Spirito
e psiche
Indice:
- Un cammino per le
anime
- Sulla montagna.
Conversazione con Domenico Rudatis
- Il viso verde
- Santi Barocchi
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Un cammino per
le anime
Note sull’opera di V. Magnien, I Misteri di Eleusi
(G. Damiano, in Margini n. 19)
Nell’agosto 1796 Hegel dedica all’amico
Holderlin una poesia dal titolo “Eleusi”. In essa
vi è nostalgia (“le tue case, ahimé,
sono divenute mute, o dea”) ma anche presagio
di un nuovo inizio, comprensione per l’essenziale
ineffabilità dei misteri (“al figlio dell’iniziazione
la pienezza delle alte dottrine, la profondità
del sentimento inesprimibile eran troppo sacre
per considerarne degni gli aridi segni”) e per
l’indigenza in cui le parole si trovano quando
sono chiamate a dar nome a ciò che è
per sua natura al di là del linguaggio
(“chi mai volesse parlarne agli altri, parlerebbe
con la lingua degli angeli”). Un’adesione totale.
Ciò vale anche per il testo di V. Magnien,
“I Misteri di Eleusi”. Non c’è in esso
mera erudizione o il disincantato distacco del
ricercatore, né la Grecia è trattata
come una passione antiquaria ma con intima partecipazione.
I misteri dell’antichità classica erano
culti iniziatici tendenti ad assicurare una più
diretta relazione col divino: “ogni iniziazione
intende congiungerci al Mondo e agli Dei” afferma
Sallustio (Sugli dei e il mondo, IV, 6) ed introdurre
in un’esperienza straordinaria capace di trasfigurare
l’esistenza all’iniziato era appunto lo scopo
dei misteri, tra cui primi per importanza quelli
di Eleusi, località dell’Attica non lontana
da Atene. Questi ultimi erano dedicati a Demetra,
la dea del grano, e a sua figlia Persefone, chiamata
anche Kore, “la Fanciulla”. Questi misteri erano
organizzati dalla polis ateniese e posti sotto
il diretto controllo dell’archon basileus. Eleusi
era il luogo in cui Kore era tornata dagli inferi
dopo esservi stata condotta da Ade. E proprio
ad Eleusi gli ateniesi celebravano la grande festa
autunnale, i Mysteria; la processione andava da
Atene ad Eleusi e culminava in un rito notturno
nel Telesterion (una famiglia verbale, annota
W. Burkert, largamente sovrappostasi a mysteria
è proprio quella di telein, “compire”,
“celebrare”, “iniziare”; telete, “festa”, “rito”,
“iniziazione”; telestes, “sacerdote dell’iniziazione”;
telesterion, “palazzo delle iniziazioni”. È
poi ancora Burkert a ricordarci la traduzione
latina di mysteria che è resa con initia,
a indicare appunto la crucialità del momento
iniziatico). Differenti dalle religioni monoteiste
perché basati sul rituale e non su un libro
sacro, perché non esclusivisti e non miranti
a formare comunità di fedeli (nel senso
dell’ecclesia), i misteri hanno costituito un’esperienza
del sacro cruciale per il paganesimo. E davvero
l’esperienza (il pathema) era il centro del culto
misterico, reale e concreta esperienza che, come
già ammoniva l’omerico Inno a Demetra (la
dea “istitutrice” dei misteri eleusini), non era
insegnabile. I misteri non insegnano nulla, permettono
l’accesso ad un’esperienza (accesso però
non destinato a tutti ma aperto solo ai meritevoli
dell’iniziazione, vincolati per di più
al silenzio sulle cerimonie sacre). Tale esperienza
è perciò alogos, non discorsiva,
non dicibile, come ci ricorda anche Aristotele:
“gli iniziati non devono imparare qualcosa bensì
subire un’emozione ed essere in un certo stato,
evidentemente dopo di essere divenuti capaci di
ciò”. Per Magnien il nucleo centrale del
rituale iniziatico eleusino è rappresentato
dalla discesa delle anime nel mondo del divenire
e dalla loro risalita verso le regioni pleromatiche
(stretta è quindi l’analogia con il mito
che narra della discesa di Kore agli inferi e
del suo ritorno). Si tratta cioè di una
“peripezia” o, meglio, di una vera e propria odissea
dell’anima. Le iniziazioni, infatti, dice Magnien,
“hanno lo scopo di ristabilire l’anima sul trono
di Zeus sia nel corso della sua vita quaggiù,
sia quando essa avrà lasciato il soggiorno
terreno: l’iniziato risale verso gli Dei mentre
chi non lo è resta immerso nel fango”.
L’iniziazione perciò rende possibile la
liberazione già in vita. Magnien si discosta
così dalle ricorrenti interpretazioni dei
misteri eleusini come rituale salvifico tendente
ad assicurare al defunto una vita beata nelle
regioni dell’Ade.
Daccapo: morte e rinascita, tipiche “stazioni”
di ogni iniziazione, vengono quindi interpretate
rispettivamente come caduta dell’anima e sua successiva
risalita al divino. Si prospetta così una
condizione esilica dell’anima e al contempo la
capacità dell’uomo di ritornare alla Patria
solo in quanto ha in sé la favilla del
Principio perduto (quì emerge il significato
più profondo di telein che non è
tanto quello di “compiere il rito” quanto quello
di “giungere a compimento”). Non a caso Magnien
riprende anche il mito del Dioniso orfico fatto
a pezzi dai Titani, leggendolo come rottura dell’unità,
sua dispersione e sua successiva ricomposizione.
I disiecta membra di Dioniso “rappresentano” le
anime allontanatesi dall’Uno: “l’anima subisce
la medesima sorte di Dioniso; al principio ha
vissuto della vita indivisa; poi è stata
suddivisa nella materia e rinchiusa nel corpo
come in una prigione; dopo aver subito il castigo,
essa si concentra in se stessa, ovvero prende
coscienza del suo intimo e vero essere e ridiventa
così un Dioniso”. Già Nietzsche
l’aveva compreso tanto da scrivere che “il Dioniso
fatto a pezzi è una promessa alla vita:
essa rinascerà e rifiorirà eternamente
dalla distruzione”. È qui all’opera lo
schema Uno- molti-ritorno all’Uno (catastrofe
ed epistrofe) tipico della civiltà greca.
Ad esempio Plotino riprende il mito del Dioniso
orfico per “narrare” la “venuta” delle anime nel
mondo le quali, rimirando le loro immagini fallaci
e illusorie (eidola) nello specchio di Dioniso,
si slanciano quasi istintivamente nel mondo. In
Platone invece ora l’anima viene biasimata per
la sua unione col corpo ora viene, nel Timeo,
elogiata perché è stata mandata
dal Dio nel mondo per completarlo. Porfirio afferma
che la causa della caduta risiede in una colpa
originaria dell’anima. Per Stobeo la caduta è
legata alla perdita di libertà dell’anima
o al fatto che essa, naturaliter, è “consonante”
con il mondo della generazione. Per Sallustio
l’anima si rende colpevole perché mira
al bene ma erra circa il bene stesso. Aristide
Quintiliano ritiene che l’anima cada a causa di
una inclinazione per il mondo “di quaggiù”,
Macrobio parla invece di una discesa “indotta
da una segreta brama” e Celso invece pensa che
l’anima discenda o come sanzione di una sua colpa
o perché appesantita dalle passioni. Magnien
poi illustra anche il momento della psicanodia,
della risalita dell’anima attraverso i vari gradi
dell’iniziazione eleusina. Il viaggio dell’anima
sino all’henosis col divino si compie “percorrendo”
i Grandi Misteri (il cui culmine è l’epopteia,
la visione delle cose sacre), l’iniziazione ierofantica
o regale (in cui si ha la contemplazione del Dio)
sino all’iniziazione suprema che è oltre
la stessa visione, perché “vedere” il Dio
significa essere ancora “altro” dal Dio stesso.
L’unione col Dio infatti è un “aderire”,
un con-tatto nel senso letterale del termine,
un “toccare il Dio” come afferma anche Aristotele
nell’”Eudemo”: “l’iniziazione è un toccare
direttamente la verità pura”.
Infine Magnien descrive i riti che presiedono
ai diversi “livelli” iniziatici ognuno collegato
ad una complessa simbologia. Per primi vengono
i piccoli Misteri (celebrati sei mesi prima dei
Grandi Misteri) che consistono soprattutto in
purificazioni (sacrifici, lavacri, divieti alimentari
e sessuali, ecc.) e nel sonno iniziatico in qualche
modo preparatorio alla vera e propria morte iniziatica.
Nei Grandi Misteri il candidato è sottoposto
a svariate prove iniziatiche: innanzitutto la
svestizione e la sepoltura simbolica a cui segue
la catabasi, il viaggio agli inferi, durante il
quale l’iniziato non deve mai voltarsi al fine
di mostrare l’assoluta mancanza di nostalgia per
la sua condizione precedente; il viaggio termina
arrivando ad una fonte di luce e ricevendo nuove
vesti. Dopo un intervallo di almeno un anno, secondo
Magnien, avviene il completamento dei Grandi Misteri,
l’iniziazione epoptica, il cui rituale consiste
soprattutto in un viaggio dall’oscurità
alla luce (discesa nell’antro, visione della luce
in uno specchio, successiva visione delle “cose
sacre”, la spiga di grano e il fallo; in più
si assisterebbe ad una vera e propria ierogamia
annunciata dallo ierofante). Le successive iniziazioni
per Magnien riguardano soltanto i dignitari, ossia
coloro che sono preposti al culto misterico. È
chiaro perciò che l’unione col Dio in questa
prospettiva era davvero ristretta ad un limitatissimo
numero di persone mentre la maggior parte degli
iniziati si fermava all’epopteia. In queste iniziazioni
si moltiplicavano le prove alle quali sottoporre
i candidati fino alla perfezione assoluta, al
divenire tutt’uno col Dio.
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Sulla montagna
Riportiamo alcune
parti di una conversazione con Domenico Rudatis,
già proposta, in modo più ampio,
in Libraria - bollettino bibliografico delle Edizioni
di Ar - del 1989. Domenico Rudatis è nome
noto a coloro che praticano la ‘montagna’ come
via di liberazione. Suoi scritti sono apparsi
nella Rivista del C.A.I. e in Diorama filosofico
(alcuni sono stati ripresentati nell’antologia
curata da E. Longo per Il Cavallo alato: "Il
Regno perduto"). Un suo libro - "Liberazione.
Avventure e misteri nelle montagne incantate"
- è stato pubblicato nel 1985 (Belluno).
D. - Per alcuni studiosi l’approccio alla montagna
attraverso l’alpinismo, se vissuto con una certa
intensità, può suscitare profonde
modificazioni nella sfera psichica del soggetto,
che si trova così a vivere una radicale
trasmutazione dei livelli di coscienza. Per questi
studiosi, tale esperienza ha notevoli analogie
e affinità con il “trauma” che connota,
nelle antiche tradizioni esoteriche, la cosiddetta
«morte iniziatica». Alla luce delle
sue numerose esperienze alpinistiche ed esoteriche,
qual’è il suo pensiero al riguardo?
R. - La morte iniziatica in alpinismo è
puramente letteraria! Si ritrova maggiore iniziazione
nelle Odi di Pindaro e negli insegnamenti dell’Oriente
che in tutta la vasta letteratura di montagna
che ora si sta moltiplicando materialmente e svuotando
spiritualmente. Il mio primo tentativo spirituale
è la mia descrizione di una discesa notturna
da Pan di Zucchero della Civetta, pubblicata nella
« Rivista » mensile del C.A.I. nel
maggio-giugno 1929. E’ la prima e unica nel suo
genere. Fece impressione a Evola, che subito mi
scrisse di collaborare a Ur. Ebbero così
inizio la mia amicizia e collaborazione con Evola.
Questi comprese subito la «portata esoterica»
della mia esperienza. La liberazione implica pure
una relativa indipendenza dalla tecnica e dalla
razionalità. Altrimenti la logica sarebbe
la «divinità universale»!
D. - L’alpinismo oggi tende a divenire
sempre meno un’avventura nel mondo misterioso
della montagna e sempre più tecnicismo:
esasperato al punto di espellere da sé
la necessità della montagna, come nel caso
di certe arrampicate sportive del c.d. «sassismo».
Che cosa pensa di questa tendenza?
R. - Ogni disciplina ginnastica, sia in palestra
che in montagna, in fondo rimane sempre e soltanto
ginnastica. Non si può pretendere molto
di più. Parlare e sperare in un alpinismo
spirituale è forse ormai fuori o lontano
dalla realtà. Dicono che lo sponsor, la
stampa e il materiale sono il triangolo dell’obbedienza
- forse accettato supinamente!
D. - Nel suo "Liberazione"
lei ha scritto che la pratica dell’alpinismo può
suscitare riflessioni affini a quelle di chi pratichi
lo Zen e condurre a una liberazione della coscienza.
Ci può illustrare questo concetto?
R. - La pratica dell’alpinismo si avvicina allo
Zen quando si riesca a sgombrare lo Zen da tutti
i residui razionalistici, retorici, verbali e
filosofici, secondo gli insegnamenti originari
di Bodhidharma, per cui la percezione della montagna
diventa pura esperienza. Così come lo Zen
produce satori quando la mente risulta un limpido
specchio.
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G. Meyrink, Il viso verde,
Il Cavallo alato.
Aldo Braccio, in 'Margini' n.
21
Un libro come Il viso verde si presta
a tanti e diversi approcci di lettura, giusto
secondo il grado di profondità e di attenzione
riservategli: romanzo di avventure, di orrore,
del mistero, occulto, iniziatico.
È in quest’ultimo, esoterico, senso, che
i pochi e qualificati lettori ritroveranno il
filo d’Arianna di un cammino spirituale mai del
tutto perduto. Attraverso suggestioni e colori,
quasi, materialmente percepibili dalle pagine
(il rosso del sacrificio cruento, il nero primordiale
e mercuriale, il bianco della luminosa conoscenza
spirituale, il verde della definitiva rigenerazione),
e gli insegnamenti tradizionali dispensati nel
corso del racconto. Per l’Autore l’importanza
di una conoscenza trascendente immediata (non
dialettica e discorsiva) ribalta completamente
l’abitudinaria logica razionalista, ferma al pur
necessario dato del coordinamento mentale.
Sul piano sociale è assoluta la denuncia
della cecità - o dell’ipocrisia - insita
nella quotidiana vita borghese: la mancanza di
senso, l’inanità di comportamenti instabili,
il gioco di azioni e re-azioni istintive e superficiali.
Tutto - ammonisce Meyrink - sta nell’essere svegli.
E “di nulla l’uomo è tanto convinto come
del fatto di stare sveglio, mentre in realtà
è prigioniero di una rete di sonno e sogni
da lui stesso intessuta”.
“In verità l’immortale è solamente
l’uomo risvegliato”.
Scopo dell’effimera vita è l’immortalità.
Ognuno proceda - suggerisce Il viso verde - secondo
la propria volontà e predestinazione, lungo
una strada che è diversa per tutti ma che
porta, alla fine del proprio segmento esistenziale,
al Principio Unico, ove spazio e tempo si dissolvono.
Non è questa una strada per tutti: si incrociano,
nei transitori corpi viventi, due correnti diverse,
l’una diretta verso l’ascesa e la Vita, l’altra
verso morte e decomposizione.
L’eternità non è un tempo infinito,
ma è fuori dal tempo: la ricerca del Principio
è la ricerca dell’eternità.
Il risveglio spirituale - avverte Meyrink - comincia
dal corpo, riscattandolo dal suo stato di prigione:
è necessario interrompere l’identificazione
dell’Io con il corpo stesso, andare oltre.
Dare un ordine, in noi stessi, al caos, per ripristinare
in noi stessi - e nel mondo - l’elemento divino:
Dio - ammonisce ancora l’Autore - è dentro
di noi, non fuori, se sappiamo uscire dalla dimensione
della Creazione, del divenire, per ritrovare quella
dell’Essere.
Ben più di un cenno meriterebbe anche la
capacità espressiva, la forza di rappresentazione
dimostrata - anche negli altri romanzi, Il Golem
in testa - da Meyrink.
È come un impatto in chiaro-scuro, che
dall’esterno appare spesso esasperato, inquietante,
ferito, per rivelare - attraverso fasci di luce
improvvisa, lame radenti di energia pura - la
realtà nascosta.
Allora il segno è netto, essenziale, estraneo
a descrizioni dettagliate - e produce gorghi impetuosi
che catturano la nostra attenzione, aiutandoci
a uscire dal grigio disincanto quotidiano.
E la parola si converte in silenzio, il silenzio
in distacco dal mondo - in visione dell’Assoluto.
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J.-M. Sallmann,
Santi Barocchi. Modelli di Santità, pratiche
devozionali e comportamenti religiosi nel Regno
di Napoli dal 1540 al 1750, Argo.
Il tema principale del libro riguarda la comparazione
tra la santità e lo sciamanesimo. Com'è
noto lo sciamanesimo è un fenomeno religioso
complesso tipico delle culture centro-asiatiche,
rintracciabile tuttavia anche in altre aree geografiche
quali le Americhe, l'Oceania, l'Africa, l'Estremo
Oriente. Secondo Eliade si tratta di un'esperienza
religiosadi limite, che può definirsi come
una "tecnica dell'estasi" . L'estasi
o trance può realizzarsi in due modi: tramite
l'abbandono del corpo da parte dell'anima -la
quale intraprende viaggi mistici verso le regioni
superiori e quelle inferiori - ; oppure mediante
l'intervento di spiriti e demoni che entrano nel
corpo dello sciamano. Tale capacità fa
dello sciamano un mediatore. Questi, infatti,
è in grado di mettere in contatto per scopi
benefici il mondo dell'uomo con il mondo soprannaturale,
ripristinando, seppure brevemente, l'ormai perduta
condizione paradisiaca primigenia: l'illud tempus
in cui tutti potevano accedere alle zone cosmiche.
Sallmann, dunque, dopo aver evidenziato gli aspetti
principali dell'idea di santità sviluppatasi
nel Regno di Napoli tra la metà del XVI
secolo e la fine del XVIII, analizza i tratti
peculiari propri del santo e dello sciamano, mettendo
in luce taluni aspetti comuni e che vale la pena
qui accennare. In primo luogo il legame ereditario:
come per lo sciamano i poteri si trasmettono in
linea familiare, così il santo presenta
nel proprio albero genealogico personaggi venerabili,
beati, santi. Quindi la predestinazione: in entrambi
la "chiamata" è avvertita come
una crisi, essa avviene tra adolescenza e maturità
e prevede uno stato di irrequietezza psicologica,
di ansia, cui si accompagna un atteggiamento di
rottura verso l'ambiente di provenienza (abbigliamento
trasandato, taglio dei capelli, ecc.). L'apprendistato
spirituale si delineerebbe come un terzo elemento
comune: mentre il neofita svolge il proprio tirocinio
sotto la guida di un maestro sciamano, il futuro
santo, entra in contatto con un altro venerabile
che diventa la sua guida. Altri vistosi tratti
condivisi sarebbero poi gli stati alterati di
coscienza (visionarietà, estasi, sogni
profetici, levitazione, ecc.), e taluni poteri
specifici quali il dominio sugli elementi atmosferici,
il linguaggio degli animali, la divinazione, la
facoltà di operare prodigi, la taumaturgia.
(da 'Margini n. 38)
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