentimenti, con­fondere non soltanto il mio onore, ma anche l’amore mio con coteste tue mene criminali? È vero, io accettai le tue proposte, ma in un momento di follia, sperando ritrovare colei che era ormai il cen­tro della mia vita...

I1 Maggiordomo lo interruppe, glaciale come un giudice del Santo Uffizio:

- Non cercavate anche vostra madre?

Don Giovanni sbigottì.

- Chi mi ricordi, ora? Ardisci pure mescolare la santità di questo nome nelle nostre faccende im­monde? La tua bassezza non ha limiti!

- Insultate in me il ricordo della vostra filiale intenzione? Ma io non insulto quei colombi dei vostri ineffabili genitori che, appena nato, vi misero una medaglia al collo e vi dissero: «Arrangiati come puoi». Se è vero che le persone si giudicano dalle azioni, io sono costretto a pensare che ci sia più bassezza in quest'atto che nelle mie parole.

- Che vuoi dire, allora? che ho tutto perduto, che non mi resta più nessuna meta, se mi fallisce l’amore e se non so più cercare gli affetti?... Ma perché dovrebbe fallirmi l’amore?

- Io credo che il fallimento stia nella vostra testa.

- Forse basta un minuto a ridarmi ogni cosa: basta che io riveda ed ascolti Catalina. Uscirò, andrò a cercarla dappertutto, me le mostrerò col mio vero volto e con le mie vere vesti. Se essa è una crea­tura umile, io che cosa sono in fondo!! Un novizio, un... Me ne andrò via, subito! Da oggi ti tolgo il disturbo.

- Dunque, volete andare proprio in fondo alla vostra sublime scemenza? E dire che avreste buoni numeri per trionfare nella vita: sareste anche un giovane d'ingegno, se cotesto stolto amore non vi ottenebrasse. Stolto per la sua purezza. A ogni modo siete maggiorenne e io non ho facoltà di trattenervi a forza. Fate quel che credete e andate pure.

Il rinunziatario balzò giù dal letto e passò nello stanzino attiguo a vestirsi. Il Maggiordomo, volgen­dosi, si trovò faccia a faccia con Alfonso che, servita la colazione, era rimasto in un angolo ad ascoltare.

- E noi dove andremo? - domandò Alfonso, preoccupato.

Il Maggiordomo rispose con una serie di do­mande:

- Andarcene? E tu mi credi uomo da andar­mene? Qual'è il capitano che abbandona la fortezza prima d'averla strenuamente difesa? Non hai capito che io ho già un' idea?... ma tu non capisci, non puoi capire. Si vede dall'impalcatura della tua per­sona, in cui la testa è troppo piccola in propor­zione del corpo, pur avendo la nuca taurina delle nature fortemente virili. Tali erano gli atleti greci; ma nessun atleta, lo attestano la storia e la poesia, ebbe il cervello fecondo del poco venusto Socrate, del gobbo Esopo e del deforme Democrito.

Alfonso, che non sapeva di storia e d'arte greca, si limitò a rispondere modestamente:

- Mi dispiacerebbe abbandonare il servizio: in fondo, ci sto bene in questa casa.

- Ci starai meglio, Alfonso, non dubitare; e quanto al servizio, lo abbandonerai per migliorarlo.

- Che vuol dire ?

- Vieni di là con me. Parleremo a nostro bel­l'agio.

Andarono di là, dove nessuno poteva sorpren­derli o udire la loro conversazione, che fu densa di propositi.

- Senti, Alfonso, - cominciò il Maggiordo­mo - sforzati di capirmi. Dice un antico proverbio: val meglio un asino vivo che un dottore morto. Quel giovanotto, il nostro fino a stamane padrone, come dottore non è da disprezzarsi: è intelligente e ha una certa cultura. Ma è defunto. Tu sei quel che si dice un asino; ma un bell’asinone di grossa portata. Se riuscirai a essere vivace quanto egli è malinconico, noi saremo a posto.

- A posto per far che cosa? - domandò Al­fonso, diffidente.

- Diamine! per fare quel che fa lui, o meglio quel che non fa lui.

Un raggio si aprì varco attraverso la dura sca­tola cranica del vigoroso servitore e si rifletté anche nel suo volto.

- Con le signore?

- Precisamente.

- Giurammio! mi piacerebbe un'enormità!… Ma se poi si accorgono che sono uno staffiere?...

- Ignorante! e non era uno staffiere Ruy Blas, che appena pochi anni fa è stato amato dalla regina di Spagna? L'importante per noi, del resto, è che non se ne accorgano prima. Ed io ho il mio piano. Sarò io che accudirò con finezza alla parte discor­siva. Io riferirò le frasi più adorne, i madrigali più fioriti del mio padrone alle sue amate, poiché egli non avrà troppo tempo da dedicare a ciascuna. Dopo questa preparazione sentimentale, introdurrò volta a volta 1' eletta nel sancta sanctorum, ove tu starai in una dolce penombra e avrai cura di esprimerti a monosillabi svolgendo la parte fattiva.

- Oh sì, sì, purché non ci sia da chiaccherar troppo, come fa lui, vedrete di che cosa sarò ca­pace!

In quel momento si udì squillare la campanella della porta esterna. Entrambi corsero verso l’anti­camera. Alfonso guardò dal buco della serratura.

- Uh, bella! - esclamò - Una dama. Queste che cominciano a venire da adesso toccano già a me?

- Con l’altro                        ancora dentro, la situazione è delicata. Lasciamela studiare caso per caso.

Aprì la porta e ne entrò, come una ventata, Estrella. Il Maggiordomo ne rimase un po' sconcertato.

- Oh, donna Estrella!... non vi aspettavo...

- Che mi aspettassi o no giusto tu, - rispose Estrella, aggressiva - me ne infischio.

- Già; ma non aspettatevi di essere aspettata da lui...

- Non immischiarti più in quello che mi riguarda. Sei stato tu il cattivo genio fra ­me e don Giovanni. Non ti voglio neppure per mezzano. Dimmi dov' è e basta.

- Avete torto a giudicarmi così severamente. Il cattivo genio del mio ex-padrone è lui stesso. In questo momento si riveste, corpo e anima.

- Digli che l’aspetto.

Alfonso volle tentare un primo esperimento. Si fece avanti, inchinandosi a Estrella, con grossolana smanceria:

­- Se posso esservi utile io, al suo posto...

Estrella lo squadrò con sdegnoso cipiglio:

- Tu, mulo? Non ho nessuna carretta da farti tirare. Va, e appiccati.

I due servi si ritirarono mogi mogi.

- Mi pare che cominci male. - commentò Al­fonso, estremamente mortificato - Se sono tutte così...

- No, mio caro, - lo consolò il Maggiordo­mo - con le donne come lei non sempre i bestioni della tua risma fanno effetto. Hanno bisogno di frian­dises. Speriamo nelle signore oneste.

Passò dinanzi a loro, senza notarli, don Gio­vanni, negli abiti da novizio di Salamanca che gli vedemmo indosso al suo arrivo a Siviglia. Estrella gli andò incontro.

- Ah, voi... con cotesto abito? Uscivate, così vestito?... per un' avventura, forse?...

Egli rimase un momento interdetto. Ricordò che la sera della festa era stata lei, con un tratto bel­lissimo, a garantire la sua ritirata.

- Vai a fare il sentimentale con un' altra? - prosegui Estrella, eccitandosi al suono delle sue stesse parole - E io vengo qui, come una stupida, a cercare chi mi trascura... Ma, del resto, che mi importa di voi, quando posso avere quanti e quali uomini voglio?... Su, rispondi, dimmi qualche cosa, dimmi che m'inganno, che ho torto... Non capisci che mi annoi con quell'abito nero e quell' aria da funerale?

- Questo è il mio vero abito. - rispose egli.

Essa non ne rimase stordita che per un attimo. Poi sorrise indulgente crollando il capo.

- Su per giù, lo sai, l’avevo capito. Ho paura, però, che se la cosa diviene pubblica, tu finisca con una collana di canapa. Beh, e che è avvenuto di nuovo? Tu non hai più la costanza di recitare la tua parte?

- Disprezzatemi, - diss'egli amaramente - Non vale la pena parlarne...

E fece per andarsene. Essa lo trattenne.

- No, senti... forse ancora non è finito tutto. Non fare un'altra sciocchezza. Io ti voglio bene.

- Me, Estrella ? Ne siete sicura? Non è finito il vostro capriccio per don Giovanni?

- Cosa ti piglia, ora? Vorresti persuadermi contro te stesso? Ti voglio bene, ti dico, anche con quel brutto vestito e senza il becco d'un quattrino.

Egli si rischiarò un momento.

- Allora io potrei essere amato per quel che sono?

- Ma lascia le frasi fatte - proruppe essa, ilare e tenera - delle fiabe e dei drammi morali, del reuc­cio che si traveste da contadino per provare la sua villanella!... Mi piaci anche per questo misto di amaro e di ingenuo che è nel tuo carattere: a mo­menti sei vecchio e a momenti bambino... No, non risentirti... Ecco, ti voglio bene pure pel tuo spro­positato orgoglio fondato su niente. Eh, sì, questa lasciamela dire, caro: su niente, perché la dignità è sorella del fumo. Ascoltami: andremo via da Sivi­glia e dalla Spagna, tu ed io... venderemo la mia palazzina, la terra, i gioielli ed il resto, se occorre. Vedi? romanzesca anch'io. Ma io sono ricca da far paura: quasi più ricca che bella... E tu mi piaci tanto!... Non so che cosa tu abbia, ma è certo che sono pazza di te, mi capisci? Ho bisogno di averti tutto mio, di essere tutta tua solamente. Detesto l’umanità potente e ricca che mi ha posta in alto. Abbandono le cime, ritorno al piano da cui partii: il mio piccolo sogno sei tu, nudo e crudo, col miele della tua voce sul mio cuore, col velluto dei tuoi occhi su la mia pelle... e col tuo dolore inutile, ma pure così pieno di passione, che somi­glia a qualche non so che cosa di mio!.. . Ma che hai? Non rispondi... e temi quasi che ti tocchi?

Più attristato che mai, egli le disse, esitante:

- Estrella, lasciami andar via. Non so rispon­derti.

Essa rizzò il capo, come una giumenta che adombra.

- Perché? un'altra sciocchezza a ogni costo?

Egli preferì ormai essere sincero, fino alla cru­deltà,

- Anch' io sono innamorato, come te.

- D'una dama che non ti cura? rispondi. No? Ah, della cameriera della marchesa de Acuña, quella dell'altr'ieri sera! Ebbene? non te la vieto. Basta aumentarle il salario. La prenderemo al nostro ser­vizio e ti spasserai un'ora al giorno a parlarle di amore casto...

Don Giovanni proruppe in un grido di rivolta: 

- Che dici? Catalina! essa è pura come non siamo né tu né io! Tu non sei capace di compren­dere che basta la purità a far felici!

Non aveva finito di dirla, che la sua frase gli parve eccessiva. Ma ritirarla non era più possibile, ed Estrella non gliene diede il tempo. Essa fece un balzo, come per una sferzata. Poi rispose calma e sprezzante, ma con un filo di spuma agli angoli delle labbra: la giumenta mordeva il freno volontario:

- Ah, sì? Ti odora d'ideale, invece che di rigovernatura? Tienti, dunque, la tua poetica came­riera... Anzi sposala, mi raccomando!... Avrete i confetti stasera stessa, spero... Penserò io anche al bere! E, se la trovo, vi mando l’orchestra per la serenata. Tutto pagato: lo sai già che non lesino. Prosit, mio caro. Salute... e figli maschi !

Fece una profondissima riverenza da gran dama e subito dopo un gesto tremendamente volgare, di insulto e di minaccia, da facchino del mercato. E andò via di corsa.

 
Home ] Santa Maria della Spina ] La vita al vento ] L'avventura... ]