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Mondialismo


Indice:

- Il mondialismo e la fine della storia dei popoli. Note a: "Mondialismo e resistenza etnica", di Alberto Lembo.

- Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità.

- Mondialismo e resitenza etnica.

- Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione

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Il mondialismo e la fine della storia dei popoli.
Note a: "Mondialismo e resistenza etnica", di Alberto Lembo,

Edizioni di Ar
.

Massimo Pacilio, in "Margini" n. 27, luglio 1999.

Tra le poche certezze che definiscono il nostro senso della vita c'è il sicuro convincimento che la "società" multietnica rappresenti il capitolo terminale della storia dei popoli. Nella indistinzione delle molteplici etnie che vengono riversate sull'Italia e sull'Europa, risulterà infatti progressivamente smarrita la differenza tra i popoli che ne costituiscono l'essenza: quel complesso irripetibile di qualità che rendono visibile e riconoscibile l'appartenenza, e da cui prende forma l'impianto del carattere individuale in sintonia con la cultura etnica di ciascuno. Quest'ultimo elemento genera la differenza, , senza la quale gli attributi del singolo verrebbero ridotti ad uno soltanto: la quantità. Se ancora non siamo entità semplicemente quantificabili ci è dovuto alla persistenza delle differenze etniche. Queste, seppure col loro inevitabile carico di luoghi comuni alla superficie, ma con il vigore delle loro radici in profondità, sono l'ultima forma, l'ultima qualità, oltre la quale, abolite le distinzioni di sesso, di razza , di lingua, di religione, di opinioni politiche e di nazionalità, rimarrà la produttività come unica differenza tra gli individui.La fine della storia dei popoli, le cui forme si delineano in questa fase di passaggio tra due millenni, rappresenta il segno inequivocabile della fine del concetto di progresso. Dalle stesse categorie della modernità  possibile comprendere, infatti, la portata nichilistica del moderno, il suo inevitabile destino: quello di essere una fase finale. Punto conclusivo della storia, la modernità, impedendo la dialettica tra i popoli mediante la loro omologazione, impedisce che il confronto tra le diversità arricchisca reciprocamente le differenti culture.Non è un caso, quindi, che l'assioma fondante dell'attuale civiltà sia quello dell'integrazione. Esso implica, necessariamente, un presupposto meramente ideologico, ma che in seguito, grazie ad un processo indefinito di integrazione costante, non potrà che trasformarsi nell'unico valore esistente. Si realizza, per questa via, la creazione di un'umanità senza distinzioni culturali, linguistiche, religiose, in una parola: etniche. Ma se proprio dal confronto tra i popoli si è reso possibile quel fertile scambio da cui, secondo gli stessi principi della modernità, prende l'avvio ogni fase del progresso, azzerare le differenze vuol dire porre termine a questo progresso. La dialettica tra le culture, con l'apertura alle differenze che tale confronto richiede, non potrà che essere sepolta sotto una umanità amorfa e inerte, isolata dal resto, sospesa nel nulla, ricurva sulla propria sostanza materiale, in perenne contrapposizione col tutto. Lo scritto di Alberto Lembo rappresenta un contributo pregevole sulla questione fondamentale della difesa delle differenti culture europee. Per quanto il trattato di Maastricht venga considerato l'evento risolutore di tutti i problemi nazionali da una Amministrazione euro-occidentale che si è assunta l'onere di stravolgere la fisionomia delle culture esistenti in Europa, nonostante questo desolato panorama crepuscolare vi è ancora, tra i politici di 'professione', chi riesce a conservare la capacità di discernere, per restituire al discorso politico temi davvero centrali.La questione etnica doveva essere forse l'ultima delle questioni da porsi in un contesto globalmente "evoluto" come quello europeo, ma a buon diritto l'Autore ne ha fatto l'argomento portante di Mondialismo e resistenza etnica, pubblicato dalle Edizioni di Ar (impegnate su questo fronte fin dalla loro stessa fondazione). Com'è evidente dalla lettura del testo, l'Autore non prende l'avvio dalla "mozione dei sentimenti", ma circoscrive la sua rappresentazione in un ambito ben definito: quello della difesa del patrimonio culturale, la cui perdita ha sempre un carattere di definitività. Il binomio cultura-intellettualità, che esprime in s¦ la pretesa della mediazione necessaria degli 'intellettuali' per la configurazione 'della' cultura, viene nel libro validamente sostituito dal binomio cultura-tradizione, che indica la necessità della mediazione degli Autori tradizionali di una comunità etnica per la continuità della 'sua' cultura. Proprio contro l'omologazione dei concreti caratteri europei agli astratti parametri di Maastricht, contro l'uniformità di pensiero e il conformismo moralistico, lo scritto di Lembo intende condurre il discorso sul piano tradizionale ed etnico, con la comprensibile difficoltà di chi sa quanto pochi siano gli interlocutori che ne comprendano le caratteristiche oggettive. I più infatti sviano di fronte all'imbarazzo di doversi porre la questione sulle proprie origini etniche, dal momento che il nostro 'stampo' sembra ridotto ad un incubo da rimuovere, un peso da scrollarsi di dosso, una colpa da espiare. Colpevoli di non essere kurdi o kossovari, ancora più colpevoli di non essere asiatici o africani, puniamo chi di noi rivendichi un'appartenenza ad una delle nostre comunità euro-occidentali. E il senso di colpa per essere bianchi si è gi trasformato in un'insana voluttà di suicidio etnico...Il parlare della nostra necessaria appartenenza di natura e di cultura genera dunque un sentimento, se non altro, di 'rimorso': di disagio, di imbarazzo; ci ricorda un tempo in cui, nella dinamica della nostra storia, tutte le azioni erano riprovevoli, le idee false, le guerre ingiuste... Adesso che le idee sono tutte corrette, è tempo di guerre giuste e di azioni lodevoli... E si comprende meglio la smorfia implorante perdono che contrae il viso di un europeo odierno quando gli viene ricordato di 'essere un bianco: è solo un caso se sono nato in Italia nel XX secolo. Invece, sarebbe non un caso, ma la suprema delle colpe, se non condividessi la ricchezza che ingiustamente possiedo con qualsiasi straniero che intenda stanziarsi nella 'mia' terra.Come non riflettere, quindi, sull'azzeramento della natalità nelle comunità etniche della Penisola, che si manifesta quale conseguenza non di un normale processo di riequilibrio, ma di un desiderio diffuso di non-essere più? Un pragmatismo assurdo induce taluni a ritenere questo fenomeno della morte di un popolo non un evento terribile, ma un fatto meccanico di ordinaria sostituzione di esseri individuali, fungibili nel tempo e nello spazio. Un'ipotesi che verrebbe rigettata come forma latente di genocidio, se fatta valere presso altre etnie, è invece valutata addirittura come l'unica possibilità, in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici, dai quali si determinano, nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi irreversibili che conducono allo sfiguramento delle nazioni per rendere più velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso costo. Lembo avverte chiaramente quanto risulti artificiale la sostituzione di un popolo ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità di questo progetto, molti lo accettino in beata incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche 'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo accettare il mercato globale, il villaggio globale, la "società" multietnica... ma da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"? La nostra risposta è: dalla mentalità materialistica, a cui nemmeno è estraneo il mondo cristiano modernista, ossessionato dal sentimento della 'rimozione delle frontiere' e dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato dalla propria comunità di sangue e di vita storica, di altre comunità. L'Amministrazione euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine all'esistenza delle nostre identità culturali, ha deciso che nel futuro non debbano più esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli. Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento di individui 'a disposizione', flessibili, esterni a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente realizzato quel proletariato internazionale il cui avvento viene profetizzato nei testi sacri del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario internazionale, infine, saranno risolti i problemi di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto, si sarà delineata l'oligarchia mondiale, con le sue regole di conservazione. In una sorta di rinnovato determinismo storico l'omologazione etnica viene imposta come l'unica via da percorrere. L'Autore del libro "Mondialismo e resistenza etnica", mette in risalto questa falsa necessità secondo cui dovremmo supinamente accettare la nuova "società" multietnica. Intrisa del più vetusto determinismo, la mentalità materialistica vede ancora gli sviluppi economici come rispondenti ad una legge immutabile (laddove sarebbe più "moderno" dedurre che le scelte economiche non sono che l'espressione della volontà di chi, a diversi livelli, detiene il potere finanziario reale). Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato, che proprio per questo viene continuamente ripetuto come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica. L'Europa è un complesso originario di significati che ha attraversato diverse epoche; la nostra epoca ha la possibilità di dissolvere i tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando sotto il peso di faglie etniche estranee slittate sulla piattaforma continentale europea. Disegnando il panorama che caratterizzerà il prossimo quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore è la stessa del Lettore. In chi scrive, la consapevolezza della decisione è perciò avvertita con tale intensità da riflettersi con eguale impressione in chi comprende questo interrogativo così essenziale nella sua crucialità: continuare a trasmettere le forme etniche delle nostre culture o deciderne la soppressione disperdendole in una massa di culture-amebe che si confonderanno le une nelle altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio amletico tra il continuare ad essere e il non-essere, riguardando questa volta il destino delle generazioni si fa sentire in questa opposizione: o sostenere la parte affidataci dall in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici, dai quali si determinano, nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi irreversibili che conducono allo sfiguramento delle nazioni per rendere più velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso costo.Lembo avverte chiaramente quanto risulti artificiale la sostituzione di un popolo ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità di questo progetto, molti lo accettino in beata incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche 'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo accettare il mercato globale, il villaggio globale, la "società" multietnica... ma da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"? La nostra risposta è: dalla mentalità materialistica, a cui nemmeno è estraneo il mondo cristiano modernista, ossessionato dal sentimento della 'rimozione delle frontiere' e dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato dalla propria comunità di sangue e di vita storica, di altre comunità. L'Amministrazione euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine all'esistenza delle nostre identità culturali, ha deciso che nel futuro non debbano più esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli. Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento di individui 'a disposizione', flessibili, esterni a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente realizzato quel proletariato internazionale il cui avvento viene profetizzato nei testi sacri del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario internazionale, infine, saranno risolti i problemi di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto, si sarà delineata l'oligarchia mondiale, con le sue regole di conservazione. In una sorta di rinnovato determinismo storico l'omologazione etnica viene imposta come l'unica via da percorrere. L'Autore del libro Mondialismo e resistenza etnica, mette in risalto questa falsa necessità secondo cui dovremmo supinamente accettare la nuova "società" multietnica. Intrisa del più vetusto determinismo, la mentalità materialistica vede ancora gli sviluppi economici come rispondenti ad una legge immutabile (laddove sarebbe più "moderno" dedurre che le scelte economiche non sono che l'espressione della volontà di chi, a diversi livelli, detiene il potere finanziario reale). Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato, che proprio per questo viene continuamente ripetuto come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica. L'Europa è un complesso originario di significati che ha attraversato diverse epoche; la nostra epoca ha la possibilità di dissolvere i tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando sotto il peso di faglie etniche estranee slittate sulla piattaforma continentale europea. Disegnando il panorama che caratterizzerà il prossimo quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore è la stessa del Lettore. In chi scrive, la consapevolezza della decisione è perciò avvertita con tale intensità da riflettersi con eguale impressione in chi comprende questo interrogativo così essenziale nella sua crucialità: continuare a trasmettere le forme etniche delle nostre culture o deciderne la soppressione disperdendole in una massa di culture-amebe che si confonderanno le une nelle altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio amletico tra il continuare ad essere e il non-essere, riguardando questa volta il destino delle generazioni si fa sentire in questa opposizione: o sostenere la parte affidataci dalla nostra migliore tradizione, e imparata dalla nostra natura originaria e dalla nostra cultura storica, o calare il sipario, una volta e per tutte, sulla nostra rappresentazione. Alla nostra generazione è data questa decisione, i cui connotati prefigurano la nostra vita o la nostra morte in quanto organismi etnici nel dramma della storia mondiale.

L'Autore di questo scritto, Massimo Pacilio, ha pubblicato per le Edizioni di Ar
"Conoscenza tradizionale e sapere profano. René Guénon crititco delle scienze moderne."

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Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità

Adriano Segatori, in 'Margini' n. 33, Gennaio 2001

E’ da tempo che le forze non omologate, antagoniste ad una idea per ora vincente del mondo e contrastanti l’imperante ideologia di un benessere indefinito e di una visione ottimistica in un progresso appagante, si occupano di quel problema emergente etichettato correntemente come <<globalizzazione>>.
L’opposizione, però, appare sfrangiata e per molti versi confusa: da un lato, una puntualizzazione ed un approfondimento costante di alcune tematiche particolarmente evidenti e per molti versi scontate (politica sovranazionale, economia <<turbocapitalistica>>, manipolazione umana e ambientale, ecc.) e dall’altro, la totale assenza di un impianto dottrinale che possa chiarire le linee di partenza di questa operazione globalizzatrice e, con ciò, suggerire spunti di discussione e di convergenza di intervento per le opposizioni. Fa eccezione il lavoro di G. Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione, Edizioni di Ar, Padova, 1999, testo che, con ricchezza argomentativa, coglie la complessa multidimensionalità della dinamica globale.
Resta il fatto che, in generale, senza una lunga, subliminale, minuziosa operazione preparatoria di vasta e capillare portata, che ha portato l’uomo a diventare un docile suddito e un malleabile fantoccio attraverso un’ammaliante anestesia, tutto ciò non sarebbe accaduto e ogni manovra si sarebbe sfaldata di fronte ad una consapevole e decisa resistenza. Invece la trasformazione è avvenuta e la caduta è tuttora precipitosamente in atto. Pertanto, pur essendo impossibile ridurre in poche righe l’analisi di questo processo, tanto complesso nel suo sviluppo quanto subliminale e anestetizzante nella sua progressione, è però possibile definirne gli indirizzi attraverso l’indicazione delle tracce.
Con Francesco Bacone (1561-1626) e i suoi studi sul rimaneggiamento della natura attraverso l’uso di mezzi tecnici sempre più sofisticati, la scienza passa dal versante della comprensione a quello della manipolazione. L’uomo, e lo scienziato in particolare, non è più colui che attraverso l’umile studio dei segni naturali tende alla comprensione della grandezza del cosmo e della sua stessa trascendenza, ma diventa, con arroganza prometeica, il manipolatore della natura per piegarla alla sua volontà e ai suoi inesauribili desideri. La scienza diventa profana, scade a tecnologia, e nella caduta si trascina anche colui che della sua degenerazione ne era stato l’artefice e il propugnatore.
Per mia competenza professionale è dell’uomo che mi occupo, ed è proprio a lui che intendo riferirmi quale esempio eclatante di degradazione; quella degradazione che ha permesso, e tuttora permette, e che senza un adeguato esame di realtà ed un conseguente slancio di ribellione interiore continuerà a permettere, l’operazione di livellamento omologante e di sedazione globalizzata. Innanzitutto, la prima mossa è consistita nel ridurre l’uomo da creazione divina, con l’innata tendenza a trascendere le limitazioni oggettive dell’umano, a semplice animale naturale e nell’esaltarne, conseguentemente, proprio le attitudini troppo umane, le esigenze più terrene, i bisogni più profani. Mistificando il concetto di libertà e sostituendolo con quello di liberazione, si è fatto credere all’uomo di essersi riscattato da legami che lo coartavano, quando invece quegli stessi legami erano i supporti che lo sorreggevano: con una operazione anestetizzante si è creato una suggestione esilarante, un’atmosfera psicologica che Evola definisce <<euforia da naufraghi>>. Subito dopo, c’è stato un ulteriore attacco dottrinale e pratico all’uomo come essere vivente: il Leib, corpo essenziale, con le specificità proprie date dalla biografia, dalle peculiarità familiari, dalle prerogative etniche, dal sentimento dell’essere, dall’intenzionalità dell’agire, dalla praxis in vista di uno scopo, dallo slancio progettuale, dalla memoria archetipica, è stato ridotto a Korper, corpo meccanico, strumento esistenziale, senza storia, senza biografia, senza differenziazione, senza memoria di passato né slancio al futuro, pulsionato al fare indifferente ad ogni obiettivo, senza il senso della forma dato dall’ Io sono e soltanto con l’impressione dell’ Io devo, al massimo dell’Io voglio.
Questa impostazione è nata senza dubbio all’interno del contesto e della prassi medica e delle discipline cosiddette scientifiche (secondo la pianificazione profana) ma ha influenzato ed inquinato lo stesso concetto di <<uomo>> negli insegnamenti più disparati. L’apoteosi si è raggiunta con l’impianto teorico della psicoanalisi freudiana che ha portato all’invenzione, e al succube quanto mistificatorio accoglimento, di un inesistente uomo universale: “Il concetto di essere umano <<universale>>, certamente in grado di acquisire una cultura, considerata però come un semplice vestito – o addirittura come un ornamento – è evidentemente una pura astrazione”(Tobie Nathan). Se già da un punto di vista strettamente sanitario, organicistico, considerare l’uomo da questa prospettiva iatromeccanica è una aberrazione che si ripercuote in maniera fallimentare nel rapporto medico-paziente, immaginiamo il potere devastante che tale impostazione ha quando l’oggetto dell’analisi è la componente psichica della persona. La Psiche è sempre stata considerata l’essenza dell’uomo, quella componente non materiale che lo rende peculiare, unico, irripetibile, nei suoi rapporti con la Divinità e con la Natura; Psiche come rappresentazione immanente dello Spirito che, invece, porta alla distanza e alla trascendenza; Psiche come esperienza esclusiva del mito e dei simboli archetipici.
Ad un certo momento, questa specificità, questa differenziazione, non erano più tollerabili per la manovra universalista; si doveva, in qualunque modo, ridurre in basso ogni diversità, ogni singolarità: l’unico modo per intervenire era, con un stratagemma particolarmente astuto, intromettersi in maniera insensibile a livello del costume e dell’idea totale della vita. L’attacco è stato concentrico: contenimento della cultura ad istruzione, abbassamento della Tradizione a folklore, semplificazione della Psiche a cervello. Sono state soffocate, in altre parole, le fonti di vita della Psiche stessa: la cultura vera e superiore è stata ridotta a semplice istruzione profana dei mezzi utili ad una produzione lavorativa finalizzata, la Tradizione quale trasmissione essenziale delle valenze di appartenenza a rappresentazione di costume da sagra paesana, la comprensione psichica a semplicistica modalità per capire i meccanismi cerebrali. Ed è lo stesso Tobie Nathan a denunciare in maniera inequivocabile questa manovra indifferenzialista quando afferma: “(...) nessuno ha mai incontrato questo ipotetico <<uomo universale>> che ci è mostrato dal pensiero psicoanalitico”, e in una nota dichiara anche: “Non sono lontano dal pensare che tutte le istituzioni che concepiscono l’altro come un <<soggetto universale>> - in Francia: la Scuola e la Medicina – siano autentiche macchine da guerra contro le culture tradizionali”.
Una delle macchine da guerra è stata proprio la psichiatria nordamericana attraverso un Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali. Attraverso il varco creato dalle problematiche psichiatriche, essa è riuscita, con una manovra tanto abile quanto seduttiva, ad intervenire fino al limite più avanzato della cosiddetta normalità: è riuscita a far passare nell’immaginario e nella coscienza(?) collettiva il sentimento di normalità di ogni pensiero catalogato, condiviso, universalizzato; in altre parole, tutto ciò che è diverso dal sentire comune e costituito assume, ora, la dignità di un giudizio criminale oppure l’onta della considerazione psicopatologica, pansorveglianza e panpunizione, secondo l’accusa di Foucault. Con metodo e costanza, si è creata, e in una qualche misura si è diffusa, quella che Evola ha profeticamente definito razza dell’uomo sfuggente. Una componente grandemente estesa e profondamente indifferenziata, una etnia informe e elusiva che ha rivendicato i disvalori più eclatanti: senso di irresponsabilità, scadente o nulla coscienza di Sé, passività di azione sotto la copertura dei distinguo <<a chi giova?>>, <<a che pro?>>, <<mi conviene?>>, delega ad altri della soluzione dei propri problemi, superficialità e fuga costante di fronte al minimo approfondimento, attitudine all’assorbimento di ogni novità per incapacità di leggere tra le righe delle proposte, indisponibilità al minimo sacrificio e spontanea auto-offerta alla sedazione. In una parola, per rubare una definizione di Ouspensky, un <<uomo-macchina>> che anodinamente rappresenta una società senza essenza, senza stile e senza forma e, con ciò, disponibile ad ogni aberrazione e ad ogni influenza negativa.
La manovra della psichiatria nordamericana, per giungere ad una uguaglianza di patologia, e con essa ad una altrettanto paradossale uniformità di linguaggio nella normalità, ha dovuto necessariamente partire dal presupposto che tutti gli uomini sono psichicamente uguali; contemporaneamente ha cortocircuitato il concetto di psiche a quello di cervello, a quello di un meccanismo il quale, nel momento in cui non funziona secondo una norma statistica condivisa, necessita di una manutenzione specialistica. Linguaggio, tecnica, uguaglianza: tre strumenti e tre obiettivi. Opportunamente si chiede Hillman: “Che cosa è accaduto al linguaggio della psicologia in questa epoca di superbe tecnologie della comunicazione e di istruzione democratica?”. E’ accaduto che per una omologazione completa e un sentire collettivo – la comprensione comune è tutt’altra cosa! – il linguaggio è stato ridotto a basso attrezzo di informazione, castrato della sua potenza e funzione evocativa. E l’Anima, sia essa individuale che quella che permea i destini di una comunità, parallelamente a questa caduta, ha subìto una trasformazione degenerata proprio come conseguenza del fatto che: “Quando l’anima cade sotto il controllo delle università, dello spirito laico illuministico, essa perde ogni realtà, ogni sostanza e qualsiasi rilevanza per la vita”(Hillman).
Un uomo universale, per altri versi un uomo indifferenziato, non può che essere un uomo- macchina: tre sinonimi che indicano l’uomo della caduta, colui che ha rinnegato la propria storia, che ha delegato il proprio destino, e che vive all’insegna dell’immanente e della gestione del quotidiano. Nella negazione della propria storia, l’uomo della caduta ha demolito la propria memoria di appartenenza, memoria che non è semplice ricordo di fatti di vita o di eventi di cronaca, ma thesaurus inscrutabilis secondo l’indicazione di Sant’Agostino, vestigia dell’anima in rapporto alle divinità; molto più prosaicamente, se vogliamo, segni indelebili del proprio percorso nella scia del tempo e del fato. All’uomo-macchina non sono rimaste che date, profani segni cronologici di avvenimenti opportunamente manipolati e distorti, abilmente alterati con la finalità di spogliarlo di ogni retaggio antico e renderlo più permeabile alle influenze moderne. Con la delega della propria sorte, l’uomo della caduta ha ceduto ad altre mani e ad altri luoghi le scelte e le decisioni del proprio futuro: nessun passato lo lega alla Tradizione e nessun futuro lo lega ad un Destino; per lui rimane solo una presentificazione di bisogni indotti e di modalità per gratificarli: la ricerca di un soddisfacimento strenuamente più pressante e sofisticato all’insegna del naturalismo biologico, ancora meno – sempre che ciò sia possibile – dello scontato darwinismo.
Psiche e Spirito, le due essenze dell’uomo: la prima che abbraccia il sovramateriale, il secondo che anela al trascendente. Cacciati dalla natura dall’umanizzazione del giudeo-cristianesimo, soffocati nell’uomo dalle istanze terrene e meccanicistiche, hanno lasciato alla realtà concreta il nucleo vuoto di quello che è stato il vir delle comunità organiche. Un nucleo vuoto genericamente definibile come homo: homo faber, homo oeconomicus, homo consumans, ecc.; un essere vivente in balia degli eventi e delle circostanze, trascinato dalle pulsioni e dalle necessità spesso inconsce, agito dai desideri e dalle insoddisfazioni.
Questo è l’uomo globalizzato: servo dell’economia parassitaria, succube del mercato del lavoro, plagiato dalle induzioni pubblicitarie, dominato da necessità incontrollate, prigioniero di volontà estranee, anestetizzato per la genuflessione e addestrato allo sguardo basso. Un uomo che dopo lunghi anni di ammaestramento – del quale, per altro, è stato complice e compiacente – ha rifiutato il platonico signore dentro di sé, per diventare schiavo di altri liberti frustrati.
Il massimo – sempre che un massimo possa esistere - di questa degenerazione si è manifestato negli ultimi anni e negli ultimi fatti di cronaca. Un inutile vociare, una afinalistica convulsione, una farsesca alzata di tono da parte dei tenutari del potere, una serietà tragicamente ridicola da parte degli intellettuali del sistema: tutti a commentare fatti di cronaca quotidiana e a trovare soluzioni estemporanee in nome, e sotto gli auspici, di quella <<stupidità intelligente>> così definita da Schuon ed efficacemente commentata da Evola.
Aumento delle morti sul lavoro, espansione del fenomeno detto burn-out, disgregazione della famiglia, crescita delle nascite indesiderate, salita degli aborti clandestini e non, espansione dell’uso di sostanze psicotrope, diffusione del consumo di psicofarmaci, allargamento della patologia psichiatrica, dilatazione del fenomeno suicidario, esplosione dell’aberrazione della pedofilia, emergenza del problema della violenza sessuale e non, e molti altri quadri di deformità sociale, vengono passati al vaglio dei tecnici del sistema.
Tutto ciò, secondo la stretta logica dell’impostazione psichiatrica e politica nordamericana nell’affrontare il disturbo psichico individuale, non viene compreso e affrontato nei termini simbolici di un significato da decodificare, ma come una disfunzione meccanica da correggere con mezzi e modalità altrettanto meccaniche. Niente di più inutile e penoso nella sua teorizzazione e nella sua pratica.
Quello che quotidianamente accade altro non è che la manifestazione concreta, visibile, tangibile, di un decadimento complessivo: un uomo-macchina, facente parte di una <<megamacchina>> definita società, non può che comportarsi in maniera meccanicistica. Senza idea di sacralità, senza rispetto di sé, senza un nucleo interiore, senza una dirittura esistenziale, senza un <<al di sopra>> e un <<altrove>>, non può che comportarsi in modo naturale. Per decenni, gli <<stupidi intelligenti>> hanno fatto leva sugli istinti inferiori dell’uomo in nome di una libertà da ogni sovrastruttura tradizionale, incentivando una libertà per soddisfacimenti e tolleranze: il vaso di Pandora è stato scoperchiato! Ciò che è davanti agli occhi di tutti non può essere inteso e concepito come una disfunzione dalla norma declamata, ma è il risultato della norma declamata.
Il mondialismo nelle sue varie sfaccettature altro non è che il risultato di una indifferenziazione mondiale: è stato creato un uomo nuovo, un essere privo di ogni regola e di ogni controllo che fosse minimamente sovraumano, un individuo aperto ad ogni istinto e ad ogni compulsione. Il male è la stessa condizione degenerata.
Naturalmente, è impossibile per una macchina, e per una megamacchina di appartenenza, avere coscienza di sé e di ciò che avviene: “Di quale psicologia (...) si può parlare quando non si tratta che di macchine? E’ la meccanica che è necessaria per lo studio delle macchine e non la psicologia. Ecco perché noi cominciamo con la meccanica. Siamo molto lontani dalla psicologia” (Ouspensky).
Questo si è voluto, questo si è ottenuto. Il sistema e le sue organizzazioni di appartenenza e di supporto (sociologia, magistratura, medicina, psicologia, educazione, ecc.) agiscono in termini meccanici: di fronte ad un guasto è indispensabile una riparazione, senza curarsi delle cause profonde e della prognosi futura. Domina il contingente e con esso l’approccio tecnico ai problemi.
Del resto l’opinione pubblica, le “ululanti orde della civiltà”(J. Améry), viene assalita dai convulsi forcaioli o psicogiustificazionisti quando si sente urtata nella sua sensibilità da episodi di cronaca nera, da fatti di abiezioni sessuali e non, da fenomeni di abbandono o di maltrattamento, da casi macabri e politicamente scorretti, ma sempre risulta mancante della minima analisi di ciò che viene passata per norma.
La norma è che il bambino viene, dai primi momenti, delegato ad altri nella cura e nell’educazione; la famiglia è un guscio vuoto contenitore di disagio e fruitore di correttivi consultoriali; la nascita, atto naturale e spontaneo, rientra nelle disposizioni di tempo e di modalità legate a fattori esterni (denaro, lavoro, tempo libero) e quando essa è naturalmente impossibile si affittano gli uteri con improponibili e immondi legami di parentela o scelte di carattere estetico-pratico; la morte, avvenimento ineluttabile ed essenziale della vita, evento di trasformazione con ogni possibile implicazione di carattere etico, religioso, psicologico, affettivo, storico, trascendente, è stata delegata ai tanatocrati, con l’elevata specializzazione di stabilire il momento cruciale in base a parametri tecnico-scientifici e medico legali: solo perché il corpo deve essere rottamato e i suoi componenti immediatamente riutilizzati in altre macchine malfunzionanti; il lavoro, mezzo di sostentamento, è stato reso mistico dall’efficientismo, dalla produttività, dal consumo.
Questa è la norma globalizzante e da questa norma tutti gli avvenimenti che seguono non possono essere considerati come abominevoli, ma come conseguenza logica e corretta di uno stile di vita e di una visione del mondo che sono spregevoli e indegni.
L’uomo è diventato quello che un progetto di generale e diffusa degenerazione aveva stabilito che diventasse: un essere de-sacralizzato, de-psichizzato, de-spiritualizzato, un marchingegno vivente che può essere trattato da macchina e che di conseguenza si comporta con il suo prossimo de-sacralizzato, de-psichizzato, de-spiritualizzato come tratta se stesso, come una semplice macchina, come un essere de-forme.
Da un ordine platonico che si rifà alla cosmogonia iperuranica, eterna, trascendente, immutabile, ad una organizzazione profana, mutevole, mondana: l’uomo un essere malleabile, influenzabile, suggestionabile. Siamo al fondo, forse non ancora visibile, della ulteriore degenerazione della massa, concetto descritto in maniera pregnante da Galimberti: “(...) la sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli (...) Nascono da qui quei processi di deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa tipiche delle società omologate e conformiste”.
Di fronte a questo spettacolo non resta, almeno per quanto mi riguarda e per quanto è riferito alla mia attività, che affrontare in termini molto pragmatici i problemi individuali e collettivi che quotidianamente si presentano nella istituzione in cui opero, fermo restando il criterio evoliano di agire all’interno dello modernità cercando di mantenersi il più saldamente possibile – fosse solo per testimonianza – nei canoni e negli indirizzi prescritti dalla Tradizione.

L’Autore, Adriano Segatori, svolge la professione di psichiatra. Ha pubblicato per Le Edizioni di Ar: 'La comunità vivente. Organismo comunitario e organizzazione sociale'.
Ha scritto diversi articoli sul problema del controllo sociale, dell’abuso farmacologico, della liberalizzazione della droga come volontà di sedazione da parte del Sistema; ha pubblicato, insieme ad altri due colleghi, Marco Bertali e Fabrizio Bertini, Il Manifesto di Psiche. Per una psichiatria ed una società senza psicofarmaci e, da solo, Il suicidio. Eventi e comportamenti entrambi per “Sensibili alle foglie”.


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Alberto Lembo, Mondialismo e resitenza etnica, presentazione di Carlo Taormina, Edizioni di Ar.
Libri come questo di Alberto Lembo contengono, da quella prospettiva chiaramente antimodernista che è la prospettiva etnica, il tentativo di rappresentare forme politiche che non si possono certo collocare tra le figure dell'ordinario, labile paesaggio politico odierno, perché ne rimangono per loro essenza estranee. La loro estraneità essenziale significa che quelle forme sono indipendenti da queste figure che si rivelano invasive e petulanti, ma rimangono in realtà sterili e improduttive. Da qui l'Autore delinea senza incertezze l'antitesi fondamentale: da una parte il mondialismo, le oligarchie dell'alta finanza internazionale che, mediante la riduzione del mondo a mercato totale, mirano al controllo totalitario del “villaggio globale” attraverso un governo unico planetario; dall'altra l'etnicità, la tradizione etnica, le forze della natura e della storia dei popoli, che intendono custodire e sviluppare le identità, le particolarità, le libertà dei loro organismi. Ossia: da una parte il compimento del processo di alienazione e dissoluzione —la morte della comunità etnica—; dall'altra il compimento di reintegrazione e di riconnessione —la vita della comunità etnica.
I due tipi dell'homo ideologicus e dell'homo ethnicus — considerati, per semplicità espositiva, allo stato ‘puro’—debbono ritenersi incarnazione di questa antitesi. Il primo —scrive Lembo— permeato di “mediazione, derivazione, soggettività, individualità, apertura (quindi inclusione di ciò che è eterogeneo), perfezionamento, integrazione”; il secondo —che non rinnega la propria forma razziale e la cultura dei padri— animato da “immediatezza, originarietà, oggettività, tipicità, conclusione (quindi esclusione di ciò che è eterogeneo), compiutezza, integrità”. L'homo ethnicus riassume il mondo stabile e disteso dell'essere; l'homo ideologicus quello del divenire, della febbre e del dubbio —in altri termini, quest'ultimo si manifesta nelle sembianze progressiste e nell'ideologia dello sviluppo razionale ed emancipativo della “Storia”.
Lembo denuncia con chiarezza l'impiego, da parte del mondialismo, dell'arma dell'immigrazione, ossia di una sorta di deportazione di schiavi, complici spesso inconsapevoli e vittime di un fatto disgregativo della nostra e della loro identità: la cosiddetta “società” multirazziale (o, forzatamente, unirazziale?). E prefigura “un universo in cui, protetti da eserciti privati, i megaricchi —il denaro come valore assoluto, equivalente astratto di qualsiasi concreta valenza etnica...— condurranno l'esistenza in clausure lussuose, circondate da bidonville sterminate in cui individui senza razza, senza religione, senza famiglia, senza lavoro, si riveleranno troppo ottusi e troppo incapaci per sapersi ribellare”.
Lo spostamento di enormi masse umane, la destituzione della distanza e la rimozione del ‘distante’ dalle loro funzioni, la conseguente contrazione del mondo sono fattori di quella ‘messa in forma’ del mercato unico globale, in cui non esistono più nature e culture di uomini bianchi, neri, gialli, rossi ma solo mode di consumo e consumatori. Ed è in questa prospettiva — afferma l'Autore— che va considerata, in una strategia di resistenza opposta da tutte le comunità etniche, la necessità di omogenee forme territoriali, di spazi etnici sicuri e capaci di difendersi dalla aggregazione nello spazio mondiale.
“In questo ‘tempo della decisione’ —conclude Lembo— occorre ascoltare il proprio dèmone etnico e ‘decidersi a decidere’: tra le libertà etniche delle diverse comunità e i ‘diritti umani’degli individui, tra la terra delle tribù e l'asfalto della citta mondiale”.
Il volume, arricchito da numerosi disegni e piantine di carattere documentale (insediamenti etnici, lingue e dialetti, migrazioni storiche ecc.), comprende una pregevole presentazione introduttiva del prof. Carlo Taormina: una lettura, la sua, ‘illuministicamente’ostile alle tesi esposte da Lembo, ma attenta a fissarne con precisione semantica i lineamenti essenziali. (In 'Margini' n. 31)

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Giovanni Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione, Edizioni di Ar.
Elogio delle differenze è un autentico manifesto del differenzialismo o –comunque la si voglia chiamare- dell’unica concezione metapolitica radicalmente alternativa nei confronti della globalizzazione. I (dis)valori della modernità occidentale, i suoi presupposti ideologici e giuridici, la sua prepotenza assimilatrice sono analizzati e presentati in relazione alla effettive e concrete risposte che una comunità organica tradizionale -o quanto ne rimane- deve dare in termini di difesa della propria (e altrui) identità. Damiano osserva giustamente che la modernità “si fonda su un cumulo di macerie”, perché non può sopportare la compresenza di differenze che prescindano da mode di massa, da aspettative effimere e da diktàt livellatori. Con le buone o con le cattive -con la “persuasione” sottile e il consumismo o con le operazioni di “polizia internazionale”- la tendenza è quella di eliminare ogni radicamento, ogni specificità culturale, religiosa ed etnica, presentata come espressione fastidiosa di intolleranza ed egoismo. Il differenzialismo riconosce, di contro, l’esistenza di forme oggettive -etnie, religioni, tradizioni- nelle quali il singolo si situa secondo modalità e gradazioni, nonché attitudini, diverse. La relazione fra tali forme si instaura non secondo un principio di superiorità/inferiorità dell’una rispetto all’altra, e nemmeno di eguaglianza, ma viene scandita dalla diversità (non – equivalenza) di ogni forma, dalla loro capacità di connettersi e di separarsi a seconda della situazione.
Sono, invece, i processi di assimilazione e di integrazione –ideologicamente determinati- a colpire mortalmente tali diversità, secondo una logica giacobina di falsa tolleranza. (A. Braccio, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001)


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