Mondialismo
Indice:
- Il mondialismo e la fine
della storia dei popoli. Note a: "Mondialismo
e resistenza etnica", di Alberto Lembo.
- Attacco
mondialista e de-psichizzazione della comunità.
- Mondialismo
e resitenza etnica.
- Elogio delle
differenze. Per una critica della globalizzazione
------------------------------------
Il mondialismo
e la fine della storia dei popoli.
Note a: "Mondialismo e resistenza etnica",
di Alberto Lembo,
Edizioni di Ar.
Massimo Pacilio, in "Margini" n. 27,
luglio 1999.
Tra le poche certezze che definiscono
il nostro senso della vita c'è il sicuro
convincimento che la "società"
multietnica rappresenti il capitolo terminale
della storia dei popoli. Nella indistinzione delle
molteplici etnie che vengono riversate sull'Italia
e sull'Europa, risulterà infatti progressivamente
smarrita la differenza tra i popoli che ne costituiscono
l'essenza: quel complesso irripetibile di qualità
che rendono visibile e riconoscibile l'appartenenza,
e da cui prende forma l'impianto del carattere
individuale in sintonia con la cultura etnica
di ciascuno. Quest'ultimo elemento genera la differenza,
, senza la quale gli attributi del singolo verrebbero
ridotti ad uno soltanto: la quantità. Se
ancora non siamo entità semplicemente quantificabili
ci è dovuto alla persistenza delle differenze
etniche. Queste, seppure col loro inevitabile
carico di luoghi comuni alla superficie, ma con
il vigore delle loro radici in profondità,
sono l'ultima forma, l'ultima qualità,
oltre la quale, abolite le distinzioni di sesso,
di razza , di lingua, di religione, di opinioni
politiche e di nazionalità, rimarrà
la produttività come unica differenza tra
gli individui.La fine della storia dei popoli,
le cui forme si delineano in questa fase di passaggio
tra due millenni, rappresenta il segno inequivocabile
della fine del concetto di progresso. Dalle stesse
categorie della modernità possibile
comprendere, infatti, la portata nichilistica
del moderno, il suo inevitabile destino: quello
di essere una fase finale. Punto conclusivo della
storia, la modernità, impedendo la dialettica
tra i popoli mediante la loro omologazione, impedisce
che il confronto tra le diversità arricchisca
reciprocamente le differenti culture.Non è
un caso, quindi, che l'assioma fondante dell'attuale
civiltà sia quello dell'integrazione. Esso
implica, necessariamente, un presupposto meramente
ideologico, ma che in seguito, grazie ad un processo
indefinito di integrazione costante, non potrà
che trasformarsi nell'unico valore esistente.
Si realizza, per questa via, la creazione di un'umanità
senza distinzioni culturali, linguistiche, religiose,
in una parola: etniche. Ma se proprio dal confronto
tra i popoli si è reso possibile quel fertile
scambio da cui, secondo gli stessi principi della
modernità, prende l'avvio ogni fase del
progresso, azzerare le differenze vuol dire porre
termine a questo progresso. La dialettica tra
le culture, con l'apertura alle differenze che
tale confronto richiede, non potrà che
essere sepolta sotto una umanità amorfa
e inerte, isolata dal resto, sospesa nel nulla,
ricurva sulla propria sostanza materiale, in perenne
contrapposizione col tutto. Lo scritto di Alberto
Lembo rappresenta un contributo pregevole sulla
questione fondamentale della difesa delle differenti
culture europee. Per quanto il trattato di Maastricht
venga considerato l'evento risolutore di tutti
i problemi nazionali da una Amministrazione euro-occidentale
che si è assunta l'onere di stravolgere
la fisionomia delle culture esistenti in Europa,
nonostante questo desolato panorama crepuscolare
vi è ancora, tra i politici di 'professione',
chi riesce a conservare la capacità di
discernere, per restituire al discorso politico
temi davvero centrali.La questione etnica doveva
essere forse l'ultima delle questioni da porsi
in un contesto globalmente "evoluto"
come quello europeo, ma a buon diritto l'Autore
ne ha fatto l'argomento portante di Mondialismo
e resistenza etnica, pubblicato dalle Edizioni
di Ar (impegnate su questo fronte fin dalla loro
stessa fondazione). Com'è evidente dalla
lettura del testo, l'Autore non prende l'avvio
dalla "mozione dei sentimenti", ma circoscrive
la sua rappresentazione in un ambito ben definito:
quello della difesa del patrimonio culturale,
la cui perdita ha sempre un carattere di definitività.
Il binomio cultura-intellettualità, che
esprime in s¦ la pretesa della mediazione
necessaria degli 'intellettuali' per la configurazione
'della' cultura, viene nel libro validamente sostituito
dal binomio cultura-tradizione, che indica la
necessità della mediazione degli Autori
tradizionali di una comunità etnica per
la continuità della 'sua' cultura. Proprio
contro l'omologazione dei concreti caratteri europei
agli astratti parametri di Maastricht, contro
l'uniformità di pensiero e il conformismo
moralistico, lo scritto di Lembo intende condurre
il discorso sul piano tradizionale ed etnico,
con la comprensibile difficoltà di chi
sa quanto pochi siano gli interlocutori che ne
comprendano le caratteristiche oggettive. I più
infatti sviano di fronte all'imbarazzo di doversi
porre la questione sulle proprie origini etniche,
dal momento che il nostro 'stampo' sembra ridotto
ad un incubo da rimuovere, un peso da scrollarsi
di dosso, una colpa da espiare. Colpevoli di non
essere kurdi o kossovari, ancora più colpevoli
di non essere asiatici o africani, puniamo chi
di noi rivendichi un'appartenenza ad una delle
nostre comunità euro-occidentali. E il
senso di colpa per essere bianchi si è
gi trasformato in un'insana voluttà di
suicidio etnico...Il parlare della nostra necessaria
appartenenza di natura e di cultura genera dunque
un sentimento, se non altro, di 'rimorso': di
disagio, di imbarazzo; ci ricorda un tempo in
cui, nella dinamica della nostra storia, tutte
le azioni erano riprovevoli, le idee false, le
guerre ingiuste... Adesso che le idee sono tutte
corrette, è tempo di guerre giuste e di
azioni lodevoli... E si comprende meglio la smorfia
implorante perdono che contrae il viso di un europeo
odierno quando gli viene ricordato di 'essere
un bianco: è solo un caso se sono nato
in Italia nel XX secolo. Invece, sarebbe non un
caso, ma la suprema delle colpe, se non condividessi
la ricchezza che ingiustamente possiedo con qualsiasi
straniero che intenda stanziarsi nella 'mia' terra.Come
non riflettere, quindi, sull'azzeramento della
natalità nelle comunità etniche
della Penisola, che si manifesta quale conseguenza
non di un normale processo di riequilibrio, ma
di un desiderio diffuso di non-essere più?
Un pragmatismo assurdo induce taluni a ritenere
questo fenomeno della morte di un popolo non un
evento terribile, ma un fatto meccanico di ordinaria
sostituzione di esseri individuali, fungibili
nel tempo e nello spazio. Un'ipotesi che verrebbe
rigettata come forma latente di genocidio, se
fatta valere presso altre etnie, è invece
valutata addirittura come l'unica possibilità,
in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità.
Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione
dei mutamenti economici, dai quali si determinano,
nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi
irreversibili che conducono allo sfiguramento
delle nazioni per rendere più velocemente
disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso
costo. Lembo avverte chiaramente quanto risulti
artificiale la sostituzione di un popolo ad un
altro, e come, nonostante l'innaturalità
di questo progetto, molti lo accettino in beata
incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche
'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo
accettare il mercato globale, il villaggio globale,
la "società" multietnica... ma
da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"?
La nostra risposta è: dalla mentalità
materialistica, a cui nemmeno è estraneo
il mondo cristiano modernista, ossessionato dal
sentimento della 'rimozione delle frontiere' e
dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato
dalla propria comunità di sangue e di vita
storica, di altre comunità. L'Amministrazione
euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine
all'esistenza delle nostre identità culturali,
ha deciso che nel futuro non debbano più
esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli.
Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento
di individui 'a disposizione', flessibili, esterni
a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito
di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità
disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente
realizzato quel proletariato internazionale il
cui avvento viene profetizzato nei testi sacri
del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato
molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono
la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario
internazionale, infine, saranno risolti i problemi
di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto,
si sarà delineata l'oligarchia mondiale,
con le sue regole di conservazione. In una sorta
di rinnovato determinismo storico l'omologazione
etnica viene imposta come l'unica via da percorrere.
L'Autore del libro "Mondialismo e resistenza
etnica", mette in risalto questa falsa necessità
secondo cui dovremmo supinamente accettare la
nuova "società" multietnica.
Intrisa del più vetusto determinismo, la
mentalità materialistica vede ancora gli
sviluppi economici come rispondenti ad una legge
immutabile (laddove sarebbe più "moderno"
dedurre che le scelte economiche non sono che
l'espressione della volontà di chi, a diversi
livelli, detiene il potere finanziario reale).
Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato,
che proprio per questo viene continuamente ripetuto
come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica.
L'Europa è un complesso originario di significati
che ha attraversato diverse epoche; la nostra
epoca ha la possibilità di dissolvere i
tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi
di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui
ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando
sotto il peso di faglie etniche estranee slittate
sulla piattaforma continentale europea. Disegnando
il panorama che caratterizzerà il prossimo
quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore
è la stessa del Lettore. In chi scrive,
la consapevolezza della decisione è perciò
avvertita con tale intensità da riflettersi
con eguale impressione in chi comprende questo
interrogativo così essenziale nella sua
crucialità: continuare a trasmettere le
forme etniche delle nostre culture o deciderne
la soppressione disperdendole in una massa di
culture-amebe che si confonderanno le une nelle
altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio
amletico tra il continuare ad essere e il non-essere,
riguardando questa volta il destino delle generazioni
si fa sentire in questa opposizione: o sostenere
la parte affidataci dall in Italia, per fronteggiare
la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa
aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici,
dai quali si determinano, nell'attuale contesto,
quelli sociali. Processi irreversibili che conducono
allo sfiguramento delle nazioni per rendere più
velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile
e a basso costo.Lembo avverte chiaramente quanto
risulti artificiale la sostituzione di un popolo
ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità
di questo progetto, molti lo accettino in beata
incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche
'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo
accettare il mercato globale, il villaggio globale,
la "società" multietnica... ma
da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"?
La nostra risposta è: dalla mentalità
materialistica, a cui nemmeno è estraneo
il mondo cristiano modernista, ossessionato dal
sentimento della 'rimozione delle frontiere' e
dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato
dalla propria comunità di sangue e di vita
storica, di altre comunità. L'Amministrazione
euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine
all'esistenza delle nostre identità culturali,
ha deciso che nel futuro non debbano più
esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli.
Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento
di individui 'a disposizione', flessibili, esterni
a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito
di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità
disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente
realizzato quel proletariato internazionale il
cui avvento viene profetizzato nei testi sacri
del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato
molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono
la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario
internazionale, infine, saranno risolti i problemi
di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto,
si sarà delineata l'oligarchia mondiale,
con le sue regole di conservazione. In una sorta
di rinnovato determinismo storico l'omologazione
etnica viene imposta come l'unica via da percorrere.
L'Autore del libro Mondialismo e resistenza etnica,
mette in risalto questa falsa necessità
secondo cui dovremmo supinamente accettare la
nuova "società" multietnica.
Intrisa del più vetusto determinismo, la
mentalità materialistica vede ancora gli
sviluppi economici come rispondenti ad una legge
immutabile (laddove sarebbe più "moderno"
dedurre che le scelte economiche non sono che
l'espressione della volontà di chi, a diversi
livelli, detiene il potere finanziario reale).
Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato,
che proprio per questo viene continuamente ripetuto
come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica.
L'Europa è un complesso originario di significati
che ha attraversato diverse epoche; la nostra
epoca ha la possibilità di dissolvere i
tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi
di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui
ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando
sotto il peso di faglie etniche estranee slittate
sulla piattaforma continentale europea. Disegnando
il panorama che caratterizzerà il prossimo
quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore
è la stessa del Lettore. In chi scrive,
la consapevolezza della decisione è perciò
avvertita con tale intensità da riflettersi
con eguale impressione in chi comprende questo
interrogativo così essenziale nella sua
crucialità: continuare a trasmettere le
forme etniche delle nostre culture o deciderne
la soppressione disperdendole in una massa di
culture-amebe che si confonderanno le une nelle
altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio
amletico tra il continuare ad essere e il non-essere,
riguardando questa volta il destino delle generazioni
si fa sentire in questa opposizione: o sostenere
la parte affidataci dalla nostra migliore tradizione,
e imparata dalla nostra natura originaria e dalla
nostra cultura storica, o calare il sipario, una
volta e per tutte, sulla nostra rappresentazione.
Alla nostra generazione è data questa decisione,
i cui connotati prefigurano la nostra vita o la
nostra morte in quanto organismi etnici nel dramma
della storia mondiale.
L'Autore di questo
scritto, Massimo Pacilio, ha pubblicato per le
Edizioni
di Ar
"Conoscenza tradizionale e sapere profano.
René Guénon crititco delle scienze moderne."
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Attacco mondialista
e de-psichizzazione della comunità
Adriano Segatori, in 'Margini'
n. 33, Gennaio 2001
E’ da tempo che le forze non omologate,
antagoniste ad una idea per ora vincente del mondo
e contrastanti l’imperante ideologia di un benessere
indefinito e di una visione ottimistica in un
progresso appagante, si occupano di quel problema
emergente etichettato correntemente come <<globalizzazione>>.
L’opposizione, però, appare sfrangiata
e per molti versi confusa: da un lato, una puntualizzazione
ed un approfondimento costante di alcune tematiche
particolarmente evidenti e per molti versi scontate
(politica sovranazionale, economia <<turbocapitalistica>>,
manipolazione umana e ambientale, ecc.) e dall’altro,
la totale assenza di un impianto dottrinale che
possa chiarire le linee di partenza di questa
operazione globalizzatrice e, con ciò,
suggerire spunti di discussione e di convergenza
di intervento per le opposizioni. Fa eccezione
il lavoro di G. Damiano, Elogio delle differenze.
Per una critica della globalizzazione, Edizioni
di Ar, Padova, 1999, testo che, con ricchezza
argomentativa, coglie la complessa multidimensionalità
della dinamica globale.
Resta il fatto che, in generale, senza una lunga,
subliminale, minuziosa operazione preparatoria
di vasta e capillare portata, che ha portato l’uomo
a diventare un docile suddito e un malleabile
fantoccio attraverso un’ammaliante anestesia,
tutto ciò non sarebbe accaduto e ogni manovra
si sarebbe sfaldata di fronte ad una consapevole
e decisa resistenza. Invece la trasformazione
è avvenuta e la caduta è tuttora
precipitosamente in atto. Pertanto, pur essendo
impossibile ridurre in poche righe l’analisi di
questo processo, tanto complesso nel suo sviluppo
quanto subliminale e anestetizzante nella sua
progressione, è però possibile definirne
gli indirizzi attraverso l’indicazione delle tracce.
Con Francesco Bacone (1561-1626) e i suoi studi
sul rimaneggiamento della natura attraverso l’uso
di mezzi tecnici sempre più sofisticati,
la scienza passa dal versante della comprensione
a quello della manipolazione. L’uomo, e lo scienziato
in particolare, non è più colui
che attraverso l’umile studio dei segni naturali
tende alla comprensione della grandezza del cosmo
e della sua stessa trascendenza, ma diventa, con
arroganza prometeica, il manipolatore della natura
per piegarla alla sua volontà e ai suoi
inesauribili desideri. La scienza diventa profana,
scade a tecnologia, e nella caduta si trascina
anche colui che della sua degenerazione ne era
stato l’artefice e il propugnatore.
Per mia competenza professionale è dell’uomo
che mi occupo, ed è proprio a lui che intendo
riferirmi quale esempio eclatante di degradazione;
quella degradazione che ha permesso, e tuttora
permette, e che senza un adeguato esame di realtà
ed un conseguente slancio di ribellione interiore
continuerà a permettere, l’operazione di
livellamento omologante e di sedazione globalizzata.
Innanzitutto, la prima mossa è consistita
nel ridurre l’uomo da creazione divina, con l’innata
tendenza a trascendere le limitazioni oggettive
dell’umano, a semplice animale naturale e nell’esaltarne,
conseguentemente, proprio le attitudini troppo
umane, le esigenze più terrene, i bisogni
più profani. Mistificando il concetto di
libertà e sostituendolo con quello di liberazione,
si è fatto credere all’uomo di essersi
riscattato da legami che lo coartavano, quando
invece quegli stessi legami erano i supporti che
lo sorreggevano: con una operazione anestetizzante
si è creato una suggestione esilarante,
un’atmosfera psicologica che Evola definisce <<euforia
da naufraghi>>. Subito dopo, c’è
stato un ulteriore attacco dottrinale e pratico
all’uomo come essere vivente: il Leib, corpo essenziale,
con le specificità proprie date dalla biografia,
dalle peculiarità familiari, dalle prerogative
etniche, dal sentimento dell’essere, dall’intenzionalità
dell’agire, dalla praxis in vista di uno scopo,
dallo slancio progettuale, dalla memoria archetipica,
è stato ridotto a Korper, corpo meccanico,
strumento esistenziale, senza storia, senza biografia,
senza differenziazione, senza memoria di passato
né slancio al futuro, pulsionato al fare
indifferente ad ogni obiettivo, senza il senso
della forma dato dall’ Io sono e soltanto con
l’impressione dell’ Io devo, al massimo dell’Io
voglio.
Questa impostazione è nata senza dubbio
all’interno del contesto e della prassi medica
e delle discipline cosiddette scientifiche (secondo
la pianificazione profana) ma ha influenzato ed
inquinato lo stesso concetto di <<uomo>>
negli insegnamenti più disparati. L’apoteosi
si è raggiunta con l’impianto teorico della
psicoanalisi freudiana che ha portato all’invenzione,
e al succube quanto mistificatorio accoglimento,
di un inesistente uomo universale: “Il concetto
di essere umano <<universale>>, certamente
in grado di acquisire una cultura, considerata
però come un semplice vestito – o addirittura
come un ornamento – è evidentemente una
pura astrazione”(Tobie Nathan). Se già
da un punto di vista strettamente sanitario, organicistico,
considerare l’uomo da questa prospettiva iatromeccanica
è una aberrazione che si ripercuote in
maniera fallimentare nel rapporto medico-paziente,
immaginiamo il potere devastante che tale impostazione
ha quando l’oggetto dell’analisi è la componente
psichica della persona. La Psiche è sempre
stata considerata l’essenza dell’uomo, quella
componente non materiale che lo rende peculiare,
unico, irripetibile, nei suoi rapporti con la
Divinità e con la Natura; Psiche come rappresentazione
immanente dello Spirito che, invece, porta alla
distanza e alla trascendenza; Psiche come esperienza
esclusiva del mito e dei simboli archetipici.
Ad un certo momento, questa specificità,
questa differenziazione, non erano più
tollerabili per la manovra universalista; si doveva,
in qualunque modo, ridurre in basso ogni diversità,
ogni singolarità: l’unico modo per intervenire
era, con un stratagemma particolarmente astuto,
intromettersi in maniera insensibile a livello
del costume e dell’idea totale della vita. L’attacco
è stato concentrico: contenimento della
cultura ad istruzione, abbassamento della Tradizione
a folklore, semplificazione della Psiche a cervello.
Sono state soffocate, in altre parole, le fonti
di vita della Psiche stessa: la cultura vera e
superiore è stata ridotta a semplice istruzione
profana dei mezzi utili ad una produzione lavorativa
finalizzata, la Tradizione quale trasmissione
essenziale delle valenze di appartenenza a rappresentazione
di costume da sagra paesana, la comprensione psichica
a semplicistica modalità per capire i meccanismi
cerebrali. Ed è lo stesso Tobie Nathan
a denunciare in maniera inequivocabile questa
manovra indifferenzialista quando afferma: “(...)
nessuno ha mai incontrato questo ipotetico <<uomo
universale>> che ci è mostrato dal
pensiero psicoanalitico”, e in una nota dichiara
anche: “Non sono lontano dal pensare che tutte
le istituzioni che concepiscono l’altro come un
<<soggetto universale>> - in Francia:
la Scuola e la Medicina – siano autentiche macchine
da guerra contro le culture tradizionali”.
Una delle macchine da guerra è stata proprio
la psichiatria nordamericana attraverso un Manuale
Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali. Attraverso
il varco creato dalle problematiche psichiatriche,
essa è riuscita, con una manovra tanto
abile quanto seduttiva, ad intervenire fino al
limite più avanzato della cosiddetta normalità:
è riuscita a far passare nell’immaginario
e nella coscienza(?) collettiva il sentimento
di normalità di ogni pensiero catalogato,
condiviso, universalizzato; in altre parole, tutto
ciò che è diverso dal sentire comune
e costituito assume, ora, la dignità di
un giudizio criminale oppure l’onta della considerazione
psicopatologica, pansorveglianza e panpunizione,
secondo l’accusa di Foucault. Con metodo e costanza,
si è creata, e in una qualche misura si
è diffusa, quella che Evola ha profeticamente
definito razza dell’uomo sfuggente. Una componente
grandemente estesa e profondamente indifferenziata,
una etnia informe e elusiva che ha rivendicato
i disvalori più eclatanti: senso di irresponsabilità,
scadente o nulla coscienza di Sé, passività
di azione sotto la copertura dei distinguo <<a
chi giova?>>, <<a che pro?>>,
<<mi conviene?>>, delega ad altri
della soluzione dei propri problemi, superficialità
e fuga costante di fronte al minimo approfondimento,
attitudine all’assorbimento di ogni novità
per incapacità di leggere tra le righe
delle proposte, indisponibilità al minimo
sacrificio e spontanea auto-offerta alla sedazione.
In una parola, per rubare una definizione di Ouspensky,
un <<uomo-macchina>> che anodinamente
rappresenta una società senza essenza,
senza stile e senza forma e, con ciò, disponibile
ad ogni aberrazione e ad ogni influenza negativa.
La manovra della psichiatria nordamericana, per
giungere ad una uguaglianza di patologia, e con
essa ad una altrettanto paradossale uniformità
di linguaggio nella normalità, ha dovuto
necessariamente partire dal presupposto che tutti
gli uomini sono psichicamente uguali; contemporaneamente
ha cortocircuitato il concetto di psiche a quello
di cervello, a quello di un meccanismo il quale,
nel momento in cui non funziona secondo una norma
statistica condivisa, necessita di una manutenzione
specialistica. Linguaggio, tecnica, uguaglianza:
tre strumenti e tre obiettivi. Opportunamente
si chiede Hillman: “Che cosa è accaduto
al linguaggio della psicologia in questa epoca
di superbe tecnologie della comunicazione e di
istruzione democratica?”. E’ accaduto che per
una omologazione completa e un sentire collettivo
– la comprensione comune è tutt’altra cosa!
– il linguaggio è stato ridotto a basso
attrezzo di informazione, castrato della sua potenza
e funzione evocativa. E l’Anima, sia essa individuale
che quella che permea i destini di una comunità,
parallelamente a questa caduta, ha subìto
una trasformazione degenerata proprio come conseguenza
del fatto che: “Quando l’anima cade sotto il controllo
delle università, dello spirito laico illuministico,
essa perde ogni realtà, ogni sostanza e
qualsiasi rilevanza per la vita”(Hillman).
Un uomo universale, per altri versi un uomo indifferenziato,
non può che essere un uomo- macchina: tre
sinonimi che indicano l’uomo della caduta, colui
che ha rinnegato la propria storia, che ha delegato
il proprio destino, e che vive all’insegna dell’immanente
e della gestione del quotidiano. Nella negazione
della propria storia, l’uomo della caduta ha demolito
la propria memoria di appartenenza, memoria che
non è semplice ricordo di fatti di vita
o di eventi di cronaca, ma thesaurus inscrutabilis
secondo l’indicazione di Sant’Agostino, vestigia
dell’anima in rapporto alle divinità; molto
più prosaicamente, se vogliamo, segni indelebili
del proprio percorso nella scia del tempo e del
fato. All’uomo-macchina non sono rimaste che date,
profani segni cronologici di avvenimenti opportunamente
manipolati e distorti, abilmente alterati con
la finalità di spogliarlo di ogni retaggio
antico e renderlo più permeabile alle influenze
moderne. Con la delega della propria sorte, l’uomo
della caduta ha ceduto ad altre mani e ad altri
luoghi le scelte e le decisioni del proprio futuro:
nessun passato lo lega alla Tradizione e nessun
futuro lo lega ad un Destino; per lui rimane solo
una presentificazione di bisogni indotti e di
modalità per gratificarli: la ricerca di
un soddisfacimento strenuamente più pressante
e sofisticato all’insegna del naturalismo biologico,
ancora meno – sempre che ciò sia possibile
– dello scontato darwinismo.
Psiche e Spirito, le due essenze dell’uomo: la
prima che abbraccia il sovramateriale, il secondo
che anela al trascendente. Cacciati dalla natura
dall’umanizzazione del giudeo-cristianesimo, soffocati
nell’uomo dalle istanze terrene e meccanicistiche,
hanno lasciato alla realtà concreta il
nucleo vuoto di quello che è stato il vir
delle comunità organiche. Un nucleo vuoto
genericamente definibile come homo: homo faber,
homo oeconomicus, homo consumans, ecc.; un essere
vivente in balia degli eventi e delle circostanze,
trascinato dalle pulsioni e dalle necessità
spesso inconsce, agito dai desideri e dalle insoddisfazioni.
Questo è l’uomo globalizzato: servo dell’economia
parassitaria, succube del mercato del lavoro,
plagiato dalle induzioni pubblicitarie, dominato
da necessità incontrollate, prigioniero
di volontà estranee, anestetizzato per
la genuflessione e addestrato allo sguardo basso.
Un uomo che dopo lunghi anni di ammaestramento
– del quale, per altro, è stato complice
e compiacente – ha rifiutato il platonico signore
dentro di sé, per diventare schiavo di
altri liberti frustrati.
Il massimo – sempre che un massimo possa esistere
- di questa degenerazione si è manifestato
negli ultimi anni e negli ultimi fatti di cronaca.
Un inutile vociare, una afinalistica convulsione,
una farsesca alzata di tono da parte dei tenutari
del potere, una serietà tragicamente ridicola
da parte degli intellettuali del sistema: tutti
a commentare fatti di cronaca quotidiana e a trovare
soluzioni estemporanee in nome, e sotto gli auspici,
di quella <<stupidità intelligente>>
così definita da Schuon ed efficacemente
commentata da Evola.
Aumento delle morti sul lavoro, espansione del
fenomeno detto burn-out, disgregazione della famiglia,
crescita delle nascite indesiderate, salita degli
aborti clandestini e non, espansione dell’uso
di sostanze psicotrope, diffusione del consumo
di psicofarmaci, allargamento della patologia
psichiatrica, dilatazione del fenomeno suicidario,
esplosione dell’aberrazione della pedofilia, emergenza
del problema della violenza sessuale e non, e
molti altri quadri di deformità sociale,
vengono passati al vaglio dei tecnici del sistema.
Tutto ciò, secondo la stretta logica dell’impostazione
psichiatrica e politica nordamericana nell’affrontare
il disturbo psichico individuale, non viene compreso
e affrontato nei termini simbolici di un significato
da decodificare, ma come una disfunzione meccanica
da correggere con mezzi e modalità altrettanto
meccaniche. Niente di più inutile e penoso
nella sua teorizzazione e nella sua pratica.
Quello che quotidianamente accade altro non è
che la manifestazione concreta, visibile, tangibile,
di un decadimento complessivo: un uomo-macchina,
facente parte di una <<megamacchina>>
definita società, non può che comportarsi
in maniera meccanicistica. Senza idea di sacralità,
senza rispetto di sé, senza un nucleo interiore,
senza una dirittura esistenziale, senza un <<al
di sopra>> e un <<altrove>>,
non può che comportarsi in modo naturale.
Per decenni, gli <<stupidi intelligenti>>
hanno fatto leva sugli istinti inferiori dell’uomo
in nome di una libertà da ogni sovrastruttura
tradizionale, incentivando una libertà
per soddisfacimenti e tolleranze: il vaso di Pandora
è stato scoperchiato! Ciò che è
davanti agli occhi di tutti non può essere
inteso e concepito come una disfunzione dalla
norma declamata, ma è il risultato della
norma declamata.
Il mondialismo nelle sue varie sfaccettature altro
non è che il risultato di una indifferenziazione
mondiale: è stato creato un uomo nuovo,
un essere privo di ogni regola e di ogni controllo
che fosse minimamente sovraumano, un individuo
aperto ad ogni istinto e ad ogni compulsione.
Il male è la stessa condizione degenerata.
Naturalmente, è impossibile per una macchina,
e per una megamacchina di appartenenza, avere
coscienza di sé e di ciò che avviene:
“Di quale psicologia (...) si può parlare
quando non si tratta che di macchine? E’ la meccanica
che è necessaria per lo studio delle macchine
e non la psicologia. Ecco perché noi cominciamo
con la meccanica. Siamo molto lontani dalla psicologia”
(Ouspensky).
Questo si è voluto, questo si è
ottenuto. Il sistema e le sue organizzazioni di
appartenenza e di supporto (sociologia, magistratura,
medicina, psicologia, educazione, ecc.) agiscono
in termini meccanici: di fronte ad un guasto è
indispensabile una riparazione, senza curarsi
delle cause profonde e della prognosi futura.
Domina il contingente e con esso l’approccio tecnico
ai problemi.
Del resto l’opinione pubblica, le “ululanti orde
della civiltà”(J. Améry), viene
assalita dai convulsi forcaioli o psicogiustificazionisti
quando si sente urtata nella sua sensibilità
da episodi di cronaca nera, da fatti di abiezioni
sessuali e non, da fenomeni di abbandono o di
maltrattamento, da casi macabri e politicamente
scorretti, ma sempre risulta mancante della minima
analisi di ciò che viene passata per norma.
La norma è che il bambino viene, dai primi
momenti, delegato ad altri nella cura e nell’educazione;
la famiglia è un guscio vuoto contenitore
di disagio e fruitore di correttivi consultoriali;
la nascita, atto naturale e spontaneo, rientra
nelle disposizioni di tempo e di modalità
legate a fattori esterni (denaro, lavoro, tempo
libero) e quando essa è naturalmente impossibile
si affittano gli uteri con improponibili e immondi
legami di parentela o scelte di carattere estetico-pratico;
la morte, avvenimento ineluttabile ed essenziale
della vita, evento di trasformazione con ogni
possibile implicazione di carattere etico, religioso,
psicologico, affettivo, storico, trascendente,
è stata delegata ai tanatocrati, con l’elevata
specializzazione di stabilire il momento cruciale
in base a parametri tecnico-scientifici e medico
legali: solo perché il corpo deve essere
rottamato e i suoi componenti immediatamente riutilizzati
in altre macchine malfunzionanti; il lavoro, mezzo
di sostentamento, è stato reso mistico
dall’efficientismo, dalla produttività,
dal consumo.
Questa è la norma globalizzante e da questa
norma tutti gli avvenimenti che seguono non possono
essere considerati come abominevoli, ma come conseguenza
logica e corretta di uno stile di vita e di una
visione del mondo che sono spregevoli e indegni.
L’uomo è diventato quello che un progetto
di generale e diffusa degenerazione aveva stabilito
che diventasse: un essere de-sacralizzato, de-psichizzato,
de-spiritualizzato, un marchingegno vivente che
può essere trattato da macchina e che di
conseguenza si comporta con il suo prossimo de-sacralizzato,
de-psichizzato, de-spiritualizzato come tratta
se stesso, come una semplice macchina, come un
essere de-forme.
Da un ordine platonico che si rifà alla
cosmogonia iperuranica, eterna, trascendente,
immutabile, ad una organizzazione profana, mutevole,
mondana: l’uomo un essere malleabile, influenzabile,
suggestionabile. Siamo al fondo, forse non ancora
visibile, della ulteriore degenerazione della
massa, concetto descritto in maniera pregnante
da Galimberti: “(...) la sua atomizzazione e disarticolazione
in singolarità individuali che, foggiate
da prodotti di massa, rendono obsoleto il concetto
di massa come concentrazione di molti, e attuale
quello di massificazione come qualità di
milioni di singoli (...) Nascono da qui quei processi
di deindividuazione e deprivatizzazione che sono
alla base delle condotte di massa tipiche delle
società omologate e conformiste”.
Di fronte a questo spettacolo non resta, almeno
per quanto mi riguarda e per quanto è riferito
alla mia attività, che affrontare in termini
molto pragmatici i problemi individuali e collettivi
che quotidianamente si presentano nella istituzione
in cui opero, fermo restando il criterio evoliano
di agire all’interno dello modernità cercando
di mantenersi il più saldamente possibile
– fosse solo per testimonianza – nei canoni e
negli indirizzi prescritti dalla Tradizione.
L’Autore, Adriano
Segatori, svolge la professione di psichiatra.
Ha pubblicato per Le Edizioni di Ar: 'La comunità
vivente. Organismo comunitario e organizzazione
sociale'.
Ha scritto diversi articoli sul problema del controllo
sociale, dell’abuso farmacologico, della liberalizzazione
della droga come volontà di sedazione da
parte del Sistema; ha pubblicato, insieme ad altri
due colleghi, Marco Bertali e Fabrizio Bertini,
Il Manifesto di Psiche. Per una psichiatria ed
una società senza psicofarmaci e, da solo,
Il suicidio. Eventi e comportamenti entrambi per
“Sensibili alle foglie”.
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Alberto Lembo,
Mondialismo e resitenza etnica, presentazione
di Carlo Taormina, Edizioni
di Ar.
Libri come questo di Alberto Lembo contengono,
da quella prospettiva chiaramente antimodernista
che è la prospettiva etnica, il tentativo
di rappresentare forme politiche che non si possono
certo collocare tra le figure dell'ordinario,
labile paesaggio politico odierno, perché
ne rimangono per loro essenza estranee. La loro
estraneità essenziale significa che quelle
forme sono indipendenti da queste figure che si
rivelano invasive e petulanti, ma rimangono in
realtà sterili e improduttive. Da qui l'Autore
delinea senza incertezze l'antitesi fondamentale:
da una parte il mondialismo, le oligarchie dell'alta
finanza internazionale che, mediante la riduzione
del mondo a mercato totale, mirano al controllo
totalitario del “villaggio globale” attraverso
un governo unico planetario; dall'altra l'etnicità,
la tradizione etnica, le forze della natura e
della storia dei popoli, che intendono custodire
e sviluppare le identità, le particolarità,
le libertà dei loro organismi. Ossia: da
una parte il compimento del processo di alienazione
e dissoluzione —la morte della comunità
etnica—; dall'altra il compimento di reintegrazione
e di riconnessione —la vita della comunità
etnica.
I due tipi dell'homo ideologicus e dell'homo ethnicus
— considerati, per semplicità espositiva,
allo stato ‘puro’—debbono ritenersi incarnazione
di questa antitesi. Il primo —scrive Lembo— permeato
di “mediazione, derivazione, soggettività,
individualità, apertura (quindi inclusione
di ciò che è eterogeneo), perfezionamento,
integrazione”; il secondo —che non rinnega la
propria forma razziale e la cultura dei padri—
animato da “immediatezza, originarietà,
oggettività, tipicità, conclusione
(quindi esclusione di ciò che è
eterogeneo), compiutezza, integrità”. L'homo
ethnicus riassume il mondo stabile e disteso dell'essere;
l'homo ideologicus quello del divenire, della
febbre e del dubbio —in altri termini, quest'ultimo
si manifesta nelle sembianze progressiste e nell'ideologia
dello sviluppo razionale ed emancipativo della
“Storia”.
Lembo denuncia con chiarezza l'impiego, da parte
del mondialismo, dell'arma dell'immigrazione,
ossia di una sorta di deportazione di schiavi,
complici spesso inconsapevoli e vittime di un
fatto disgregativo della nostra e della loro identità:
la cosiddetta “società” multirazziale (o,
forzatamente, unirazziale?). E prefigura “un universo
in cui, protetti da eserciti privati, i megaricchi
—il denaro come valore assoluto, equivalente astratto
di qualsiasi concreta valenza etnica...— condurranno
l'esistenza in clausure lussuose, circondate da
bidonville sterminate in cui individui senza razza,
senza religione, senza famiglia, senza lavoro,
si riveleranno troppo ottusi e troppo incapaci
per sapersi ribellare”.
Lo spostamento di enormi masse umane, la destituzione
della distanza e la rimozione del ‘distante’ dalle
loro funzioni, la conseguente contrazione del
mondo sono fattori di quella ‘messa in forma’
del mercato unico globale, in cui non esistono
più nature e culture di uomini bianchi,
neri, gialli, rossi ma solo mode di consumo e
consumatori. Ed è in questa prospettiva
— afferma l'Autore— che va considerata, in una
strategia di resistenza opposta da tutte le comunità
etniche, la necessità di omogenee forme
territoriali, di spazi etnici sicuri e capaci
di difendersi dalla aggregazione nello spazio
mondiale.
“In questo ‘tempo della decisione’ —conclude Lembo—
occorre ascoltare il proprio dèmone etnico
e ‘decidersi a decidere’: tra le libertà
etniche delle diverse comunità e i ‘diritti
umani’degli individui, tra la terra delle tribù
e l'asfalto della citta mondiale”.
Il volume, arricchito da numerosi disegni e piantine
di carattere documentale (insediamenti etnici,
lingue e dialetti, migrazioni storiche ecc.),
comprende una pregevole presentazione introduttiva
del prof. Carlo Taormina: una lettura, la sua,
‘illuministicamente’ostile alle tesi esposte da
Lembo, ma attenta a fissarne con precisione semantica
i lineamenti essenziali. (In 'Margini' n. 31)
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Giovanni
Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica
della globalizzazione, Edizioni
di Ar.
Elogio delle differenze è un autentico
manifesto del differenzialismo o –comunque la
si voglia chiamare- dell’unica concezione metapolitica
radicalmente alternativa nei confronti della globalizzazione.
I (dis)valori della modernità occidentale,
i suoi presupposti ideologici e giuridici, la
sua prepotenza assimilatrice sono analizzati e
presentati in relazione alla effettive e concrete
risposte che una comunità organica tradizionale
-o quanto ne rimane- deve dare in termini di difesa
della propria (e altrui) identità. Damiano
osserva giustamente che la modernità “si
fonda su un cumulo di macerie”, perché
non può sopportare la compresenza di differenze
che prescindano da mode di massa, da aspettative
effimere e da diktàt livellatori. Con le
buone o con le cattive -con la “persuasione” sottile
e il consumismo o con le operazioni di “polizia
internazionale”- la tendenza è quella di
eliminare ogni radicamento, ogni specificità
culturale, religiosa ed etnica, presentata come
espressione fastidiosa di intolleranza ed egoismo.
Il differenzialismo riconosce, di contro, l’esistenza
di forme oggettive -etnie, religioni, tradizioni-
nelle quali il singolo si situa secondo modalità
e gradazioni, nonché attitudini, diverse.
La relazione fra tali forme si instaura non secondo
un principio di superiorità/inferiorità
dell’una rispetto all’altra, e nemmeno di eguaglianza,
ma viene scandita dalla diversità (non
– equivalenza) di ogni forma, dalla loro capacità
di connettersi e di separarsi a seconda della
situazione.
Sono, invece, i processi di assimilazione e di
integrazione –ideologicamente determinati- a colpire
mortalmente tali diversità, secondo una
logica giacobina di falsa tolleranza. (A. Braccio,
in 'Margini' n. 33, gennaio 2001)
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