DALLA
STAMPA
I RAGAZZI GRIDAVANO “OKAY”
MENTRE I NAZISTI LI FUCILAVANO
Con l'VIII Armata in Italia, 12 febbraio 1944.
Bisbigliavano “okay” mentre combattevano
i tedeschi nelle strade della città, questi ribelli ragazzini
di Lanciano. E gridavano ”okay” con quanto fiato avessero
in gola mentre cadevano davanti ai fucili dell'odiato nemico. Non
erano del tutto sicuri di ciò che significasse “okay”.
La parola era stata appresa da uno iugoslavo che era fuggito da un
campo di concentramento italiano, quando li aveva aiutati ad addestrarsi
nelle strade dopo il calar della notte. Egli bisbigliava ”okay
da un vano oscuro della porta ed essi andavano verso di lui ritenendolo
un amico. Così “Okay” divenne la loro parola d'ordine
e, nel momento in cui morivano, la lanciarono in sfida ai tedeschi
che avevano saccheggiato le loro case.
Non avevano in media più di 17 anni
I ribelli lancianesi non superavano i 17 anni. Era il 6 Ottobre scorso,
quando i Tedeschi li fecero prigionieri e li uccisero nelle strade.
Lanciano era completamente nelle mani dei Tedeschi e l'esercito inglese
era ancora lontano a sud. Ciò è divenuto il vanto dei
patrioti che sopravvissero perché essi furono i primi civili
italiani a fare un combattimento partigiano durante la guerra - per
quanto futile potesse essere - per una libera Italia, democratica.
Io sono appena tornato da Lanciano, che è tanto vulnerabile
dai colpi nemici da indurre all'avvertimento: “Meglio prendere
l'elmetto”. Sono andato là per cercare la vera storia
della prematura rivolta e scoprire quanto fosse progredito nella città
il movimento anti-fascista. Ho parlato con tre distinti tipi di anti-fascisti
e con un ragazzo che si definiva piuttosto oscuramente un “Cristiano
comunista democratico”. Era Licio Marfisi di 20 anni, uno studente
e già un maestro che insisteva nel dire con facile giustificazione
che “parlava bene l'inglese americano”. Era stato uno
degli ufficiali della rivolta e portava nel risvolto un distintivo
con falce e martello.
Uno dei suoi due capi, il Dr. Carlo Schonheim, un ungherese residente
in Italia da alcuni anni, osservò: “Licio non è
comunista; gli piace portare il distintivo, perché sa che renderà
i fascisti qui intorno del tutto pazzi. Non sa niente del comunismo.
Come potrebbe?”.
Sfidati i suoi professori
Licio tirò fuori un aggressivo mento coperto
di peluria e disse: “Ho letto tutto ciò che i miei professori
non dissero. Essi cercarono di darmi insegnamenti fascisti per tutta
la mia vita ed ora gli stessi tengono incontri per decidere come rendere
l'Italia un paese democratico. Io non ho fiducia in loro”.
Il Dr. Schonheim arruffò i ribelli capelli biondi del ragazzo
e disse: “C'è molta arguzia in ciò che Licio dice.
Uomini come i suoi professori amavano la pace più dell'onore.
Non facevano niente per aiutarci quando combattevamo i tedeschi nelle
strade di questa città, ed ora scrivono pezzi che farebbero
supporvi che essi abbiano mostrato tutto il disprezzo allo scherzo
nazista”.
Il Dr. Schonheim ha 35 anni, medico ed è il tipo che spesso
si suoI definire “tutto nervi”. Segretamente si procurava
le armi dai Carabinieri - la polizia federale - ed aiutava i giovani
ad addestrarsi in baracche segrete. Tuttavia insisteva col dire che
il capo effettivo era un giovane elettricista, Americo Di Menno, che
era a Lanciano, ma troppo malato per prendere parte alla nostra discussione.
Nessun interesse nella politica
Il Dr. Schonheim insisteva nel dire che non aveva
nessun interesse fisso nella politica e che non chiedeva niente di
più che di tornare alla sua pratica e, per usare le sue stesse
parole, “vivere di nuovo come un signore”. Per rendere
chiaro questo punto egli trasse dalla tasca del panciotto un coltello
ed una forchetta e disse: “Non voglio sempre rimanere in fila
insieme agli altri profughi per il cibo. Sono fuori del campo di concentramento
e lavoro nell'ospedale della città e così vado nella
giusta direzione. Ma devo lasciare la politica agli uomini ai quali
piace il discorso, convenzioni e dichiarazioni scritte, più
di una onesta battaglia per i loro ideali”. Gli chiesi perché
egli ed Americo Di Menno avevano incoraggiato i ragazzi ad insorgere
contro i nazisti quando ci poteva essere poca speranza di successo.
Egli disse: “Avrebbero combattuto senza comando e direzione
se io ed Americo non fossimo intervenuti Io avevo dato il segnale
(I was started) perché i tedeschi saccheggiavano i nostri magazzini
e prendevano il nostro cibo. Un vecchio generale della città
andò nelle strade a protestare. I tedeschi lo presero e lo
portarono via a forza. I giovani pensarono che dovesse essere punito
e così andarono a cercare i loro fucili. Giangiulio Adamo di
Maria Giovanna uccise sei nazisti; Bianco Vincenzo di Salvatore ne
uccise otto. Questi furono solo due tra i venti che furono catturati
dai tedeschi”. Gli occhi del Dr. Schonheim lampeggiarono di
dolore. “Sapevamo che i nostri ragazzi sarebbero stati uccisi
se fossero stati catturati. E i tedeschi sapevano che saremmo stati
pronti ad accettarlo filosoficamente come la punizione della ribellione.
Presero un ragazzo come esempio. Presero il giovane Trentino La Barba
di Paolo, gli cavarono gli occhi e lo appesero ad un albero. Questo
è vero, Vedemmo Paolo dopo. Non dimenticheremo mai”.
Asserragliati alla porta della Città
Parlai al dottore su un balcone nel punto che chiamavamo
hall della città. Egli indicò un foro grande nel muro
e spiegò: “E' stato prodotto dalla granata di un anticarro.
I ragazzi si erano asserragliati in questa costruzione e quando i
nazisti non riuscirono a bruciarli - (notai quando entrai che una
bella porta all'entrata era carbonizzata) - usarono i cannoni del
carri armati. Con questi sottomisero i ragazzi e finalmente li uccisero”.
Licio indicò una casa distrutta dall'altra parte della strada:
“Quella è dove ho vissuto” disse. “La bruciarono
quando non riuscirono a trovarmi. Bruciarono anche tutti quei negozi
che vedete”. Chiesi a Licio quanti dei suoi amici erano stati
uccisi ed egli disse: “Venti”. Diede una lista dei loro
nomi. “Dovete scrivere i loro nomi per intero, disse, perché
sono morti”. Così ho menzionato alcuni con il nome di
battesimo alla fine, come quello del patriota italiano che perdette
la vista e la vita In un grande atto di sfida: La Barba Trentino di
Paolo.
Ragazzi giudicati ingiustamente
Prima di parlare al Dr. Schonheim, ebbi una breve
conversazione con un importatore italiano, una volta benestante, che
aveva i suoi affari a Vienna. Disse: “I ragazzi erano coraggiosi,
ma sbagliarono a combattere come fecero. Non potevano sperare di vincere.
Il vero risultato fu che i tedeschi punirono i cittadini. Se dovevano
combattere, sarebbero dovuti andare nelle contrade del paese come
guerriglieri”. Ciò mi sembrava una ponderata opinione
di un uomo onesto e così chiesi al Dr. Schonheim cosa pensasse
di ciò. Egli sorrise e disse: “Forse l'uomo di affari
ha ragione. Ma crede freddamente nei termini di profitto e perdita.
Non diventerebbe mai un rivoluzionario. Talvolta un uomo deve arrabbiarsi.
La maggior parte della gente nella città è orgogliosa
di ciò che abbiamo fatto”. Poi il Dr. Schonheim andò
per la sua strada con Licio “il comunista” dietro.
I moderati diffondono notizie
Decisi di andare a trovare un gruppo di moderati.
Fui condotto con gran cerimonia nel confortevole appartamento del
Dr. Federico Mola, dottore in filosofia, allora di professione maestro
elementare. Egli non era alto più di cinque piedi, ma possedeva
una immensa dignità ed una sciarpa di lana che aveva gettato
intorno al collo con signorile negligenza. Sei membri dalle solenni
facce del “Movimento anti-fascista di Lanciano” erano
in semicerchio intorno alla sua sedia. Strinse la mia mano, ma non
disse nulla. Egli non parlava l'inglese. Due dei suoi seguaci mi fecero
il saluto militare canadese che molti italiani credevano che fosse
la nostra versione dell'ormai dimenticato gesto fascista. Uno dei
membri parlò un inglese atroce e mi disse che il professore
aveva preparato una relazione scritta sullo scopo, sui fini, ecc.,
del nuovo movimento. Era scritta in un inglese così strano,
così pieno di ornamenti, tanto che il primo paragrafo sembrava
non avere alcun senso. Il secondo paragrafo era un trattato inglese
in confronto; “Il centro del movimento di liberazione e di riscossa
è la città di Lanciano, una delle più nobili
e antiche, che contribuì molto alla vecchia guerra contro Roma.
Il movimento organizzato clandestinamente ebbe la sua pubblica manifestazione
nella ribellione contro i tedeschi provocata da segrete organizzazioni
che armarono gli squadroni che scrissero la pagina più bella
nei giorni del 5 e 6 Ottobre 1943, in cui i tedeschi giunsero verso
di noi pieni di munizioni e fummo assaliti e bruciati. I nostri più
giovani riunirono tutte le disponibili armi da fuoco, mentre i tedeschi
erano via. Questo avvenne il giorno del 5 Ottobre. Il giorno seguente,
nelle prime ore del mattino, fu annunziato da un movimento di rivolta
molto violento. Gli squadroni dei giovani assalirono la casa dei fascisti
militari per prendere nuove armi da fuoco, ma furono sorpresi dai
tedeschi che giungevano con carri armati, cannoni e fucili”.
La battaglia comincia sulle Piazze
“La battaglia fu iniziata su tutte le piazze
strategiche della città con animosità dai giovani di
Lanciano, che avevano pochi fucili e poche bombe a mano. La sera la
città fu bruciata e saccheggiata. A Lanciano i morti furono
21. I morti dei tedeschi furono molti. Il movimento che coraggiosamente
fiorì nei giorni del 5 e 6 Ottobre è stato il movimento
dei primi organizzatori: prof. Federico Mola, Giovanni Cocucci, Americo
di Menno ed il Dr. Carlo Schonheim”. Le uniche conclusioni che
posso trarre da queste relazioni della coraggiosa battaglia a Lanciano
sono che per due giorni il popolo combattè unito contro un
comune nemico. Ora il popolo si organizza in fazioni: i moderati rappresentati
dal prof. Mola; i radicali da Americo Di Menno. Così l'organizzazione
del partito può raggiungere piena maturità in Italia.
Entrambi i partiti possono avere le loro colpe, ma sono giovani ed
entrambi credono che il fascismo tedesco sia il loro più grande
nemico. Forse sono stato privilegiato ad essere spettatore della rinascita
della democrazia in questa terra sfortunata.
Paul Morton
t raduzione del testo: Emilia Petrosemolo
DAL “THE CRUSADER - EIGHT ARMY WEEKLY”
domenica 6 febbraio 1944
IL “TITO” ITALIANO ERA UN CIVILE
La storia completa delle attività di guerriglia
e lotta partigiana nel nord d'Italia non sarà scritta per qualche
tempo, ma la storia di un italiano coraggioso che insorse contro i
Tedeschi a Lanciano il 6 Ottobre è stata ricostruita per fare
un buon quadro di quanto è accaduto.
Scrive Maurice Desjardins, corrispondente di guerra canadese:
In quel giorno 33 partigiani e 43 tedeschi vennero uccisi e 15 negozi
dati alle fiamme furono muti testimoni alle rappresaglie delle truppe
naziste.
Il “ Tito ” di Lanciano fu Americo di Menno una volta
soldato semplice nell'Esercito Italiano.
Il suo comandante in seconda quando scoppiò la rivolta a Lanciano,
era un generale di fanteria a riposo. Tutti i suoi partigiani erano
giovani, tra i 17 e i 23 anni di età, ed erano stati educati
sotto il regime fascista. Essi ottennero armi in vari modi: 400 fucili
dalla Milizia, 70 dai Carabinieri, 7 dalla Guardia di Finanza. La
loro parola d'ordine era “Okay ”.
In settembre i partigiani osservarono i Tedeschi che mettevano le
mine. Nei momenti opportuni gli uomini di Americo le riscoprivano
e le raggruppavano in gruppi isolati. Qualche volta attraversavano
le terre di nessuno per rendere nota la dislocazione delle mine agli
Alleati.
Una sentinella diede il via
Un diciottenne con il dito sul grilletto diede il
via alla rivolta. Stava facendo la guardia vicino al deposito delle
munizioni dei partigiani, quando giunsero due camion tedeschi. Apri
il fuoco. I Tedeschi fuggirono ed egli mise fuoco ai camion. Era il
5 Ottobre. Più tardi, la sera, circa 20 partigiani bloccarono
il traffico tedesco appena fuori Lanciano. Il giorno dopo Americo
mise circa 80 dei suoi uomini in posizione difensiva intorno a Lanciano.
I primi tedeschi, 30 in due autoblinde, comparvero alle 9,30 del mattino.
Un giovane paracadutista italiano, Remo Falcone, sparava con tre fucili
mitragliatori Schemeisser che egli non poteva caricare. Un compagno
andava avanti e caricava per lui. Appena uno Schemeisser veniva scaricato
un altro veniva nuovamente caricato e dato a Falcone. Fu ucciso dopo
un'ora di intenso fuoco.
Tenuti a bada
I rinforzi tedeschi giunsero verso le 13 in numero schiacciante.
Erano 600: camicie nere e SS con “patato maskers” e 8
cannoni anticarro.
Vincenzo Bianco, 18 anni, e Giovanni Calabrò, 22 anni, tennero
a bada 30 tedeschi per 5 ore da dietro un muro. Ma furono abbandonati
dai compatrioti che permisero ai tedeschi di prenderli alle spalle
e furono uccisi.
La lotta cessò con il sopraggiungere della notte. Le truppe
naziste sfogarono la loro rabbia incendiando una lunga fila di negozi
dopo averli prima saccheggiati. E torturarono uno dei più giovani
che non voleva dir loro il nome dei capi dei partigiani. Gli strapparono
gli occhi e lo impiccarono.
La minaccia tedesca
Il giorno dopo i tedeschi convocarono il vescovo
di Lanciano. Minacciarono di radere al suolo la città se un
altro colpo fosse stato sparato. Americo e il suo comandante in seconda
convinsero i loro compagni che era inutile continuare a combattere
contro forze così schiaccianti. Continuarono a fare atti di
sabotaggio. Il loro ultimo atto prima dell'arrivo dell 'VIII Armata
fu la preparazione di una carta topografica dell'area a nord di Lanciano
che riuscirono a far passare di nascosto tra le file tedesche per
mezzo di due partigiani vestiti da sacerdoti.
Lanciano è una attiva città italiana di 15.000 abitanti
e Americo Di Menno era uno dei suoi artigiani.
Maurice DESJARDINS
Canadian War Correspondent
t raduzione del testo: Alba Castrignanò
Maurice Desjardins (corrispondente di guerra) autore
dell'articolo "Il Tito Italiano era un civile" pubblicato
nel febbraio 1944 sul settimanale dell'VIII Armata "The crusader".
ITALIAN "TITO" WAS A PRIVATE
The complete story of guerilla activities and partisan warfare
in Northern Italy will not be written for some time, but the story
of a bold Italian uprising against the Germans in Lanciano on Oct.
6 has been pieced together to form a good picture of what can and
does happen, writes Maurice Desjardins, Canadian War Correspondent.
On that day 33 partisans and 43 Germans were killed,
and 15 flame-scarred shops on Corso Trento e Trieste stand as mute
testimony to SS troop reprisais.
Lanciano's "Tito" was Americo Di Menno, once a private in
the Italian army's signal corps. His second-in-command when he headed
the Lanciano guerrillas was a retired infantry general.
All his partisans were young men, between the ages of 17 to 23 who
had been educated under the Fascist regime. They obtained arms from
various sources including 400 guns from the militia, 70 fromi the
Carabinieri and seven from the Guard of the Finances.
Their password was "Okay". During September the partisan
watched the Germans lay mines. At opportune moments Americo's men
dug them and reburned them in isolated spots. Sometimes they crossed
noman's-land to report mine locations to Allies.
Sentry Started It
An 18-year-old with an itchy trigger finger started
the flare-up. He was doing sentry duty near the guerilla's ammunition
dump, when two German trucks carne along. He fired into them, the
Germans fled and then he set fire to the trucks. That was up Oct.
5. Later in the evening about 20 partisans sniped at German traffic
on the road just outside Lanciano.
Next day Americo placed about 80 of his men in defensive positions
around Lanciano. The first Germans, 30 of them in two ambulances,
showed up at 9,30 a.m.
One young Italian paratrooper, Remo Falconi, manned three Schmeisser
sub-machine guns which he couldn't load himself A comrade stood alongside
and did the loading for him. As soon as one Schmeisser was emptied
a freshly-loaded one was handed to Falconi. He was killed after one
hour of steady shooting.
Held At Bay
German reinforcements were up at i p.m. in overwhelming
numbers. They were 600 strong, black-shirted SStroops, with potato
mashers, hatchets and height anti-tank guns.
Vincenzo Bianchi, 18. and Giovanni Calabrò, 22, held 30 Germans
at bay for five hours from behind a wail. But they were betrayed by
compatriots who showed the Germans how to take them from behind, and
they were killed.
Fire ceased by nightfall.
SS troops expressed their revenge by putting the torch to a long row
of shops which they first looted. And they tortured a youngster who
wouldn't tell them the name of the leader of the partisans. They gouged
his eyes out and hanged him.
German Threat
Nex day, the Germans called on the Bishop of Lanciano.
They threatened to raze the town if one more shot was fired. Americo
and his second-in-command convinced their men it was useless to fight
against such great odds. They continued to commit acts of sabotage.
Among their last acts before arrival of the English Army, was the
mapping of the area north of Lanciano which they managed to smuggle
through German lines by two partisans dressed as priests.
Lanciano is an industrious Italian city of 15.000 inhabitants and
Americo Di Menno was one of its shoemakers.
Dal "The Crusader Eight Army Weekly" - 6
febbraio '44
A PEOPLE'S SCRAPBOOK
It was the fali of 1943. Itaiy had aiready surrendered
and Aliied troops, after the liberation of Siciiy, had ianded on the
southern tip of Calabria moving north.
The Germans had retreated quickly toward Napies and Rome where they
set up a defensive line from Monte Cassino to the River Sangro on
the Adriatic side. Generai Kesseiring, under the supervision of Generai
Rommei, was in charge of this German Army, which was mainiy composed
of veterans of the Russian front.
My hometown, Lanciano, was iocated 20 air miies from this line of
defense and occupied a strategic location for the German Army. From
the elevated position of my hometown, the entire front couid be controiied
by the powerfùl German artiiiery.
Italy had surrendered on Sept 8, 1943, and it was late in that month
that the first German troops started to congregate in Lanciano. Many
Panzers converged in the city that aiready had been badiy destroyed
by the incursions of Aiiied B-17 bombers.
Upon the Germans' arrival, their Kommandatura issued an order to confiscate
food, tobacco, radios and flrearms from the townspeople.
By the beginning of October, German soidiers and the dreaded S.S.
were burgiarizing homes and terrorizing the population.
On Oct. 3, some German soldiers entered a smali store outside the
city, stole everything, raped the deaf-mute daughter of the owner
and literally butchered her father, who had come to protect her. Indignation
spread throughout the city like wildfire. The town mayoi; don Antonio
Di Jenno, and the Catholic Bishop Monsignor Thesauri, strongly protested
to the German officei; Captain Foltsche. But to no avail.The following
day, two trucks loaded with German soldiers stopped in front of the
main store and ransacked and vandalized it. The same looting occurred
in many other neighborhood stores. Ginesio Mercadante, a retered Italian
army generai who spoke German, strongly reprimanded the soldiers.
He was arrested and taken to the German command post, where he was
threatened with death for interefering with the troops.
By this time, the population of Lanciano had developed a desire for
self-preservation and revenge.
Everybody was so angry that young and old aiike storrned the police
station, where they stole every gun and piece of ammunition available.
When the Germans heard that there was a revolution in the making,
they left town and camped outside the city limits.
The people of Lanciano were not new to the spirit of rebellion. They
had known it during the Roman days when Roman legions, incapable of
conquering them, granted Lanciano the status of free municipaiity,
with exemption from taxation.
Lanciano had known revolution during the Spanish occupation and, finally,
during the French Revolution, when rebels ousted the Bourbons then
occupying the city.
Lanciano's reaction to the German activities can be compared to this
hardfought tradition of survival and struggle.
On Oct 5, during the early morning hours, a German column carrying
ammunition to the front was attacked by a small band of townspeople.
Thirty-eight German soldiers were killed and the entire convoy was
burned and destroyed.
In the afternoon, a fiill-strength Panzer Division entered the town.
As a retaliation against the townspeople's attack, blazing cannons
and fiery machine gLms tore up Lanciano for the remainder of the day.
What was not destroyed by cannons was set on fire. German soldiers
could be heard screaming, "Raus, Raus sacramento." ("Get
out! Get out!")
The civilian population was herded out of their homes and ordered
to move toward the Majella mountains. As this occurred, fires reddened
the autumn sky.
The people were slowly moving along the Cappuccini Avenue and suddenly
saw a young man, Trentino La Barba, tied to a tree, cursing the German
captors. He was one of the young fighters. He spoke German because
he had spent time in a german prison of war camp.
He hated Germans because he remembered the agonies of the Italian
retreat in Libya when, trying to ride in a German truck, he had his
fmgers smashed by the butt of a Mauser.
Trentino La Barba was now cursing his tormenters. Suddenly a German
sergeant approached him and pushed a bayonet into his eyes. A young
German soldier shot hìm five, six, ten times-and then thunder
and rain, as if to indicate the displeasure of God, fllled the skies.
The German revenge did not stop there. Young fighters who had been
captured were summarily shot to death. Chudren, no more than 17 years
old, died shouting "Okay!" a meaningless word they had learned
from a Yugoslav refligee. Many more civilians were killed, both men
and women, young and old.
For the next two days, many of those people left alive camped out
in the mountains, hid in caves or sought refuge with relatives in
neighboring villages.
To continue the German-ordered evacuation to the north would have
decimated the population. Monsignor Thesauri made many trips to the
German headquarters located just outside the city in the Villa Paolucci.
But time after time, his
request to let the citizens of Lanciano stay in their homes was denied.
The German were steadfast in wanting to make an example of the rebellious
inhabitants.
As a result, the town crier began his early morning rounds by chanting,
"The sob's want us out in groups of 5,000 per day!"
The town mayor, however, was deterrnined to frustrate the enemy's
efforts. He secretly sent word that people should leave in the morning
as the Germans had ordered, but re-enter the city after dark. The
people of Lanciano did this, coming back under cover of darkness and
taking shelter in a tunnel that had been dug by Roman legions centuries
before.
It was a happy miracle the Germans failed to noùce how their
order of evacuation was circumvented.
These secret activities went on for many days, even during the days
Lanciano was subjected to Aliied airplane raids and artillery shelling,
which, by the end of November, killed 500 more people.
It was hell, but on Dec. 3, 1943, units of the Eighth Army entered
Lanciano and the months of agony became jubilation. The Allied radios
in London and New York told the world about the heroism in a smali
town in the Abruzzi mountains of Ita'y.
Paul Morton, a war correspondent with the Toronto Stai; on Feb. 12,
1944, gave a detailed account of the boy rebels who sang "Okay"
as the Nazis were killing them. A sirnilar story can be found in "The
Crusader", the U. S. Eighth Army weekly ofFeb. 6, 1944.
Occasionally, when I visit Lanciano, I can stili hear the sounds of
the battie. Pride overcomes my sadness, howevei; when I look at the
seal of the city with its gold medai for valor and an arrow streaking
toward the sun with the Latin inscription: "Ad Maiora Semper"
(always toward greater things).
Fortune Bosco
dal "The Tampa Tribune” - 9 novembre 1979
IL VILLAGGIO DI DON GUIDO
Speranza e possibilità di vita nuova per le più giovani
vittime della guerra
Condensato da The Baltimore Sunday Sun
E’ la mezzanotte della vigilia di Natale del
1945. Nel paese di Lanciano, tra le montagne dell'Abruzzo, un piccolo
prete segaligno sgancia una grossa catena di ferro e apre la pesante
porta di una stalla, dove venti ragazzi dagli 11 ai 17 anni giacciono
addormentati, sul nudo pavimento di pietra. Sono rattrappiti dal freddo,
coperti solo dei loro poveri cenci. Alcuni, più fortunati,
hanno con sé un cane che dà loro un po' di calore.
“Buon Natale!” mormora il prete con amarezza, e se ne
va.
Questi ragazzi costituivano una razza a parte: la feccia e i rifiuti
della guerra. Si diceva ve ne fossero quasi mezzo milione in Italia.
Ignoranti, abbandonati a sé stessi, erano sudici, depravati,
immorali. Nessuno li amava. Pareva che avessero una sola virtù:
erano solidali fra loro. Battevano la campagna in bande, rubando quel
che potevano. Gli adulti li sfruttavano, e si arricchivano trafficando
con la loro refurtiva. Una macchina fotografica Leica, per esempio:
i ragazzi la vendevano per 300 lire; e l'acquirente adulto la rivendeva
per cinquantamila.
La polizia di Lanciano aveva rastrellato una di queste bande e l'aveva
rinchiusa nelle stalle di una caserma. Una volta al giorno, come allo
zoo, gettavano loro qualcosa da mangiare. Le cose stavano così
quando arrivò Don Guido Visenda. Sulla trentina, piccolo, asciutto
e ben piantato, Don Guido era stato cappellano militare nell'Esercito
italiano e in seguito deportato in Germania. A Roma gli era stato
parlato di questi ragazzi che vivevano come selvaggi. E lui, senza
pensarci su due volte, aveva preso un treno per Lanciano.
La mattina di Natale, quando Don Guido tornò alla stalla, il
suo "buon giorno" fu accolto da beffe e versacci. Avrebbero
fatto vedere a quel cantamesse che era meglio far fagotto e tornarsene
a casa. “Non è così che si fanno le pernacchie!”
esclamò Don Guido con disprezzo. “Le facevamo meglio
alle SS., in Germania. Così...” e fece sentir come. Questa
dimostrazione pratica provocò un silenzio di stupefazione.
Don Guido afferrò una scopa e incominciò a spazzar via
il sudiciume. Poi, con un badile, si mise a scavare una buca, fuori
all'aperto.
“E una latrina” fece senza rivolgersi ad alcuno in particolare.
“Quando un esercito arriva in un nuovo posto, questa è
la prima cosa che si fa, si scava una latrina da campo. Non si puo
vivere nella sporcizia. Ci si ammala.”
Si tolse poi la tonaca e la lacerò in due pezzi. Chiamato un
ragazzo, il solo indumento del quale era un pezzo di tela di sacco,
gli fece rapidamente un paio di calzoni. Con la stoffa rimasta ne
fece un altro paio.
Di notte Don Guido pregava, chiedendo a Dio ispirazione e guida. Uomo
colto, perfetto conoscitore di quattro lingue, gli sarebbe stato agevole
trovare un lavoro tranquillo in un seminario. Ma quei ragazzi erano
un cimento per lui. Persuase gli abitanti di Lanciano ad abolire le
guardie e le catene e a lasciare che si occupasse lui di quei ragazzi.
E continuò a stupirli coi suoi metodi. Quando dicevano delle
parolacce, non cercava di riprenderli: “La vita qui non è
allegra e dovete pur protestare in qualche modo.” Un giorno
disse: “Vi racconterò come feci a scappare da quella...
Ghestapo.”
I ragazzi strillarono: “Ha detto una parolaccia!” Rispose
seccamente Don Guido:
“Quello che va bene per voi, va bene anche per me. Ma stabiliamo
una regola: il turpiloquio è un peccato per chiunque lo adoperi.”
La trovata fece effetto su quelle giovani menti più di quanto
lo avrebbe fatto qualsiasi mezzo di correzione diretta. Fu il principio
della fine delle parolacce.
I ragazzi videro che Don Guido si era preso come loro le pulci, i
pidocchi e un'eruzione sul collo e sulla faccia. Dormiva per terra
assieme a loro. Un giorno cominciò a intonacare le pareti scrostate.
Dapprima essi lo stettero a guardare torvi, scontrosi. Poi uno di
loro trasse a sé un sacco di calce, un altro andò a
prendere un secchio d'acqua. Ben presto, quasi senza accorgersene,
a intonacare le pareti accanto Don Guido.
Sui muri bianchi, si possono ancora vedere le impronte delle mani
dei ragazzi, perché non c'era altro che le nude mani per dare
l'intonaco. Allorché le pareti furono tinte, Don Guido mise
i ragazzi a dipingerci sopra figure a colori, angioli in gran parte,
giacché Don Guido aveva saputo far le cose così abilmente
che la religione era ormai parte della loro vita.
Tuttavia mancavano ancora i mobili. Più in alto, sui monti
dell'Abruzzo, c'era abbondanza di legname. Don Guido si fece prestare
un autocarro dell'UNRRA e con tre dei ragazzi più grandi portò
giù un carico di legname. Ne cedette la metà al falegname
del paese in cambio della sua opera per fare tavole e sedie. Con il
resto Don Guido e i ragazzi costruirono i fusti dei letti.
Nel mondo della malavita creata in Italia dalla guerra, si sparse
la voce che a Lanciano c'era un posto dove si poteva mangiare e dormire.
Altri ragazzi arrivarono alla spicciolata. Nessuna domanda veniva
rivolta ai nuovi venuti. Venivano date loro alcune semplici regole,
veniva detto loro che potevano andare e venire a loro piacimento.
Il numero dei ragazzi salì a 80. (Oggi ve ne sono più
di 130.)
La stalla era ora piena zeppa, ma la gente del paese era sorda alle
richieste di nuovi locali. Una notte soffocante, Don Guido svegliò
i suoi ragazzi; lavorando insieme, praticarono un'apertura nella parete
che li divideva dalla caserma adiacente, e, servendosi di vecchie
travi, vi misero una porta. Era proprio il genere d'impresa notturna
che andava a genio a quei piccoli ex-avventurieri. A poco a poco essi
occuparono tutto il pianterreno della caserma.
La distanza che separava Don Guido da questi discoli si era man mano
rimpicciolita ed era quasi scomparsa del tutto sotto lo stimolo del
lavoro in comune e per il fatto che il prete dava loro la prova palmare
di aver veramente a cuore il loro bene. Ma Don Guido era stanco e
scoraggiato. Al problema di provvedere al necessario per questa banda
di ragazzi di strada, si aggiungeva quello della disciplina. Sgattaiolavano
fuori e svaligiavano le case. Rubavano fiori e li rivendevano. Don
Guido fu minacciato dalla polizia, dai cittadini infuriati. Un giorno
annunciò:
“Ragazzi, me ne vado. Sono stufo”. Il suo annuncio fu
accolto da un uragano di no
Il prete resto un po' stupito, e, poiché era uomo, fu toccato
da questa prova del loro affetto. Finì col dire: “Faccio
un patto con voi. Debbo esser libero da ogni altra preoccupazione
per potervi procurare il vitto, il vestiario e le altre cose che vi
occorrono. D'ora in avanti vi occuperete voi stessi della vostra disciplina.
Altrimenti me ne vado.”
Nacque così il Villaggio del Fanciullo. I ragazzi elaborarono
uno statuto, fondarono una banca e un tribunale, elessero un sindaco,
scelsero i bottegai. Era una vera democrazia, senza preferenze per
nessuno. Mi capitò d'essere presente a una riunione del Consiglio,
e Don Guido si alzò impetuosamente per prendere la parola prima
di esserne autorizzato dal presidente. Gli fu detto con fermezza di
rimettersi a sedere.
I ragazzi stettero ai patti. I problemi disciplinari non scomparvero,
ma al posto dei reati e delle violenze si verificarono solo quelle
birbonate che sono normali in qualsiasi comunità di ragazzi.
Col tempo il Villaggio si estese fino ad avere una propria falegnameria,
un laboratorio di scarpe, un'officina, una trattoria, un'autorimessa,
e un ospedale. Man mano che si diffondeva la voce del suo sviluppo
cominciarono ad arrivare doni da molti paesi, mentre giungevano volontariamente
aiutanti e maestri per condividere il pesante fardello di Don Guido.
I ragazzi vanno a scuola mezza giornata e passano il resto del loro
tempo a imparare un mestiere: falegname, vasaio, muratore, calzolaio,
fabbro. In compenso del loro lavoro nei laboratori, ricevono un buono
villaggio che serve loro per pagare il loro sostentamento giornaliero
e le loro necessità e per qualche spesa extra allo spaccio
o in trattoria. Ogni settimana una piccola percentuale viene trattenuta
per l'assicurazione contro le malattie e gli infortuni, e per un fondo
a favore dei più piccoli, non in grado di guadagnare quanto
gli altri.
Chi visita il Villaggio è colpito dalla sua calda atmosfera
di cordialità: un senso di benessere e di fiducia, come se
ognuno si sentisse a casa propria: Questi ragazzi non fanno la commedia
del civismo: lo vivono. L'intero Villaggio presenta adesso un aspetto
piacevole e il ritmo della sua vita quotidiana è in armonia
col suo aspetto. La giornata comincia con una sveglia unica nel suo
genere: un ragazzo attraversa di corsa il dormitorio cantando: “Io
sono il Signore Iddio tuo, non avrai altro Dio all' infuori di Me”.
I ragazzi cantano andando a scuola e al lavoro. Il canto li chiama
anche ai pasti e alla preghiera.
Sembrano essersi liberati dai postumi della loro vita criminale degli
anni di guerra. Si governano altrettanto bene dei cittadini di ogni
altro paese; e forse meglio, perché questi ragazzi, perfino
nei loro giorni peggiori, riuscirono a proteggere i più piccoli
e i più sfortunati e a provvedere loro.
I problemi finanziari di Don Guido non sono affatto risolti, ma adesso
egli riceve aiuti dai quaccheri americani, da un organizzazione assistenziale
svizzera e da altre fonti.
Non molto tempo fa Don Guido viaggiava in auto, di notte, in una regione
montuosa dell'Italia Settentrionale, quando fu costretto ad arrestarsi
a causa d'un tronco d'albero buttato attraverso la strada. Tre banditi
meno che ventenni, armati di mitra, sbucarono fuori e gli ordinarono
di consegnar loro il denaro. Don Guido disse di non averne. Poi soggiunse
che ritornava dalla Svizzera, dove si era recato con la speranza di
raccogliere fondi per il suo Villaggio. E parlò loro della
piccola comunità di Lanciano.
I banditi abbassarono le armi e, trattisi da parte, si misero a confabulare.
Infine porsero a Don Guido 2000 lire. “Cerchi di metter su qualcosa
del genere da queste parti” gli dissero pensosamente nel salutarlo.
Charles Reber riferisce nel giornale francese l' Èpoque che
molti Villaggi del Fanciullo, oltre quello di Don Guido ed altri già
esistenti in Italia, sono stati fondati nell'Europa occidentale per
offrire a tanti orfani di guerra abbandonati la possibilità
di rifarsi una vita. Uno dei più grandi di questi villaggi
porta il nome di Pestalozzi e fu costruito a Trogen, in Svizzera,
da 600 giovani svizzeri che dedicarono alla sua costruzione le vacanze
e il tempo libero.
Nel luglio scorso, il Consiglio Sociale ed Economico dell'ONU convocò
una conferenza di educatori e di personalità religiose al Villaggio
Pestalozzi, per discutere sui Villaggi del Fanciullo europei. Venne
stabilito un programma per la preparazione di istitutori, e fu organizzato
uno scambio di istitutori e di ragazzi tra i vari villaggi. Altri
villaggi verranno ancora creati man mano che saranno disponibili nuovi
fondi e istitutori debitamente preparati.
George Kent
"Il Meglio di Selezione" - 1 aprile 1952
LE GIORNATE LANCIANESI DI SANGUE E DI GLORIA
Le giornate di rivolta e di sangue nella versione di
uno scrittore partigiano contemporaneo: Federico Mola.
Da “La Fiamma” del 6 ottobre 1944.
La preparazione
Venti anni di fascismo non erano valsi a soffocare
lo spirito di indomita fierezza, di civile dignità del popolo
lancianese. Tiranneggiata, vessata, mutilata nei suoi uffici amministrativi,
umiliata nello sconoscimento dei suoi più sacrosanti diritti,
tradita da una cricca locale asservita nelle comuni losche imprese
utilitarie alle gerarchie provinciali, Lanciano ha sofferto e taciuto,
perché sapeva bene che ogni sua parola di protesta, che ogni
suo legittimo riconoscimento non avrebbe trovato eco nelle superiori
consorterie fasciste.
Eppure nei primi decenni del secolo XX, fino all'avvento del nefasto
regime, Lanciano aveva segnato una delle sue più meravigliose
pagine della storia del suo sviluppo edilizio ed industriale, per
solo merito dei suoi figli e di amministratori integerrimi, non usi
e non capaci, oltre a non piegar la schiena alle prepotenze ascendenti,
a sporcare le mani nella greppia del pubblico potere e a trasformarla
in privata cuccagna.
Col regime fascista si è iniziata la paralisi progressiva di
ogni attività cittadina. E questo centro di esuberanti attività
di pensiero e di opere, questa roccaforte tradizionale del più
generoso patriottismo che agli albori del Risorgimento aveva dato
alla causa della libertà e della Indipendenza Nazionale due
migliori dei suoi figli - Antonio Madonna e Carlo De Berardinis -
i quali al comando del conte Ettore Carafa difesero la fortezza di
Pescara, tenace come quella di Vigliena contro le orde dei Sanfedisti,
fu ridotta e abbassata alle condizioni di un borgo feudale.
Questa lunga e penosa situazione non poteva non determinare una correzione
di sorda ostilità e di tenace spirito antifascista, specie
tra le classi lavoratrici che erano le più direttamente e brutalmente
colpite dallo sgoverno fascista.
La guerra impopolare dichiarata alle Nazioni che sempre hanno sventolato
il vessillo della libertà, che hanno aperto sempre le braccia
ospitali e protettrici ai nostri perseguitati politici, da Mazzini
a Gabriele Rossetti, da Amilcare Cipriani a Carlo Rosselli, i raccapriccianti
racconti dei reduci che riferivano fatti orrendi circa le crudeltà
perpetrate dai tedeschi sui nostri soldati loro commilitoni e alleati,
le sfacciate menzogne con cui il vandalico capo e tribuno del fascismo
tentava di mascherare la nostra assoluta impreparazione bellica e
le disoneste speculazioni compiute col sangue e sulla vita dei combattenti
dalle alte autorità del governo, la serie degl'insuccessi che
questi fatti venivano a dimostrare palesemente, la convinzione della
inutilità di una guerra così feroce e così sterminata,
voluta soltanto dall'ambizione e dalla libidine di guadagno di pochi
mestatori e di una banda di famelici fornitori, lo stato di inferiorità
umiliante in cui veniva a trovarsi l'Italia nei confronti della Germania
alleata, così formidabilmente organizzata ed armata per la
guerra di aggressione, alla quale la spingevano suoi particolari esclusivi
interessi, aggravarono la insofferenza dolorosa del popolo italiano
che si vedeva strappato al suo pacifico ed essenziale lavoro di esistenza,
per essere gettato inconsideratamente nella più cieca e paurosa
avventura gettato inconsideratamente nella più cieca e paurosa
avventura e nella voragine della distruzione e della morte.
L'organizzazione armata
Rivendichiamo a Lanciano l'onore nobilissimo di essere
stata la prima città ribelle del Mezzogiorno.
L'ardore di libertà che incendiò i petti di quella magnifica
aristocrazia di pensatori e di eroi della Repubblica partenopea, gloria
esclusivamente meridionale, ha divampato nuovamente nel seno del popolo
frentano, dai focolari aviti, ove con la fiamma del culto domestico
arde anche la lampada della religione dei padri.
Sul finire del settembre, dal palazzo del Municipio, veniva predicata
la leva, ma nonostante gli ordini draconiani trasmessi al pubblico
della piazza che ascoltava con beffardo contegno, nessuno si presentò
e gli uomini validi preferirono darsi alla macchia nelle zone del
contado o celarsi nelle soffitte e negli abbaini. I tedeschi indispettiti
si diedero alla caccia umana con scarsissimi risultati. I pochi catturati
risposero all'azione coercitiva con sordo sabotaggio, e con la resistenza
passiva per cui il lavoro a loro affidato si ridusse ad effetti effimeri.
Non bastando la caccia all'uomo. incominciarono le rapine in grande
stile. Si trattava di sfamare, vestire, arredare, fornire tutti gli
agi, appagare tutte le crescenti richieste di questi conclamati guerrieri
di professione, non sazi di comodità.
Infatti i comandi tedeschi venivano trasformati in regge sardapanalesche,
con arazzi, decorazioni, pitture, mobili di gran lusso, Le stesse
grotte, scavate per la difesa, risentivano di un lusso sibaritico.
Era questo lo spartano rigore del soldato tedesco!
Venne la volta dei commestibili. Tutto ciò che era stato preparato
provvidamente per alimentare le popolazioni durante l'inverno, farina,
grano, olio, zucchero, patate, miele, uova, venne razziato. Tutto
il ricco patrimonio zootecnico dei nostri contadini fu parimenti oggetto
di meticolosa e oculata rapina. Lanciano era diventata per i tedeschi
la favolosa Bengodi che Calandrino collocava “più in
là che Abruzzi”.
L'orgia carnascialesca durò per più settimane per i
lurchi nazisti, mentre la popolazione languiva privata di ogni risorsa.
Non era necessario che i tedeschi, venuti ad occupare Lanciano ai
primi di settembre 1943, commettessero queste rapine e violenze, per
determinare l'aperta ribellione che già ferveva latente e minacciava
di esplodere alla prima occasione.
Esisteva nella città un gruppo antifascista di intellettuali
e di operai collegati con le organizzazioni clandestine di Roma, Milano,
Bari ed altre città. Riunioni segrete si tenevano in casa Mola,
presenti l'avv. Guido De Giorgio, il rag. Claudio Caroselli, Alfredo
Bontempi, Giovanni Cocucci, Alfredo Croce, Pietro Pasquini, Achille
Castaldi, Fernando Mercadante, Giosuè Di Micoli, Vincenzo Sar
giacomo, Mario Bosco, Tommaso Miscia, Vittorio Siniscaldi, dott. Guerino
Fanci e Valerio Germino.
Successivamente si organizzava un altro gruppo fra internati, ex combattenti
e cittadini. Le riunioni di questo nuovo gruppo avvenivano nel sindacato
fascista degli agricoltori dove. venivano depositate le armi e munizioni.
Anima del movimento erano Americo Di Menno, il dott. Carlo Schonheim
e il Sig Avvento Montesano. Quivi i giovani nelle silenziose assemblee
notturne fremevano anelanti a scontrarsi con gli odiati tedeschi.
Tra le due organizzazioni si stabilirono contatti per una azione simultanea
e comune mirante ad uno stesso intendimento, cioè il sabotaggio
ai tedeschi, la guerriglia tempestivamente scatenata, su un piano
accuratamente studiato, che dovesse impedire ai tedeschi di esercitare
rappresaglie e di sfogarsi sulla popolazione inerme. Ma un incidente
di piazza, e l'impazienza dei cittadini, determinarono trecento giovani,
capitanati dall'avv. Saverio Basciano, a recarsi alla caserma dei
carabinieri per reclamare la consegna delle armi, e la protesta del
generale Ginesio Mercadante contro i tedeschi che saccheggiavano i
negozi, precipitarono gli eventi, impedendo così l'attuazione
dei piani metodicamente stabiliti.
Febbrile ricerca delle armi
Per la lotta dichiarata occorrevano le armi, molte
armi. Quelle in possesso del Comitato d'Azione e dell'organizzazione
del Di Menno erano poche ed inadeguate allo scopo.
I giovani ne acquistarono per proprio conto, pagandole a prezzi esagerati,
ma non bastano. Di Menno, il dott. Schbnheim, ildott. Fanci escogitano
i mezzi per ottenere armi e munizioni dal comando della milizia fascista.
Il comando promette, traccheggia, oscilla, oppone difficoltà,
lascia correre tempo in attesa di chissà quale evento.
Gli indugi vengono rotti con un colpo di mano notturno capeggiato
da Di Rocco Edoardo e le armi vengono asportate dalla sede del comando
dei militi. Anche i carabinieri e il comando delle Guardie di Finanza
consegnano le armi, ma spontaneamente, con entusiasmo.
Anzi saranno i carabinieri Giuseppe Nanei e Eri Morelli che si distingueranno
brillantemente tra i migliori combattenti del 6 ottobre.
Mattina del 6 ottobre 1943: pattuglie tedesche scendono
verso Piazza Malvò. (La foto è stata eccezionalmente
scattata dal partigiano F.Paolo Caponera da dietro i vetri di una
finestra della sua casa in Via Umberti I)
Rosseggiano le prime fiamme
Il quattro ottobre un fucile mitragliatore veniva
involato ai tedeschi in piena luce del giorno e portato in seno al
comitato in casa Mola. Era il primo sintomo della battaglia. Lanciano,
inconscia di quanto sta per accadere, lungi dal pensare che le sue
piazze e le sue vie sono per essere teatro di una spaventosa battaglia,
continua nella sua ordinaria vita e nella sua abituale attività.
Tardi i tedeschi si accorgono dell'arma sottratta dall'audacia di
un ragazzo quindicenne e minacciano rappresaglie senza effettuarle,
perché l'arma viene riconsegnata ai Carabinieri incaricati
della ricerca. Tranquilla scende sulla città e sulle cose la
sera del cinque.
Tutto sembra immemore della guerra e del lurco invasore che gavazza
e sghignazza alle nostre mense, calpesta il nostro suolo con piede
profano.
Pure e dolci palpitano le prime stelle nel diffuso abisso della sera
fruscianti di misteriosi richiami, di voci indistinte che suscitano
la melodia della sospirata pace.
Ma d'improvviso la scena idilliaca si tinge di foschi colori. S'ode
un crepitar di moschetti, un fragore assordante di bombe da lancio.
Divampano mille chiazze di fiamma tra la ramaglia verde che infosca
la zona orientale. S'alzano nel cielo crepuscolare, trepido di pallore,
enormi colonne di fumo bluastro che tutto avvolge in un'atmosfera
di terrore e di orrore. Tra il fumo e il fuoco, i campanili e le case
sembrano le meschite dantesche di una Dite balzata subitaneamente,
per virtù diabolica, da una voragine abissale.
Nella foschia della sera, si effondono, con guizzi e riflessi da tregenda,
i globi di fiamme, di fumo, di faville, dai tre auto-mezzi tedeschi
che un manipolo di giovani ribelli, rotta ogni consegna, hanno assalito
e catturato, fugando i conduttori e i soldati di scorta.
Per tutta la notte, fino alle prime ore del mattino, gli scoppi delle
bombe a mano si alternano col rabbioso stridio della mitraglia e con
i secchi colpi dei moschetti che esplodono ad intermittenza dagli
sbocchi di ogni via, da ogni andito oscuro, da ogni agguato improvvisato,
di cui l'odio e il furore ha fatto, per il nemico, una paurosa trincea,
una minaccia oscura ed invisibile che piomba impensatamente, che fuga
ed uccide. E' la vigilia della battaglia.
Giornata di sangue e di morte
Anche l'alba del sei ottobre si annuncia serena e
luminosa, nonostante gli avvenimenti della notte precedente.
Tutto è tornato momentaneamente calmo; nessun indizio di quello
che sarà per accadere, se non l'apparizione alla periferia
della città di qualche giovanetto armato di moschetto legato
da una corda, qualcuno col capo coperto da un elmetto di guerra che
si aggira isolatamente qua e là, senza dar sospetto di qualche
colpo di mano prestabilito da compiere.
Mattina del 6 ottobre 1943: gruppi di partigiani in
Via Umberto I (foto di F.Paolo Caponera).
Verso le nove, un nucleo di armati di fucili, di
moschetti, di pistole, di bombe a mano (anche una vecchia mitragliatrice
fa la sua fantasmagorica apparizione come la famigerata colubrina
tolta a Talamone da Garibaldi), si dirige verso il comando della milizia
per requisire nuove armi, dopo quelle tolte con un precedente colpo
di mano. Ma dalla milizia una spia fascista telefona al comando tedesco
stanziato a Marcianese, nel villino Paolucci. Vari automezzi di soldati
in assetto di guerra si precipitano dal Viale Cappuccini verso la
caserma da cui per prima i patrioti aprono il fuoco. Il largo S. Chiara,
la via dell'Asilo, le torri Montanare, le adiacenze dello stabilimento
dei tabacchi diventano i focolari accesi del combattimento che si
svolge accanitamente ed ininterrotto fin nel tardo pomeriggio.
Mirabile è il contegno dei giovani che, a petto scoperto, affrontano
gli automezzi e le autoblinde che brulicano nei vari punti della città,
che crescono sempre di numero ma non riescono a snidare i guerrieri
adolescenti dai loro baluardi e dai loro improvvisati trinceramenti.
Sono i patrioti che attaccano sempre per primi che rispondono con
beffardo contegno ai colpi dei cannoni anticarro, alle spesse raffiche
della mitraglia ed alla pioggia di bombe a mano dei tedeschi. La cannonata.
si accanisce contro le case, adunghia coi suoi proiettili i formidabili
bastioni della vecchia Lanciano medioevale memori di altre tragiche
lotte comunali, spazza le vie, dove anche qualche pacifico cittadino,
che si affretta a rifugiarsi in casa, trova la morte. La cerchia della
battaglia si allarga a tutta la città.
L'olocausto
Sulla via Marconi dove i tedeschi sono tenuti in
iscacco per oltre un'ora, cade ucciso lo studente quindicenne Nicola
Trozzi di Gaetano, fuggito di casa, come gli imberbi volontari del
'48 e immolatosi primissimo, simbolo di promettente giovinezza. In
un gesto di spensierato ardimento e di olocaustica devozione, cade
Remo Falcone, un bollente marinaio vero garibaldino del mare, che
ha combattuto in piedi, manovrando febbrilmente un fucile mitragliatore.
Cade colpito a morte e, incurante di sé, esorta i compagni
a raccogliere l'arma preziosa, perché non vada nelle mani dei
tedeschi.
Nei pressi della Caserma dei Carabinieri il diciassettenne Guido Rosato
viene catturato dai tedeschi, sorpreso con le armi alla mano e fucilato.
E' un'altra giovinezza stroncata dal criminale furore dei barbari.
Una donna nascosta nelle vicinanze racconta di aver udito il Rosato
gridare ai tedeschi, mentre cadeva: “ Assassini, viva l'Italia
libera! ” Quanto diverso e quanto più generoso e nobile
il contegno dei tre giovani patrioti che catturano. nei pressi della
stazione, un camion che portava due tedeschi e dopo una violenta scaramuccia
li costringono ad arrendersi in seguito a ferite riportate.
Il vero patriottismo non conosce la viltà.
Rocco Stella ed fratelli Renato e Camillo Caporale, figli del popolo,
figli della scuola, sanno che il sentimento dell'umanità non
deve mai venir meno anche in mezzo alla mischia più micidiale.
E i due prigionieri vengono premurosamente accompagnati dopo aver
ceduto le armi, al vicino Ospedale Civico.
Ed ecco una nuova antitesi. In piazza Garibaldi il giovanetto Vincenzo
Bianco che si contorce a terra per le ferite gravi riportate e invoca
un sorso d'acqua per le fauci riarse, viene finito a colpi di rivoltella
da un maramaldo tedesco. Presso di lui cade colpito a morte il ragioniere
Calabrò Giovanni accorso generosamente a soccorrere il ferito.
Triste destino. Egli, venuto dalla generosa Calabria, profugo e fuggiasco,
a chiedere ospitalità alla gentile Lanciano, era stato con
noi quella sera innanzi insieme alla giovine consorte, anch'essa scampata
alle rappresaglie tedesche, e ci aveva narrato con orrore gli eccessi
commessi dai novelli Unni nell'Italia del Mezzogiorno.
Nella nuda stanza dell'Ospedale Civico la sposa diciannovenne invano
aspetterà il padre del bambino nascituro.
Gli episodi di efferatezza ed infamia che disonorano, non che un soldato,
ogni popolo civile, ed abbassa l'uomo alla mentalità ed al
costume più bestialmente selvaggio, si susseguono, s'incalzano.
Mai la faida comunale, mai il fanatismo religioso, mai la satiriasi
criminale ha segnato pagine di nefandezza peggiore. Pare che la natura
stessa, pare che i segni misteriosi delle cose si levino a protestare
e a maledire.
Nel larghetto Malvò, dove una miracolosa circostanza sottrae
al plotone di esecuzione improvvisato una trentina di cittadini, Pierino
Sammaciccia cade supino nel proprio sangue.
Rimosso il cadavere, dopo qualche giorno, rimase per lungo tempo incancellata
l' impronta nell' atto spasmodico della estrema agonia.
La pietà cittadina, sotto gli occhi stessi dei tedeschi, copri
di fiori la traccia sanguinosa che nemmeno la pioggia era riuscita
a far sparire.
All'imboccatura di porta S. Chiara il ventottenne Trentino La Barba,
fatto prigioniero, veniva crudelmente legato ad un albero torturato
nella persona e, con neroniana ferocia, sottoposto al supplizio della
estirpazione degli occhi con le punte delle baionette quindi tra gli
urli strazianti della vittima che laceravano l'aria di quella sanguigna
tragica sera, fucilato e abbandonato sulla via. Come ad Antonio Sciesa
i tedeschi dell'Austria, così a Trentino La Barba i tedeschi
di Hitler promettevano salva la vita se avesse denunziato i compagni.
Ma il giovane eroe di Lanciano ha preferito tacere e morire come l'eroico
tappezziere milanese.
O cannibali di Sciara-Sciat, voi siete riabilitati al cospetto della
civiltà nazista!
Il turbine di morte investe anche la fiorente giovinezza di Marsilio
Giuseppe che insieme al fratello Nino, rinnova la virtù guerriera
e la carità patria dei Dandolo e dei Bronzetti, al pari dei
due fratelli Vincenzo e Mario Bianco.
Il giovane Giuseppe Marsilio, nel triste presentimento del suo imminente
sacrificio per la causa della Patria, ha preso quella mattina stessa
la comunione. E, puro nell'anima e nel corpo virgineo, muove, pieno
di fede e di coraggio, all'estremo passo.
Cadono come agili veliti che assaltano e abilmente si ritraggono,
e poi tornano ostinatamente o ferocemente ad assalire con impari armi,
in uno sforzo di volontà che trasumana la sostanza caduca e
fragile della carne, e di ogni nome, di ogni persona fa una nota di
epopea, Adamo Giangiulio, Raffaele Stella, Giuseppe Castiglione e
Achille Cuonzo, generoso plebeo, assurto per la magnificenza del prodigio,
alla più nobile civile aristocrazia.
Ancora sangue e furore. Ed i feriti ed i morenti, incontro ai
giovinetti floridi, del dolore fecero un riso non umano.
Non meno degno dei morti sono i feriti, molti dei
quali, nonostante l'assenza delle medicature, fasciano con uno straccio
il sangue zampillante e tornano a combattere, come se una potenza
misteriosa e sovrumana moltiplicasse la loro vitalità e le
loro sempre rinascenti energie.
Carlo Schonheim, un valoroso dottore internato a Lanciano, Camillo
Cipollone, Vito Altobello, Francesco Di Florio, Donato Giancristofaro,
sono fra i più ostinati a rimanere sulla linea di combattimento,
come inebriati dallo stesso sangue che macchia e contrassegna le loro
persone, rendendole più riconoscibili alla caccia spietata
del tedesco imbaldanzito dalle truppe ausiliarie che affluiscono dalle
vicinanze.
Arrivano anche i cannoni da campagna che fanno delle case più
vicine il loro sicuro bersaglio.
Ma dalle case il coraggio civile risponde all'oltraggio tedesco. La
morte e la minaccia non atterriscono i cittadini.
Un frate francescano Padre Osvaldo Lemme in cui rivive la rara virtù
di carità umana del Maestro, e che fin dalle prime ore del
mattino è accorso a prestare la sua religiosa funzione, salva
molte case dall'eccidio e dalla rapina. La Croce di Cristo ammanzisce
la ferocia della croce uncinata.
La battaglia continua. Cadono anche i civili come il maresciallo di
Finanza Gilberto Cicchitti, sessantaquattrenne, falciato dalla mitraglia
e la signora Dora Manzitti, sulla cui morte ancora un cupo mistero
si stringe, se la morte sia provenuta da arma tedesca o da quella
di qualche rinnegato italiano. Cade il mutilato di guerra Leopoldo
Salerno, cuore nobile e generoso che, per essersi esposto troppo,
mentre agitava il moncherino facendo segno ai familiari di ritirarsi,
viene crivellato dalla mitraglia.
Mattina del 6 ottobre 1943: Partigiani in via Umberto
I.
Ormai Lanciano è tutta ardente Altare di
sacrificio alla causa della Libertà. La morte appare un giuoco
terribile e bello in cui cogli adolescenti dal volto senza pallore,
si mescolano i bambini che sotto le raffiche dei fucili mitragliatori
portano le munizioni ai combattenti. Sembra che riviva una pagina
palpitante delle gesta delle cinque giornate, dei prodigi di Venezia,
di Brescia, di Roma Repubblicana del '49. Anche le donne accorrono
a portare soccorso ad incitare i combattenti le cui fila non si assottigliano,
a recare vettovaglie, armi e proiettili.
Sotto la incalzante e sempre preponderante forza nemica i manipoli
brevi e feroci ripiegano palmo a palmo fino a Via Roma ove la mischia
si riaccanisce titanica e dove da ogni angolo, da ogni finestra, da
ogni tetto l'odio e la volontà invitta degli improvvisati guerrieri
fa un'arma di prodigio che sbalordisce perfino il nemico e lo rende
meno efferato per l'ammirazione di tanto impensato valore.
Gli studenti ventenni Pierino Mammarella e Mario Bosco vengono feriti,
e inseguiti dalle pattuglie tedesche trovano rifugio nella casa della
famiglia De Rosa che li cura e conforta. Sopraggiungono i tedeschi
per l'opera di rastrellamento nelle case. I feriti vengono trasbordati,
attraverso i tetti, in una casa vicina. La maestra Rachele Nardone,
abitante della casa, sottrae ancora una volta alla investigazione
tedesca il ferito più grave Pierino Mammarella, e riesce a
metterlo in salvo, passando coraggiosamente tra due ali di nemici
armati. Altrove altri feriti: Marino Domenico, Bianco Mario, Gaspare
Giuseppe, Battistella Antonio, Catignani Pietro, Pantaleone Giuseppe,
Chiusi Tommaso e Fanci Filippo. Essi pare che non si accorgono del
sangue né di trovarsi di fronte al micidiale pericolo. Una
giovialità serena lampeggia nei loro sguardi e nella esplosione
intermittente dei loro moschetti ormai quasi privi di munizioni.
Sul calar della sera tacciono gli ultimi colpi dei patrioti. Per le
vie della città, ormai ridotte al silenzio, passano, rientrano
di soppiatto, alcune famiglie deportate ed alcuni cittadini isolati
che erano stati trattenuti come ostaggi, come l'avv. Giovanni De Martinis,
Francesco Masciangelo, l'avv. Giuseppe Rossi, il notaio C. Mariani,
l'avv. Goffredo Carabba.
Non rientra il maresciallo dei Carabinieri Buongiorno malmenato e
deportato nell'aquilano.
Corso Umberto I: pomeriggio del 6 ottobre 1943 (foto
di F.Paolo Caponera).
Incendi e saccheggi. Nella fumèa del vespro
erano ovunque ruina e la morte. Ma chi morì, morì vittorioso.
Sfogata la sadica rabbia sui feriti e sui moribondi,
padroni ormai della città muta e deserta, le bande tedesche
si accaniscono immunemente sugli edifici privati e sulla splendida
teoria dei negozi dei Portici.
La macabra compagnia di guastatori, chiamata d'urgenza, semina ovunque
la distruzione sistematica, con la mentalità di quei feroci
germani che il nostro Tacito descrive.
Le saracinesche delle varie botteghe e dei magazzini vengono scassinate
con bombe e con grimaldelli. I tedeschi si gettano all'arrembaggio
della rapina. Le vie più saccheggiate sono: corso Trento e
Trieste, corso Roma, via Luigi De Crecchio, piazza Garibaldi, largo
S. Chiara. Dove non arriva abbastanza la rapina interviene decisa
e fulminea la bomba incendiaria. Le case arse e squarciate, sembrano
infernali che imprechino alla perfidia di un Dio mostruoso e crudele.
Corso Trento e Trieste: i portici comunali qualche
giorno dopo la rappresaglia (foto di F.Paolo Caponera).
Nei pressi di S. Chiara, arde, come un smisurata
torcia a vento, l'antico ed importante mulino Carabba che costituiva
uno degli stabilimenti più vitale per la città. Attraverso
il fumo, le fiamme e le faville si contorcono le sbarre, le leve del
macchinario come braccia spasmodicamente divincolantisi da una stretta
mortale. La potenza elevatissima delle sostanze infiammabili riesce
a liquefare perfino i blocchi d'acciaio. E' una prima paurosa visione
d'inferno offerta alla città.
Il corso Trento e Trieste, pulsante arteria di fervore di vita e di
attività commerciale, è converso in una stigia fiammea
riviera assordata dal crollo delle volte dei portici, dal crepitio
dei vetri, dal tonfo dei calcinacci che mescolano la loro polvere
arsiccia al fumo e alla fiamma. Il cielo si arrossa tragicamente.
Dai contadi, dalle case villerecce, dove la popolazione terrorizzata
si è rifugiata, cercando scampo nella fuga, migliaia di volti
pallidi e spettrali, assistono a questa scena neroniana. Quando alle
prime luci dell'alba, l'incendio ha finito col divorare ogni cosa,
appaiono gli edifici corrosi e anneriti, simili a una processione
di scheletri.
Ma il bilancio tedesco della giornata assomma ad oltre 50 morti, fatti
sparire rapidamente sugli automezzi.
Pietà della natura
Più benigna degli uomini, la natura si inchina
davanti alla purità del giovanile sacrificio e deterge, con
le sue lacrime materne, col suo silenzioso pianto, le piaghe e il
sangue.
Tra le foglie morte e i cadaveri insepolti, la pioggia scende lenta
e insistente, dolce e silenziosa...
Sunt lacrimae rerum!.
Chi oserà raccogliere sulle braccia della pietà materna
quelle salme care? Lontano, nelle case orbate e deserte il grido dell'amore
disperato è soffocato e compresso dalla draconiana ordinanza
del crudo comandante tedesco vietante la rimozione dei cadaversi,
perché restino di ammonimento agli audaci.
La notizia macabra si diffonde, corre per tutte le contrade. Un senso
di universale compianto sale verso la città martire, verso
la città eroica, verso la città che col suo primo olocausto
ha lavato l'onta delle altrui viltà. Tre giorni dopo cessa
il bando efferato e la carità francescana dei frati di S. Angelo
della Pace, insieme a pietosi cittadini, solleva dal fango le spoglie
martoriate.
Sotto la domestica ombra dei cipressi, ove tutto parla di bontà
e di mitezza, ove è vano ogni rumore del mondo, “dove
fortuna finalmente cessi dalle vendette”, troveranno i morti
eroi quel riposo che la irrequieta giovinezza e la fatalità
delle umane vicende ha loro negato.
Essi non sono cari soltanto a noi Lancianesi. Essi hanno benemeritato
dalla città e dalla Patria. Essi costituiscono il nostro più
legittimo orgoglio.
Sono i nostri maestri in quanto han fatto scuola ai provetti e ai
maturi che la vita, la quale è un sublime dono di Dio, può
e deve essere immolata solamente quando c'è una causa nobile
e grande da difendere, c'è la causa della liberta che è
la più nobile e grande.
Dalla morte alla vita
Le telefoniste aggiungevano alla beffa lo istruzionismo,
intricando le comunicazioni e abbandonando in più l'ufficio.
Quando, dopo le tragiche giornate, gli occupatori esosi affissero
nuovi manifesti e nuove ordinanze, i cittadini li stracciarono tra
sghignazzate e commenti.
E fu d'uopo ricorrere al medievale banditore, cacciato innanzi dai
gendarmi armati di fucile mitragliatore. Ma il buon Ettore Pozzi,
il redivivo Antonio Pucci campanaro e poeta, travestì di facezie
locali e di beffe salaci, espresse nel vivo gergo del popolo, gli
ordini che era costretto a predicare.
Così tra le lacrime e tra le risa beffatrici, ultima arma della
nostra vendetta, si preparava e si attendeva la liberazione della
Città eroica.
Federico Mola
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