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Giuseppe Iuliano secondo Bàrberi Squarotti e
Antonio La Penna
Nell' anno
appena trascorso,
è stata edita una raccolta di poeti del Novecento - curata da Vittoriano
Esposito, per i tipi della Bastogi (Foggia, marzo 2003) -, in cui si offre
un’antologia di autori più o meno noti, alcuni celeberrimi, che hanno
caratterizzato la cultura italiana ed europea del secolo appena trascorso.
Il titolo del voluminoso libro è “L’altro Novecento”, Vol. VII,
“La poesia impura”.
La poesia
“impura”
Qui, compaiono poesie di Ungaretti, Quasimodo, Montale, Pavese, Spaziani,
Merini, Luzi, Pasolini, e insieme a questi autori nomi meno noti, che nel
silenzio della loro esistenza dedicano attimi di vita alla poesia.
Il sottotitolo (in particolare l’aggettivo “impura”) è
un’evidente risposta polemica indirizzata a Benedetto Croce, o meglio ai
suoi epigoni. Infatti, Esposito sottolinea sin dall’ “Avvertenza”:
“Sia ben chiaro, innanzi tutto, che il titolo di questa antologia va
inteso non in senso morale, ma in senso provocatoriamente letterario, in
polemica con tutti coloro che hanno preteso di fare della “purezza”
una categoria di valore o, per meglio dire, una cifra stilistica che da
sola possa riassumere ed esprimere tutta la poesia novecentesca”.
Poesia “impura”, dunque, provocatoriamente è quella poesia fatta
dalla ragione, anche con una certa dose retorica, ispirata dall’impegno
civile, dal tono moralistico, dall’aspra ironia, dall’esigenza di
purezza e di catarsi religiosa. Poesia “impura” significa anche poesia
che non guarda al “bello”, che cura più il contenuto della forma.
Serve a sottolineare che “nel secolo scorso si è fatta della vera
poesia anche al di qua e al di là della cosiddetta “parola pura”,
restituendo alla parola comune la naturale funzione di testimoniare la
presenza dell’uomo tra le ordinarie vicende della storia”.
Tra questi poeti compare anche il nome di un irpino, Giuseppe Iuliano (Nusco,
1951), una figura discreta della nostra terra, vigile, ma appartata, che
ormai da quasi trent’anni (la sua prima raccolta, “Malinconia di
terra”, risale al 1976) testimonia con il suo impegno civile e
letterario un diverso modo di vedere e descrivere i mali del Sud. Con le
sue undici raccolte, quasi tutte di denuncia, egli ha scritto pagine
ricche di pensieri sulla questione meridionale, attingendo alla sua
esperienza, alle sue letture di Dorso e Rossi-Doria, al dramma collettivo
del terremoto, al “mito” dell’industrializzazione e della
“Svizzera del Sud”, al dolore per una terra oggetto solo di
saccheggio. E questa voce ha trovato ascolto in intellettuali del calibro
di Gerardo Bianco (che con imbarazzo ed onestà le ha analizzate,
sentendosi continuamente chiamare in causa in quanto politico di questa
nostra terra), di Luigi Compagnone (che ha colto l’essenza di un poeta,
che utilizza parole vere, “disperate”, e mescola insieme ira, dolore,
ironia, disprezzo, amore), ma anche di specialisti.
Ad esempio, l’autorevole italianista Giorgio Bàrberi Squarotti ha
scritto di Iuliano: “La sua scrittura poetica è fortemente inventiva,
ricca di immagini, metafore, ritmi nervosi e scattanti, visioni potenti.
Testi come “Notte dei falò”, “Dintorni”, “Fragile chimera”,
“Edera spinosa” sono persuasivi, originalissimi”.
Più attenta, invece, al pensiero del poeta è l’analisi di Antonio La
Penna: “Il messaggio civile c’è, ed elevato. Lo condivido pienamente.
Condivido anche la prospettiva che lei presenta e che ha al centro la
democrazia diretta. Ma fra la protesta coraggiosa e i rimedi indicati c’è
uno hiatus che lei stesso avverte, di cui lei stesso soffre. Fra
disperazione e speranza non c’è ancora punto d’incontro; ma chi
potrebbe oggi, dopo tanti naufragi, indicare una nuova rotta?”
Anche La Penna, del resto, come Bàrberi Squarotti riconosce l’energia
di questa espressione poetica. Ma si sofferma maggiormente sul messaggio
politico – etico – indignato di Iuliano, sulla protesta coraggiosa,
sulla disperazione e la speranza. Bisogna aggiungere che la protesta del
poeta è ancora più coraggiosa, perché datata già ai primissimi anni
’80, quando il dissenso in Irpinia e nel Sud era veramente limitato a
pochissimi.
È anche vero che in Iuliano prevale più la disperazione che la speranza.
In queste “invettive liriche” (come le ha definite Antonio Ghirelli)
colpisce, infatti, la capacità del poeta a partecipare completamente alle
sofferenze dell’uomo del Sud. Ma la sconfitta dell’uomo del Sud è
anche la sua sconfitta, sebbene diversa. Il poeta è una sorta di eroe
solitario, che sceglie la via difficile dell’esilio in patria. Così,
infatti, definisce se stesso: “Estraneo alle corti / ho mani ed orecchi
incapaci / ad accordare la cetra e la lira / per fare melodia”. Iuliano
è un nuovo Ulisse, che non ha forse la sua Itaca: “Mi trastullo senza
malizie / nuovo Odisseo / indifferente ad ogni dio / e naufrago / alzo
squarci di vela. / Ma ci sarà una mia Itaca?” (“La mia leggenda”,
da “Digressioni di un aedo”, 1999).
Ma al centro della sua opera vi è soprattutto l’Irpinia. Prendiamo, ad
esempio, una delle due poesie edite per la prima volta nell’antologia di
Esposito, “Dintorni”. Nelle nostre vie dominano il degrado e il
silenzio. “Queste vie / fisse al silenzio / vuote nell’abbandono
domestico / costretto o indifferente / dalle scelte degli anni / sono
piste di cani / che unghiano soli lenti distratti / o latrano a minaccia /
dietro femmine in calore. […] / Per queste vie / il silenzio è padrone
/ è parola disperata / ripetuta a se stessi / ad ogni chiarore del giorno
/ per chi parla da solo”.
Qui vi è il senso vero dell’esilio di Iuliano, di chi parla da solo,
ripete continuamente a se stesso tra l’indifferenza e il silenzio
totali. In questa terra vi è solo spazio per andare più a fondo: “Tra
queste vie / abbiamo contato gli anni / spighe di ogni stagione / mentre
la falce orienta denti aguzzi di lima / giù, tra stoppie più corte, /
verso la terra profonda”.
Del resto, nella seconda poesia (“Orizzonte”) l’esilio è richiamato
esplicitamente: “Sul monte, esilio da scontare in patria, / con anelli
di ferro di cronica indifferenza / di perpetuanti regimi / accettiamo la
sfida dei venti …”. Ma bisogna anche chiarire che il destino del poeta
è il destino di tutti, è il destino di tanti. Forse il poeta ne è più
consapevole, o meglio mette sulla carta questa frustrante verità: “Qui
/ ognuno è un margine d’umanità / che si contenta di girare / a vuoto
con fisso cammino / nei suoi confini”.
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Iuliano, testimone del
proprio tempo
di Irene Catarella
Poeta seriamente civile, è stato definito da Aldo De Francesco, il poeta
irpino Peppino Iuliano, protagonista della serata di lunedì 2 dicembre
2003, svoltasi al Sancarluccio. E non ci sono dubbi su questo, visto che
le parole di Iuliano trattano temi scottanti ed attuali della società con
crudezza ed enfasi. Nella poesia “Mediterraneo”, che ha dato il titolo
ad un cd musicato da Franco Nico, il tema dei clandestini che
disperatamente si imbarcano su gommoni e salpano alla volta dell’Europa
con chissà quali speranze, è descritto con acceso realismo: “esercito
disarmato e arreso alla vita che percorrono il deserto del mare e
aspettano di esservi ributtati come cosa persa”.
Ma Iuliano parla pure della sua terra, l’Irpinia, sconvolta da
catastrofi naturali ed abbandonata da politici che da lei stessa sono
stati partoriti, e più genericamente degli abitanti del Sud,
sottolineando la condizione di secondo piano rispetto al mondo in continuo
progresso: “noi siamo quelli del Sud, colonia appendice del mondo”.
Significativi i versi in cui il poeta si dichiara “stanco di mendicare
al cielo cumuli di parole d’onore”, a evidenziare la mancanza assoluta
di lealtà presente nell’odierna società, dai suoi livelli più bassi a
quelli più alti.
Anche questa volta, come per il poeta campano Palomba e per il cilentano
Liuccio, la musica di Nico e la voce della Cipriani hanno reso particolare
la serata.
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La poesia dell'amore sociale
di Giovanni Marino
Conosco da anni il poeta
Giuseppe Iuliano (d'ora in poi semplicemente Peppino). Siamo nati - poco
più di mezzo secolo fa - ambedue a Nusco, allora come non mai,
borgo-presepe povero ed isolato nella surreale cornice delle montagne d'
Irpinia.
Consapevole di non essere un critico letterario e senza alcuna pretesa di
volerlo diventare, essendo da tempo convinto che solo la poesia (in
assoluto e per capirci, Giacomo Leopardi) riesce ad esprimere il
significato ultimo della nostra esistenza, ho sempre nutrito per tutti i
poeti un grande rispetto, perché essi si impegnano in una sfida ardua ed
impegnativa: un bel verso vale mille libri. Solo per questo motivo vorrei
dare un modesto contributo/invito alla ri/lettura della ricca e vasta
attività poetica di Peppino.
So bene di non aggiungere niente di più o di meglio (anzi contento di
arrivare per ultimo) alle prestigiose presentazioni, ricevute, nella sua
lunga e feconda attività poetica, da personaggi prestigiosi come - per
citarne alcuni - Giovanni Russo, Luigi Compagnone, Franco Compasso, Lia
Fava Guzzetta, Egidio Sterpa, Gerardo Bianco, Francesco D' Episcopo, Aldo
De Francesco, Pasquale Martiniello e Vincenzo Napolillo.
Sarebbe sufficiente la sola rilettura delle loro parole per capire lo
spessore e la qualità della poesia di Peppino, mentre sarebbe troppo
lungo elencare - un vero e proprio catalogo - i riconoscimenti, gli
attestati di stima, le preziose collaborazioni accumulate in tanti anni:
Biennale di Venezia '82, Compagnia del Sancarluccio con Pina Cipriani,
Franco Nico, spettacoli e cd musicali, illustrazioni di Giovanni Spiniello,
Generoso Bicchetti, Antonio Berté, etc. etc.
La chiave di lettura che propongo potrà anche apparire sfasata e molto
parziale, ma essa nasce dall'idea di mettere in risalto ciò che considero
la vera e propria "essenza" della poesia di Peppino: il rapporto
soggettività / luogo d'origine, che resta cruciale e fondamentale
per penetrare il valore, la qualità e la forza delle poesie riportate -
in chiave antologica - in questo testo.
Niente di più o di meno.
Legati da un filo di parentela, "assanguati dal legame fraterno -
siamo cresciuti vicini - in anni difficili precari mancanti di tutto o
quasi", in un Luogo lontano dalla Storia, dove il Tempo era solo
Presente e lo Spazio un cerchio di gesso che non dovevamo/volevamo
oltrepassare.
In una Terra ricca di mistero, la cui mappa era formata da infiniti Vicoli
che confluivano tutti sulla Piazza, eravamo ragazzi liberi, fragili,
inquieti, in una Realtà socialmente fatalista e naturalmente
vertiginosa. Ragazzi con i piedi per Terra, che, ogni sera, avevano la
fortuna di parlare con le stelle e la luna.
E proprio nelle prime raccolte di versi (soprattutto in Malinconia di
terra e Il Sud non è forse...) Peppino condensa l'atmosfera di
quegli anni, ritorna a quel vissuto (rivolta, riscatto, nostalgia,
dolore), lo rielabora con grande sincerità, grazie anche al fatto che per
la sua sensibilità talvolta si isolava (forse è vero che essere poeti è
un modo di/per restare soli) per imparare a suonare la tromba o eseguire
una fuga di Bach sull'organo della Chiesa.
Intuiva fin da allora che da qualche parte era già stato scritto che non
sarebbe stato facile raggiungere la libertà materiale ed immateriale.
Intuiva che per raggiungerla, non dovevamo rinunciare a distillare parole
e pensieri, che era una sfida non diventare un "lodatore" del
tempo presente.
Purtroppo la consapevolezza/coscienza di tale condizione di Sisifo arriva
quando ormai non serve più. Dopo mezzo secolo. Appassita è la vigna/
ara votiva degli avi - l'erba aromatica - la salvastrella - resterà
per sempre la nostra "uva puttanella", un sogno concreto che
dura un'intera esistenza.
Nei versi di Peppino ritorna intatta l'eco che svuota la nostalgia di anni
scanditi dal ripetersi delle stagioni: la neve, il muschio per improbabili
presepi artistici, la legna accatastata nei sottani, i fuochi e le
mascherate, il vino e le osterie, le corse in Via Fontana per riempire le
tasche di fichi e noci, l'odore delle mele e dell'uva conservate per
l'inverno, i bagni lungo i Valloni o il fiume Ofanto. Ma il tempo naturale
faceva a cazzotti con quello sociale: il Vicolo e la Piazza scandivano il
ritmo delle stagioni-senza-tempo. Le vetrine del barbiere o del calzolaio,
della gelateria o del fruttivendolo erano i punti di un reticolo esplorato
e conosciuto palmo a palmo. Il luogo mitico dei giochi: soprattutto
"briganti e carabinieri". E la politica nasceva e moriva in
Piazza. Così come la Festa. La scuola era faticosa, mentre la Chiesa ci
accoglieva. Ogni cosa era immersa in una condizione reale che era solo una
apparenza di Società.
Nusco era allora un punto qualsiasi del Mezzogiorno, ma per noi era il
nostro villaggio Macondo - così me lo fa ricordare la poesia di Peppino -
o il nostro paese Malo, da cui liberarci. Non diventeremo mai "paesologi",
perché in fondo lo siamo geneticamente e abbiamo pagato a caro prezzo la
possibilità di liberarci.
La sentinella non ha mai parlato a Peppino del giorno precedente.
Incominciando a scrivere versi, dovette per prima cosa imparare a svuotare
quel sacco portato sulle spalle. La realtà circostante era troppo piena
di "ripensamenti, stati d'animo, dolore, spergiuri, violenze,
invocazioni, recrudescenze, aneliti, rabbia, miseria, debolezze, rancori,
lacerazioni".
Peppino lo fece bene e in fretta, altrimenti sarebbe rimasto per sempre
prigioniero di un lamento, anche se sincero. Alle sue prime prove,
rileggendo oggi alcune sue poesie, si avverte intatta la forza interiore
di questa coscienza, di questo dovere etico (da togliere il respiro a chi
legge).
La scelta è obbligata e certa: al primo posto l'impegno civile, scavato e
vissuto con una inarrestabile accelerazione. Lentamente - ma in modo
irreversibile - sopravanza e si consolida una passione civile, serena ma
implacabile, dalle forti motivazioni evangeliche e cristiane. Anche la
militanza politica è solo una parentesi, contingente, che non può non
fare a cazzotti con chi scrive: Il Sud non è forse...
Per aspirare a volare come l'albatros, la sfida vera è quella di
passare per la cruna di un ago: cercare nuovi valori, indicare la
rinascita morale e civile contro il Fato / Potere che umilia
l'intelligenza, riscoprire il cuore contro il dolore - quello vero -, male
e lato oscuro dentro e fuori le persone in carne ed ossa.
Da anni Peppino insegue sogni ed utopie per sentieri antichi o mai
percorsi.
Dalla prova di scrittura del romanzo-racconto Cartolina precetto
(ci sono sempre diversi terremoti nella nostra esistenza), passando per la
documentata pubblicazione sulla Civiltà contadina in Irpinia (le
radici vanno esplorate fino in fondo), l' Inchiesta sul retroterra
culturale da cui attingere acqua preziosa per il verso non ha mai avuto
fine, prova ne è la continua attenzione riservata alla Cronaca,
attraverso una puntigliosa e critica attività giornalistica.
Ma l'impegno vivo, cogente è la Poesia. I temi della prima fase sono
comuni a tanti giovani meridionali: andare fuori dai confini, il distacco
rimanda a lacerazioni profonde. "Mia madre/ ha venduto/ per non farmi
partire/ preziose stoviglie" - una modulazione di Peppino che ricorda
Rocco Scotellaro, il poeta-sindaco di Tricarico.
Si parte per studiare o anche senza una meta, per pensioni maleodoranti,
per cicli di studi mai completati, per sentire cantare uccelli in gabbia.
"Chi ama i propri figli/ non può che vederli/ andar via". La
speranza incomincia con un pezzo di terra. L'attesa ultima è sempre la
morte, anche "nella piccola piazza di Nusco...".
Il tono delle poesie di Peppino oscilla sempre tra la cruda lezione che
viene dalla realtà e il piacere di coltivare un'utopia, un sogno. Ad un
certo punto del percorso poetico e letterario di Peppino, al lettore
attento non sfugge che siamo di fronte ad un fatto nuovo: c'è una nuova
lettura della realtà, le radici sono un patrimonio da conservare ma che
bisogna oltrepassare. Allora succede che il Paese diventa i paesi, cioè
spazio totale ed universale. Si dischiudono temi dall'aria avvincente.
Solo chi ha capito la terribile lezione che viene dalla realtà, può
aspirare a continuare il racconto poetico. Peppino è uno di questi.
A volte con toni aspri, altre volte con toni dolci e disincanti la Terra
ritorna, e per essa Peppino modula, esprime modulazioni. Per essa suona e
cerca la parola musicale, il verso rococò che va e ritorna. Sempre. Che
nasce dalle profondità di una Terra matrigna, destinato agli uomini e le
donne che vogliono ascoltare, che sanno ascoltare.
Con le due raccolte di poesie Semi diversi e Umangraffiti Peppino
Iuliano raggiunge la maturità - il punto di svolta - con uno stile
compiuto per forma e contenuto. E' il definitivo, cercato e raggiunto,
salto di qualità. Le successive opere non saranno altro che conferme di
tale sofferta ma piena maturità stilistica.
Non saprei dire se è corretto paragonare il verso di Peppino a quello di
Rocco Scotellaro o di Eugenio Montale (altri più competenti lo hanno
detto), ma di una cosa sono certo: sarebbe bello se, fra cento anni, Nusco,
il Paese/Terra dove siamo nati, fosse ricordato anche per aver dato i
natali al Poeta Giuseppe Iuliano.
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Giuseppe Iuliano è uno scrittore di cristallo. Ha trasparenze senza
fondali il suo animo che guarda sempre al sole e tiene a dispetto il
sottobosco ammuffito. E' cristallo duro come la roccia dei suoi monti,
così è nato, così è cresciuto, senza mai farsi scalfire. Ma non è
rigido al mondo, poiché sulle sue mille paretine si rifrangono colori e
forme diverse, e s'internano, aggrovigliandosi e sgrovigliandosi in
immagini mediterranee, che sanno di scene antiche, di antichi cori. E poi,
dopo i venti bassi o alti della sera, torna alla sua primitiva limpidezza
per esporsi all'indomani alla luce del nuovo giorno, ancora un nuovo
giorno da vivere sulle cime dei monti, sfaccettate, dalle quali il mare è
lontano, con le sue mescolanze e le sue corrosioni. Quando, infine, le
tensioni interne diventano insostenibili, ecco che esse si scaricano nel
taglio affilato che incide a linee di fuoco tutto il superfluo ed il
turpe.
Giuseppe Iuliano è un coreuta del dolore. Quello primigenio della
provincia, immutato da secoli, vilipeso e deriso fuori dal nido, profondo
e contorto come le radici di una quercia annosa. E' un coreuta che canta
in disparte, intonando i ritmi della sua gente, facendosi omnia omnibus.
Ha ben poco di intrigante e dolce la sua voce, piuttosto sono grida che
attraversano e pietrificano la desolazione, lungo i sentieri di una storia
minore, di una natura arroventata dall'exodos e dal nostos.
Non hanno costumi di seta né sandali dorati, recita sulle macerie e sui
bronchi nella lingua terrosa dei contadini del Sud. In lui si raccolgono
rabbie e lamentazioni sempre vecchie e sempre nuove, ma che non si
vorrebbero sopravvissute in una tragedia che sembra non avere epilogo.
Giuseppe Iuliano è un Tersite sannitico. Sono brutte favole le sue
poesie, anzi non sono affatto favole ma ossuti graffiti incisi sulle carni
e sul cuore. Spesso sui modelli di Pasolini. Non c'è ricerca formale per
così dire alessandrina, c'è una sorta di emorragia di parole-cose, le
più comuni, quelle comprensibili da tutti, da tutti usate. E' stato da
sempre così, è senza scuola, senza ascendenze teoriche, con dentro una
forza vitale che fustiga padroni e servi dell'equivoco, del tradimento,
della falsità morale (urbem defricuit, diceva Orazio del campano
Lucilio). Ben poco c'è quindi di meditazione letteraria, e la ricezione
del lettore è amara eppure istintivamente simpatetica. La sua è una voce
che insiste senza blandizie, da anni, e, come nel caso del Tersite
omerico, solo a guerra finita potresti accorgerti che aveva ragione. E che
la guerra della sofferenza finisca è la sola utopia che anima i versi del
poeta, irpino quant'altri mai.
Anche Giuseppe Iuliano approderà, prima o dopo, ad una poesia più
meditata, lirica. E allora sicuramente, come già a partire da questa
raccolta, affioreranno gli impasti
sentimentali del suo animo, della sua esistenza ricca e generosa. Avremo
così la piega della parabola che non più s'inarca, ma tende ad adagiarsi
su toni sussurrati, e "alate" saranno le sue parole. Non per
questo, però, rientrerà la sua vocazione di poeta civile, o meglio, come
lui stesso si definisce e noi preferiamo, di "cantastorie di vita
malata di uguale".
(Antinomie e maschere) Romualdo Marandino
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Digressioni
di un aedo, edizioni Altirpinia, la nuova raccolta in versi di Giuseppe
Iuliano, una delle voci più autenticamente poetiche della nostra terra,
può suonare a una prima lettura come un titolo piuttosto aulico e
pretenzioso. A rivelarcene il senso profondo è la poesia che chiude la
silloge, Essere, a cui lo scrittore di Nusco consegna una matura
consapevolezza dell'essere poeta, ossia voce nel silenzio, non senza aver
dato prima un'ulteriore prova dell'eccellente padronanza degli strumenti
espressivi e retorici (nei suoi versi c'è un uso sapiente di assonanze e
del climax, di chiasmi ed allitterazioni, di metafore e simboli, di
immagini colte tratte dal repertorio mitologico classico e dalla lezione
provenzale) attraverso le immagini che evocano i sinonimi della parola
poeta: aedo di antiche leggende/ vate patriarca dell'anima/ rapsodo come
uno zingaro, e poi, ancora, profeta, troviero, trovatore, cantore cortese,
giullare, menestrello, cantastorie, rimatore, bardo, giocoliere, poeta
acchiappanuvoli.
I versi che scaturiscono dall'immaginazione, dal libero volo del pensiero
e della fantasia, che danno, insomma, voce ai sogni, rappresentano per
Iuliano il senso più autentico dell'agire poetico e, insieme, l'ancora di
salvezza di un animo puro, assetato di giustizia e di amore, titanicamente
proteso al superamento di invalicabili barriere geografiche, metafora
efficace e potente dei muri che l'uomo occidentale costruisce intorno a sè,
impastati con una materia fatta di chiusura mentale e di mediocrità, di
egoismo (Mediterraneo) e di insensata accumulazione materiale (Terzo
millennio). Finisce, pertanto, che il digressioni del titolo risulti
persino troppo modesto: le poesie di Iuliano, in realtà, sono un grido
d'accusa contro un post-moderno indecifrabile e tuttavia, per molti versi,
inquietante, e al tempo stesso l'unica via di fuga contro un isolamento
esistenziale: la corona dei monti dell'Alta Irpinia, alla maniera
leopardiana, è per l'aedo di Nusco l'infinito oltre il quale protendere
lo sguardo di osservatore e gli aneliti inesausti, persino rabbiosi, di
solidarietà umana e d'amore. Una condizione, questa, scrive nella
prefazione Lia Fava Guzzetta, che "ricollega l'io poetante di Iuliano
alla situazione interiore del Tristano leopardiano, che si sente ormai
inattuale rispetto al proprio tempo". "Essere poeta - ribadisce
Iuliano in Immaginazione - senza serti di ulivo/ nè segni di gloria/
umane lusinghe vanesie/ libero di evadere/ e di sciogliere il canto/ è
vivere l'illusione./ E conoscere i sogni". E alla maniera di un aedo,
egli racconta ai lettori "il suo mondo tormentato e ribelle;
trasmette una manciata di sogni; inventa una vita immaginaria", come
nota nell'introduzione Vania Palmieri, che con Nino Iorlano ispira
l'interessante collana di testi editi a Lioni dalla rivista Altirpinia,
giunta al quindicesimo titolo. Il tormento e l'estasi (per citare il
titolo di un celebre film hollywoodiano su Michelangelo) dell'autore
trovano corpo e figura nelle 16 splendide illustrazioni a colori
dell'artista irpino Giovanni Spiniello, che impreziosiscono l'elegante
edizione della silloge di Iuliano.
L' "orizzonte autoriflessivo" (Guzzetta) dello scrittore
altirpino, del resto, è intimamente legato al rapporto intenso e sofferto
con l'Alta Irpinia: "prigioniero della sua terra" (Palmieri),
tra le montagne, "non rinnegando le sue radici - scrive nella
postfazione Bianca Mastrominico - ha messo radici più salde nello spirito
e nella riflessione". Non a torto la prefatrice ricorre alla metafora
del soggiorno obbligato (Lasciatemi andar via!, grida Iuliano nel primo
verso di Paese) ed alla sua terra il poeta innalza un canto dolente (si
leggano i versi di Terra mia e, soprattutto, di Orizzonte) che riecheggia,
con toni più asciutti e ispirati, i temi delle sue raccolte precedenti,
da Semi diversi a Umangraffiti, da Celie giambi elzeviri ad Antinomie e
maschere, che sono valsi a Giuseppe Iuliano le prefazioni, e gli
apprezzamenti, di intellettuali e scrittori del valore di Luigi
Compagnone, Giovanni Russo, Gerardo Bianco, Francesco D'Episcopo. Con
Digressioni di un aedo, ora, Iuliano compie un ulteriore salto di qualità
nel suo itinerario poetico e fa vibrare con una matura padronanza
stilistica, insieme, le corde del sentimento e del pensiero.
L'
"orizzonte autoriflessivo" (Guzzetta) dello scrittore altirpino,
del resto, è intimamente legato al rapporto intenso e sofferto con l'Alta
Irpinia: "prigioniero della sua terra" (Palmieri), tra le
montagne, "non rinnegando le sue radici - scrive nella postfazione
Bianca Mastrominico - ha messo radici più salde nello spirito e nella
riflessione". Non a torto la prefatrice ricorre alla metafora del
soggiorno obbligato (Lasciatemi andar via!, grida Iuliano nel primo verso
di Paese) ed alla sua terra il poeta innalza un canto dolente (si leggano
i versi di Terra mia e, soprattutto, di Orizzonte) che riecheggia, con
toni più asciutti e ispirati, i temi delle sue raccolte precedenti, da
Semi diversi a Umangraffiti, da Celie giambi elzeviri ad Antinomie e
maschere, che sono valsi a Giuseppe Iuliano le prefazioni, e gli
apprezzamenti, di intellettuali e scrittori del valore di Luigi
Compagnone, Giovanni Russo, Gerardo Bianco, Francesco D'Episcopo. Con
Digressioni di un aedo, ora, Iuliano compie un ulteriore salto di qualità
nel suo itinerario poetico e fa vibrare con una matura padronanza
stilistica, insieme, le corde del sentimento e del pensiero.
(Digressioni
di un aedo) Paolo Speranza
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Di gran parte delle liriche è
protagonista l’io biografico, che si autoreferenzia, per dipanarsi poi
in referenti di varia incidenza in un intreccio di rimandi e ritorni, che
ricostruiscono e rammemorano il curriculum umano e poetico
di un uomo, che ha vissuto e vive un rapporto mai subordinato al
contesto ambientale e sociale, connotato da un taglio linguistico duro,
aspro, secco, vibrante per cui la stessa poesia non si caratterizza per
accordo d’armonia di cetra o lira, una nota costante nella ricca e
sofferta produzione iulianiana, ben qualificata dalla critica militante e
non.
L’incipit del realismo lirico mette in scena l’esperienza
memoriale di un’infanzia vissuta come una primavera dolorosa, che ha
assaporato amarezza di sogni, “sofferte rinunce”, come povero in un
“mondo di poveri”, che non ha rimosso dal cuore i bocconi di cicuta,
simboleggiati da quei “tanti sassi duri”, non
sciolti dalla pioggia
del correre del tempo, che insieme con la morte possiede la forza di
estenuare sbiadire e cancellare. Se la poesia è anche esperienza della
memoria, è utile che essa riacciuffi quei momenti particolari, che hanno
inciso spazi e tempi di una stagione del percorso esistenziale e li
traduca in immagini che ci
rendono presenti in perpetuum.
Il
rapporto con il paese non è idilliaco. Eppure Nusco per la posizione
geografica guarda dall’alto come una orgogliosa castellana sospesa tra
cielo e terra, l’uno ricco di stelle, che accendono fantasie di amori e
viaggi, l’altra digradante a valli tributarie di mitiche sorgenti, di
lussuria di verde e di solenni solitudini. In questo luogo divino e
specola del mondo il poeta si sente in esilio, un prigioniero in soggiorno
obbligato. Vive in un’antitesi stridente, in una situazione ossimorica
strana. L’alta cupola del cielo è una cappa; l’aria leggera è
soffocante, ”stagnante”; la luce, così inondante, “acceca e non
illumina” e “ aggiunge altro buio”; i monti appaiono come persone
uggiose, intriganti, spione e insolenti, che fiaccano la sua resistenza,
appesantiscono e rendono più stanca la monotonia stessa della vita, i cui
occhi come da una grata o un cancello vedono nel pur lontano orizzonte un
limite, nelle case sottostanti “tanti puntini bianchi”, nei paesi,
disposti a filari, attonite e identiche realtà, immerse “nel nulla”.
Questo mondo immobile, statico, questo sconfinato silenzio è indice di
uno stato di abbandono, di fatale rassegnazione. Di questo degrado sono
consapevoli nella indifferenza generale soltanto “il bastione ”del
diruto castello e il poeta, che di fronte ai campi lasciati incolti, agli
orti invasati da erbacce, alle vigne, ieri “ ara votiva
degli avi”, oggi tignate e malate per incuria, alla mancanza
degli innesti, alla rimozione di confini e steccati di canne, che
definivano proprietà e raccolti, difesi contro il malocchio da stracci di
spaventapasseri, “lari protettori”, di fronte a colpe, talvolta
ingiuste, da pagare, preso da iroso sdegno, da impeto istintivo, vorrebbe
“ sciogliere un canto ribelle”, con cui sconvolgere il passato e il presente, il vecchio e il nuovo,
tramutare come per incanto l’inerzia e la rassegnazione, la stagnazione
e la passiva fatalità in dinamismo, in forze attive e operose, creare
vita contro il deserto, attivare approdi al paese , ritorni e non l’esodo
continuo, vedere case popolate e non vuote , campi curati e feraci come un
tempo e non sterpaglie e macchie spinifere, vigne “benedette e
battezzate dal verderame” e non selve selvagge, un groviglio di rami che
si affastellano e si attorcono come serpenti, non l’edera, l’unica che
ha fissa dimora e abbraccia le mura, ma nidiate di bimbi, intenti ai
giochi, di giovani , uomini e donne a lavorare la terra, curare le semine, i
boschi, il bestiame, i raccolti, tenere vivo il focolare, raccontare nelle
sere d’inverno “ l’epica di storie e leggende” del proprio paese,
per ritrovare le ragioni dell’identità e della continuità a saper
portare “il testimone della vita”, per far sì che esso non sia mai più
un “ da qui / si parte / non si arriva”, un luogo segnato da due cose
certe, il nascere e il morire, un immenso vuoto, un monotono succedersi di
fatti, che producono eterna noia, la spossatezza esistenziale, per cui lo
stesso poeta avverte di avere pieni “di terraglia / i vuoti
dell’anima”. Appena, però, egli tenta di elevare il canto delle
memorie, ricercare in “nidi di pietra” radici e affetti, ricostruire
le ragioni dei torti e delle ingiuste colpe, le
ingiuste penalizzazioni sia comunitarie che personali, la reazione,
la congiura punitiva arriva
palese o sotterranea. Ma la voce del poeta non ha paura “dei lupi”,
dei tirannelli, degli angeli “
sterminatori”, dei “coronati” dal doppio volto e linguaggio “
abili al gioco di mano / all’intrigo / al pollice verso”. Persuaso
della forza invincibile della poesia, ne fa
arma di battaglia
contro ogni “vampata di lupara”, ne fa strumento di replica con
“grandine e tempesta di giambi”.
Quel momento di sognata riconciliazione, di auspicata alleanza, di
interruzione dello stato di prigionia nella stessa patria governata da
eterni regimi, è stato un pio sogno per il poeta, che si crea un varco
d’uscita con la fantasia contro gli stessi amici che lo esortano a
restare in nome dei ricordi, degli affetti domestici, dei cari defunti. Il
grido è forte e straziante, carico di aggressiva, imperiosa intensiva
emotività : “lasciatemi fuggire”. Inizia il cammino del
vate senza una missione di pace
o di guerra, un vate anonimo, sconosciuto “ senza serti di ulivo /
né segni di gloria”, un poeta che si dichiara “libero di evadere / e
di sciogliere il canto ”a suo piacere, perché essere poeta significa
“vivere l’illusione e
conoscere i sogni”; godere
della libertà della fantasia, che consente, chiusi gli occhi, di vedere
altre realtà, come le varietà delle gradazioni
del verde dell’Amazzonia, “ sculture di ghiacci eterni”, “
mondi stellari”,” misteri del Tibet o dell’India”. E’ questa una
“virtù effimera”, ma reale, concreta all’istante. Parte come un “
pellegrino”, però senza saio e cilicio, perché non ha colpe da farsi
perdonare; parte neppure come un trovatore o un giullare, perché non ha
come mete corti o castelli, ove cantare eroiche virtù, teneri amori,
incantevoli bellezze, sospiri e languidi amori, avventure; parte neppure
come un guerriero con la spada benedetta, votato al sacrificio per la
Croce e la liberazione del S. Sepolcro. Il nostro si finge
di percorrere “segmenti di Grecia”, “si trastulla in novello
Odisseo”, che fa naufragio. .Voleva “varcare
la soglia / per provare la
sorte”. Si ritrova “ naufrago”, né perché perseguitato da un dio,
né per colpa del morboso amore per Itaca . Nusco non è Itaca.
Però è il suo punto di partenza. Resta come immagine nascosta. Il
“naufrago”,che innalza “squarci di vela”, è cittadino del mondo e
se ne serve indomito per viaggiare “verso un’isola /mondo / luogo di
misfatti, che fra le più vergognose
atrocità - Auschwitz, Dachau, Treblinka – simboleggia la
bestialità inaudita di quanto possa la ferocia umana, rosa da tarlo
svastico, da un virus, che la trascina ad autodistruzione. Perciò il
poeta, che ha un’epica nera
da raccontare, dice di aver posto
il suo linguaggio a forgia, incudine e martello, per non essere
convenzionale, di averlo battuto e affilato, per renderlo coltello, spada,
vetro da taglio, scheggiato, per infliggere colpi
alla storia, maestra di menzogne, all’ enfasi della “civiltà
globale”, altra rovinosa macchinazione dei poteri forti, che schiacciano
la già misera umanità del mondo, creando “povertà di nuove
miserie”. Per questo motivo il vate “con esperienze del mondo”, il
troviero “ con mandola a tracolla”, con ciotola e orcio, libero da
condizionamenti, non solo è implacabile con la poesia manieristica,
arcanista, romantico - piagnucolosa, ma anche con i soliti ripetitori
e programmi sempre uguali, mettendo in gioco altre “partiture”,
“nuove canzoni”, i cui protagonisti non sono belle donne e prepotenti
signori, non “fole celie e consolanti amori”, non “ un canto riverito
/ che appassiona umili e potenti”, “ non storie d’amor cortese e
passione”, ma direi “stracci di vela”, che rappresentano “scorie
di umanità”, gli esclusi, i vinti dal destino, gli emarginati, gli
schiavizzati, le razze inferiori, i
nuovi poveri, gli angariati, gli sfruttati, i perseguitati, gli improtetti,
gli abbandonati, le vittime degli odi razziali, gli estirpati dalla loro
terra, le tragedie delle guerre, gli emigrati per fame, il commercio
ignobile di bimbi, di donne,
di uomini, il nuovo mercato degli schiavi. Sono questi i temi dolorosi che
tormentano la coscienza, la fantasia poetica , la scrittura e lo stesso tessuto linguistico di
Iuliano, che riversa bile, sputa fuoco, rivendica i valori
della religione, della patria, della famiglia; della dignità del
lavoro, del patrimonio morale della civiltà contadina e artigiana di ieri
contro la “poca incerta fede “dell’oggi, la cultura di un laicismo
intemperante, il mercantilismo e la mercificazione della vita stessa,
ridotta a cosa, a oggetto nel segno del culto del denaro, la nuova e
maledetta divinità, che fa dell’uomo un lupo per l’uomo a totale
rimozione dell’umanista, del dotto, del filosofo, del poeta, soppiantato
dal tecnico, dallo scienziato, dal genetista, dal robottismo, per cui la
stessa anima è un congegno e
l’uomo una macchina che controlla passivamente “ i tempi delle
macchine” che scrutano cieli e abissi. Paga il progresso che gli ha
tolto mente e cuore. Il poeta di fronte a questo tipo di uomo disumanizzato,
innaturale grida: “ Alla natura /restituiamo
scorie di umanità”. E come frusta
“la morta poesia”, che nasce da “un’anima di creta ”, così
punge con acuti aghi il culto del divismo, l’omologazione culturale,
l’arrivismo, l’etica stucchevole, il bigottismo, la convenzionalità
religiosa, la ritualità bolsa, l’ostentazione.
Il poeta in alcuni elaborati ci offre specchi a confronto, immagini
di una scottante verità etico-storica, che inducono a riflettere sulla
mutazione dei sentimenti, degli stati di coscienza, dei rapporti con la
trascendenza, delle relazioni sociali. Quando pone l’accento sulla “
poca fede”, il dato non riguarda solo la crisi delle istituzioni, degli
organismi sociali, ma anche la stessa interiorità dell’uomo, lo
sfaldamento della psiche, che è spersa nel labirinto del “nulla”.
Le processioni di oggi non sono quelle di ieri, vissute con
intensità di fede e purificazione: “ File di lanterne/ cantavano eredità
di confratenita… Lucciole votive/ illuminavano vicoli di caligine… Nella complicità del buio/
ognuno confessava a mezza voce/ peccati e
miserie di Passione/ bestemmie di povertà e sudore di sangue… supplici
cori al mistero del perdono”. Questo “rito non sconta più affanni… Si mostra stanca liturgia” tra fumi d’incenso.
Il Venerdì Santo, giorno di “forzato digiuno”, di silenzio di
morte, del sonno delle campane legate, richiamo di un altro Calvario “di
croci innocenti / ufficialmente scordate da tempo” sia
“ da Dio che dagli uomini affaccendati”, l’Irpinia straziata
dal terremoto del 23 novembre 1980 e per esso volutamente calunniata e
diffamata come ladra, non produce l’emotività lacerante di quella di
ieri, perché è fittizia, scialba. E’ spettacolo! E’ becero folklore!
Anche la stessa Pasqua è
“una memoria sbiadita di cose/ stanca di prove scarica di corda”.
E’ apparenza di fede.
Si vive nel gorgo della civiltà delle immagini, delle vistose
apparenze. C’è da parte dei giovani il rifiuto del passato; ma non c’è
neppure un futuro; si preferisce tenere la valigia chiusa e vivere “a
balia dei pensionati”. Ieri si emigrava per fame e si disgregavano le
famiglie e si spezzavano le radici. Si sfidava il destino. Si spezzava la
catena della schiavitù e si
rovesciava “l’ordine di arrivo ”. Oggi però non si emigra, ma si
parte da uomini liberi e non
più con “ miserie di cafoni” e “ con la morte nel cuore”,
stranieri in paesi europei per
lingua e diversità di razza. Eppure, c’è tanta disoccupazione, tanta
rassegnazione, tanta retorica nelle promesse, tanto inferno di vita, che si
sconta sulla faccia della
terra per la pratica del “mercato di lavoro nero”. Il poeta, preso da
giusto sdegno, vorrebbe scuotere, strappare la maschera a questa Europa,
disumana nei fatti e democratica
in apparenza con “civiltà di carta”,
scritta soltanto nei trattati. L’impegno civile e patriottico,
che scuote la sensibilità del lettore, si fa accorato e vibrante,
allorché si esprime rabbia contro i denigratori ( forse i leghisti), che
nei colori del Tricolore leggono spregevoli significati, nel bianco la
resa, nel rosso la vergogna, nel verde la collera. Al poeta non resta che
solennizzare l’eroismo dei giovani morti della terra Irpina e di tutto
il Sud per la difesa e l’unità della Patria e di stigmatizzare
quest’Italia che ha “collezione di morte parole/ da farsi
perdonare”. Con sarcasmo egli apostrofa
coloro che ritengono il drappo una
“pezza un drappo
d’infamia” e invita a contare “quanti morti/ sono cenere di focolai
spenti/ nell’odiato malvagio Sud”.
Il nostro Femio irpino non certo “bocca divina”, canta come il
poeta greco “i guai”, non mandati da Giove, ma creati dagli uomini,
tiranni e tiranelli di turno; canta le sventure
degli oppressi, dei nuovi schiavi, dei dimenticati, dei cristi
perseguitati dalla malasorte e dalla brutalità mercantile. Quando
si toccano le corde della cetra che lamentano il dolore dei vinti e
dimenticati dallo stesso Dio, dei bambini sfruttati, della mercificazione
delle donne e dell’amore, l’ira brucia nel cuore
e la protesta si accentua e si fa tempestosa contro il
“mercato di lavoro nero”, contro “il nuovo mercato degli
schiavi”, gente che vede il Mediterraneo e l’Europa come il favoloso
Eldorado, il vero paradiso, mentre essa rischia non solo di essere buttata
a mare come “cosa persa” dai nuovi e spietati mercanti, ma viene
esposta come “campione senza valore all’ingrosso o al
dettaglio”. Acuminate frecciate il poeta lancia contro “i signori
della terra”, che hanno la bocca piena di giustizia, mentre nella
sostanza considerano queste ondate migratorie, frutto dei disastrosi
conflitti nel mondo balcanico, come “straccioni rifiuti/ cassonetti di
ogni fastidio”, per cui il Mediterraneo aggrega “odi e gemiti di
popoli”.
A difesa di questa gente umiliata, derisa, spogliata e venduta il
poeta leva la sua voce irosa e pungente contro “sensali esattori
ruffiani”; contro “potenti prepotenti/ cacciatori di affari”, contro
i frodatori e “papaveri di ogni terra/ semenza di stravizi
”, seduttori col denaro, profittatori delle miserie e dei sogni
ingannatori di tante fanciulle immesse nel mercato della prostituzione
nella civile Italia e nell’Europa senza frontiere. Spettacolo turpe e
miserabile in paesi cattolici e protestanti. Ove si commercia pure
l’anima e dove le Istituzioni non vedono, dove la Giustizia non è più
“la spada di Temi ”, è solo “un nido vuoto” con toghe messe
“all’asta”. In questo mondo che vive nel culto dell’effimero, del
precario, nella ricerca furente di quotidiani paradisi, nella rapina del
potere e della notorietà, che posto può avere il poeta, che valore e
funzione la poesia? Il poeta, anche se non è più ritenuto
“veggente”, è il solo che personifica la libertà, che non conosce
compromessi o condizionamenti, che non si assoggetta al potere e dà voce
agli “scarti ” della società, agli anonimi, ai figli di nessuno, ai
poveri disgraziati, a quei morti senza monumenti, a quegli emigranti, che non
hanno conosciuto letizia di banchetti, che non hanno avuto legna per
accendere il fuoco, ai quei poveri
coloni e contadini, che hanno conosciuto solo quaresime e hanno “le
facce accecate di sole” e
“stanche monotone stagioni” e per
ricordo un solo giorno di baldoria, il carnevale. Di questa razza
sfortunata è cantore il nostro Femio, non di eroi e principi, di battaglie
e guerre, di dame e dee, di cortigiane e maghe. Il Nostro protesta e
accusa, vitupera e esalta, restituisce dignità
e rispetto ai deboli, agli analfabeti, ai vivi che non vivono. Per
costoro scrive e sogna ,parte e ritorna, fugge e approda, getta l’ancora
là dove c’è innocenza di vita, natura “inebriante”, chiarore di
sole, “le nuove albe”. Ma l’aedo non può essere contento di questa
nuova terra, che è sempre un’isola, che significa solitudine, lontananza
dal consorzio umano. E si inventa per viaggiare un altro amore, per dare
significato alla sua vita, che non può essere vissuta in solitudine, che è
il male di tutti i mali, cerca la sua Melisenda, che è la poesia, la sola
che gli dà conforto, che lo rende muto o ribelle, ma la sua Tripoli, il
suo dannato amore, è Nusco, la cui presenza diventa essenziale, perché
senza Nusco non sarebbe stato poeta, non avrebbe senza questo ambiente e
contesto potuto concertare “rapsodie rusticane”, da cui parte per farsi
alfiere e portavoce dei paria del mondo. Nella figura del troviero Tebaldo
di Champagne “cavaliere senza scorta”, senza codazzo, si ravvisa il
poeta nuscano sia per analogia dei luoghi sia per temperamento solitario.
Il poeta odierno non è una cicala, che “accorda versi e note”. Se non
è il cieco e profetico Omero, divino per potenza di canto, per vigore di
parola e voce scuotente, capace di penetrare, interrogare e “scrutare
labirinti di tenebre/ fondali distanti secoli di storia” e unire le
storie grandi e piccole di uomini e divinità e consegnarle alla grande
memoria umana, ha, tuttavia, anche se con voce “arrochita” e con occhi
“ciechi” alla luce, il dovere di testimoniare il suo tempo e
denunciarne “la convenienza”, i
nuovi falsi culti di eroine ed eroi dello spettacolo sportivo,
canoro e televisivo, la nuova e deleteria mitologia del denaro, un vero
delirio di questa società consumistica, squarciare i veli della ipocrisia
e disumanità dei nostri giorni, protestare per gli indifesi e gli anonimi, viverne i drammi e personificarne le voci.
Se il poeta, oggi, non è più
ispirato da una divinità per poter “guardare dentro/ il buio, la
vita ed oltre”, è abilitato ad essere la voce che rompe il silenzio
degli esclusi e a spezzare la schiena ai nuovi mercanti di anime derelitte
in questa strana babilonia “di amore vita e morte”. Se la poesia è la
libertà assoluta, notevole è la sua funzione come memoria di conoscenze,
di esperienze e come segno che strappa al tempo lembi di vita e
ne ferma l’istante come sopravvivenza e incide vie per il futuro. Non è
condivisibile l’idea che la poesia sia flebile voce di cicala, che
nessuno ascolta, ma nessuno ha saputo svelare il significato profondo e
misterioso di quei suoni, che sono e forse resteranno indecifrati, finché
non si rimuove il simbolo della monotonia oziosa. Quella litania che porta
messaggi e miete i giorni è come la poesia che precorre e immette nel
futuro con quei suoni non colti dal corto udito dell’uomo . E’ poesia
anch’essa che ferma il sole sul ciglio dell’orizzonte. E’ quella
stessa che ferma la morte che tappa la bocca dell’uomo e promette la
luce della resurrezione ed è sempre la stessa che inventa, apre la
finestra alla vita, anche se sembra incerto il palpito nuovo della
speranza. E Iuliano sa che attraverso le tante mutazioni è diventato la
bella farfalla, il poeta, che oltre a costruire altra realtà naturale e
umana, che ha sede nell’utopia, fragile ma necessaria, è presente là
dove i poveri scontano con sofferenza l’egoismo del progresso, dove
l’atrocità e la violenza segnano gli odi razziali, dove la pulizia
etnica produce olocausti o esodi di massa, dove ci sono case che bruciano,
fosse piene di cadaveri, terra bruciata da stermini, dove i bambini hanno
il viso della morte e le donne hanno calvari da nascondere e i vecchi
disperate solitudini da testamentare. Iuliano non è solo la voce
di Nusco e dell’Irpinia che non parlano, ma di tutti i luoghi del mondo,
ove si calpestano i diritti della dignità, si affamano le genti, ove
si fa mercato di carne umana di qualunque razza, fede e colore.
Nella silloge “Digressioni di un aedo” c’è del locale e
dell’universale, c’è il passaggio da una cultura ad un’altra, da un
mondo monolitico che s’è frantumato e disperso ad uno dal volto non
ancora umano, dalla perdita di radicati valori morali, etici, religiosi e
sociali al culto spettacolare di nuovi idoli, di nuove divinità, di una
smodata emulazione sociale, di nuovi parametri di misura dell’uomo,
basati
sull’avere e sul potere. C’è “Pluto” al posto di Dio, la
monetocrazia al posto dell’umanista, la discoteca come fuga dal
quotidiano e il paradiso nell’ecstasy, la trasparenza e la seduzione al
posto del pudore, sedere come potere, la
corsa “al parlamento d’oro”, il capitale, il tecnocrate, il
banchiere, i “grafici ”della borsa, l’occhio alle statistiche, al
mercato. E l’uomo dov’è ? E’
nella
poesia che parla un linguaggio diverso da quello della moda
imperante dell’”usa e getta”, è nella immaginazione poetica, che si
traduce nel credo dei valori alti, che assicurano la continuità
dell’essere, del cuore sulla macchina, della singolarità sulla massa,
dello stato emotivo sull’aridità del calcolo. Tutto il bene, se c’è,
e il male di questo secondo Novecento è nel dettato-denuncia, di cui
si è fatta una modesta parafrasi.
Al di là della sostanza etico-morale, civile e religiosa,
patriottica e politica, sempre tesa e inquietante, si ravvisa una smaliziata tecnica dei mezzi
espressivi, una pregnanza di immagini dai forti colori, uno stile del tutto
personale, spoglio di fronzoli. Anche i mutui o prestiti vengono
compenetrati, vissuti, ricreati e caricati di senso proprio. Una operazione
questa che riesce soltanto ai poeti di spiccata sensibilità, di grande
estro, di straordinario potere creativo. La lingua è piegata e torta ai
moti del sentimento, della passione. Il lavoro della lima è frutto di
letture e riletture, della perizia e della
pazienza del sarto, che ritaglia e ricuce, corregge e perfeziona,
senza mai conseguire la piena contentezza del prodotto.
La perfezione in poesia è rara, è una eccezione. Le revisioni o le
correzioni ne costituiscono la prova. L’esecuzione è arte incerta. Non
basta l’estro, è fondamentale anche l’esperienza di laboratorio. Se il
lettore si dota di “mille occhi ”, quando
si dispone a leggere, può vedere anche in questo libro l’uso
della polisemia, dell’anafora, della climax, dell’anastrofe, della
epanalessi, del frequente asindoto, della sineddoche, dell’animismo
naturalistico, della sinestesia, dell’assonanza o consonanza, dell’inarcatura,
della metonimia, della deissi ecc. Si nota l’uso di varietà di metro,
di spazi bianchi fra le strofi.
In alcuni lavori prevalgono i versi brevi e la paratassi e si
ottiene una tonalità più vibrante, un ritmo più aggressivo.
In quelli ove si registra l’ottonario, il novenario, il
decasillabo, l’endecasillabo il tono è più lento, armonioso,
piacevole.
La mescolanza di versi lunghi e brevi crea attrito, dissonanza, che
riflettono l’esacerbata tensione spirituale, il senso di una
malgovernata insofferenza, che si riversa nei fattori del ritmo.
(Digressioni di un
aedo) Pasquale Martiniello
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In questo racconto-poema,
Giuseppe Iuliano conferma la possente, virile vena della sua poesia: una
poesia civile, di idee e di ragionamenti, che ha la capacità di penetrare
nel cuore dei problemi meridionali, di indagare con coraggio sulla realtà
della terra irpina ancora sconvolta dalla furia della natura e dalla
inefficienza del potere.
I graffiti umani di Giuseppe Iuliano sono i valori di una società
che non si vuole piegare alle astuzie del potere, che non si crogiola
nelle lamentazioni e che cerca disperatamente, giorno dopo giorno, di non
disperdere le radici di una comunità che "s'avvolge/ a maledire
la paura/ battendosi il petto a discolpa/ e chiedendo perdono/ di peccati
e disonestà".
Ai valori di una terra non soffocata dai nuovi miraggi del populismo e
semmai tesa a realizzare riscatto, rilancio e crescita civile, Iuliano
conferisce la forte, vigorosa, matura consapevolezza che "Tutto
ritorna all'uomo./ Libero di cercarsi vita e destino".
Il destino dell'uomo del Sud - esposto ancora oggi ai peggiori azzardi
della vita: il lavoro che manca; le fabbriche che chiudono; le delusioni
della ricostruzione - è nella sua volontà, capacità e dignità di non
attendere miracoli, di respingere illusioni e promesse. E la poesia di
Iuliano in Umangraffiti, così come nelle precedenti raccolte, si eleva
all'altezza delle grandi denunce etico-politiche, vibra di tensioni morali
e, senza scadere nel moralismo facile, delinea le condizioni dell'uomo e
della società del Sud. Una condizione umana che Iuliano scalfisce sulla
pietra della sua terra irpina con i versi di una poesia che parla da sola
all'intelligenza e al cuore del Sud; e questa condizione umana
è la forza della vanga
è il sacrificio dei poveri
è impeto di polvere nera.
Perciò dobbiamo lottare per liberare la condizione dell'uomo del Sud
dai vincoli, dai ricatti, dalle promesse di un potere capace di creare
solo "nuova schiavitù". Con Umangraffiti, Giuseppe Iuliano ha
adempiuto al suo dovere di uomo libero continuando a dare, con la sua
coscienza non irretita dalle braccia tentacolari del potere, il suo
contributo essenziale alla battaglia delle idee e della ragione.
(Umangraffiti) Franco
Compasso
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«Tu che cerchi/ parole soavi/
di pensieri sublimi/ che fanno vibrare/ le corde dell'anima/ rimarrai
deluso./ Ti prego, non continuare!» Comincia così la nuova raccolta di
poesie di Giuseppe Iuliano, poeta e cantore dell'Irpinia, che è terra dei
miei avi e che è stata al centro dei miei interessi di «teatrante».
E' questo il motivo di base che mi spinge a scrivere di questo libro, alla
mia maniera, effettuando una sintesi di quei versi che più hanno colpito
la mia sensibilità di uomo e di artista. Ho avuto, infatti, l'occasione
ed anche la fortuna di conoscere per primo Iuliano e di musicare alcune
poesie tratte dalle sue precedenti raccolte, nel 1980. E' l'anno in cui la
ricerca della Compagnia del Sancarluccio, protagonista Pina Cipriani, è
stata rivolta alla poesia dell'entroterra.
In «Una misura di sale» che fa seguito a «Malinconia di terra», «Il
Sud non è forse...» (da cui è stato tratto l'omonimo spettacolo
presentato alla Biennale di Venezia '82), «Per non morire» e «Oltre la
speranza», Iuliano ha decisamente filtrato le sue sensazioni attraverso
uno spirito di osservazione e di analisi più acuta. La poesia ne ha
guadagnato in maturità, in vigore, è decisamente più attenta, più
reale e provocatoria.
Anzi è proprio la «provocazione» che determina la sfida e nello stesso
tempo diventa incentivo a lottare lasciando «la pazienza ai deboli». In
essa, a mio avviso, si conserva la vera e necessaria chiave di lettura
perché la nostra gente «sperduta tra monti e contrade» riesca a trovare
la forza di reagire e di sbattere «alla malora i sempiterni feudi».
Iuliano avverte che i drammatici momenti vissuti sulle «Terre ballerine»
lo sono ancora di più, perché la ricostruzione non decolla, ed al ritardo
si aggiunge il pericolo della delinquenza organizzata: «La nostra vita/ è
legge del silenzio».
L'acuta sensibilità del poeta trova, tuttavia, motivo per ricordare che
«nei sacrifici umani/ solo la speranza non crolla»; la sua rabbia incalza,
quale aperta provocazione, il politico: «quando cercavamo lavoro/ garantivi
interventi sicuri./ Non siamo ancora occupati.» Poi, l'uomo ritrova se
stesso: «Donna/ a sera, diventi desiderio./ Il profuma di terra/ come
filtro d'amore/ riempie i sogni e i sensi/ di impenetrabili magie/.»
E' un momento di serenità, quella stessa che ha portato il Nostro a creare
il suo nucleo familiare e a dedicare la sua ultima fatica alla piccola
Annalisa, che egli apostrofa «mia tenera radice».
Il poeta è padre, il padre è poeta; la sua arma di lotta: la poesia! E'
una scelta giusta, onesta come lo è la vita di Peppino Iuliano in rapporto
al mondo che lo circonda.
La conclusione è un ennesimo e costante incitamento ad uscire allo scoperto
perché «non è più tempo/ di pazienti rimandi/ e di suadenti
parole/ per sanare i continui bisogni».
Ancora una volta Iuliano è la voce e la coscienza della sua gente.
L'umanità e il temperamento gli assicurano la forza e la certezza di
affrontare una realtà sempre più compromessa da rimandi o ritardi, da
inganni o elemosine, da mafia o camorra; contro questi mali l'amore per la
sua terra si fa ribellione, denuncia e diventa rivolta culturale.
Il Sud ha bisogno di uomini come lui se vuole rinascere e non essere più
«terra d'esproprio».
Il singolare viaggio intrapreso nel mondo lirico di Iuliano non si esaurisce
nella fantasia o in una sua intima e scontata bellezza linguistica o di
temi, ma trova la sua continuità nella vita.
In questa consapevolezza ripeto a me stesso un passo del prologo: «Se i
ceppi stringono/ il corpo ferito/ e soffri pene di libertà/ ascolta la
voce./ Siamo uguali».
(Una misura di sale) Franco
Nico
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Ormai Giuseppe Iuliano non è
più una scoperta della nostra moderna poesia, ma è una conferma che si è
concretizzata, nel corso di questi ultimi anni, attraverso un discorso
impegnato ed una problematica esistenziale, ossia la problematica
meridionale.
Non siamo dinanzi ad una poesia
approssimativa e, spesso confusionaria, ma dinanzi ad un messaggio
ideologico che considera la nostra realtà meridionale nella sua natura,
nella sua immediatezza, nella sua spontaneità.
Ecco allora Giuseppe Iuliano
campeggiare su uno sfondo storico concreto per approdare non ad una
mitologia di fondo irrazionale e decadente, ma ergersi al di là di
possibili enigmi decifratori e di indicare, con veemenza, con chiarezza, che
il nostro meridione non è più una terra arcana e misteriosa tutta da
studiare e da rilevare nella sua essenza nascosta e nelle sue apparenze
molteplici, ma è una realtà nuova con bisogni ed interessi da prendere in
primo piano e da risolvere con chiarezza di intendimento. Allora: non più contenuti
vecchi (di carattere individuale), ma contenuti nuovi (di
carattere sociale).
Giuseppe Iuliano continua
così a rifiutare la bella pagina, è lontano da un lirismo
saccente e pretestuoso; tale rifiuto nasce dalla constatazione della realtà
della sua Irpinia dove sussistono angosciosamente i problemi comuni al
nostro mezzogiorno e da esso, le pagine si irrobustiscono con vicende e
stati d'animo che la critica più attenta e qualificata ha messo nella
giusta luce.
Insomma il poeta irpino (è nato a
Nusco, in provincia di Avellino) percorrerà ancora tanta strada, ci dirà
ancora tantissime cose, con la sua tendenza realistica, e noi saremo sempre
attenti al suo discorso di uomo e di testimone di un tempo sempre precario e
turbinoso perché ogni sua opera costituisce un raro messaggio di amore, di
fede e di testimonianza civica ed artistica.
(Una misura di sale) Luigi
Pumpo
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Nella poesia di Giuseppe Iuliano
vi è la struggente rabbia del rivoluzionario; vi è la puntigliosa analisi
di un mondo che solo Iuliano conosce così "profondamente", e che
ama di un amore sconfinato. Il mezzogiorno contadino, vittima di secolari e
più recenti ingiustizie, è una civiltà antica che avrebbe molto da
insegnare alla civiltà consumistica.
Iuliano si duole che questa antica civiltà della sua terra sia stata
contaminata, inquinata dalla protervia di conquistatori interni ed esterni.
Nella poesia di Iuliano c'è la rabbia del testimone impotente, di fronte
all'invadenza di "legioni straniere che stringono nuove prigionie e
portano alla diserzione, per ricacciare all'inferno il fallito tentativo di
migliorar la vita".
L'adesione al consumismo, ai falsi ideali di un mondo che ha perduto
l'antico senso della vita, è la cosa che più intristisce Iuliano, che vede
i contadini meridionali come i vinti dell'Amazzonia, vittime di una pseudo
civiltà più forte e suggestiva. Con la differenza che i vinti dell'Amazzonia
sono eliminati fisicamente; i contadini del Sud subiscono gli insulti della
civiltà dei consumi e ne escono con inguaribili ferite nell'anima. Le
parole s'inseguono nel cantico di Iuliano, come colpi di martello ritmati,
ove ogni immagine è al suo posto, ove l'impegno civile si fonde e si
trasfonde nella lirica. E il poeta sa essere crudo e verista, mitico e
romantico, senza mai debordare da quel solco umanistico, impregnato di
cultura storica e saggistica, da cui egli proviene. Sembra quasi che solo
attraverso la poesia il pessimismo di Iuliano si decanti, trovi il conforto
e la speranza. Perché fin quando qualcuno, un meridionale, saprà essere
così impietoso e coraggioso testimone della decadenza morale del suo tempo,
ebbene c'è speranza di una stagione di rinascita, perché quel
"qualcuno" è al tempo stesso simbolo di speranza e di rinascita.
Forse quel "qualcuno" è uno di quei cento uomini d'acciaio che
Guido Dorso auspicava per il riscatto della società meridionale.
(Celie Giambi Elzeviri)
Generoso Benigni
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PEPPINO
IULIANO
UN POETA
MERIDIONALISTA «TRA VOLI E NUVOLI»
di Vincenzo Napolillo
Campione
d’una poesia che raggiunge il cuore della gente è Peppino Iuliano,
autore di Voli e nuvoli, dove
emergono valori umani e artistici di grande intensità. La nuova raccolta
merita attenzione e rispetto, perché la poesia di Iuliano si può
afferrare, tenere e giudicare come atto d’amore e d’umano colloquio
sociale. Il poeta meridionalista carica di evidenza le cose-evento, i
personaggi della marginalità, le figure «indurite dagli anni» e mai
prostrate né rassegnate nelle difficoltà quotidiane, il paesaggio
naturale, storico e umano indagato con spirito liberatorio e ironico, non
per scrivere versi «zoppicanti», ma per trovare una holderliniana «sponda
al sole», cioè una terra su cui riposarsi e ripararsi dalla intemperie e
dalla maledizione.
Peppino Iuliano, con la sua cultura umanistica, può illuminare un mondo
al buio. Il suo viaggio nell’arte è, dunque, colluttazione con se
stesso, liberazione progressiva da inganni e promesse fallaci, riconquista
di certezze, rigore stilistico, che riesce a mettere ordine, con decisione
e coraggio, nella galleria dei sentimenti caotici e nel mondo della
disgregazione. Lapidaria la definizione di Massimo Rendina, che ha scritto
la prefazione al libro: «Poesia come carta d’identità, anche nostra».
In questa raccolta è nuova persino la rappresentazione stessa della
poesia, che scende dal Parnaso per inserirsi nello spazio temporale e
nella storia del popolo. Le schegge
vengono così riunite, perché egli non si tira in disparte, ma si riporta
sulla barricata verso mete di giustizia e di progresso civile e culturale.
Schivo di retorica, entra in gioco con la sua personalità poetica
originale e con la sua corazza di umanitarismo cristiano, per significare
che alla fredda esercitazione si devono opporre palpiti di dialogo e la
concordia universale. Il poeta si rivolge, aderendo alle mutate esigenze
sociali e culturali, direttamente alla poesia:
Tu invece assecondi la libera
parola/ e prodiga di tempo e di misura/ spandi la nostra voce./ In ogni
dove.
Costruire un altro mondo è possibile; ma nell’arte, diversamente dalle
promesse politiche, tutto
ruota intorno alle emozioni e all’anima. Prendendo l’avvio dalle
occasioni anche piccole e umili, si spinge oltre i nuvoli, per rischiarare
la visione ed esprimere meglio la ricostruzione di sé e della sua società,
per avvolgere attorno a nuclei originari i filoni dell’esistenza, che è
marcata di fatica, di sfida, di urlo, di favola del lupo onnivoro e
dell’agnello.
Ed ecco qui il nostro paese, con quell’odore di conserve e di vecchiume,
con quella visione di austerità e con il cielo «color pastello», con la
cattedrale di calcare e la realtà dello spopolamento e della rovina. È
questa l’incoercibile inquietudine del poeta Iuliano, che
crede di fare prevalere il cervello sui sentimenti, la memoria del
passato sulla scelta estetica, la vita che lentamente si consuma su esili
riti e su ingannevoli miti: Paese
mio/ mi conti e riconti – ma non tutto torna –/ somme di usci cardini
chiavi e gente/ chi timorato, chi stracco del niente/ che ti assicurano il
nome di paese./ Ma tu non comprendi/ né più ti riconosco.
Ragioni umane, si dirà, che poco hanno a che fare con lo specifico
letterario. Senza le quali però la corda della lira sarebbe stonata o
suonerebbe a vuoto.
Il poeta talora si comporta come un innamorato deluso, che non tollera le
storture e l’indifferenza, ma che risale il monte per guardare
dall’alto in cerca di spazi di serenità, con la mente rivolta al
destino privato della sua vita e con gli occhi posati sulla gente
lavoratrice, sui campi di grano «che si rinnova», sulle bellezze
naturali, ovvero sulle «meraviglie dei sensi».
Peppino Iuliano è vicino a Rocco Scotellaro: infatti, sono entrambi
incolpevoli di fronte al telaio
della vita e alla storia. Giusto, quindi, il rovello per la sconfitta,
ma più giusta e necessaria è la loro utopia. C’è una frontiera del
dolore: ebbene il poeta è solidale con chi soffre e con chi lotta.
Iuliano cerca un varco, un riscatto, e scopre che la poesia è vita futura
scavata nell’interiorità dell’uomo rinnovato, è l’anello che
mantiene, è il superamento di piaghe e contrasti sociali. Il poeta, perciò,
immette la propria vita in quella di tutti, maledicendo il sentiero che
porta alla guerra, che non è solo sacrificio di trincea, pane di gavetta,
ma è ogni miseria del tempo,/
giorno che muore nel giorno/ uomo che strozza l’uguale/ ne saccheggia la
casa/ gli insozza la donna/ e sgozza i suoi figli.
Ma Iuliano è anche un pellegrino devoto: la sua indole religiosa lo
conduce a due santuari famosi: quello di Mefite, nella valle d’Ansanto,
frequentato nell’antichità da pastori e allevatori di cavalli, e quello
di Montevergine, sull’aspro Partenio, dove risuonano canti gregoriani di
fedeli e vacanzieri. Mentre i pagani scendevano nel vestibolo
dell’ignoto, che ancora
c’inquieta, i cristiani salgono verso le sporgenze del cielo, che tuttora
ci consola.
È un tema nuovo? È un tema antico che il tempo ripropone da capo?
Certamente nasce dall’esigenza di cambiare rotta, d’una nuova
profezia, per sopravvivere al desolante silenzio. D’altronde, anche lo
scienziato materialista può lasciarsi incantare e seguire questo
flautista magico, che vaga a oltranza per luoghi di nuove miserie in cerca
del volto di Dio e che attribuisce al canto funzioni di rivelazione della
vita maggiore, di preghiera, di
ansia dell’Assoluto: Mannaggia/ è
l’ultima parola/ quando tutto crolla/ come un mondo di cartone.
Peppino Iuliano instaura, invece, pacate discussioni sul destino ultimo,
facendo della parola l’elemento di mediazione tra l’ignoto e il
conoscibile, tra l’ombra e la luce, tra la scienza e la fede, tra il
mistero e la verità. Infatti, il canto poetico è concepito anche come fiato
e respiro che tocca il vero/ e
poco teme l’ignoto.
In questa prospettiva, la natura è vista come la Fata morgana, che
allieta e insinua nel cuore delicati sentimenti ed espansiva pace
familiare.
Ritorna insistentemente il tema dell’amore per la donna. È qui che
l’indignazione, troppe volte inascoltata, cede alle grazie della
silfide, della donna che promette scintille e copre di baci la bocca: Morire
per te/ è spasimo di virtù romantiche./ Vivere con te – canto e
diverbio-/ risveglia desideri, sogni e sfide.
La Merica fu il tema di ogni racconto meridionalista; il Sud, dove si
muore di anni inutili e malanni,
s’affaccia di nuovo alla ribalta con un volto imbellettato, ma ancora
pieno di rughe, di contraddizioni, di vergogne, perché la questione
meridionale, in mancanza di «cento uomini d’acciaio», è ridotta a espediente
di scena da cavar sussidi e a marchio
di Lega. Tutta colpa di falsi
predicatori e di inetto, affollato sinedrio.
In breve, il linguaggio di Peppino Iuliano è sintesi
di rabbia e dolcezza, impietoso
e nello stesso tempo immerso in un’atmosfera palpitante, vibrata. È
accorato e scorrevole, pungente e attraente, senza cali di tono e senza
disordine espositivo. Sempre più acuto, dignitoso e partecipativo.
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GIUSEPPE
IULIANO: "VOLI E NUVOLI" (E. Sellino Editore, Avellino 2004)
Da
qualche tempo si va riproponendo la questione della letteratura
meridionale, ma in termini parzialmente nuovi: non più come una dolente
testimonianza dell'altra Italia, abbandonata e umiliata dall'Italia
ricca del Nord (non solo quella "leghista"), bensì di un'Italia
ben consapevole della propria dignità culturale, che ha esportato
dovunque, con le "braccia da lavoro", anche cuore e
intelligenza, arte e pensiero, umanità e poesia.
A riprova di questa nuova coscienza del Meridione, sono sorte riviste e
collane editoriali di tutto rispetto, a sostegno della capacità creativa
delle vecchie e giovani generazioni. Ma, purtroppo, i risultati ottenuti
finora, anche se incoraggianti, non sono sufficienti a fronteggiare i
privilegi che l'economia e l'editoria del Nord hanno potuto accumulare in
oltre un secolo di storia. E così pare scontato che debba levarsi un
nuovo "lamento del Sud", non solo in politica (come attestano le
polemiche tuttora in corso), ma anche nell'arte e nella cultura in genere.
Che cosa importa, ai magnati del Nord, che qui si potrà vantare ancora,
nonostante tutto, la splendida eredità della Magna Grecia?
Ma non divaghiamo troppo, lasciandoci trascinare da ragioni conflittuali.
Qui si voleva solo "presentare" una raccolta di poesie di
Giuseppe Iuliano, Voli e Nuvoli. Essendo inclusa in una collana di
"Cultura meridionale" (diretta da Paolo Saggese), dedicata
espressamente ad accreditare autori ed opere del "Sud d'Italia",
ci è sembrato opportuno premettere qualche considerazione, per così
dire, di ordine generale.
Giuseppe Iuliano, irpino di nascita e formazione (è nato a Nusco, in provincia
di Avellino), vanta già una cospicua attività nel campo letterario:una
decina di sillogi poetiche, a partire da Malinconia di terra
(1976), un romanzo (Cartolina precetto del 1986), un saggio su La
civiltà contadina in Irpinia (1962) e due opere teatrali (Il Sud
non è forse e Digressioni di un aedo, rispettivamente del I960
e 1999), rappresentate dalla Compagnia del Sancarluccio di Napoli, a cura
di Franco Nico (la prima addirittura alla Biennale di Venezia nel 1982).
Con Voli e Nuvoli Iuliano continua ed approfondisce la sua funzione
testimoniale, quella che svolge dai suoi esordi: "Poesia come carta
d'identità, anche nostra", dice bene Massimo Rendina nella sua breve
e acuta prefazione.
Alla quale segue uno studio dettagliatissimo, in cui Paolo Saggese ricostruisce
il cammino di Iuliano come "poeta dell'indignatio e
dell'impegno meridionalista". Un cammino che comincia, come già
accennato, con Malinconia di terra,nel solco di una "linea
irpina" tutta rivolta a documentare, più che cantare, "la
storia del Sud interno...fatta di emigrazione (la fuga), di fatica, di
sudore, di fame, di soprusi, di conflitto tra padroni e contadini, tra galantuomini
e cafoni; cui è seguita l'epoca dei ras della politica, del
clientelismo, del terremoto dell'80, della corruzione, dell'industrializzazione
mancata, e ancora del servilismo."
Una storia tormentata, dunque, che già nel dopoguerra aveva avuto
"cantori" di eccezionale talento (Quasimodo, Scotellaro, Bodini
e altri), ma che era rimasta immutata (secondo lo spirito del Gattopardo)
ed aspettava, pertanto, nuovi impulsi e nuove energie, per essere
riproposta all'attenzione di un'altra generazione di poeti, quella di A.
Arminio, A. La Penna,P. Martiniello, G. Luongo Bartolini, U. Piscopo, M.
Parrella.
A questa generazione, ma con voce più risentita, capace di passare dalla
semplice protesta alla coraggiosa denuncia, si può ricollegare Giuseppe
Iuliano, il quale si dispone principalmente a bruciare le risorse
retoriche sull'altare della "impoeticità", cioè a sacrificare
il "bello" baroccheggiante di certa tradizione nel segno e nel
nome del "vero".
Anche Iuliano, certo, trova nella poesia l'unica evasione possibile dai
morsi della dura realtà, una sorta di àncora di salvezza che gli
consente di "evitare la pazzia / e penetrare i misteri della
vita". Egli sa bene pure che la poesia può costituire
"l'unico contraltare" non solo a propria difesa, ma anche a
sostegno della necessità di creare dovunque un mondo a misura d'uomo.
Sentite: "Tu invece assecondi la libera parola / e prodiga di tempo e
di misura / spendi la nostra voce. In ogni dove."
In effetti, la parola di Iuliano è così libera da rinunciare non
solo alla "purezza" delle lirica moderna più accreditata, ma
anche ad ogni tipo di ornamento formale: deve essere nuda e cruda, come si
suol dire, per farsi specchio del reale, anche di quello meno
gratificante. Sarà utile qualche citazione, per intenderci:
"...Signori fusti di cannone / mercenari di ogni borsa / santini di
copertina / capaci di fare storia di cronaca / e cultura di corna. Ma
quali signori! "(cfr. Vorremmo dire); "Vorremmo dire /
basta ai vomitatori di parole
/ mestatori di saliva fino allo sputo / leali quanto una borsa di euro / e
una poltrona di comodo. / Prostitute e puttanieri d'alto
bordo / professionisti di ogni prezzo / pronti a soddisfare lo sfizio
e lo stupro. / E a bollare di meretricio e peccato / chi ha la malizia
sotto le gambe".(cfr. Voi che avete).
Non si può dire, certo, che questa sia
poesia; ma che al suo fondo vi sia un'alta ragione d'essere, non si
può negare. Sarà forse una poesia "impura" al grado estremo,
come a noi piace definirla, e tale da non poter reggere il confronto con
la tradizione estetizzante dei formalismi da noi sempre di moda. Ma la
storia letteraria d'ogni luogo e d'ogni tempo attesta la presenza di una
poesia dai toni bassi, indubbiamente classificabile "minore"
secondo i parametri d'uso, ma autenticamente "vera" e forse
anche più "umana", perché più vicina alla povera realtà
della gente comune.
E' importante, poi, rilevare che Giuseppe Iuliano è capace, pur sotto la
morsa della indignazione, di tentare e raggiungere la levità d'immagini
di certa liricizzazione tipica del Simbolismo. Una sola citazione, per
rendercene conto: "Qualche fuoco fatuo / fiammella di malinconia /
assicura parvenze di chiarore. / Nella cortina di brume che insiste /
tarda la giustizia dei venti / a liberare l'occhio dal miraggio. / Fata
morgana materna ci consola."(cfr. Fata morgana).
Ma gli è certamente più congeniale la disposizione alla rampogna, alla
staffilata, allo sdegno rabbioso. Se si lascia trascinare dalla foga polemica,
la sua pagina non ha limiti d'irriverenza. Anche qui un solo esempio, dei
tanti possibili: "...Signore mannaggia / gli avidi potenti / ladri
ruffiani sfruttatori / politici bugiardi / schiavisti affamatori / genia
di ogni male / che già anticipa l'Inferno / sulla terra / e svena i tuoi
figli di debiti." (cfr. Maledizione).
Non vi sarebbe bisogno, per la verità, di esprimere in versi stati
d'animo così convulsi. Anche se l'autore ha amato definirsi
"scrittore di versi", certi sentimenti o certe sensazioni
starebbero meglio in prosa. Eppure, a ben riflettere, la storia della
poesia non ha mai escluso il filone epigrammatico, che spesso ha fatto
ricorso all'effusione irosa, alla maledizione, finanche alla bestemmia. Ve
ne sono rapidi scorci perfino nella Divina Commedia, poema sacro per
eccellenza. Pur considerata produzione poetica di minor conto, la satira
violenta, di tipo personale e impersonale, ha sempre avuto dei cultori di
talento.
Una ragione in più, questa, per giustificare la presenza di Giuseppe
Iuliano non solo nella "linea irpina" dell'attuale poesia
"meridionale", ma anche nel più vasto panorama della poesia
italiana: la sua, potrà apparire come una voce dissonante, forse anche
aspra e rude, ma è voce sua, viva e vera.
VITTORIANO ESPOSITO
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Giuseppe
Iuliano, Voli e nuvoli, Cava de' Tirreni, Elio
Sellino editore, 2004.
"La
nostra terra è un libro scritto/ di molte pagine slegate/-dispense di
università di strada-/ che raccontano storie amare/ d'amore crocifìsso."-
Questo è l'incipit di una poesia di Voli e nuvoli, Oasi: a me è
parsa una dichiarazione disarmante, nascosta tra i versi, quasi alla
fine della raccolta. Il poeta stabilisce un'intima connessione tra
terra-vita-poesia.
Un poeta è ciò che scrive, perché ciò che scrive è ciò che
vive. Giuseppe Iuliano appare in questa nuova raccolta di versi ancora
più lontano dall'immagine sempre rinnegata di vate. Vita e poesia sono
un libro, ma dalle pagine slegate, perché il compito dell'uomo è la
ricerca inesausta di un senso nascosto nella banale quotidianità delle
cose eppure arcano. Ed è proprio l'atmosfera di sospensione della
ricerca, il senso dell'in itinere ad animare queste pagine di poesia
matura, che non conosce indulgenze, ma solo ritiri nelle secreto di
un'anima che ha compiuto la scoperta della sua unicità attraverso
l'intuizione della presenza di Dio nelle lande dimenticate del mondo.
L'universo poetico di Giuseppe Iuliano che emerge da queste
pagine delicate e consapevoli, urgenti, sussurrate e urlate, è un
pullulare di immagini uguali e diverse.
A voler ripercorrere anche per grandi linee la fìtta stagione
poetica di un autore, che ama definirsi semplicemente uno
"scrittore di versi" e non perde occasione per ribadire la sua
natura di semplice "cantastorie di vita/ malata di uguale/ che
inseguo a pari/ tra gente comune/ sedotta nel corpo e nell'anima",
si ha subito la consapevolezza di una vicenda poetica solidamente
intersecata con la vita. Non c'è solo, nei versi di Iuliano, la
vita-poesia dell'autore; perché egli, in quanto cantastorie di vita,
riassume nella sua vicenda quella dei suoi contemporanei e soprattutto
dei suoi conterranei.
I molti critici che si sono interessati della sua poesia lo hanno
definito, più o meno unanimemente, un "meridionalista"; il
suo nome è stato avvicinato spesso a quello di Rocco Scotellaro per
tematiche e per il "comune sentire", a quello di Eugenio
Montale "per la scelta totalizzante dell'"impoeticità".
Ma la poesia di Voli e nuvoli si offre difficilmente ad una
prassi critica definitoria. Come si può, infatti, voler imprigionare
nell'icona d'una definizione anche immaginifica e suggestiva un
linguaggio poetico che si ribella da sé ad ogni schematismo stilistico
e persino tematico?
Se le prime raccolte poetiche di Iuliano hanno, infatti, una
certa connotazione meridionale e mai meridionalista, che può far
parlare di suggestioni scotellariane, i versi di Voli e nuvoli conservano
del Sud solo le atmosfere terrigene ed il legame sanguigno alla
terra-madre che sa farsi matrigna quando l'uomo ne sovverte i ritmi
ancestrali.
"La povertà della
mia terra/ mi suggerisce/ poche note stonate./ Mai un attimo di
contentezza/ solo speranze"- scriveva già in Malinconia di terra,
la prima raccolta del '76, sottolineando, da una parte, il negativo di una
povertà così reale da risultare sconcertante, dall'altra la condanna ad
amare una terra fonte di dolore, che alimenta speranze quasi all'unico
scopo di disilluderle all'alba di un nuovo giorno.
Quasi vent'anni dopo, nei versi di Graffiti di terra, della
silloge Antinomie e maschere del 1994, le speranze sembrano essersi
rintanate nel ritmo acronico d'una "veglia antica": "II Sud
resta/ un fallimento,/ un binario tronco/ a suo dispetto/ e riannoda alla
cavezza/ stanchi pentimenti/ per un'antica veglia". Tuttavia le
immagini di sconfitta, il senso d'una privazione, d'una sottrazione
indebita di ricchezze primigenie pervadono il verso e costruiscono la
scena scarna d'un Sud, destinato a configurarsi come "binario
tronco".
Il Sud di Voli e nuvoli è invecchiato della saggezza del
poeta, che, tuttavia, non riesce a liberarsi da una scrittura vinta dalle
negazioni: il cantastorie racconta il suo Sud con il dolore asciutto di
chi ama qualcuno destinato inesorabilmente alla morte. Anche se non c'è
resa nelle sue parole, quanto piuttosto consapevolezza lucida di una realtà
che non lascia più spazio alla speranza.
"Sud non sei solo un lamento/ voce sdegnata o uggiosa/ strappo
di una lagrima/ bugiarda, espediente/ di scena da cavar sussidi./ Sud non
sei provato mestiere/ di elemosinare briciole/ faccia che sprezza/
impaccio ed orgoglio./ Sud non sei fastidiosa insolenza/ come zingaro che
chiede/ mosca di ogni molestia." L'anafora insistita dei versi
"Sud non sei" contribuisce a costruire il ritmo della litania
contadina, così che la poesia risuona d'improvviso d'echi atavici, pur
misurandosi con la violenza verbale della realtà contemporanea di cui
fanno parte i "vampiri mai anemici" e le "sanguisughe
ingorde" che sembrano aver bevuto anche il sangue dei versi, nei
quali, infatti, la parola poetica si è fatta icona vigile, ma spettrale,
incapace di aprirsi nella serenità dei verbi di cui il verso è così
parco. Il Sud di quest'ultima raccolta non è, però, immagine poetica.
Proprio il tono asciutto dei versi, la scelta d'una lingua concisa, scarna
eppure eloquente, lasciano emergere la vivida realtà d'un teatro vivo, in
cui si riesce ad intuire il sapore poliedrico del quotidiano. Così nei
versi si scorge l'angolo sofferente, ma dignitoso della realtà contadina
che si sente defraudata dai padroni di ieri e di oggi, si scorge la
quotidianità d'un Sud apparentemente moderno che elemosina attenzione
anche tessendo trame menzognere, attraverso la mano tesa d'uno zingaro che
infastidisce chiedendo la carità al semaforo, e rinunciando all'orgoglio
per qualche briciola di futuro.
La consapevolezza dei problemi del Sud si traduce in insopprimibile
bisogno di denuncia, una denuncia che disdegna toni urlati e preferisce
l'immobilità pesante di anaforici e apparentemente timidi condizionali,
come quelli di Vorremmo dire e di Voi che avete, in cui il
disappunto verso i potenti di oggi si iscrive nel solco di toni quasi
sussurrati, perché non si ascolta mai chi urla, ma si presta attenzione a
chi sussurra con la ripetitività d'una litania, quasi una preghiera, la
sua visione della realtà: "Vorremmo dire/ basta a questi quattro
messeri/-ma sono tanti, molti, di più-/ di vecchie e nuove nobiltà/ pari
ranghi di potenti./ Profeti giornalieri del nulla,/ rubamazzo che hanno
reso la terra/ il loro cielo, padreterni per delega/ si godono il tempo
senza tempo scampati alla ruvidità di calli/ e al sudore di
schiena". Non c'è rancore in questa denuncia intensa a voce bassa,
piuttosto un senso di pietà, che si fa compassione rivolta alla terra
vittima di questi potenti ottusi, incapaci di distinguere il cielo dalla
terra, preoccupati di cancellare dalla memoria altrui i loro calli d'un
tempo e il vecchio sudor di schiena, che rappresentano, invece, la loro
storia e potrebbero scrivere a caratteri più nitidi la storia di un
presente non più cieco, non più scaturito ex nihilo.
La negatività prepotente del presente scaturisce da coloro che ne
scrivono le pagine e che sono la fetta più sordida dell'umanità:
"vomitatori di parole... mestatori di saliva... prostitute e
puttanieri d'alto bordo... farisei in carriera". Questi uomini sono
gli artefici di una realtà disegnata da paesi, "i nostri
paesi", simili a "serpenti di pietra", immersi "in un
sonno profondo", "guerrieri disarcionati":
l'immobilismo e l'incapacità di reazione spaventano il poeta del
Sud, il cui sguardo, però, si spinge oltre i confini delle sue terre e
delle sue memorie patrie, perché egli sente su di sé la dimensione
pesante di cittadino del villaggio globale, chiamato a combattere le
guerre di tutti e di nessuno, come quella irachena. I versi di Quale
guerra offrono uno spaccato di questa appassionata dimensione sociale
di Iuliano che anche in questo caso è solo uomo che si interroga tra gli
uomini, mai vate, depositario di saggezze e verità: "Fatemi capire/
qualcosa di vero! da tastare con mano sensibile/ senza lingua biforcuta/
infida per ogni malizia./ Guerra non è solo razzo/ uccello di metallo/
che scendendo a picco/ si sparge a grappoli/ come raspi di vite/ e
squarcia le viscere di fuoco/ con violenza di tuono./ [...] Guerra è ogni
miseria del tempo/ giorno che muore nel giorno/ uomo che strozza l'uguale/
ne saccheggia la casa/ gli insozza la donna/ e sgozza i suoi figli".
Definizioni illuminanti, ma non magniloquenti si aprono in versi succinti,
sintetici, crudi che sembrano fissare nella staticità del "per
sempre" il tempo drammatico della distruzione, della
"fuoriuscita" dell'uomo da sé.
Ma accanto alla dimensione collettiva che pervade la raccolta,
accompagnandosi ad un senso diffuso di sconcerto, che, tuttavia, non sa
farsi rassegnata sconfìtta, esiste una dimensione privata, intima,
raggiunta attraverso la conquista di un coraggio introspettivo, nutrito da
un'inesausta passione del dire, del comunicare, del far dono di sé.
La prima lirica della raccolta è già ambizioso racconto di sé.
Ambiziosa ed eloquente sin dal titolo d'ascendenze bibliche, che sono echi
dell'imprescindibile ricerca del Dio delle cose, Genesi è il
racconto d'una vita che nasce e cresce seguendo ritmi per nulla preziosi.
1 versi sono, infatti, d'una semplicità disarmante, che sembra
contrastare subito con il miracolo complesso della vita di cui si fanno
racconto. All'inizio il poeta non è che "voce- pianto di vita"
che ambisce a raggiungere le soglie d'un Limbo, che è solo strada aperta
verso un altro mistero. Il bambino-poeta "radice settimina, esile
abbozzo d'essenza, rischio possibile d'eventi" è promessa di
"quei giorni a seguire", chiamati a "temprarsi negli anni
in ogni porto" che scriveranno la storia e la geografia dell'essere
uomo. La parola è il dono che trasforma l'uomo in poeta, ma non in vate,
perché la sua parola non ha la consistenza pretenziosa della sentenza di
verità indiscussa; è solo voce che sa costruire "favole":
"Le favole incontrarono i sogni/ l'anima scese nel profondo/ altro
santuario da violare". La parola poetica è, perciò, coraggiosamente
distruttrice. Non crea per sé universi e rifugi sicuri, ma ha il coraggio
di distruggere e ricreare, come un'araba fenice, che dalle sue ceneri
rinasce ogni volta. La parola poetica di Iuliano "Scheggia stelle e
sorte" e lo fa in Voli e nuvoli, dove terra e cielo si toccano
spesso e non sembrano poi così distanti all'uomo che li vive entrambi.
L'uomo di Iuliano è, infatti, in costante movimento: è un uomo in
viaggio, un viaggio che contiene in sé il viaggio di Ulisse e quello
terrigeno dell'emigrante senza volto, ma con tanta storia. "Sibili di
fischio a intermittenza/ su scambi di lucidi binari/ destini appaiati su
rotaie/ innervano stazioni senza orari/ dove si incrociano arrivi e
partenze.": c'è l'aria stanca e sospesa in un'attesa senza tempo
delle piccole stazioni del Sud in questi versi, ma metaforicamente queste
stazioni sono solo le fermate non sempre obbligate di una vita che può
scegliere i suoi lucidi binari e guadagnare così i suoi compagni di
rotaie, uomini e donne con cui dividere la vita anche solo per un istante
magico, quello dell'incontro casuale, che tra arrivi e partenze si consuma
nell'incrocio di sguardi consapevoli.
Alla stazione della vita nessuno si reca a mani vuote: "Ognuno
con la sua valigia,/ deforme per stretta di cinghie/ stipata come
cassapanca mai piena/ che segna nello sforzo mani e unghie,/ compie a
fatica l'obbligata corsa/ per arrivare in chissà quale dove."- il
poeta non ha trovato il suo "dove", non è giunto alla stazione
d'arrivo, perché i suoi versi che sanno di uomo trasformano ogni arrivo
in una nuova partenza.
Ogni partenza costruisce un bagaglio di ricordi, ma "Anche la
memoria ha la sua capienza./ Somma di vuoti e ricordi/ cerca avide
risposte/ conferme al viaggio/ e spinge l'anima ad aver pazienza/ ad
indagare con scrupolo/ ogni senso e fondo di verità/ prossimi al tempo/
che pigramente s'adagia."
Il male di vivere dell'uomo-poeta è l'impossibilità di sottrarsi
al viaggio, la consapevolezza che ogni partenza costituirà un nuovo
inizio, che potrà demolire salde certezze per costruirne di nuove, ancora
una volta destinate a mettere in discussione l'uomo.
L'amore e la donna si insinuano con rispettosa e timorosa
circospezione tra i versi abitati per lo più dall'uomo, nella sua
dimensione individuale e sociale, ma sempre, in definitiva, solo.
"Amarsi è un dolce raggiro/ un sottile tranello/ di chiedere
e impegnare amore/ di rubare amore./ Anche nel gioco dei
sensi/ c'è chi promette e chi giura/ ma poi un cenno d'intesa/ sa quali
parole imbastire/ fino al tradimento"- scrive il poeta, con il
disincanto di chi ha amato e ingannato e sa che accadrà sempre, di nuovo,
perché l'amore è vita e gioca con l'uomo finché l'uomo vive.
"Bello l'amore/ che mai sazio corre in ogni dove/ come un guizzo, un
lampo/ a cercar complicità/ di parole, sorrisi e nascoste carezze/
che svelano senz'altra malizia/ le possibilità dei sogni,/ farfalle di
ogni tempo. Di ogni fiore": l'amore, come le cose belle, non sembra
reale. E' un inganno, che vive nella dimensione onirica. Ma
è un inganno piacevole, un sogno che l'uomo vuole vivere, accendendosi,
insieme ai suoi versi, d'illuminazioni improvvise che s'aprono in carezze
nascoste e in sorrisi rubati.
L'amore è, comunque, un dono e la donna è un mistero che si svela
solo a metà: "Non so quale amore mi darai/ tra smorfie e lusinghe/
che promettono scintille/ come corpi in attrito./ Poi mi accompagni nel
profondo/ e rifiuti la bocca come castigo/ di chiesa. Non ti
capisco."
L'amore tra l'uomo e la donna è un gioco di concessioni e di
improvvisi rifiuti. E’ l'incomprensibile imprevedibilità dei
rifiuti, del ritrarsi della donna ad accendere nell'uomo-poeta una
passione che, nella vivacità dell'eterna schermaglia amorosa, aggiunge
consistenza carnale al verso, rendendolo concreto, vivo e pulsante come
l'incontro dell'uomo e della donna.
Voli e nuvoli è una raccolta concreta a dispetto del
titolo, che lascerebbe presagire una certa eterea evanescenza. Ogni volo
parte sempre da una terra che l'uomo-poeta non dimentica, radice di tutte
le sue radici, porto al quale far ritorno dopo aver attraversato nuvole e
cieli nuvoli. E' solo la concretezza della propria dimensione umana, il
senso di responsabilità civile, politica, sociale, individuale a guidare
Iuliano in una poesia di conoscenza, in un percorso di "di svelamento"
dell'anima messa a nudo dalla drammaticità del reale col quale è
costretta a scontrarsi, pagando il prezzo del suo essere viva, hic et nunc.
Volare con lo sguardo della memoria costantemente rivolto alla terra-madre
consente al poeta d'assaporare la gioia contrita, seria, ma incontenibile
dei ritorni. luliano non ha bisogno di costruire con la sua poesia
universi alternativi, perché la sua poesia lo guida alla comprensione,
all'accettazione ed alla antinomica passione dell'odi et amo nei confronti
del reale: così che egli potrà riassumere in questi versi consapevoli e
sereni la gioia ed il complesso stupore dell'essere uomo su questa terra:
"Qui non tutti vissero felici e contenti./ Per farlo ognuno
coltiva un campo/ di desideri" (Morale della favola).
Filippo D' Oria
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