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XIX

— Tornerò stasera. — disse il medico congedandosi da Bruno che gli cercava inutilmente gli occhi con gli occhi. — Mi faccia trovare le due fiale che ho prescritto. La bimba pare che vada un po' meglio. Badi, però, che anche la madre è febbricitante. Non mi meraviglierei se stasera vi trovassi tutti a letto. 

Disse ciò tentando sorridere; ma non riuscì. 

Il vecchio Salvatore andò lui, arrancando, per le medicine della sua padroncina. E Bruno in casa, a preparare brodi, cataplasmi e pozioni per le ammalate, a tenere Cesare il più possibile discosto dalle camere ove esse giacevano lagnandosi e tossendo. 

Aura, muta, livida, irriconoscibile, si aggirava come una larva per la casa, inetta a tutto, soffermandosi a lungo accanto al letto di Tea, più raramente sulla soglia della stanza di Bruno, a guardare, senza appressarsi, la sua amica di un giorno che non la vedeva. Bruno, più di una volta, la esortò a coricarsi anche lei, che non stava bene; ma essa rispose sempre con un gesto breve e risoluto di diniego. 

Passò mezzogiorno, poi il tocco: e Salvatore non ritornava. Alba aveva riaperto gli occhi un momento per domandare da bere; aveva anche sorriso a Bruno e si era riassopita, col respiro affaticato e frequente. Accesa in faccia, tra i capelli arruffati, la sua bellezza impeccabile pareva acquistasse il rilievo artificioso della truccatura. Ma Bruno, guardandola, si convinceva che mai, come ora, era stato così vicino a perderla per sempre. Quella cosa che lo aveva terrorizzato al letto della mamma, che gli aveva fatto invincibilmente paura al fronte francese, che aveva portato via, a mazzi, a cataste, milioni di uomini, scivolava ora piano piano verso il lettuccio ove la creatura adorata la notte innanzi gli aveva raccontato sorridendo la sua atroce vita lontana da lui. 

Erano quasi le quattordici quando arrivò Salvatore, senza fiato. Ma portava le fiale. 

— Tutte le farmacie! E non trovarne in nessuna! Finalmente in quella dei Quattro Canti, mi hanno fatto aspettare, assicurandomi che mandavano a cercarne dal rappresentante. Erano le ultime due: in tutta Palermo non ne esistono altre. 

Le due fiale, forse la salvezza, furono deposte sul comodino accanto al letto di Alba. Ora si aspettava il dottore. Ma come tardava! Bruno andava, muto e stravolto, dai letto alle finestre, girava per casa, guardava Tea visibilmente più sveglia, Cesare che s'era addormentato sull'ottomana, carezzava Sahib che lo seguiva, fantasma anche lui, fine, sottile, febbrile, e tornava ad Alba. Ciccio stava accovacciato sotto il letto, volgendosi di soprassalto a ogni piccolo rumore, a ogni moto. Anche Aura si trovò un momento nella camera angosciosa, ne uscì rapida mentre Bruno vi rientrava. Poi sparì e non la si rivide più sino all'arrivo di Di Martino. 

— Beh? che c'è? — chiese costui entrando. Bruno gli additò la malata senza parlare. Egli la guardò, le tastò il polso, si curvò ad applicare l'orecchio alla sommità del torace, si risollevò brusco e nervoso. —Presto il siero! 

Mentre egli preparava la siringa, Bruno accendeva più luce nella stanza; poi si volse cercando con gli occhi le fiale sul comodino. Non c'erano. 

— Salvatore, — domandò irritato — dove avete messo le fiale? 

— Lì, signor Bruno. Le ha messe lei sul comodino, — rispose Salvatore sorpreso. 

— Le fiale! Le fiale! — gridò Bruno guardandosi attorno. E si diede a frugare su tutti i mobili, dentro tutti i cassetti, in tutte le stanze. Di Martino lo seguiva pallido ed esitante, invitando alla calma. Le grida e il rumore non valsero a scuotere Alba dal suo torpore comatoso; provocarono il pianto di Cesare destato di soprassalto e di Tea impaurita, accanto alla quale fu vista accorrere sua madre. Aura, tenendo la figlia stretta fra le braccia, alzava il viso su Bruno e sul medico, un viso già devastato dai progressi della febbre, ma con una ruga in più, una ruga di follia. Bruno la fissò: il cuore gli si arrestò un momento nel petto. 

— Le hai prese tu? — domandò. 

Aura, con gli occhi pieni dell'odio di Flavia contro i Soveria, lo guardava muta. 

— Che ne hai fatto? — balbettò ancora Bruno; e carezzava macchinalmente la testina del suo piccolo che gli si era attaccato alle gambe piangendo e invocando la mamma. — Senti, Aura, tu devi dirmelo... Ti supplico di ridarmele, capisci? 

Aura, con un tremore lieve che le tirava in su un angolo del labbro superiore, battendo le palpebre, si volse lentamente per gettare uno sguardo verso un canto della stanza. Gli occhi dilatati di Bruno seguirono quello sguardo e scorsero dei cartoncini sgualciti, frammenti di vetro luccicanti e attorno uno sparso umidore. Il medico vide chiaro ogni cosa, e più oltre. Fece un gesto nervoso e disse duramente: 

— Lei ha commesso un'infamia! Una di quelle fiale poteva servire per lei, che è pure malata, forse anche per sua figlia che non é ancora fuori pericolo. 

Aura accennò a dire qualche parola; ma di schianto si abbatté sul letto con urla e singhiozzi laceranti. Bruno in quell'attimo, lucidamente, decise la fine di tutto. Ma Di Martino si riprese: 

— Su, non perdiamo la bussola! Spero poter riparare. Quell'uomo lì, Salvatore, mi pare, ha un nome di buon augurio. Io posseggo ancora una fiala di quel siero, l'unica rimasta di quante ne avevo preparate con le mie mani, e che intendevo mandare in saggio alla Clinica di Berlino che me l'ha domandato. Credo, anzi, che sia migliore del prodotto industrializzato e messo in commercio. Salvatore, salti lei a casa mia.., per disgrazia, stasera sono senza automobile... Prenda una carrozza, la paghi il doppio perché corra. In casa non c'è nessuno. Questa è la chiave della porta. Entri a destra, nello studio, apra il cassetto centrale della scrivania... Ecco la chiave... Cerchi: in fondo, alla sua sinistra, troverà un blocchetto di legno, che si apre superiormente girando il coperchio sul chiodo che lo trattiene. Si accerti che c'è dentro la fiala e la porti subito; dopo avere richiuso cassetto e appartamento, s'intende. 

Salvatore non parve più zoppo, né vecchio di oltre sessant'anni. Si sentì presto per via una carrozza allontanarsi con fracasso di ruote, di scalpiti e di frustate. Di Martino, pacato, disse: 

— Frattanto non perderemo il tempo; faremo una cosa che non tutti i medici approvano, ma che io ho trovato spesso opportuna: un bel salasso. 

Il sangue nerastro venuto fuori dalla vena del braccio di Alba, non fece senso a Bruno, Alba stava forse per morire; ma egli avrebbe agito come oramai era naturale e giusto. 

I singhiozzi di Aura continuavano, esaurendosi come se il petto le si dirompesse. Il medico riuscì a farla svestire, a convincerla a mettersi a letto, a prendere, docilmente, anche una pillola sudorifera. Di Martino, più sereno, tornò nella stanza di Alba, dinanzi uno specchio riadattò sul volto il suo cerotto che s'era un po' staccato dalla piaga, sedette al capezzale della malata e disse, così, parlando a Bruno e a tanti altri che avrebbero potuto essere al suo posto. 

Le passioni, eh sì! sempre quelle! Uccidono più gente esse che le malattie. L'uomo nasce, frutto d'un piacere, e subito mille nemici si avventano su lui: microbi, batteri, gli altri uomini, ma soprattutto i sentimenti che egli porta con sé. Ebbene, fra tutti i rimedi tentati per combattere tanti mali, uno è l'infallibile, eppure il meno sperimentato: se stesso. L'autovaccino per il corpo; e per l'anima la volontà, specie di autovaccino spirituale. Dico di più: io medico, sono convinto che il giorno in cui l'uomo raggiungesse la perfezione della propria volontà, conquisterebbe anche la perfezione materiale. 

Il tempo passava e Salvatore non ritornava, come la mattina. Di Martino guardava l'orologio e guardava l'ammalata, supina, gli occhi serrati, il respiro sibilante. A un tratto domandò: 

— E' un uomo onesto, quel Salvatore? 

— Credo, — rispose Bruno, senza curiosità di chiedere il perché. 

— Ma sì, lo sarà certamente. — aggiunse Di Martino. — Certo, se non lo fosse, dentro il mio cassetto troverebbe di che essere tentato a prendere subito un treno e sparire. Giusto stamane ho venduto per centocinquantamila lire di cartelle di rendita. La rendita cala sempre, e io ho bisogno di fare molti acquisti pel mio ospedale... e sono tutte lì, in quel cassetto, in biglietti da mille. 

— Perché non l'ha detto? chiese Bruno, un po' scosso. — Potevo andare io, invece di Salvatore. 

— Oh, in casi simili non si bada. Io ho molta fiducia negli uomini, nella bontà degli uomini. 

Un fracasso di ruote, di scalpiti, di schiocchi di frusta, si appressò per la via. 

— Ecco il Salvatore! — esclamò Di Martino, tranquillo. 

***

 — L'iniezione è fatta — si congedò Di Martino consultando l'orologio — non posso dire se sia stata fatta in tempo. A ogni modo, io tornerò presto anche.., per quell'altra signora. Lei procuri di esser forte. 

Bruno non disse nulla. Andato via il medico, egli obbligò Salvatore a riposare qualche ora nell'appartamento all'ammezzato, trasportandovi pure il bimbo dormente. Si accertò che suo figlio non avesse febbre, poi tornò accanto ad Alba che non si era scossa per nulla, che non aveva dato segno neppure di avvertire l'iniezione. Provò a toccarla: scottava. La chiamò, ed essa dischiuse un momento gli occhi, occhi dall'espressione annebbiata e smarrita che egli ben conosceva per averla vista per la prima volta, anni avanti, negli occhi di sua madre moribonda. 

Sedé ai piedi del letto e rimase, ore o minuti, a contemplare quel volto acceso e bellissimo. Possibile che Alba dovesse morire, ora che gli era stata restituita? Interrogò dentro di sé, e si rivolse a Dio. Quale Dio? Quello di Alba e di Aura, il Dio dei preti cattolici, che non aveva mai resistito alla sua logica; o quello degli Evangeli, che aveva lasciato supplicare e morire il proprio figlio, il Messia, per redimere gli uomini beffardi, gli uomini che non avevano mai saputo, dopo la redenzione, essere cristiani se non nei rarissimi casi in cui erano stati chiamati santi; o piuttosto il Dio di Ibrahim.ben-Kassar, santo e cristiano pure senza aver fede nella divinità del Nazareno? O in un Dio sinistro e senza leggi di bene, che abbandona a sé dalla nascita l'uomo, la bestia, il gregge delle creature e provvede solo al morire? 

La sua anima amara, che si sforzava invano a trovare l'oggetto di una preghiera, era invece tutta una bestemmia. E se ne compiaceva ferocemente. «Nulla ti debbo, Dio che accordi la felicità, o per lo meno il benessere, a chi viola il tuo nome e le tue inutili dottrine, come Bonsignore, come Casazza. come Stefanovich, come gli uomini che scatenarono l'orrenda guerra, che furono gli artefici dello scannatoio, mentre concedi la perfezione a chi non ti venera né ti erede, come lo scienziato Di Martino, il contadino Ferro, il mussulmano Ibrahim. Anche Sahib, cane, è .più perfetto di un uomo che crede in te e poi ruba, truffa, uccide. E ora vorresti portar via Alba, che è giunta fino a me ripetendo sempre il tuo nome». 

Così disordinatamente inveendo contro le forze occulte da cui si sentiva combattuto, Bruno non poté resistere allo spettacolo della malata. Si alzò e passeggiò per la casa. Andò ad aprire un cassetto ove custodiva una rivoltella, la prese, la esaminò, si accertò che fosse carica, la ripose. Girò ancora da una stanza all'altra macchinalmente, e giunse al letto di Aura, nella camera illuminata appena dal riflesso di una lampada accesa in quella accanto. 

Essa lo udì e sbarrò gli occhi. I grandi occhi che già lo avevano attratto in un gorgo di voglie voluttuose, erano supplichevoli. 

— Come sta? — domandò la voce di Aura. 

Egli sentì un poco sciogliersi la durezza con cui dianzi l'aveva considerata; ma volle risponderle ostilmente: 

— Sta meglio. 

Aura alzò una mano pesante a cercare qualcosa nell'aria, la lasciò ricadere e richiuse gli occhi. Bruno ritornò presso Alba e si accorse che ella volgeva la faccia verso di lui, guardandolo e chiedendo da bere. 

— Alba! Alba! — esclamò Bruno trepidante, sorreggendole il capo nell'atto che essa beveva. Alba accennò un sorriso, balbettò come per contraffarlo: «Alba! Alba!» si abbatté di nuovo e tornò a respirare affannosamente. 

Fuori, nella notte calda, l'orologio di una chiesa Vicina batté la mezzanotte. Un altro, un altro ancora, lo seguirono, da lontano, buttarono giù aggrovigliandoli colpi su colpi, in un concerto melanconico da carillon stonato. Si sentì una carrozza, mescolando con essi il suo scalpitio e il suo rotolio, appressare e fermarsi dinanzi al cancello. 

— Ehi, Soveria! — chiamò una voce. 

— Chi è? — chiese Bruno dalla finestra. 

— Sono io, Di Martino. Come va la nostra Alba? 

La voce arrivava come isolata, come un'entità esistente di per sé nello spazio tra le ombre, i rintocchi, i fanali e le stelle. Ed era rincorante e sublime. Bruno rispose, adeguando la sua anima a quella voce: 

— E' sempre viva. 

— Bene! A domattina. 

E la carrozza si allontanò, inseguì, dileguando col suo rumore, gli ultimi rintocchi. 

La notte calda e piena d'astri invitava alla veglia. Salvatore, destato dal rumore e dalle voci, salì per proporre al signor Bruno di andare a riposare un poco anche lui, mentre egli resterebbe a vegliare le malate. 

Bruno scese invece in giardino, s'aggirò per i viali bui, poi andò a distendersi su uno dei sedili presso la vasca, con la faccia volta al cielo. Nell'aria sciroccale alitava il profumo delle ultime rose sulfuree, portando con sé mille ricordi. Si udiva sulla ghiaia e sulle foglie secche lo zampettare di un rospo. Tutto a un tratto il canto del grillo incise come un diamante il cristallo del silenzio. Il grillo del focolare, ricordò Bruno. 

In faccia alle stelle si sentì, come già altre volte, più padrone di sé, più chiaro nei sensi e nei pensieri. L'universo roteava lentamente attorno all'asse invisibile che passava dalla Stella Polare a lui: più lentamente i Carri e Boote, un po' più rapidi l'Auriga, Cassiopea, la Lira, più rapidi ancora Ercole, il Cane con la meravigliosa fiamma rossa, azzurra, verde, argentea di Sino. Ogni stella viveva di sé, si illuminava di sé. Certo egli, Bruno, era nulla, un atomo, rispetto a ogni stella che egli sapeva grande così e così, o approssimativamente, nell'infinito. Pure si trovava a suo agio in mezzo a loro, perchè pensava: e ciò lo faceva quasi eguale alle stelle. Nessuna di esse poteva spostarsi dal rango ove era fissata. Altair non poteva muoversi per andare a cozzare e distruggere Aldebaran. Egli invece, fra qualche ora, quando Salvatore lo chiamerebbe per annunziargli la morte di Alba, si muoverebbe, di sua volontà, prenderebbe la rivoltella, di sua volontà, ne scaricherebbe un colpo in mezzo alla fronte di Aura e un altro colpo lì, dove ora si toccava, sotto la sua mammella sinistra. E così finirebbe, per sempre, in un immenso buio senza stelle, la vita di Bruno Soveria. 

Buio. Questo era l'orribile! Perché era nato, allora? Perché era passato tra i frastuoni del mondo? Perché aveva speso tanto di sé, dai tentativi enormi di Duirat e di Roma per mutare, contro migliaia e milioni di altri nomini e di altre volontà, il corso degli eventi, la storia futura, fino alla bassa guerriglia per uno scopo meschino, contro Bonsignore, contro Casazza e Puccio? Tutto ciò doveva essere stato inutile? 

Una meteora improvvisa solcò d'una striscia di luce il cielo, da una parte all'altra dei filari di robinie. Bruno ebbe il tempo di pensare: «Che Alba non muoia! » E se ne sentì contento perché mai, da bambino, gli era riuscito di formulare un desiderio nell'attimo luminoso. Ecco, neanche quella stella cadente era stata inutile, nella sua breve ed effimera vita, se aveva per quell'attimo. illuminato il buio della disperazione da cui Bruno era invaso. 

Disperazione che le stelle non hanno. Non pensano, ma brillano: non hanno volontà, ma sono sublimi! Perché con la volontà e col pensiero non raggiungere la perfezione che è luce e sublimità, quella perfezione alla quale egli si era creduto giunto il giorno che aveva vinto la bestialità dei suoi sensi dinanzi all'offerta sapida di ogni lussuria di Myriam? E non erano ora bestialità i suoi impulsi, le sue decisioni di uccidere e di uccidersi? Ibrahim-ben-Kassar avrebbe avuto più diritto a uccidere lui o a lasciarlo morire o magari a non accoglierlo in casa, di quello che egli non avesse ora di uccidere Aura. per vendetta o per ira o per rappresaglia. E poi, diritto, che cosa è diritto, questa mediocre cosa inventata da mediocri per tenere gli uomini l'uno verso l'altro in illogico e artificiale equilibrio? Un uomo aveva parlato in modo diverso agli uomini, aveva cercato di fare scaturire dal fondo delle loro anime un impulso naturale da coltivare e da far crescere fino a diventare l'unica legge governatrice del mondo: la bontà; e nessuno, neppure quelli che avevano proclamato Dio quest'uomo e si erano arrogata e si arrogavano la facoltà di parlare e di agire nel suo nome, parlava e agiva in nome della bontà di Cristo. Eppure, — Bruno ne ebbe coscienza improvvisamente, — Ibrahim non s'ingannava asserendo che la bontà è più facile della giustizia; quanti uomini non sanno essere buoni, quanti non lo sarebbero di più senza gl'ingombri eccessivi di cui la vita li circonda! Buona la sua mamma, buono Collebrina, buoni Annie, Ninì Guevarra, Peppino Foresi, Schwester Liska, il professore Goldenberg, l'indimenticabile Rollinat, buoni anche per un gesto o per una parola lo zio Giovanni, la zia Anna, Ahmed, Berto il facchino, Amelia, Rebecca, Artesi, Gino Arguti, Ilse e Greetchen, Salvatore. Buono perfino Philipeau che non aveva voluto incrudelire contro di lui e lo stesso Tommaso Casazza nel momento che aveva invocato la sua vecchia mamma. Ciascuno può essere capace di bontà, per un minuto o per tutta una vita, ciascuno può, per un minuto o per sempre, non fare agli altri quel che non vorrebbe fatto a sé, e fare agli altri quel che vorrebbe fatto a se stesso. 

Ecco, e così sentiva dentro l'anima sua — mortale o immortale, non importa insieme con l'infinita energia vitale che va dal filo d'erba alle costellazioni, manifestarsi un Dio molto più grande degli dei capricciosi, illogici e dissidenti cercati e inventati dagli uomini a loro immagine e somiglianza. Dio: l'incomprensibile, l'indifferente, il moto, la vita. Dio: l'intelligenza che parlava in lui, e che gli faceva preferire il bene al male: bene tutto ciò che aiuta a vivere, a innalzarsi e a godere, male tutto ciò che procura la sofferenza, la depressione e la morte; e ciò non per Bruno soltanto, ma per tutti ugualmente, per Alba, per Peppino Foresi, per Gino Arguti, per Ibrahim, come per Philipeau, per Casazza, per Myriam, e per Aura! Intendeva, adesso, ancora di più di quel che non gli si era rivelato nel villino di via Settembrini. 

Fare del bene anche ad Aura, sola e disperata, come già, impensatamente, ne aveva fatto a Katscha, contro le leggi e contro la morale degli uomini. Secondare la pietà che gli tremava spesso nel cuore, invece di deprimerla nell'illusione di essere forte. Egli, guardando indietro, si accorgeva di essere stato più eroico quando aveva salvato Katscha, aiutato Casazza, che quando era corso contro gli arabi, eh quando aveva preso il posto di Foresi sull'aeroplano. 

Le stelle roteavano lentamente nell'immenso emisfero cavo e nero. «Forse, in faccia alle cose eterne, talvolta vale più un uomo che una nazione». Infatti Sirio, Vega, Arturo, Capella, Altair decoravano il cielo più della Via Lattea. L'uomo che egli aveva ucciso sul Reno valeva per lui più della massa amorfa degli altri tre milioni di tedeschi uccisi nella guerra. Ma ognuno di costoro, a sua volta, valeva infinitamente, come individuo che aveva amato, gioito, sofferto, sognato. Dare la possibilità, a ognuno di quegli individui, di staccarsi dalla nebulosa e divenire una stella... 

La voce di Salvatore che chiamava affannosamente da una finestra lo scosse: 

— Signor Bruno! signor Bruno! 

Ecco la fine, l'annunzio atteso e temuto, il crollo definitivo anche per Bruno degli amori, delle gioie, dei sogni! 

— Che c'è? 

— Venga, venga! La signorina Alba ha aperto gli occhi e lo chiama... 

*** 

Non aveva più, Alba, i pomelli accesi: era anzi freca, quasi fredda, stanchissima nei gesti, nella voce, nel moto delle palpebre. 

«Così fa questo male, — pensava Bruno mentre la copriva di baci, rispondendo alle sue tremanti carezze, al suo sorriso smarrito — un trapasso rapido e poi la morte». 

Cominciava appena a schiarirsi il cielo e si sentì arrivare la carrozza che conduceva Di Martino. 

— Professore, già qui! — gli disse Bruno, serrandogli le mani, frenando l'impulso di abbracciarlo, di baciarlo sulla sua piaga. — Ma anche lei mi pare che abbia la febbre. 

— Oh, io sono sempre un po' caldo — rispose Di Martino appressandosi al letto di Alba, con un sorriso. — Da tre mesi. Ho pensato tutta la notte a questa cara piccina. Un caso così grave, a decorso fulmineo, è davvero maledetto. Ma insomma... Sentiamo. 

Tastò il polso, picchiò sul torace coi polpastrelli, si curvò ad ascoltare i bronchi e i polmoni. Si risollevò guardando Bruno con occhi lucenti. Si piegò di nuovo sul petto di Alba ad ascoltare intensamente, più giù, più su, trattenendo il respiro. Si volse a Bruno, gli applicò due, tre schiaffetti sulle guance, si aggirò per la stanza battendo e fregandosi le mani, saltando su un piede e sull'altro: un pazzo o un bambino! 

— Ci sono i rantoli di ritorno! — disse con la voce piena di risa contenute, di felicità che aboliva d'un tratto la sua abituale freddezza. — Cosa mi guarda lei come uno scemo? Proprio così! Adesso poche gocce di digitale, ed è fatta! Non ci potranno più novecento miliardi di microbi a portarcela via. Scommetto centomila lire, con lei, se non ci crede. Digitale! digitale! subito! Quello zoppo fottuto di Salvatore è capace di fare il miracolo di portarla fra un quarto d'ora, dovesse sfondare anche la porta della prima farmacia che trova. 

E poi, serio e calmo: 

— Digitale è uno dei quattro o cinque farmaci veri: tutti gli altri sono coglionerie. Come ha fatto lei a studiare tanti anni senza saperlo? Esso significa che fra tre giorni la malata sarà in piedi. Via, adesso smetta di fare lo stupido! 

Bruno piangeva sulla fronte di Alba che gli sorrideva con gli occhi pieni di lacrime.

 

XX

— Guariremo anche quest'altra — affermò Di Martino, dopo avere attentamente osservata Aura. 

— E' una forma setticemica più lunga e più sfibrante, ma meno pericolosa. Quanto alla bimba, se non avrà ricadute, se la sarà vista bella anche lei. 

Vederle guarire, l'una dopo l'altra! Alba fu la prima a lasciare il letto e pensò al suo Cesare. Anche lui, il piccino, ebbe una toccatina: quarantotto ore di febbre, portata via da un'abbondante epistassi che sulle prime spaurì tutti quanti. Ma Di Martino ci rise sopra. Dorotea, piuttosto, ebbe una ripresa con un rialzo di temperatura violentissima Sua madre pianse dal letto, smaniando; ma Alba, benché durasse fatica a reggersi, le fece da infermiera.

Una mattina che Bruno dovette uscire per un affare molto importante, da lui deciso in quei giorni, sorprese, rincasando, le due giovani donne intente a conversare a mezza voce. Alba stava seduta accanto al letto di Aura con una mano tra le mani dell'amica, che piangeva. 

— Aura non ha più febbre — gli disse Alba, scorgendolo. — E anche Tea sta molto meglio. 

Aura non lo guardava. Si asciugò gli occhi e disse: 

— Ho ricevuto lettera di Donato: pare che non possiamo fare a meno di andare in colonia. 

E dopo un momento aggiunse: 

— E' molto buono. 

Bruno avverti un senso di pena: ma fu lieto di avere già prima pensato a Donato, Che era pure un'anima con le sue sofferenze, anche se gli fosse apparso talvolta un po' egoista e ridicolo. Anche Donato aveva una sua bontà. Domandò, esitante: 

— Tu che vuoi fare? 

— Spero di potergli scrivere domani. Gli dirò che sta bene. 

Nel viso ossuto e giallastro, i grandi occhi si aprirono un momento su lui, sereni. I capelli non più ritinti e cresciuti, metà rossi e metà neri, le davano un'aria da maschera pietosamente grottesca. Oh, la squallida bellezza così devastata per lui! Anche lei era da benedire! Eppure non una parola, né da lei, né da Alba, che aveva nello sguardo la comprensione e la conoscenza di tutto, la giustificazione di tutto. 

— Abbiamo deciso con Aura — disse Alba — che appena anche lei sarà in grado di uscire, la nostra prima visita sarà a Santa Maria della Catena. 

— Io le ho fatto un voto, — aggiunse Aura — per la mia bambina. Quella sera il dottore mi mise tanta paure per lei. E' la chiesa ove andammo una volta, da piccole, sedici anni fa: ricordi, Alba? 

— Sì, — rispose Alba — e che ci piacque tanto, con la sua gradinata alta alta, il suo portico, accanto al mare. Attraverso le colonne si vedono gli alberi le vele dei bastimenti. Certo ci ha salvate: torneremo, come allora, a pregarla insieme. 

— E' giusto, — disse Bruno. 

*** 

Qualche ora dopo si udirono grida lontane e calpestio, giungenti dalla strada. Bruno andò ad affacciarsi e vide una moltitudine che avanzava tra i filari d'alberi del viale: operai in sciopero, evidentemente, ingrossati da oziosi, vagabondi e monelli, taluni armati di bastoni, di picconcini, di pali di ferro, di cesoie da lamiera. Si proponevano di dare l'assalto ai negozi che la paura teneva serrati, di scassinarli, tagliarne le saracinesche, saccheggiare a man salva. 

— Abbasso i ladri! Morte agli affamatori — urlava una gran voce selvaggia, fatta di mille voci. C'erano facce contratte, infocate, irose, di sconosciuti, di quei senza nome che compongono la folla che crea gli eventi e fa la storia: così, pensava Bruno, suol dirsi. Ma c'erano anche facce ingenue, incerte, prese a una a una, di nomini che avevano altri affetti, dolori, speranze. 

Eppure, condurre ove sì voglia costoro, o dominarli, vincerli, disperderli era stato nelle forze dei grandi, di coloro che non si dimenticano. Ed era anche nelle forze e nelle possibilità di Bruno. Egli ricordò momenti passati, presenti occasioni propizie e l'anima sua s'impennò. 

Ma Alba chiamò, perché Cesare a quel frastuono piangeva di paura. E Bruno chiuse le imposte. 

*** 

Giunse una lettera di Peppino Foresi: 

Roma - 30 Ottobre 1920 

«Bruno carissimo 

«Torna subito. Sei atteso, e non da me soltanto: da mille, da centomila sei atteso! Ma, prima d'ogni altro: prosit per la medaglia d'argento che ti è stata concessa e che il Bollettino porterà prossimamente. La giustizia si fa largo per tutti! 

«Mi si dà l'incarico di scriverti e sollecitarti con l'approssimarsi della data delle elezioni generali. Un nuovo, partito, il tuo partito, che conta sul tuo nome e sulle tue idee, si fonda con forti mezzi per la lotta. Vorrebbero metterci dentro anche me, ma pensa tu se io possa essere il tipo. E poi, la mia salute non me lo consente: è vero che sto un po' meglio dalla parte, diciamo così, psichica, ma il polmone ancora non vuoi saperne di funzionare bene. Avrei bisogno, dicono i medici, di climi caldi. Ma dove lo troverei il clima caldo, se mio suocero, benché superbo della mia medaglia d'oro, non mi permette ancora di tornare in Sicilia? Debbo dire, però, che mia moglie mi scrive e mi fa scrivere ogni tanto anche dai ragazzi. Ma mi commiserano soltanto, è chiaro. 

«Forse, se tu tornassi in tempo, accanto a te mi persuaderei a entrare nella lista e, possibilmente, in Parlamento. Ho grande fiducia che, alla luce della tua prossima gloria, un po' di calore possa giovare anche a me. 

«Parlo, anzi parliamo della tua gloria, come di cosa sicura. Anche Tommaso Casazza e la signora Myriam hanno fede in te solo. Siamo buoni, tranquilli amici, adesso. Myriam dice che concorrerà alle spese delle elezioni con milioni, pure se tu metterai la condizione di non voler rivedere più né lei né suo marito. Caro Bruno, tu che sei un grande politico, sai bene che gli uomini di stato più celebri hanno sempre ripetuto che il fine giustifica i mezzi. Stavolta il fine è non solo la tua ascesa definitiva, ma forse anche, per tuo mezzo, la grandezza del nostro paese. 

«A rivederci, Bruno, ti abbraccio 

Peppino 

«P. S. Carlo Quilici è stato preso in giro dai suoi compagni di partito. Non lo includeranno nella lista, ma gli danno un posto nel loro giornale, per contentino. Quando m'incontra non mi saluta». 

*** 

Una mattina di novembre, chiara e dolce, Bruno rispose: 

«Peppino mio caro, non verrò, anzi non tornerò mai più a Roma. Partirò invece fra qualche gli con mia moglie e mio figlio per la Tunisia, ove il amico Artesi mi ha fatto comprare una terra, col denaro che ho potuto realizzare da tutto quanto restava. 

«Ieri abbiamo accompagnato al piroscafo cugina Aura e la sua bimba, che vanno a raggiungere Donato Corbelli in Cirenaica. Tu non sai; ma contentati che io ti dica soltanto che questa partenza rappresenta per me il distacco definitivo dai residui dei miei sentimenti e delle mie idee di ieri. 

«Grazie della gloria che voi mi offrite. Io non sono un Cincinnato indispensabile alla salvezza e alla grandezza del mio paese, nel senso politico e secondo l'intenzione tua e dei miei elettori. Oggi non potrei esserlo più, e non me ne dolgo né me ne pentirò. Ma sono tranquillo, perché credo nel cammino ascendente della nostra nazione e del mondo, se, come avverrà fatalmente, le quattro nazioni più forti e intelligenti, le più ricche di passato — l'Italia, Francia, la Germania e l'Inghilterra — si uniranno per dare la pace ai vecchi e nuovi continenti; e perché seguo il progresso di un'idea e di un uomo, partiti dalla via Lovanio di Milano ed ora penetrati in molte città e in molte coscienze italiane. 

«Un uomo spesso vale più di una nazione» è la frase di cui ho fatto un caposaldo nel mio breviario di verità spicciole. E infatti l'uomo di via Lovanio — volontà ferrea, in meta sicura — s'innalza a poco a poco sulla nazione in tumulto e la foggerà tutta a suo talento. Una folla una massa, una popolazione, ancora una volta e sotto un aspetto diverso, mi appaiono come plasma bruti di fronte a un Uomo. 

«Io, dunque, non fuggo. Sapete bene che non sono temperamento da fuggitivo. Rinunzio. Ma non me ne dolgo — ripeto — né me ne pentirò, come non mi pento di nulla di quello che ho fatto, di nulla, neppure dei miei errori e dei miei falli, forse anche delle mie colpe, perché m'accorgo che tutto è stato necessario per giungere al punto in cui mi trovo oggi. 

«Quanto alla gloria mia personale, io penso ora che la maggiore che mi rimanga sia quella non di dominare su folle, su popoli, di lasciare un nome nella storia, ma di avere in signoria me stesso. Educarsi è più che educare: ormai io non ho che l'ambizione e l'orgoglio di fare di me l'uomo capace di stare nella vita governandosi soltanto alle leggi naturali della vita, come le creature più semplici che noi dovremmo superare soltanto, dopo millenarie esperienze cerebrali e spirituali, annullando in noi e da noi stessi tutti gli istinti a nuocere e a nuocerci. Il giorno, io credo, in cui ciascuno uomo vorrà e potrà fare come me, l'umanità avrà compiuto forse la sua ascesa e avrà raggiunto la meta che ancora ciecamente si domanda e ricerca. 

«Utopia, diranno. Ebbene, e che cosa è l'utopia se non la misura della debolezza e della impotenza, anche soltanto mentale, dei più? Se non l'odio di chi striscia contro chi vola? Non mossero dall'utopia Gesù e Confucio, Polo e Colombo, Galileo e Newton, Chavez e Peary, Lenin e Mussolini? Il mondo senza utopia non sarebbe che una valle ricca di mediocre vegetazione umana, concimata dal tornaconto e potata dal buonsenso. Io sono felice, finalmente, della mia utopia che tende a fare di me e di quanti mi somigliano i capostipiti di un'umanità più semplice e meno numerosa, più paga di se stessa e del mondo, alunna della terra, disseminata in piccole comunità d'elezione su le regioni immense che soltanto le troppe macchine e la troppa politica hanno impicciolito. 

«Anche tu, io non ne dubito, ne saresti felice, come ne sarebbe stato felice Ninì, probabilmente lo stesso Carlo Quilici. Basta — e per te è facilissimo — smettere le idee e gli abiti sociali. Tornare uomini, in sé e per sé, amarsi e amare da nomini. Si può essere tali in una città, si può esserlo meglio — come io farò — a contatto. immediato con le cose eterne, con le piante, con la terra, col mare, col cielo. Danno, queste cose, un senso meno transitorio della vita, di quel che non lo diano l'aeroplano e l'elettricità senza fili. Anche morire, là, dà un senso più vasto, più sereno, pure se non si creda all'immortalità dell'anima, all'altra vita, al Dio di una data religione: tutte le religioni e tutte le divinità parlano in noi quando l'anima s'apre come i fiori delle grandi piante, fra le immensità pure, più eloquenti dei rumori cittadini, dei rombi delle fabbriche, dei fra- gori delle guerre. Morire non fa più paura dopo avere vissuto compiendo l'opera di rendere se stesso degno della vita: sentiamo che le nostre ceneri, confuse con la terra, diventeranno polvere eterna. 

«Gli uomini hanno già fatto molto, troppo, per gli uomini. La civiltà si seppellisce sotto cataste di cose opportune, piacevoli, utili: leggi, scienze, strumenti, macchine. Ma per l'uomo, anzi per un Uomo, che cosa si è fatto? Dai comandamenti mosaici al codice zanardelliano quale mutamento è avvenuto nel cuore (lasciami usare l'arcaica parola) dell'uomo? Noi nascemmo dalle nozze della Terra col Sole, come tutte le altre creature. Ma, meglio delle altre, col dono della coscienza e colla conoscenza benché oscura e mutevole, del bene e del male. Partiti dalla zolla ancora bruti, nel viaggio spirituale e materiale lungo i secoli e gli eventi, avremmo potuto ritornare da questo periplo per l'universo al punto di partenza, alla zolla, carichi di esperienze; avremmo potuto, sceverando il bene dal male, convincerci che lo scopo della vita è tutto in se stessa, come per la farfalla effimera e per l'albero secolare, ma portandola alla perfezione dentro di noi. Partire nudi dalla terra e provare a ritornarvi non carichi di macchine e armati di orgoglio distruggitore, ma colmi d'amore e sereni come certe divinità che avevamo inventato. 

«Io ho cominciato la prova. Ho una gran fede, e non in me stesso soltanto, ma anche in coloro che saranno miei compagni: contadini di Sicilia che ho scelto a uno a uno, arabi che sceglierò, e soprattutto mia moglie. Non avrei potuto prendere altri uomini, forse, con me, altrettanto adatti a secondarmi. Gli arabi cresciuti accanto ai deserti e noi siciliani venuti dai vasti feudi tutti terra e cielo, siamo i meglio acconci a intendere le solitudini, a lasciarci meno tentare dai fascini mondani e meccanici delle metropoli: noi siamo i soli, forse, capaci di sentire la bellezza della vita senza soverchie necessità esteriori, senza elettricità, senza automobili, senza aeroplani, più che paghi di un lavoro semplice e giocondo compiuto con utensili millenari, felici di una gaia e armonica convivenza governata da rapporti di mutuo rispetto, nella gerarchia naturale ed evidente dei valori personali. L'amore e la famiglia sono per noi gioie e felicità. 

«Avremo, spero, un vicino: un uomo al quale la giustizia è familiare, pur non praticando le leggi, che si chiama Ibrahim-ben-Kassar. La terra da me comprata è nell'oasi di Zarzis, al confine tra la Libia e la Tunisia. 

«Perché non verresti tu pure, Peppino? Laggiù il clima è caldo: cureremo anche il tuo polmone ammalato. Scriveremo forse insieme un'opera immortale. Ma anche se non scrivessimo nulla, se ci convincessimo di non potere lasciare che cenere dopo di noi, non sarebbe abbastanza vivere soltanto per volerci bene? 

«Verrai? Bisogna far presto, perché le cose belle, e la vita, passano. 

« Ti aspetto. Bruno ». 

 

gennaio-settembre 1930.

IL ROMANZO FINISCE

LA VITA CONTINUERÀ.

 
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