Cap. XXIII - Cap. XXIV
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Cap. XXIII

Don Giovanni terzo all’opera.

 

Non sappiamo perché nei romanzi moderni non si adoperino più certe frasi e certi mezzi ch'erano d'uso comune nei romanzi del secolo scorso, anche di autori famosi. A noi invece è assai comodo, a questo punto, servirci di una di quelle frasi, che è uno dei mezzi dell' antico raccontare facile e piano:

"Lasciamo per un momento da parte il nostro eroe, e vediamo che cosa avviene frattanto nel palaz­zotto, ove sono rimasti il Maggiordomo ed il robu­sto Alfonso...

Avevano essi, non visti, ascoltato il dialogo fra don Giovanni ed Estrella, il Maggiordomo attento e Alfonso distratto e con frequenti sbadigli. Alla fine l’uomo di lettere e filosofia commentò:

- Hai sentito? Estrella mi ha commosso... Di' su, che organo complicato, il cuore!

E Alfonso tornando al suo punto fisso:

- E adesso che cosa faremo?

- Pazienza, mio caro, pazienza. Affidiamoci al destino, il quale è un dio cieco, è vero, ma ciò malgrado cammina molto e, non di rado, spedito. Avresti tu qualche idea, per caso?

- Sì: io non ne posso più dall'appetito.

- Ecco, cotesto non può chiamarsi un concetto neanche in filosofia epicurea; ma non nego che enun­ciato così, ex abrupto, fa un certo effetto. Io ti esorto a cercare in dispensa, per soddisfare la tesi del tuo ventricolo pragmatista.

- E voi?

- Io, figliuolo, aspetto o meglio temporeggio: cunctor, come Fabio. Il mio sistema riposa sull'in­telletto, quindi la mensa vi figura meno. A schiarirmi la visione delle cose a me basta un buon liquido. Per ora son dietro a scoprire una pista famosa, che assicurerà ai tuoi denti selvaggina principesca. Purché mi lavori da giovane sennato e affronti con amor proprio i prossimi cimenti.

- Ci dev'essere ancora un pasticcio - rispose in tutto Alfonso, avviandosi verso là cucina.

- Bravo, mangialo. Mangiali sempre, i pasticci: procura piuttosto non farne, né mettertici dentro. In questo eccelle il tuo immediato predecessore, alias don Giovanni. E fossero stati di carne, i suoi pa­sticci! Ma non à saputo farli che di magro.

Di lì a poco; un'altra scampanellata alla porta. II Maggiordomo si affrettò per andare ad aprire; Alfonso dietro di lui a bocca piena.

- Scommetto che è un'altra dama.

II Maggiordomo guardò dal buco della serratura.

- Santo cielo, tu vedi dame dappertutto! Ma stavolta non è che una pedina.

- È sempre una donna. Le sento a distanza.

- Ma che donna! Un'ex donna: Consuelo. Da mesi non fa che aggirarsi attorno al palazzo. Oggi ardisce montarne le scale. Cosa vuole? Sentiamo. Aprì. La donna dai capelli bianchi e dagli occhi azzurri rimase sulla soglia.

- Beh, chi cercate, bellezza dei tempi che furono, nella casa di don Giovanni? Forse le illusioni che un giorno vi avete lasciato?

- Forse. - rispose la bella voce un po' tri­ste - Cerco il giovanotto che sta qui.

- Ci stava. Addio.

- È partito?

- Fisicamente e moralmente.

- Voi m' ingannate. Debbo dargli una lettera e parlargli.

- Lettera di chi? Potete darmela, perché la sua facoltà di ricever lettere è stata trasmessa a me.

- No, no. Voglio e debbo darla a lui e voglio anche parlargli, non capite ? Dov' è ?

- Cercalo in via del Paradiso Terrestre, sotto l’albero del Bene e del Male. È lì ad aspettare con la bocca aperta che gli caschi il pomo.

E ciò detto, il Maggiordomo richiuse la porta in faccia alla donna.

- Maledetto ! - imprecò costei.

- Se fossi in voi - disse Alfonso, impressionato - farei gli scongiuri. Niente di peggio della maledizione di una vecchia.

- Credi? C'è di buono che non è vecchia, benché ne abbia le apparenze. E su di me le maledizioni di persone di mezza età non hanno effetto. Andiamo di là, piuttosto: tu devi vestirti da quel don Giovanni che sei.

Non fu facile trovare nella guardaroba del messo conte di Marana un costume che s'adattasse alla corporatura alquanto massiccia del promosso staffiere. Alla fine il Maggiordomo ricordò che ne esisteva, messo da parte, uno che il predecessore non aveva mai usato, perché riuscito un po' largo.

- Mica male - giudicò, dopo che Alfonso lo ebbe indossato - Sembri uno che prosperi di venti­quattro in ventiquattr'ore. Si dirà che il tuo volume sia aumentato nel tempo che il sarto impiegò a fi­nirti il vestito. Speriamo che presto le entrate ci consentano di fartene uno su misura.

Ma la giornata si presentava magra. Giunse qualche staffiere e qualche dueña, latori di missive femminili o di donativi non molto consistenti; il Maggiordomo rispose a nome di don Giovanni e fece anche di più: diramò inviti a signore che fino a quel momento erano state trascurate dalla passata gestione. Mandò, per distribuirli, il lacchè Biagio, che ancora non si rendeva conto di quanto avve­niva in famiglia.

- Oggi tutte queste letterine debbono essere recapitate - gli raccomandò il Maggiordomo - Ba­da di non fare adagio, Biagio !

Alfonso, che di momento in momento veniva acquistando maggior cognizione del suo nuovo stato, un po' per effetto dei motivi esterni, un po' per autosuggestione, non poteva più star fermo dall'im­pazienza. Passava da uno specchio all'altro a mirar­visi di prospetto, di tre quarti, di profilo e di dietro, godendo specialmente nel salone dove gli specchi si fronteggiavano ed egli poteva vedersi ripetuto in serie, quasi all' infinito. Dalla contemplazione del nuovo se stesso, si volgeva poi all'attesa delle innu­meri dame che dovevano venire a esperimentare le sue virtù d'amatore: s'affacciava a una finestra per guardare nella piazzetta; e poi a un'altra e finanche al grande balcone centrale.

- Diamine! - lo rimbrottò vivacemente il Mag­giordomo - Che mi combini, Alfonso mio? Non sai che un gentiluomo non si espone così facilmente come tu fai ai balconi del proprio palazzo? Datti importanza, per san Bacco!

Standosene importantemente dietro le stecche di una persiana, il gentiluomo Alfonso scorse alfine qualcosa che lo emozionò. Corse allora dal Mag­giordomo, gridando:

- Un'altra dama ! un' altra dama !

- Piano, - lo rimbrottò quegli per la seconda volta - Un gentiluomo non grida e non si scompone così puerilmente per un fatto ordinario della sua giornata. Che diamine ti piglia? Sarà appena una gonnella.

- È una dama, vi dico. Guardate da quella finestra. Viene qui. Ed è giovine: corre come una cerva. Attraversa la piazza. È avvolta nella mantiglia. Ah, questa è la buona: mi butto a capofitto! Ecco, ecco: sale, udite? I1 cuore mi dice che ci siamo davvero, stavolta!

- Ma che cuore!

Squillò infatti la campanella della. porta d'in­gresso. Il cauto uomo di lettere e filosofia domandò, senza aprire:

- Chi è ? Che si vuole?

- Cerco di don Giovanni. Son io, sono Cata­lina... Mi aprano, di grazia.

- Ohibò! - esclamò il Maggiordomo, contra­riatissimo - È quella gattamorta della romanzesca lettrice o ancella o cameriera di donn'Anna! Qui si casca dalla padella nella brace!

- Facciamola entrare - propose Alfonso, con aria non sufficientemente padronale. E, detto fatto, aprì da sé la porta con gravissima infrazione della etichetta.

Catalina entrò subito, tutta sconvolta.

- Perdonate, miei signori... Don Giovanni certamente è qui... So che non mi negherà aiuto.

- Perdinci! è un buon bocconcino - disse Alfonso, eccitato, all'orecchio del Maggiordomo.

- È un affare in cui non vedo bene - gli rispo­se piano di rimando costui - È un passivo.

- Vi prego, - insisté la ragazza non compren­dendo quei misteriosi bisbigli - lasciatemi parlare con lui.

- Il vostro "lui", fanciulla mia, - rispose gravemente l'uomo di lettere - non è più lui -per niente.

- Come, per niente?

- Se la parola non vi garba, diremo piuttosto per nulla.

Essa si sgomentò.

- Ho sbagliato indirizzo, forse? Pure è questa la casa famosa... vi sono venuta per conto di donna Anna, una volta, a lasciare una lettera proprio a voi, mi pare, signor Maggiordomo... Siate buoni, miei signori, ditemi dov'è don Giovanni.

Alfonso, deciso, si rese autonomo.

- Son qui.

Per poco Catalina non si mise a piangere.

- Oh, non vorrete, perché sono una povera ragazza, continuare a prendervi gioco di me.

- Poveraccia! - borbottò il Maggiordomo - si sente davvero che è di primo volo.

- Che cosa vi fa dubitare? - domandò Alfonso, sbirciandosi di traverso nello specchio d'un'applique.

- Don Giovanni, col quale ho parlato alla festa del governatore, era un altro.

E Alfonso, ormai spinto risolutamente nella via dell' indipendenza e dell' audacia:

- Può darsi; ma il vero son io. Ditelo Maggiordomo.

A costui non rimase che confermare.

- Certamente: è il più vero dei tre, signorina. II primo fu, il secondo non può, il terzo sarà.

- Non capisco. - disse Catalina, sempre più imbrogliata - Ma allora il signore dell'altra sera? Alfonso ebbe una trovata che lo innalzò, anche per la parte intellettiva, di parecchi cubiti agli occhi del suo socio:

- Era un mio servitore, che approfittò del car­nevale per travestirsi coi miei panni.

- Ma adesso lo abbiamo scacciato. - proseguì il Maggiordomo - Se lo volete cercare, ci sono nella città almeno cento strade in cui non vi sarà difficile rintracciarlo.

- Oh, che caso sciagurato! - lamentò la ra­gazza. non riuscendo più a frenare le lacrime - Non ci sarà nessuno dunque ad avere pietà di me?

- Ma no, ci siamo noi... anzi io! - s'affrettò a dire Alfonso, con prosopopea - Io, il vero don Giovanni ! Parlate; che avete ?

- Io sono vittima di quello scherzo. - comin­ciò a raccontare la ragazza - Uno scherzo, però, che durava da un pezzo, signor conte, poiché la mia padrona conosceva già quell'altro come don Giovanni. Ebbene, essa s'ebbe a male della prefe­renza che mi dimostrò alla festa quel signore...

- Don Giovanni?... cioè, il mio servo? E allora?

- Mi ha licenziata.

- Licenziata? oggi?

- Sì, - confermò Catalina con un singhiozzo - senza un soldo di benservito.

- L'avevo detto io! - mormorò il Maggior­domo - Senza un soldo!

- Che padrona disonesta ! - esclamò Alfonso, sinceramente indignato - E poi si lagnano dei servi! Non c' è giustizia, in questo mondo!

- A1 momento non me ne sono preoccupata. Ho pensato all'altro voi, che mi si era offerto per marito...

- Scherzo di carnevale anche questo. – tenne a chiarire il Maggiordomo.

- ... e sono venuta, con l'intenzione di pregarlo d'accogliermi, non come moglie (non osavo più aspi­rare a tanto) ma come cameriera.

- Già, - disse, con atroce sarcasmo, don Gio­vanni terzo - lui vi avrebbe presa anche in moglie! Grazie tante! cameriere con cameriera. Ma io sarò tal padrone, da non farvi rimpiangere il ma­rito...

E le allungò una carezza.

- Oh, un gran signore come lei, se vorrà de­gnarsi di tanto...

- Carina mia, vedrete che stare al nostro ser­vizio è un piacere. Non vi mancherà niente: buoni bocconi, abiti, profumi... Che ne dite, Maggior­domo ?

Altra carezza.

- Ho capito. - disse il Maggiordomo, dandosi una grattatina alla barba - io vado per le candele. Comincia a far buio.

E li lasciò soli.

- Si riconosce subito l'aristocratico, dai suoi, modi, - disse Catalina, riconfortata - Invece quel giovanotto che usurpò il suo nome, si vedeva: era troppo impacciato.

- Ma sì, un meschino novizio... - rispose don Giovanni terzo, con crescente importanza - Vi mostrerò io la maniera di voler bene sul serio a un bel tocco di figliuola come voi.

- Dio la benedica! Sono così povera e sola!

- Che sola! da oggi in poi sarete in e sola! compagnia. Anzi, venite subito a vedere la camera che vi destiniamo.

E Alfonso le cinse con un braccio la vita, traen­dola seco.

- Una vera camera, non un solaio? - escla­mò la ragazza, abbagliata.

- Orsù, siete troppo modesta. Andiamo. Venite a visitare tutto l’appartamento.

Si avviarono. Il vero don Giovanni dimostrava una fretta che lusingava la fanciulla. Nella stanza accanto incontrarono il Maggiordomo che ritornava con due doppieri accesi. Alfonso gliene tolse uno di mano e proseguì, tenendo sempre Catalina, verso i segreti penetrali.

Il Maggiordomo rimase, a dire il vero, più im­pressionato che mai. Ricordò involontariamente la scena che aveva descritta al suo primo e, in fondo, sempre caro socio, di Maritana in potere degli ala­bardieri. Si grattò di nuovo, parlando, secondo il solito, a se stesso.

- Costui va troppo alla lesta. Non vorrei fosse un altro guaio. Un guaio certamente, pel mio povero amico sentimentale. Oh, perché è cosí difficile la perfezione, l’armonioso equilibrio fra sentimenti ed azioni? A me quel vento, quel fumo che si chiama gioventù coi suoi vigorosi attributi, e, accoppiandola alla mia saggezza troppo matura, alla mia sessan­tenne esperienza, saprei fare della vita un miracolo mai visto! Deluso dal Novizio, dovrei invece essere ora deluso anche da Alfonso? L'incontinenza dell’uno, affamato d'ideale, e dell'altro, affamato di piacere, dimostrano ancora una volta alla mia ostinata e ottimistica filantropia, ma non alla loro caparbietà, che ha torto chi non vuole centellinare la vita, e che le scorpacciate di qualunque genere fanno male.

Si tastò nella capace tasca posteriore della pa­landrana e ne cavò una bottiglia. Era l’ultima d'un donativo di sei, di vino delle Canarie. La carezzò con maggior delicatezza di Alfonso quando aveva carezzato Catalina. E l’apostrofò:

- Tu sola mi sei rimasta fedele. "Cosa bella mortal che per me dura„ Nel tuo fondo non c'è nulla di acido o d'amaro, come in tutte le altre cose dell'esistenza, anche in quelle che più o meno a lungo sembrano felicità. Diventi più buona invec­chiando, mentre io divento più cattivo. Ho sbagliato nei miei tentativi di fare un'opera d'arte della mia vita e di quella di altri. Tu sola mi sei rimasta fedele. Tutto il resto è letteratura.

E cominciò a bere.

In quel momento ecco un'altra volta sonare la campanella della porta. Egli non interruppe la be­vuta, fin all'ultima goccia. Si sonò di nuovo, più forte.

- Un'altra suonata. - egli si disse, calmo, forbendosi le labbra col rovescio della mano - Femminile, non direi: è d'un'urgenza eccessiva, e quindi indecorosa. Non può essere nemmeno la Fortuna: sarebbe troppo sfacciata. Però mi sa di finale. Se fosse il deus ex machina delle tragedie euripidee, e mi togliesse il disturbo di provvedere da me alla soluzione? In tal caso bisognerebbe fargli onore. Dunque, apriamo, senza chiedere né guardare. Tanto, chiunque sia, entri pure: tutto ormai m' è eguale.

E andò ad aprire.

 

 

 

Cap. XXIV

In cui si assiste al crollo non solo del sistema idealistico, ma anche di quello materialistico.

 

Don Giovanni secondo, ridivenuto il Novizio, uscì per mettersi alla ricerca di Catalina. La sua decisione era stata presa, come abbiamo visto, dopo un giorno e due notti, suddivisi in varii periodi: ebbrezza, delirio parossistico, abbattimento, medita­zione, ritorno alla speranza ottimistica.

Per primo, naturalmente, andò a cercarla al pa­lazzo de Acuña. Si presentò al portinaio il quale, come c' era da aspettarselo, si guardò bene dal riconoscerlo sotto il nuovo abito, anzi lo trattò con molto sussiego.

- Di grazia, la signorina Catalina?

- Con quale diritto m'interpellate sul conto d'una componente del nostro servitorame?

- Sono... sono suo fratello.

- Risulta a noi che quella sciagurata fanciulla non ha fratelli, tranne forse qualcuno di latte.

- Appunto sono suo fratello di latte.

- Non me ne convincete, e mia mansione sareb­be di rifiutarmi a rispondervi, non solo, ma di potere anche consegnarvi agli alguazili, se la signorina Catalina stesse sempre a cuore della signora marchesa. Ma siccome non me ne importa niente, una volta che essa da oggi non appartiene più alla nostra nobile casa, mi limito a stringermi nelle spalle, guar­date, e a farvi segno con la mano di passare oltre.

Non era una risposta cordiale, ma lasciava a sufficienza intendere l’accaduto; e al nostro eroe non rimase che passare oltre.

Per andare dove? Per qualche ora vagò alla ventura, tessendo le principali strade di Siviglia, nella vaga speranza di incontrare colei che non era riuscito a cancellare dal suo cuore; finché ebbe l'ispi­razione di ritornare verso quello che era stato fino alla mattina il suo palazzo.

Ed ecco che a un tratto sentì dei passi leggeri e affrettati alle sue spalle: passi di donna. Si volse, e ravvisò Consuelo che lo inseguiva.

- Don Giovanni. - lo chiamò essa, fermando­glisi di fronte, sorridente.

- Non è più il mio nome, cotesto. - le ri­spose egli.

Consuelo lo guardò dentro gli occhi e gli lesse certo una grande tristezza, perché il sorriso le morì sulle labbra. Pure, seppe trovare delle parole inco­raggianti.

- Non importa il nome, se potete essere amato meglio di quel che egli non fu, e sopratutto se voi sapete amare meglio.

- Perché mi parlate così? domandò il giovane, sorpreso, ed anche lievemente commosso.

- Perché io credo d'aver compreso i vostri sentimenti e perché vi porto una parola di qualcuna che vi vuol bene.

Un nome sfuggì dalle labbra di lui:

- Catalina !

Essa scosse il capo.

- Non si chiama così: ha un nome infinitamente più bello, come la sua persona, e luminoso, come la sua giovinezza innocente. Si chiama Solar. Non ricordate? Io portai in casa vostra una sua prima lettera. Io conosco la sua serva più fidata, che si è rivolta di nuovo a me per consegnarvi la seconda lettera della sua padroncina, perché né essa né altre della casa potrebbero sbrigare una faccenda simile. Sono sorvegliate dai servi fedeli al padrone, che è gelosissimo della sua unica figlia.

Ma egli l'ascoltava distratto.

- Io amo Catalina, anche se è meno bella, an­se è meno nobile... Anzi non è nobile affatto, poiché non è che la lettrice di donn'Anna de Acuña. Ma io l'amo di più, ora che la so umile e forse infelice.

- Infelice? Ho visto meno d'un'ora fa una ra­gazza che mi è sembrata infelice.

- Dove?

- Aspettavo il vostro ritorno, presso casa vostra e l’ho vista entrare.

- Nel palazzo? Una ragazza che veniva a cer­carmi. Forse era lei... Forse ha bisogno di me! Addio, lasciatemi andare.

- Prendete questa lettera, e leggetela. Ve ne prego, leggetela ugualmente: chissà essa non vi porti la fortuna che voi meritate.

Il Novizio, ritornato don Giovanni, non seppe rispondere con un rifiuto. Prese la lettera, se la mise in seno senza aprirla, e corse verso il palazzo.

Vi giunse in pochi minuti. Montò le scale quasi volando e tirò con furia il cordone della campanella.

La scampanellata che sapeva di finale, pel Maggiordomo.

Fu costui che aprì la porta. Scorgendo il dimesso compagno ed amico, esclamò deluso:

- Toh, il pecorello smarrito.

- So - lo interpellò quegli, trafelato – che ­una giovane è venuta qui, meno di un'ora fa. Dov'è? Il cuore mi dice...

- Quanto chiacchera cotesto cuore di voi tutti! - esclamò il Maggiordomo, tediato - Perfino quello di Alfonso!... Voi sommate errore su errore, miei giovani, per ascoltare un muscolo così linguacciuto. Buon per me che gli ho messo il bavaglio.

- Mettilo anche sulla tua bocca! - gridò don Giovanni secondo, irritato - Rispondi: quella gio­vane era Catalina?

- Voi pensate ancora a quella...

- Sì, la penso; sì, sono pazzo di lei! È an­cora qui?

Il Maggiordomo gli mise la mano su la spalla e gli parlò con sincera bonomia:

- Senti un po', mio caro ragazzo: guarisci! Lasciala andare. Non ne vale la pena. È una piccola donnetta, sì, una straccionciella... Lasciami parlare ascolta ancora un momento. Non dico di certa straccioneria d'indumenti, che talvolta            copre ali. Anch'io e te, quando ci conoscemmo, eravamo all’­esterno straccioni. Ma ti parlo della straccioneria dei sentimenti, che nessun amore, neanche il tuo, potrà mai rivestire a nuovo. Su, ragazzo mio, scegli la strada: procura di salire o torna al tuo seminario.

- Ma non capisci - rispose il giovane quasi disperatamente - che dopo tutte le donne che ho conosciuto, io non chiedo niente altro che il suo candore?

- II suo candore? Oh, beata Arcadia!

Nello stesso tempo altre risa si udirono, dalle stanze di là. Il fallito don Giovanni rimase immobile un momento, impallidendo.

- Che significa? Chi è che ride?

- Niente: - Si affrettò a rispondere il Maggior­domo. - è l’eco delle mie risa.

- C'è una donna... La donna che poc'anzi è venuta a cercare di me.

- Vossignoria si calmi, e le spiegherò come è andata.

- No, lasciami passare; voglio vedere. C'è anche un uomo... Chi è?

- È Alfonso che occupa il tempo facendo de vocalizzi...

- Alfonso? Togliti di mezzo. Voglio vedere!

E il Novizio, ripreso il fare reciso e autoritari di don Giovanni, scostò con uno spintone l’uomo di lettere e filosofia, aprì l'uscio e si cacciò di corsa nelle altre stanze. Stava per entrare in quella da letto quando s'imbatté in un uomo ed una donna abbracciati che ne uscivano.

- Dio! Che paura! - gridò Catalina.

- Ah, è tornato il cameriere. - disse con discreta flemma, il lacchè Alfonso.

L'ex don Giovanni rimase atterrito.

- Catalina!... Che cosa vuol dire quello che io vedo? Siete voi?... Voi... con quel cialtrone! Chi, dunque, congiura contro di noi? Chi mi fa impazzire?

Catalina, sinceramente sgomenta, si volse ad Alfonso.

- Non capisco... Rispondete voi per me, don Giovanni. Che vuole adesso questo giovanotto? E se fu scherzo perché non smettete tutti?

Il giovane; che ancora non capiva o non voleva capire, gridò:

- Scherzo? Ma io ti amo, Catalina!

Alfonso ritenne opportuno intervenire, facendo per giunta la voce grossa.

- Ma sì, basta adesso, lo sappiamo! È davvero ora di smetterla. Non avevate deciso voi stesso di fare fagotto? Continuate a credervi il padrone? La mascherata è finita ed io riprendo le mie funzioni.

- Oh, il gioco infernale! - gemé il fallito don Giovanni - Catalina è mia. Non è vero, Catalina, che tu stessa   l’altra            sera...

- Ma io - rispose timidamente la ragazza - non ho nulla promesso... E poi non sapevo che foste per burla...

- No, taci! - la interruppe egli, esasperato – tu non sai che le tue ignare parole sono ridicole e atroci! Vieni, seguimi: io ti perdono. Ma lascia questa immonda casa...

II Maggiordomo, che lo aveva seguito preoccupato, mise la parola della saggezza.

- Abbassate la voce, ragazzi: se passa la ronda siamo fritti...

Troppe emozioni in pochissimo tempo aveva provato Catalina perché alla fine non scoppiasse piangere attaccandosi al collo del suo nuovo e accertato don Giovanni.

- Ho paura! Ho paura! Che quel giovane sia pazzo ?

E Alfonso, ripresa 1' aria minacciosa:

- Non volete capirla con le buone che questa ragazza mi appartiene? Si, è mia, alla faccia vostra, pretonzolo!

- Servo! - urlò don Giovanni secondo, perduta la testa e dando di piglio a uno sgabello - Ti rom­però la schiena.

Ma don Giovanni terzo aveva la spada al fianco, e benché non l’avesse mai maneggiata riuscì a snu­darla e a metterne la punta in linea. Catalina diede un grido acutissimo: essa riconobbe in un attimo il vero padrone e il vero servo di ieri, e  riconobbe sopratutto il suo irreparabile errore.

La porta delle scale era rimasta aperta dopo l’ingresso del Novizio e qualcuno, non visto, era salito dopo dì lui. Al grido dì Catalina fece eco un'altra voce di donna, altissima­

- Accorrete! Accorrete! si ammazzano!

Un alcade e quattro alguazìli fecero irruzione prima che Alfonso riuscisse a ferire il suo avversario; e una folla tumultuante di popolani e di borghesi tenne loro dietro invadendo l’appartamento.

- Arrestate l’assassino!... Ammazzate il truf­fatore!... Impiccate il ladro!... facciamone giustizia sommaria!...

Alcade, alguazili e folla spingendosi fin nella camera da letto si diressero come un sol uomo su Alfonso, l’unico abitante della casa che avesse in quel momento aspetto da don Giovanni, tanto più che si vedeva una ragazza accanto a lui. Ma Alfonso aveva un'anima da Esaù, e fece la grande rinunzia per meno di un piatto di lenticchie.

- No, un momento... io sono Alfonso... Don Giovanni non sono io!...

A un ordine dell'alcade che non voleva saperne di giustizie sommarie dove c'era lui e la sua carriera in ballo, la folla urlante fu trattenuta dai quattro agenti; ma ciò malgrado essa continuò a infierire pugni tesi:

- Sì, sì, è lui! È quel farabutto di don Gio­vanni... Guardate il letto... Guardate la ragazza...

E siccome è stabilito che la voce del popolo è voce di Dio, per Alfonso non c'era più via di scampo.

- Ma no - s'affannò egli a protestare con una vocetta ridotta a un filo - il truffatore è quell'altro... dov'è andato?... Tutti sanno che mi chiamo Alfonso, che sono il lacchè... Ho preso quest'abito per burla... Domandatene anche al Maggiordomo... Ma né quell'altro, né il Maggiordomo si fecero vivi. All'irruzione popolare il più autentico dei due don Giovanni in lizza era stato buttato da parte e­ rovesciato su un seggiolone: una mano, quella di Consuelo, lo coprì con un mantello. Quanto al Mag­giordomo, si era opportunamente buttato bocconi, rimpiattandosi a quattro piedi sotto un tavolo.

Nessuno aveva notato questi armeggii, fissi com'erano tutti al presunto don Giovanni, alla ra­gazza e al letto; nessuno, tranne una, che era entrata subito dopo Consuelo e la ronda, e che con un colpo d'occhio aveva colto la situazione: Estrella. - Silenzio! - gridò l’alcade, importantissimo - Non è lui, egli dice? Sicuro. Non è lui, ma è quello. So io quel che dico. Su, nel nome altissimo della Sacra Maestà del Re e per denunzia di Estrella di Siviglia, denunzia di truffa contro un avventuriero non meglio identificato, se non c'è nessuno che at­testi il contrario e lo provi, si arresti costui!

- Veramente, - obiettò un cavaliere tra la folla - io ho conosciuto don Giovanni, e potrei dire che non ha la faccia triviale e la corporatura di quest'individuo.

- Ma no, lo giuro, sono Alfonso, il suo servo. - protestò ancora lo sciagurato riprendendo speranza - Don Giovanni dev'essere qui, cercatelo e lo conoscerete...

Si udì allora una voce risoluta:

- Finiamola con le chiacchere, alcade. La de­nunziatrice sono io, Estrella di Siviglia y Vaccarilla! Ed io affermo che costui è il preteso don Giovanni, e che proprio questo porco e nessun altro, oltre le precedenti malefatte, viene di fare man bassa della purità del candidissimo giglio di quella servetta lì, che da parte sua è stata felicissima di fargliene offerta.

Tre gridi le risposero: l'uno della povera Cata­lina, che lo fece seguire da uno svenimento in tutte le forme; l’altro, rauco e sguaiato, di Alfonso; il terzo, soffocato e piuttosto singhiozzo, che si sarebbe detto la voce di un vinto dall’ultima disillusione, si poté capire da chi.

Sotto il tavolo, il Maggiordomo commentava:

- L'ho sempre detto io che quell'Estrella à un cuore da Elettra e uno spirito da Aspasia ! Però il nostro commercio è bell'e ito!

 
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