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TESTIMONIANZE

 

MESSAGGIO AGLI ITALIANI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ANTONIO SEGNI - Capodanno 1964

Pur nel suo fervore operoso, la nazione italiana non ha dimenticato di onorare, nel ventennale della Resistenza, tutti coloro che fermamente credettero nella rinascita della patria - unita, libera e democratica - dagli errori e dalle rovine di una guerra non voluta e non sentita dal popolo, ma pur affrontata con coraggio ed eroismo, e di riaffermare i valori perenni che ispirarono e sostennero l’azione di questa rinascita. Il sacrificio di Boves, quello di Lanciano, i fatti d’armi di Montelugo sono, fra i tanti episodi gloriosi, una testimonianza fulgida e duratura dell’intensa spiritualità e del tenace amor di patria che hanno armato la mano e infiammato gli spiriti generosi di coloro che combatterono per il riscatto dell’Italia.

ANTONIO SEGNI


XX Anniversario della Rivolta. Il Presidente della Repubblica, Antonio Segni, l'On. Mariano Rumor, il sindaco della città, prof. F.Paolo Giancristofaro, e il sen. Giuseppe Spataro.

IL SENATO DELLA REPUBBLICA

Il Senato della Repubblica ha commemorato nella seduta pomeridiana del 3 ottobre 1963 il XX Anniversario dell'Insurrezione Lancianese contro i tedeschi.

Resoconto sommario

SPATARO. Rievocando la rivolta di Lanciano contro i tedeschi, ricorda che nel settembre 1943 i tedeschi commisero a Lanciano ogni genere dl soprusi e di violenze. Il 5 ottobre si ebbe il primo scontro armato tra partigiani e tedeschi in seguito al quale questi ultimi sottoposero un partigiano catturato alle più inumane torture, affinché la popolazione vedesse a quali conseguenze sarebbero andati incontro i ribelli. Ma la ferocia dimostrata dai tedeschi non raggiunse lo scopo di far desistere la popolazione dalla lotta: divampò invece quell'aperta rivolta che è ormai consacrata alla storia patria come la «rivolta lancianese». Ai combattimenti, nei quali trovarono la morte molti cittadini e ancor più numerosi tedeschi, parteciparono molti giovanissimi studenti ed operai; e alla rievocazione di quei giovani caduti, associa il ricordo del sacrificio di Bernardino Zelioli, figlio del Vice Presidente del Senato, caduto sotto il piombo tedesco all'età di diciotto anni.
Per vendicarsi nei confronti della città che aveva dimostrato un così strenuo spirito di ribellione i tedeschi, anche dopo la liberazione di Lanciano, la sottoposero a violenti bombardamenti, fino al giugno del 1944, uccidendo molte persone e distruggendo la ferrovia, tutte le industrie e molti edifici.
A Lanciano, medaglia d'oro al valor militare, vada l'omaggio del Senato, con l'auspicio che i valori di libertà e di giu stizia per i quali tanto generoso sangue è stato versato siano sempre vivi nei cuori degli Italiani.
Di PAOLANTONIO. Afferma che gli episodi di eroismo del popolo di Lanciano sono una pagina indimenticabile per l'Abruzzo, che ha dato duecentoquarantasei caduti partigiani alla guerra di Liberazione.
A nome del Gruppo comunista, rende omaggio a quanti hanno fatto sacrificio di se stessi per cancellare la vergogna fascista e restituire l'italia alla libertà e alla democrazia.
MORABITO. Si associa, a nome del Gruppo socialista, alle nobili parole pronunciate dai senatori Spataro e Di Paolantonio, eprimendo l'augurio che il ricordo del sacrificio dei martiri della Resistenza possa rafforzare gli ideali patriottici, nel loro significato più vero e più nobile.
MARTINELLI. Ministro delle Finanze. Si associa, a nome del Governo, alla celebrazione del ventesimo anniversario dell'insurrezione di Lanciano, che, con l'eroismo dei suoi figli, ha dato un indimenticabile contributo alla lotta per la riconquista delle libertà democratiche.
PRESIDENTE. Afferma anzitutto che il Senato non può che essere lieto che, nel ventennale della Resistenza, tutto il Paese ricordi gli avvenimenti più gloriosi della storia recente d'Italia, quale quello dell'insurrezione di Lanciano.
La terra d'Abruzzo ha dato un grande contributo di valore e di sangue a tutte le guerre del Risorgimento ed alla guerra del 1915-1918. Ai ricordi di quelle gloriose gesta si unisce la memoria dell'eroismo del popolo di Lanciano. Il Senato non può che provare commozione allorché si rievocano gli eroismi dei cittadini amanti del loro Paese e della libertà e perciò, commemora oggi con pensiero commosso i caduti dl Lanciano, che hanno dato un valido contributo alla liberazione dell'Abruzzo e di tutta l'Italia.

 

LA PRIMA APERTA RIBELLIONE DEGLI ABRUZZESI

Il 6 ottobre 1944 ebbi l'onore di rappresentare il nuovo Governo democratico alla celebrazione del primo anniversario della ardita e gloriosa rivolta lancianese e allo scoprimento della lapide commemorativa al Piazzale dei Martiri.
Esaltai il valore dei combattenti e la solidarietà dell'intera cittadinanza nella lotta contro i tedeschi e i loro sostenitori, resi omaggio agli eroici caduti e in quella occasione volli anche dire che la Patria doveva conferire la medaglia d'oro al valor militare alla città di Lanciano.
Il 25 settembre 1952, in rappresentanza del Governo, accompagnai il Presidente della Repubblica per la consegna della medaglia d'oro che Luigi Einaudi appuntò sul gonfalone comunale dl Lanciano.
Per il XX anniversario delle gesta dell'ottobre 1943 non dimenticate e non dimenticabili, Lanciano, alla presenza del Presidente della Repubblica Antonio Segni, si appresta a ricordare gli ideali dl indipendenza nazionale, di libertà e dl democrazia per i quali, dopo venti anni di dittatura, i Lancianesi - come migliaia di Italiani dl ogni regione - vollero insorgere, seppero coraggiosamente combattere ed anche generosamente morire.
Quegli ideali di allora sono gli ideali che ancora oggi devono trovare tutti uniti gli Italiani pensosi del bene della Patria e desiderosi del progresso del popolo nella libertà e nella pace.
«Rievocazioni e celebrazioni come quella di stamane hanno un valore sostanziale oltre quello formale consistente nella cerimonia che acquista una particolare solennità per la sua ambita presenza e per la quale al fervido ringraziamento del Sindaco aggiungo quello altrettanto fervido del Comitato delle onoranze ai martiri di Lanciano.
Il valore sostanziale sta nel benefico effetto che scaturisce nei sentimenti della collettività di fronte al ricordo delle sofferenze che furono della collettività.
Da una situazione drammatica che coinvolge una comunità nasce sempre uno spirito unitario che, col tempo, il ritorno alla normalità, naturalmente assopisce.
Ma l'assopimento non deve trasformarsi in oblio. Ecco perché certe date e certi eventi i popoli li consacrano alla storia, e bisogna ricordarli con solennità e con devozione; e bisogna rievocarne i particolari, anche se i nomi e gli episodi sono noti a tutti voi, Lancianesi, anziani, giovani e giovanissimi; noti a chi li ha vissuti e a chi li ha appresi per i racconti degli adulti.
Da questa città partì la prima aperta ribellione degli Abruzzesi che scrissero così le prime fulgide pagine della resistenza.
La data del 25 luglio era stata accolta qui come in ogni parte d'italia, con le più vive manifestazioni di gioia; e i cittadini, che nel breve periodo antecedente l'armistizio credevano fosse stata riconquistata per sempre la libertà, accolsero con animo fortemente ostile i tedeschi quando essi il 12 settembre occuparono Lanciano.
E cominciò subito la guerra fredda, fatta di ostruzionismo e di sabotaggio. A questa azione mano mano partecipava un numero sempre maggiore di cittadini dl ogni classe sociale, di ogni età, uniti con slancio generoso nella lotta contro l'oppressore.


XX Anniversario della Rivolta. L'On. Giuseppe Spataro rievoca il sacrificio dei Martiri ottobrini (foto Pallini).


I tedeschi, oltre a commettere ogni genere di sopraffazione e di soprusi, imponevano ai cittadini lavori per rifornire altri reparti dell'Esercito di generi alimentari, che asportavano dai magazzini. Ma l'organizzaione clandestina fu così bene preparata da diventare una resistenza sistematica e continua. Una squadra di guastatori si era specializzata nell'incendiare i camion e danneggiare le linee telefoniche militari.
I tedeschi disposero il coprifuoco ed il pattugliamento nell'interno della città e alla periferia. La popolazione però era ormai decisa ad agire e non si lasciò intimidire.
Oltre i 23 morti nei combattimenti del 5 e 6 ottobre, si ebbero più dl 500 morti civili; la Ferrovia Sangritana fu completamente distrutta, distrutto fu l'ospedale civile, distrutti furono gli stabilimenti industriali e distrutto fu anche l'edificio dove era stata la tipografia della Casa Editrice Carabba che vantava una nobile tradizione dl pubblicazioni di alta cultura; danngeggiati e distrutti furono 8540 vani.
Assai doloroso fu quindi il bilancio delle perdite umane e assai grave fu quello dei danni subiti da Lanciano e dai paesi del circondano.
Un devoto pensiero va rivolto alla memoria dell'Arcivescovo Mons. Pietro Tesauri, il quale con la sua fervida attività pastorale contribuì a lenire le sofferenze della popolazione e un sentimento di riconoscenza deve essere espresso per quelle Autorità che con dignità seppero rappresentare la città in quel difficile periodo.
Nelle campagne che furono occupate dai tedeschi è da segnalare il fiero comportamento dei contadini: moltissimi ex
combattenti della guerra nazionale 15-18, avevano un sentimento di avversione per le truppe tedesche e non solo non collaborarono ed evitarono il lavoro obbligatorio, ma riuscirono a fare con molta efficacia opera di sabotaggio. Quei coltivatori meritano una particolare segnalazione anche per il loro comportamento post-bellico. Nella zona di Lanciano tra il fiume Sangro ed il piccolo fiume Moro, la guerra combattuta ha sostato per circa 8 mesi.
I contadini hanno affrontato prima tutti i rischi della guerra che è passata su di loro; e nel riprendere poi il lavoro particolarmente pesante per le condizioni del terreno, hanno più volte pagato con la vita l'azione eseguita per lo sminamento.
Quando all'inizio dell'inverno del '43 gli alleati sospesero le loro azioni per l'avanzata, mentre i tedeschi cercavano di consolidare le loro posizioni, si formò la Brigata dei Patrioti della Majella, alla quale aderirono molti giovani di Lanciano, dei paesi vicini e di altre province abruzzesi.
La valorosa e gloriosa Brigata della Majella formata di 1500 volontari, al comando del Capitano Ettore Troilo, dette validissimo contributo dl azione e di sangue per la liberazione non solo dell'Abruzzo, ma anche delle regioni centro-settentrionali, combattendo fino ad Asiago nella primavera del 1945. Avanti a Lei, Signor Presidente, inviamo un deferente pensiero alla memoria dei 54 caduti, un saluto riconoscente al 131 feriti, dl cui 36 mutilati e ricordiamo le 15 medaglie d'argento, le 43 medaglie di bronzo e le 144 croci di guerra al valore militare assegnate ai Patrioti della Majella.

Signor Presidente,
Lanciano accolse con profonda commozione il riconoscimento della Patria per il suo comportamento e per il sacrificio di tanti suoi figli con la concessione della medaglia d'oro al valore militare che il Presidente Einaudi appuntò sul gonfalone comunale il 25 settembre 1952.
Successivamente in Abruzzo furono concesse la medaglia d'oro al valore civile alla città di Ortona a Mare e le medaglie d'argento alle città di Avezzano e dl Francavilla a Mare.
La sua auspicata visita, Signor Presidente, è considerata
come il più alto attestato dei sentimenti patriottici non solo di questa popolazione, ma di tutte le popolazioni abruzzesi che sono sempre fedeli, come quelle della sua nobile isola, alle migliori tradizioni di amor patrio, di fede religiosa, di disciplina e di sacrificio, in guerra e in pace, costituendo una sicura riserva morale in ogni contingenza difficile della vita della nazione.


Piazza Plebiscito: il glorioso gonfalone di Lanciano scortato da Carabinieri, Vigili Urbani e giovani.

Gli ideali di indipendenza della Patria, di libertà, di democrazia, di giustizia che splendevano agli occhi degli italiani nel momento del pericolo e del rischio, gli ideali per i quali tanti hanno volontariamente e generosamente immolato la propria vita, sono gli ideali che ancora oggi devono essere sempre presenti nell'azione di ciascun italiano, quale che sia il posto di lavoro e di responsabilità.
Il Ministro dell'Interno, On. Mariano Rumor, autorevole rappresentante del Governo in questa giornata memorabile per Lanciano, per la provincia di Chieti e per la regione, recentenmente, avanti al Parlamento, ha detto che lo Stato ideale al quale dobbiamo aspirare è ancora in fase di costruzione; lo Stato ideale cioè secondo i moderni e più giusti principi di una democrazia la più peffetta secondo le umane possibilità. Ebbene, la rievocazione della «Rivolta lancianese» la quale volle condannare i regimi di dittature, vana sarebbe se non fosse accampagnata oggi da parte nostra dalla ferma volontà di fare, più e meglio del passato, il nostro dovere per la realizzazione di quei supremi ideali che rappresentano il vero patrimonio dei più alti valori della resistenza; la piena libertà cioè di tutti i cittadini in un regime che si basi su saldi e stabili istituti democratici, in una comunità nazionale nella quale siano eliminati gli squilibri e le differenze ancora esistenti dando a tutti la possibilità del lavoro equamente compensato.
Noi non abbiamo dimenticato le condizioni dell'Abruzzo nel 1944; tutto vi era da ricostruire, dalle già deficienti comunicazioni stradali e ferroviarie alle abitazioni, alle aule scolastiche, agli ospedali.
Dopo la ricostruzione, dopo il traguardo di un primo miglioramento nelle condizioni dl lavoro e di vita, anche in Abruzzo si avverte la necessità che si continui - con passo anzi più celere - nella via del progresso, per dare un'istruzione professionale ai giovani, per assicurare ai volenterosi la possibilità di frequentare nella stessa regione scuole superiori ed universitarie, poiché è indispensabile trattenere in Abruzzo le nuove leve di giovani, preziose energie dl cui si ha bisogno per lo sviluppo industriale, agricolo e commerciale.
Ma l'auspicato progresso morale ed economico si realizza dov'è vera democrazia.
Collaborare perciò alla costruzione dello stato democratico ideale, cui ha fatto riferimento il Ministro Rumor nel suo discorso alla Camera, vuole essere e deve essere il nostro im­pegno, l'impegno che il popolo di Lanciano che ha sofferto, ha combattuto, ha sperato, l'impegno che le genti d'Abruzzo tanto provate dalla guerra e tanto trascurate dal precedente regime, assumono solennemente in nome dei caduti avanti a Lei Signor Presidente, per nuove luminose mete dl progresso civile e di sviluppo democratico dell'Italia.

Giuseppe SPATARO
Vice Presidente del Senato
Lanciano, 6 ottobre 1963 - Ventennale della Rivolta.


Telegramma del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, inviato il 27 settembre 1952, in occasione del conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Città di Lanciano.

 

GIORNO PER GIORNO
Dal diario di Bruno Bolaffio interprete presso il Comune

30 settembre 1943

Mi trovo nella mia camera d'albergo quando d'un tratto sento delle voci eccitatissime. Scendo e chiedo ad Attilio che cosa sta succedendo. Egli, pallidissimo, sta per chiudere la porta dell'albergo e mi assicura che 600 «guastatori» marciano su Lanciano per dinamitare ed eseguire delle rappresaglie. Ritengo impossibile che i guastatori si siano preannunciati e mi reco imniedìatamente sulla piazza, dove si vocifera persino, che alcuni di essi siano già arrivati. Scorgo però unicamente alcuni aviatori tedeschi con i loro fazzoletti da collo blu.
Tutti i negozi sono chiusi e ovunque regna un grande nervosismo. Probabilmente qualcuno ha sparso la voce ed i nervi della popolazione, già tanto scossi, hanno fatto il resto. Persino la sera, quando sto cenando, tutti sussultano nella sala da pranzo, ogni volta che passano davanti all'albergo alcuni camion pesanti.

1 ottobre 1943

Di buona mattina dei soldati hanno forzato il portone dl una fabbrica e vi sono penetrati, hanno perquisito tutti i locali e si sono poi ritirati portando via alcune piccole cose come ricordo.
Non molto lontano dalla fabbrica, davanti al grande impianto per la fermentazione del tabacco, si sono fermati parecchi camion tedeschi. Vengono febbrilmente caricate migliaia di balle. Questo certamente sarebbe stato evitato, se il tabacco fosse stato immagazzinato presso i contadini produttori e distribuito per tempo una parte alla popolazione.
Da mesi ormai a Lanciano e dintorni non si trova più nulla da fumare. Se non ci si fosse fidati della procedura burocratica, aspettando il nulla-osta del Prefetto, non si sarebbe arrivati a questo punto.
Alle 11 si sentono forti rumori di motori. Centinaia di fortezze volanti sorvolano Lanciano in direzione del mare Adriatico.
La sera arrivano altri camion tedeschi con un gran numero di soldati. Pare che si tratti di gruppi dispersi che girovagano nella regione e ne approfittano per riempire i loro camion vuoti.

2 ottobre 1943

Al mattino di buon'ora caricano già l'olio d'oliva sequestrato e approfittano dell'occasione per caricare pure 7.000 chili di grano dai depositi del Consorzio Agrario. Tutto ciò avviene a velocità febbrile mentre la popolazione disarmata non può che star li a guardare

3 ottobre 1943

Oggi regna una relativa calma. Verso mezzogiorno un gran numero di aerei sorvolano Lanciano e tutti per la strada stanno a guardare quegli «uccelli» grigio argento tanto pericolosi.
Poco dopo si cominciano a sentire per diverso tempo le detonazioni delle bombe lanciate nella campagna circostante la città.
Dopo un forte temporale, verso le undici di sera, si ver­fica un altro piccolo incidente quando del soldati tedeschi di passaggio cercano di entrare con la forza nell'albergo per prendervi alloggio. Attilio riesce, senza sapere nemmeno lui come e dopo lunga discussione, a farli desistere dal loro intento.

4 ottobre 1943

La mattina presto si sente un forte rumore di motori senza però scorgere gli aerei. Poco dopo si sentono per la prima volta spari di artiglieria che si protraggono per delle ore.
Nella mattina si ripete il saccheggio dei depositi di Lanciano. E la volta anche di alcuni negozi, soprattutto sul Corso Trento e Trieste. Tali violazioni da parte dei soldati armati fino ai denti. che arrivano in camion, penetrano nei negozi e si fanno consegnare della merce senza pagare, incominciano a diventare sempre più frequenti. Sembra proprio che si sia sparsa la voce che la città sia il luogo ideale per tali imprese da cavalieri predoni. E' chiaro che tutto ciò non contribuisce a calmare la popolazione.
Dei soldati tedeschi armati fino ai denti sono arrivati in camion ed hanno letteralmente vuotato un negozio di stoffe nel Corso Trento e Trieste. Dopo aver caricato l'ultima pezza alcuni di essi sono entrati nel negozio accanto, un ottico, ed erano in procinto di svaligiare anche questo. Nel negozio in quel momento era presente un generale italiano in pensione che fece qualche commento sul riprovevole comportamento dei militari.
I soldati, senza far tante storie, imbarcano il generale su una macchina e se lo portano via. Era troppo! Il generale, era persona già anziana che la popolazione teneva in gran rispetto. In un attimo si era radunata una grande folla che urlando aveva circondato i tedeschi.
Il resto dei soldati cerca di squagliarsela al più presto mentre la folla continua ad aumentare, urlante e furibonda e si mette poi in moto verso il Municipio, dove il Podestà accompagnato da alcuni consiglieri comunali, sta per scendere le scale essendo stato avvertito dell'accaduto. La folla forsennata si precipita sul Podestà e sul segretario Comunale e li bastona di santa ragione.
Gli animi eccitati si sono così sfogati sul Podestà e sul segretario comunale nella convinzione che la colpa di tutto ciò, sia del Podestà che non ha provveduto a sospendere arbitrariamente il tesseramento, distribuendo l'olio d'oliva, il grano ed il tabacco tra la popolazione, evitando così che tali generi cadessero in mano dei tedeschi.
Poco dopo la folla si calma anche se l'atmosfera rimane tesa perchè arrivano continuamente dei gruppi di tedeschi con i mitra spianati e si verificano altri saccheggi di depositi e negozi.
Per fortuna vengono riaccompagnati a Lanciano il generale, il Sindaco ed il segretario comunale che si erano recati al comando tedesco nella città vicina. Ognuno di essi si trova su una macchina tedesca sotto la scorta di quattro soldati armati.
Alle 5 il banditore passa nelle strade con la sua tromba ed annuncia che per la sera stessa era stato ordinato il coprifuoco a partire dalle ore 19.
Poco prima un ufficiale tedesco si era presentato al Sindaco, protestando e lagnandosi degli incidenti verificatisi la mattina; chiese un foglio di carta da lettera con l'intestazione del Comune di Lanciano sul quale scrisse il seguente ordine in lingua tedesca:

1) Entro le ore 15 dovevano essere consegnate tutte le armi, compresi i fucili da caccia, le armi della polizia e tutte le munizioni.
2) Ieri sera alle sette si era vista circolare ancora della gente. A decorrere da oggi sarà sparato su chiunque si troverà fuori dopo l'ora del coprifuoco. Tutti i negozi, i caffè e ri­storanti debbono chiudere alle 18,30.
3) Tutti i medicinali ed attrezzi, che necessitano al medico militare, vengono sequestrati e debbono essere consegnati in base alla sua scelta.
4) Gli oggetti che saranno scelti da militari della sussistenza e che questi riterranno necessari per la truppa, come orologi, apparecchi radio, materiale da cancelleria, ecc. vengono sequestrati e debbono quindi essere consegnati.
5) Le derrate alimentari scelte dal furiere quali piselli, fagioli, riso, ecc. necessarie al sostentamento delle truppe stazionate nei dintorni di Lanciano, devono essere consegnate.
6) Il Sindaco deve mettere a disposizione del personale qualificato, esperto di magazzinaggio della merce richiesta.
7) Le relative spese vanno a carico del Comune contro quietanza del posto militare che requisisce.

Verso le ore 18 arrivano improvvisamente al Circolo tre soldati tedeschi che chiedono energicamente di parlare con qualcuno che parli il francese. Informano l'interprete che mentre
essi stavano prendendo il gelato al Caffè Modernissimo dal loro camion militare stazionato davanti al Caffè era stato asportato un fucile mitragliatore. Se entro le ore 19 tale fucile mitragliatore non fosse stato restituito - essi aggiungono - avrebbero adottato delle rappresaglie. Poco dopo sentiamo il banditore comunale che con la sua tromba chiama a raccolta la gente in piazza. La folla, senza fiatare, ascolta l'intimazione. Dopo l'ultima parola la folla si mette gridare «bravo, bravo...».

5 ottobre 1943

Già alle nove del mattino si vede arrivare il capitano «olio» (così viene comunemente chiamato il capitano responsabile del sequestro dell'olio) scendere il corso facendo grandi gesti, sbattendo il suo frustino. Dietro di lui un po' discosti due ufficiali. Più indietro segue l'automobile del capitano ed un camion pieno di soldati armati fino ai denti con i mitra pronti, spianati contro la folla. Tale corteo si reca al Municipio probabilmente per ordinare altri sequestri.
Nella fabbrica di tessuti invece tutto sembra calmo a parte il fatto che poco prima è arrivata un'autoambulanza con tanto di croce rossa dalla quale, guidati da un sottufficiale, sono scesi otto soldati armati di mitra che chiedono di entrare nello stabilimento.
Siccome il portiere ora tiene sempre il portone aperto, essi non hanno bisogno di sfondarlo.
Dopo aver perquisito tutto il complesso si sono recati nella casa accanto. Quale preda del loro operato portano via tre fiaschi di vino. Poco dopo ripartono nella loro ambulanza.
Verso mezzogiorno ha avuto luogo un altro forte bombardamento nei dintorni e sentiamo fortissime detonazioni di artiglierie.
Pure oggi un gran numero di negozi è stato svaligiato. Inoltre dal deposito dei medicinali sono stati asportati dei medicinali di ogni genere malgrado che a Lanciano e dintorni le medicine scarseggiano.
L'ordine, scritto ieri in Municipio dall'ufficiale sembra essere considerato quale patente di franchigia per tali sequestri che
in tempi normali si chiamano saccheggi. E' quindi comprensibile che tale tensione a causa di tutti questi incidenti senza fine, abbia raggiunto il culmine.
Nel pomeriggio arriva un treno da Castei di Sangro, gravemente danneggiato. Era stato mitragliato da aerei americani. Si lamentano tre morti e circa una trentina di feriti.
Verso sera nuovo grande subbuglio. Ormai siamo in continuo stato di eccitazione. Ragazzi lancianesi «Patrioti» si sono armati ed hanno attaccato all'entrata della città due camion tedeschi. Uno dei camion è in fiamme, l'altro è rovesciato. Poco dopo arrivano altri camion con soldati e si sente una intensa sparatoria.
Dato l'imbrunire i tedeschi si ritirano. Mezz'ora più tardi si vede un gran bagliore: anche il secondo camion è in fiamme. Sembra che avesse caricato della polvere da sparo. Improvvisamente scorgiamo nel buio un soldato tedesco che corre, nervosissimo, urlando «porcheria, maledetta porcheria, dove stanno gli altri compagni? Due dei miei camerati sono feriti ai piedi». Corre giù per la strada in direzione dell'ospedale, mentre noi rimaniamo rinchiusi essendo passate le sette, ora del coprifuoco.
Le cose s'inaspriscono.

6 ottobre 1943

Sono quasi le tre e mezzo e il combattimento non accenna a perdere d'intensità. Quando finalmente esso si attenua arrivano carri armati e veicoli corazzati da ricognizione. Prendono degli ostaggi nella casa accanto. Le urla dei famigliari sono sconvolgenti.
Poco dopo i tedeschi cercano di penetrare nel garage del­l'albergo, il locale nel quale ci siamo rifugiati. Ci troviamo die­tro una grande catasta di legna per proteggerci. Con oggetti duri, i tedeschi cercano di sfondare la porta, ma dato che non ci riescono sparano col mitra. Crediamo già arrivata la nostra ultima ora. Le pallottle si conficcano nella catasta di legna, le schegge volano per aria, ma nessuna pallottola l'attraversa, e sembra quasi un miracolo che nessuno di noi sia stato ferito. I tedeschi pare abbiano improvvisamente cambiato idea pensando forse che nel garage non ci sia nessuno. Ad ogni modo se ne vanno. Le strade intorno all'albergo diventano più calme. La lotta si sposta in direzione dell'ospedale.
Cerco di raggiungere la mia camera dalla quale è più facile vedere che cosa succede per la strada. Tutto è ricoperto di calcinacci, di vetri rotti e nella mia camera d'angolo si vedono dappertutto i fori dei proiettili.
Siccome non si sentono più spari, guardo cautamente attraverso le veneziane della finestra. Sotto di me sull'incrocio, è appostato un cannone anticarro puntato verso il corso. Sulla strada non si vede anima viva quando all'improvviso in fondo al Corso appaiono due donne, che spingono una carrozzella a due ruote sulla quale è adagiato un ferito. Il soldato tedesco scatta. Le due donne, malgrado che la canna del cannone sia puntata nella loro direzione, continuano ad avanzare imperturbabili. Il soldato non tira anche se ha la mano posata sul grilletto. Sembra ipnotizzato. Quando le donne si sono avvicinate a circa dieci metri, una di esse, una ragazza, si dirige direttamente verso il soldato e gli dice «non sparare, mio fratello è ferito». Il soldato non capisce l'italiano e la ragazza gli da dei colpetti sulla spalla. Il soldato sembra impietrito dietro il suo cannone. La ragazza torna verso la carrozzella e, insieme alla madre, la spinge col ferito coperto di sangue verso l'ospedale.
In fondo al corso, vicino alla piazza, si alzano improvvisamente delle nuvole di fumo. Giù sul corso si trovano parecchie autoblinde e motociclette. Un negozio dopo l'altro viene scassato, le porte forzate e la merce in parte portata fuori. I tedeschi gettano poi nei negozi dei contenitori pieni di un liquido inflammabile, incendiandoli. Mentre alcuni buttano il liquido infiammabile in un negozio, altri s'impegnano a scassare le saracinesche di un negozio di musica. Poco dopo ne escono alcuni soldati con degli strumenti musicali. Uno suona «Lily Marlen», mentre un altro lancia un contenitore pieno di liquido infiammabile nel locale del negozio, che in pochi istanti è in preda alle fiamme.
Vedo il pericolo di essere bruciato vivo perché non passerà molto tempo che arriveranno anche all'albergo Palomba per incendiare anche quello. Sono fermamente deciso di fuggire
da questa trappola. Non prendo che un cappotto ed una giacca, abbandonando tutto il resto e lascio l'albergo dalla porta posteriore.
Trovo rifugio nella villa del dott. Armando Marciani, farmacista a Lanciano e cognato del dott. Jacovella. La madre del dottore mi viene incontro per chiedermi se non avessi visto suo figlio, già uscito di casa prima delle nove e non ancora rientrato. La povera donna era naturalmente preoccupatissima.
Lentamente si fa buio. Il chiarore degli incendi è visibile sopra Lanciano. Si distinguono in mezzo alle nuvole di fumo due focolari isolati. Alte colonne di fiamme s'alzano in direzione dl Viale Cappuccini. Sembra che sia in fiamme il mulino del grano.
Una massa di gente passa davanti a noi dirigendosi verso l'aperta campagna, trascinandosi dietro valigie, coperte e fagotti. Sconvolti, con le facce segnate dalla disperazione, coi loro bambini piangenti, questa povera gente cerca di salvare almeno qualcosa dalle sue case distrutte ed è ora in cerca di un rifugio. Ci si sente correre un brivido di freddo nella schiena nel vedere questo terribile spettacolo con lo sfondo di Lanciano in fiamme.
Sono ospite di casa Marciani. Che casa ospitale, che mer­viglioso senso della famiglia, quanta bontà regna tra queste mura.
Sono più che felice per aver trovato in giorni così duri e difficili della gente tanto buona alla quale va tutta la mia gratitudine senza limiti.

30 ottobre 1943

Anche oggi m'aspetta parecchio lavoro. Il Sindaco mi chiama e mi prega di recarmi immediatamente al calzifìcio Torrieri per evitare che siano sottratte illegalmente delle calze. Riesco a fermare i soldati nel loro intento. Più tardi debbo andare dal sottotenente medico tedesco per liberare un ferito di guerra, che con altri era stato preso per lavorare per I tedeschi. Riesco a liberare questo povero diavolo ed il sottotenente medico, un berlinese, mi tiene un discorso di mezz'ora in merito al cattivo stato di salute della popolazione.

31 ottobre 1943

Alle dieci il Podestà parlando al microfono dall'altoparlante installato sul Municipio informa la folla radunatasi sulla piazza che ieri sera gli è stato trasmesso l'ordine di sgombero per Lanciano senza che lui ne fosse stato prima interpellato.
Il Prefetto di Chieti ha ordinato l'evacuazione della citta di Lanciano e dei suoi dintorni. Egli però si rifiuta di dar seguito a tale ordine, tanto più che altre località situate al sud del fiume Sangro, non sono state evacuate, malgrado che si trovino nella zona d'operazioni. Egli deve prima mettersi in contatto con il Prefetto impegnandosi di tenere 'al corrente la popolazione di Lanciano di qualsiasi dettaglio, anche del più piccolo.
La gente è tutta disperata ed è in attesa di quello che succederà.
Nel pomeriggio, malgrado che sia domenica, si ordina al Sindaco di presentarsi al Comando militare tedesco '(Ortskom­mandantur) ed io debbo accompagnarlo in qualità di interprete. Il tenente Brannieder, comandante militare locale, venticinquenne, non sembra all'altezza del suo compito. Ha piuttosto l'aria di una donna isterica. Mi accorgo immediatamente che il Sindaco Di Jenno ed il tenente Braunieder per nulla si possono sopportare.
Il tenente avanza un sacco di richieste: apparecchi radio, pale, legna, carbone, filo metallico, il tutto beninteso contro biglietti di quietanza. Il colloquio è assai acceso ed io nella mia veste di interprete cerco di attenuare il tenore del linguaggio, delle due parti.

1 novembre 1943

Il Sindaco parla nuovamente al microfono facendo nascere una fievole speranza che l'ordine di evacuazione venga revocato. Egli vuole assolutamente recarsi a Chieti per discutere direttamente con il Prefetto.
Un promemoria viene preparato dal giudice Pasqualino, nel quale si fanno alcune proposte in merito ad uno sgombero parziale e si espongono le difficoltà esistenti per l'evacuazione, dato che mancano totalmente i mezzi di trasporto per portar via i
malati, i vecchi ed i bambini e che non sono stati previsti delle zone di accoglimento per gli sfollati. Sono io che debbo tradurre tale verbale in tedesco e debbo farlo all'ora del pasto, perché sembra che alle due il Sindaco troverà una possibilità di parlare con il generale comandante. Quando l'ing. Jurza torna tranquillamente dai pranzo esamina con pignoleria la mia traduzione cercandovi ad ogni costo qualche errore. Consulta più volte un dizionario e sembra quasi irritato di non trovare alcun errore nella traduzione. Detta traduzione l'ing. Jurza la presenta immediatamente al Sindaco, ma passa tutto il pomeriggio senza che al Sindaco si presenti l'occasione di parlare al generale.

2 novembre 1943

Il Sindaco ha saputo che ho tradotto il verbale ed alle nove mi fa chiamare al Comando militare tedesco poiché il Comandante gli aveva promesso una macchina per potersi recare a Chieti. Dobbiamo attendere davanti al Comando e passano delle ore. Alle 12 generosamente il «signor» Comandante militare mette a nostra disposizìone l'ultima macchina rimasta a Lanciano, una Fiat «Balilla» senza ruota di scorta, più adatta per un cimitero di macchine, che per un viaggio a Chieti. L'unico autoveicolo che si trova ancora a Lanciano e che dovrebbe servire per il medico condotto. Tutte le altre macchine sono state una dopo l'altra portate via di forza da unità militari di passaggio.
Siccome la macchina destinataci è senza benzina e perciò non può essere usata, dobbiamo recarci al Comando d'artiglieria dove, dopo lunghe trattative, ci viene promesso, che alle ore 13 ci avrebbero messo una macchina a disposizione. Alle 13.30 ci troviamo ancora piantati per la strada. Con noi c'è il sottufficiale Zimmermarin della Polizia tedesca che ci è stato assegnato e che ha l'ordine di accompagnarci. Finalmente arriva una macchina ma siccome un altro ufficiale ed un militare in congedo vi devono ugualmente prendere posto, nella macchina non c'è più posto per noi. Si sentono comandi a destra e a sinistra. F'inalmente il tenente Fischer si occupa personalmente della faccenda; va al comando locale e quando torna, da ordine
che si procuri immediatamente un'altra macchina e così alla fine partiamo alle tre in una piccola macchina militare a tre posti, tipo campestre, in sei per Chieti. Sommamente scomoda, con al volante un autista pazzo che ci conduce ad una velocità infernale fino a Chieti. Arriviamo a Chieti completamente esausti Per fortuna per la strada non abbiamo incontrato aerei e siamo ben felici quando abbiamo raggiunto la nostra meta. Solo dopo le 16 il Sindaco ha la possibilità di parlare con il Prefetto ed a noi tocca aspettare due ore e mezzo. Al ritorno il Sindaco ci racconta che nell'entrare nel salone del Prefetto aveva inciampato e caduto, e si era scusato, dicendo al Prefetto che anche se era caduto ed abbassato, non si era messo in ginocchio davanti a lui.
Per contro il Prefetto ha ricevuto il Sindaco con le seguenti parole: «Sono lieto di fare la conoscenza del Podestà ribelle».
Il Prefetto promette di parlare con il generale in merito all'evacuazione di Lanciano e di fare tutto il possibile per rendere meno grave la situazione. Inoltre egli desidera che a Lanciano sia ricostituito il Fascio, ciò che il Sindaco rifiuta nuovamente, considerato che attualmente a Lanciano tutte le tendenze politiche vanno d'accordo.
Ottiene pure dal Prefetto un'assegnazione di L 600.000 per far fronte alle esigenze della sofferente popolazione.
Il ritorno è tutt'altro che gradevole. Siamo stati presi nel mezzo di una lunga colonna di autocarri che trasportano munizioni al fronte. Gli autocarri viaggiano tutti a fari schermati e malgrado che la notte sia chiara formiamo un lungo nastro luminoso sulla strada, per fortuna nessun aereo ci scorge. Vicino a Guardiagrele lasciamo finalmente la colonna, ch'era stato impossibile sorpassare. E' sera inoltrata quando arriviamo a Lanciano. illesi, anche se mezzo congelati.

3 novembre 1943

Nel pomeriggio il Sindaco viene chiamato al Comando locale tedesco ed io debbo accompagnarlo poiche il colonnello Kròkel desidera parlargli.
Il colonnello Kròkel insiste perche la città sia evacuata al
più presto. Egli fa un piano contenente lo sgombero organizzato prevedendo i luoghi di raccolta per i profughi come anche le soste previste e la strada da seguire. Qualsiasi Opposizione da parte del Sindaco è inutile poiché il colonnello Kròkel afferma ripetutamente, che tutte queste misure, se anche sembrano dure, sono prese unicamente per il bene della popolazione, perche fra poco a Lanciano non rimarrà più una pietra sull'altra, e che allora non ci saranno più medici né medicine, ecc. Insiste tassativamente che il Sindaco dia inizio all'evacuazione, con destinazione della popolazione verso il Nord e precisamente nelle province di Teramo, Ascoli Piceno e Macerata. Eccezione sarà fatta per quegli elementi indispensabili per il funzionamento dei servizi utili ai tedeschi. A queste persone sarà dato - dopo accurato controllo da parte delle autorità militari tedesche - una tessera speciale per la permanenza in Lanciano dopo l'evacuazione.
Il predetto colonnello dichiara al Sindaco, che dopo la data fissata per lo sgombero, chiunque verrà trovato privo della speciale tessera a sud della linea Ortona-Orsogna, sarà considerato spia di guerra e quindi fucilato.
Il Sindaco prende nota di tutto con tristezza e non perde l'occasione di lagnarsi per le continue requisizioni. Il colonnello Kròkel parla poi a parte con il sottotenente Braunleder proibendogli qualsiasi altra requisizione.

4 novembre 1943

Abbiamo passato una cattiva notte. Alle undici meno un quarto un aereo è passato a bassa quota, dietro la casa del dottore, tirando con la mitragliatrice. Alle undici e un quarto si è sentito un gran rumore e la forte scossa di una bomba caduta vicinissima. Ci siamo vestiti in un attimo, siamo usciti ed abbiamo constatato che la bomba era caduta a 50 metri dalla casa, distruggendo tre padiglioni del calzificio Torrieri. Gli aviatori tornano continuamente e mitragliano tutti i dintorni E' l'una quando lascio la trincea di protezione.
Alle tre meno un quarto il Sindaco ed io siamo nuovamente chiamati al Comando tedesco, dove si trova il colonnello
Kròkel, il quale ci comunica che tra poco sarebbe arrivato l'ufficiale di collegamento tra il Prefetto di Chieti ed il Generale. Non passa molto tempo ed arriva il tenente Schildheuer, un ufficiale molto risoluto che con le sue maniere energiche riesce tutt'altro che simpatico.
Il Sindaco espone i suoi dubbi e l'atrocità dell'evacuazione, dato che la popolazione (donne, vecchi, bambini, paralitici, ecc.) dovrebbero sotto le intemperie raggiungere a piedi, in questa stagione, le località lontane di destinazione, per mancanza di mezzi da parte delle autorità tedesche.
Obietta inoltre, che la popolazione è priva di alimenti, mezzi ed indumenti e che preferisce rimanere a Lanciano subendo tutte le conseguenze del campo di battaglia piuttosto che morire per strada. Il comando tedesco fa vive pressioni per lo sgombero.
Il Sindaco informa il colonnello Kròkel, che tutto potrebbe essere organizzato (fogli di via, ecc.) per la partenza, ma che da parte del Prefetto di Chieti nulla è stato fatto ancora e che anzi quest'ultimo ieri ancora al telefono aveva lasciato intendere piuttosto, che l'evacuazione avrebbe potuto essere ancora rimandata.
Di fatti ieri il Sindaco finalmente aveva potuto mettersi in contatto telefonico con Chieti, e ciò dietro ordine del colonnello Kròkel tramite il telefono del Comando d'artiglieria, poiché tutta la rete normale telefonica era stata requisita dai tedeschi.
Il tenente Schildheuer arrabbiatissimo - tipo rozzo e scortese - decide ed insiste che il Sindaco si rechi immediatamente con lui a Chieti per ricevere le necessarie istruzioni per l'evacuazione che dovrebbe essere effettuata entro 8 giorni, dandoci appena il tempo di andare a prendere i nostri cappotti.
Raggiunta Chieti, il Tenente Schildheuer dopo lungo colloquio con il Vice Prefetto Ucheri, assicura il maggior conforto da parte delle tre province ospitali e da al Sindaco Di Jenno ordine tassativo in nome del Generale, che la popolazione di Lanciano deve evacuare nel termine fissato e che al massimo potranno rimanere a Lanciano 7.000 persone dei circa 30.000 abitanti, ottenendo tale cifra dopo lunghissimi combattimenti, ivi compresi anche i familiari degli operai e artigiani, costretti a lavorare con i tedeschi. Vengono indicate da parte del predetto ufficiale le direzioni di marcia per la popolazione ed il Sindaco ottiene, in via del tutto eccezionale, anche la direzione di marcia della strada 5. Vito-Ortona per poi proseguire verso Nord.
Con ciò ha inizio la grande beffa ai danni dei militari ed ufficiali tedeschi. Gli sfollati per questa strada si possono fermare nelle relative campagne, dove il controllo tedesco è quasi inesistente e rientrare a Lanciano, evitando la deportazione in massa verso Nord.

5 novembre 1943

Alle ore 14,30 giunge il Tenente Schildheuer a Lanciano, insistendo per un più rapido sgombero che deve essere ultimato entro le ore 18 dell'8 novembre.
ottiene il Sindaco dal predetto Ufficiale tedesco - dopo varie insistenze - l'approvazione di un foglio di sfollamento speciale, compilato e studiato dal Sindaco stesso e da pochi intimi suoi, nel quale si fa menzione che le famiglie non possono essere smembrate per alcun motivo (neanche per adibire gli uomini validi al servizio di lavoro) prima che sia stata raggiunta la destinazione cui la famiglia è avviata. Tale documento redatto in italiano ed in tedesco, controfirmato dal Sindaco e dall'autorità tedesca veniva consegnato a ciascun capo famiglia, che doveva sfollare.

6 novembre 1943

Alle prime ore vengono rapidamente istituiti gli uffici necessari per l'assistenza agli sfollati, compilati i moduli. Dato che il Comando tedesco richiedeva alla sera di ciascun giorno fino al giorno 8 novembre, il numero degli sfollati partenti, ed aveva lasciato facolta ad ogni capo famiglia di non contrifirmare il documento; il numero effettivo che doveva essere comunicato seralmente dal Sindaco al comando militare tedesco, non corrispondeva a quello degli effettivi partenti, e così il comando stesso non aveva la possibilità di controllare tale manipolazione. Risultavano persone partite, ma di fatto erano rimaste a Lanciano.
La resistenza della popolazione di Lanciano ai diversi ordini tedeschi era in atto ed è una delle più belle pagine che abbia vissuto, fatta di gente attaccata alla propria città, alla propria terra, alle proprie case, nonostante i gravi pericoli, le incognite del futuro ed in barba a tutte le minacce e fucili del soldato tedesco.
Era la resistenza della. popolazione di Lanciano di tutti i ceti.

7 novembre 1943

Continua il lavoro per compilare i fogli di sfollamento con relativa calma ed il Sindaco dopo diverse difficoltà ottiene per i malati la messa a disposizione di 6 auto-ambulanze giornaliere per il loro trasporto a Chieti.

8 novembre 1943

L'evacuazione raggiunge il culmine data l'imminenza del termine fissato dall'ufficiale di collegamento Schildheuer.
Nel pomeriggio, in mezzo a questi pensieri, ansie e preoccupazioni ed il forte lavoro il tenente Braunieder - comandante la piazza - richiede per telefono 2 biciclette che gli debbono essere consegnate entro un'ora.
Avendo il Sindaco in tale momento ben altre serie preoccupazioni per la popolazione di Lanciano che doveva sgomberare, si rifiutava in pieno di eseguire quell'ordine del comandante e rispose che quelle biciclette richieste insieme ad altre poche rimaste a Lanciano dovevano servire unicamente per i bisogni della popolazione che non poteva disporre di altri mezzi di locomozione.
Dopo tale rifiuto il predetto ufficiale ha avuto la costanza di telefonare al Sindaco per ben sei volte, minacciandolo atrocemente. Solo allora gli furono mandate 2 vecchie biciclette militari a ruota fissa esistenti nell'ufficio delle guardie municipali.
Dopo pochi istanti le biciclette furono restituite: era stata una offesa personale per il Comandante Braunleder e venne dato ordine al Sindaco di presentarsi subito al Comando, per chiedere scusa, altrimenti avrebbero provveduto al suo arresto.
Il Sindaco Di Jenno, nonostante le minacce intimategli non si è mosso dal suo ufficio.


Manifesto affisso su molte case della città qualche giorno dopo la rivolta.

9 novembre 1943

Ieri sera, come tassativamente richiesto dai diversi ufficiali tedeschi, la somma totale degli sfollati di Lanciano (come da fogli di sfollamenti consegnati) risultava di circa 22.000, mentre in verità non più di 5.000 avevano lasciato Lanciano e questi in gran numero si erano recati nei dintorni della città.
I tedeschi si mostrarono soddisfatti del loro operato e la resistenza della popolazione di Lanciano con a capo il Sindaco ed alcuni fedeli seguaci poteva essere soddisfatta della vittoria contro l'invasore, che non si era accorto della grande beffa compiuta contro i suoi piani inumani.
Alla mattina si presenta un sottufficiale di polizia tedesca con modi inurbani al Municipio e sedendosi sul tavolo nell'ufficio del Sindaco, chiede, picchiando i pugni sul tavolo stesso, la distinta degli internati stranieri. (A Lanciano esisteva un campo di internati stranieri) in gran parte ebrei, che dopo il 6 ottobre 1943 furono rilasciati in libertà concedendo a tanti delle carte d'identità false, con nomi italiani, affinché non potessero essere identificati dalla polizia tedesca).
Il Sindaco si rifiuta di consegnare tale lista - facendo figurare di non esserne in possesso - e viene insultato in maniera indescrivibile da detto sottufficiale che aggiunge di adottare provvedimenti a suo carico. Il Sindaco avverte un ex internato austriaco ebreo Sig. Weigel di allontanarsi onde non essere preso, (era stato assunto come interprete per traduzioni scritte,
sempre al fine di non farlo esporre a pericoli circa un eventuale riconoscimento da parte dei tedeschi che ormai prendevano tutte le persone per strada, di qualsiasi età e classe sociale per il loro servizio del lavoro).
Alle ore 14 arriva un altro tenente della polizia, insistendo sul medesimo argomento come alla mattina il predetto sottufficiale. Il Sindaco comunica al tenente che è stato insultato da un loro sottufficiale e lascia il suo posto di Sindaco e precisa che tornerà solamente quando quel sottufficiale gli avrà presentato le sue scuse.
Il Sindaco se ne va e ritorna solo verso le ore 17,30, cioe quando il sottufficiale si presenta per chiedergli scusa dell'accaduto.

Bruno BOLAFFIO

Lanciano, 1943

IL MINIDIARIO DI ANTONIO DI IENNO
14 Settembre 1943 - Febbraio 1944

L’avvocato Antonio Di Ienno, sindaco durante l’Amministrazione
1956-1960, amava spesso ricordare che era stato Podestà
di Lanciano nel periodo drammatico dell’occupazione tedesca,
e in seguito – caso unico nella storia del periodo bellico
nel nostro paese – venne nominato anche sindaco dal Comando
Militare Alleato, il 4 dicembre 1943, al momento della liberazione
della città.
Rovistando in questi giorni fra vecchie carte, ho ritrovato
una serie di appunti, una specie di minidiario, che l’avvocato
Di Ienno mi consegnò, in occasione di una intervista che mi
concesse nell’ottobre 1963, per la celebrazione del ventennale
della rivolta armata lancianese. Una celebrazione cui partecipò
quell’anno anche il Presidente della Repubblica on. Antonio
Segni.
Il diario, una serie di appunti su fogli staccati di quaderni
di scuola, riguarda il periodo 14 settembre 1943 – febbraio
1944. Il 14 settembre fu il giorno in cui i tedeschi si impadronirono del deposito carburanti dell’Aeronautica, custodito nel recinto di uno stabilimento tessile ai Cappuccini.
Del diario trascriveremo gli appunti del periodo fino all’arrivo
a Lanciano degli alleati. Si tratta per lo più di avvenimenti
già ricordati da Bruno Bolaffio, l’interprete di cui il podestà
Di Ienno si serviva per parlare con gli occupanti tedeschi. Il
diario di quest’ultimo, pubblicato sul volume “5 e 6 ottobre 1943”, fatto stampare dal Comune di Lanciano nel 1984, si ferma, però, al 9 novembre 1943. Ci è sembrato, pertanto, interessante conoscere, sia pure sommariamente dagli appunti
scarni dell’avv. Di Ienno, gli altri 25 giorni di “storia lancianese”
fino al 4 dicembre 1943.
Ma seguiamo un po’ il diario e cerchiamo di ritrascriverlo e
interpretarlo nella calligrafia non sempre chiara e leggibile del
suo autore:

14 settembre (1943): Ottenuto che i carabinieri rimangano armati. Si nascondono ingenti quantità di grano e di olio per mezzo della sezione alimentazione (Magg. Toni, Cialfi). Carte d’identità false agli ex internati, al magg. Carosella, ten. Pellegrini e militari sbandati.
5 ottobre. Pomeriggio: Via per Frisa, assalto e incendio di due camion tedeschi.
6 ottobre: Giornata di combattimento. Rimango fino alle 13 in Municipio. Il podestà F. P. Lotti si è dimesso. Assumo l’incarico
io (vice podestà).
7 ottobre. Mattina: Mi reco con l’arcivescovo Mons. Tesauri al comando tedesco ubicato al villino “Lanza” di Castelfrentano.
7 ottobre. Pomeriggio: Col vice segretario Carapelle e con De Rentiis concludo un accordo di tregua col comandante tedesco Föltsche.
8 ottobre:L’Arcivescovo vuole che il Podestà informi dell’accordo la popolazione dalla balaustra della Cattedrale.
Si seppelliscono i caduti dopo gli accertamenti di legge e
l’ispezione cadaverica del dott. Vittorio Carabba. Di Menno
Di Bucchianico e gli Ottobrini si mettono a disposizione del
podestà.
9 ottobre: In seno alla “Stat Polizei” vengono inclusi i partigiani
combattenti del 6 ottobre. Nella consulta antifascista inclusi
l’avv. Raffaele Bellini e Federico Mola. Create squadre di
soccorso per intervenire nelle zone bombardate con elementi
coraggiosi, per la maggior parte gli stessi che hanno combattuto
contro i tedeschi. Create false carte d’identità per i carabinieri
Nanei, Amati ecc.. Intervengo presso i tedeschi per far ridurre la richiesta di lavoratori da impiegare nel Sangro da 600 a 60. Fatti rilasciare gli uomini rastrellati.
20 ottobre: Mi reco a Treglio presso il col. Krochel per protestare
contro i soprusi del ten. Braunleder, comandante della Piazza, che mi ha proibito di uscire dalla città senza permesso del comando tedesco.
28 ottobre: Convocato a Chieti e invitato a ricostruire il P.N.F. disciolto il 25 luglio. Mi rifiuto. Il Prefetto mi dice che sono un “podestà ribelle”, la stessa espressione usata in una relazione al comando tedesco.
2 novembre: Parto per Chieti con l’interprete Bolaffio per far revocare l’ordine di sfollamento. Bombardamento della città mentre si discute, ma invano, in Prefettura. Mi dicono che le operazioni belliche sono previste per la zona di Lanciano e che la città potrà essere minata e distrutta. Ottengo il rinvio dello sfollamento al 6 novembre. Si ottiene la stampa di un foglio di sfollamento bilingue che permette di far figurare sfollati quelli che volontariamente vogliono rimanere in città. Si redigono
elenchi gonfiati di impiegati che possono rimanere in città fino all’ultimo. Nell’elenco sono compresi nomi di funzionari fittizi. Si includono negli stati di famiglia dei funzionari persone che non ne fanno parte. Intervengo per evitare il rastrellamento degli uomini delle famiglie che veramente sfollano e ottengo il rilascio di quelli già prelevati. Si distribuisce denaro a coloro che sfollano col foglio bilingue.
17 novembre: Agenti della Gestapo e della Feldgendarmerie
mi prelevano e mi portano a Canosa. Mi dicono che potrò
essere fucilato per la relazione da me inviata al Comando Superiore Tedesco del Maresciallo Kesselring, dove ho denunciato i soprusi dei soldati di occupazione e il martirio di Trentino La Barba con l’enucleazione degli occhi. Giunge un maggiore medico tedesco che intende verificare la veridicità delle cose da me denunziate.
19 novembre: Dopo due giorni di detenzione vengo liberato e ricondotto a Lanciano. Mi dicono che durante la notte del 17
novembre i patrioti del 6 ottobre hanno minacciato di riprendere
le armi se non venivo liberato. Il maggiore tedesco incari cato di controllare i verbali medici e della magistratura sulla morte di Trentino La Barba sembra non abbia trovato nulla di chiaro e di preciso. Lo stesso giorno ho un colloquio col ten. col. Krokel, presente il ten. Braunleder ed altri ufficiali tedeschi. Chiedo la sostituzione del ten. Braunleder da comandante della piazza. Questi viene sostituito col ten. col. Knol.
23 novembre. Bombardamento aereo della città da parte di
quadrimotori alleati. Corro nei luoghi colpiti dalle bombe. Viene
salvato il vecchio R... I tedeschi pretendono lo sfollamento
totale della città, da attuarsi subito.
24 novembre: Riesco a strappare tre giorni di proroga allo
sfollamento totale.
26 novembre: Bombardamento aereo alleato e distruzione
dell’ospedale. Viene risparmiata la palazzina ove abito con la
famiglia. Un miracolo della Madonna del Ponte. Con pochi animosi provvedo a far trasportare i feriti nel Palazzo De Giorgio. Il dott. Cipollone e il dottor De Cecco non hanno mai abbandonato i malati.
27 novembre: I tedeschi insistono per l’abbandono della città dei civili autorizzati che vi sono rimasti. Riesco ad ottenere altri tre giorni di proroga.
30 novembre: Altre 48 ore di proroga. Le mine per far saltare
la città sono ammucchiate al campo sportivo. Finché vi sono i civili non si può procedere ad alcuna distruzione.
1 dicembre: Inizia lo sfollamento verso Frisa. Si forma una
colonna sulla strada provinciale. Si apprende intanto che il comando tedesco è fuggito da Treglio. La colonna viene rifornita
di viveri a Frisa. Si invitano gli sfollati a non andare oltre Frisa,
perché i tedeschi sono in fuga al Sangro.
3 dicembre: Giungono in città le avanguardie indiane dell’ VIII Armata. Te Deum di Mons. Tesauri all’interno del rifugio dove mi trovo.
4 dicembre: Vengo nominato sindaco dal Comando Militare
Alleato per meriti durante l’occupazione tedesca. Gli sfollati
tornano. La città si popola di nuovo. Si dorme nei rifugi. Mi rifiuto
di indicare agli inglesi i nomi di profittatori e propagandisti
fascisti da inviare al campo di Padula. C’è con me Amerigo Di Nenno. Si attiva il mulino con motore a scoppio fornito dagli alleati. Si tira fuori il grano e l’olio nascosto e sottratto alla requisizione tedesca.
Il minidiario dell’avv. Di Ienno continua fino ad occupazione
alleata inoltrata. Ma i particolari contenuti in quest’ultima
parte non credo abbiano molto interesse ai fini della ricostruzione storica del periodo dell’occupazione tedesca che ci sembra piu importante. Rimane la domanda: i tedeschi volevano
davvero distruggere Lanciano? Perché non l’hanno fatto? La
risposta è incerta. Di sicuro si può dire che i tedeschi intuirono
abbastanza bene il doppio gioco del podestà: un po’ con i partigiani e un po’ con loro. Ma con la linea di difesa al Sangro avevano ben altro cui pensare. L’avvocato Di Ienno podestà costituiva per loro una certa garanzia, perché la città non si rivoltasse di nuovo come aveva fatto il 6 ottobre. Parimenti si ha
motivo di credere che lo sfollamento fu chiesto per non avere
una popolazione ostile in una città nelle immediate retrovie
della linea di difesa creata al Sangro. Così come si può essere
certi che la città non subì ulteriori distruzioni dopo gli incendi
del 6 ottobre, così come i tedeschi avevano fatto altrove, perche
gli occupanti, incalzati dall’VIII Armata Britannica che aveva
sgominata la linea di difesa a Mozzagrogna e a S. Maria Imbaro
sul ciglione del Sangro, furono costretti ad abbandonare
Lanciano per riorganizzarsi e resistere oltre il Moro, ad Ortona
e a Orsogna.

a cura di Mario LANCI
da “Terra e Gente” n. 1, 1988

I PARTIGIANI SI ARMANO

La ricerca delle armi non fu cosa molto facile in quanto non vi era possibilità di averne dalle forze di polizia (carabinieri) ne' tanto meno dai fascisti che in quei giorni erano tornati quasi tutti al loro servizio. Comunque fu studiato un piano d'azione diretto dal generale a riposo Ginesio Mercadante, da Americo Di Menno Di Bucchianico (che divenne poi il Comandante della formazione partigiana), da Avvento Montesano, dal Dott. Carlo Shonheim, da Domenico Marino e da altri ufficiali di Lanciano che in quei giorni si erano uniti a noi.
Per avere le armi si pensò di avvicinare alcuni fascisti nella speranza che i rapporti di amicizia ci avrebbero salvaguardato da possibili tradimenti. Il tentativo, invero, non andò male poichè attraverso alcune informazioni riuscimmo a sapere che, chiusi in una camera del comando della Milizia vi erano un centinaio di moschetti mod. 91. Ma come venirne in possesso? Il rischio era costituito non tanto dalla presenza dei fascisti (anche se i più faziosi, in quei giorni, avevano ripreso fiato vantandosi nelle loro camicie nere e, forti della protezione tedesca, avevano nuovamente sfoderato la loro arroganza e prepotenza), ma dal fatto che presso quel comando dormivano circa una ventina di tedeschi. Se qualcuno fosse stato scoperto nel mentre rubava i fucili, non avrebbe avuto scampo.
Malgrado ciò si decise di correre il rischio con la speranza di farla franca.
E' la notte del 2 ottobre; un gruppo di giovani di cui facevano parte Vincenzo Pagone, Raffaele Stella, Achille Cuonzo, Giuseppe Castiglione, Pasquale Sauro, Ulisse D'Angelo e qualche altro, si recò a prendere le armi.
I moschetti erano depositati in una stanza nella quale si poteva accedere dall'asilo «Maria Vittoria». Il gruppo partigiano, quindi, passando per il campanile della chiesa di Santa Chiara, avrebbe dovuto attraversare dapprima tutto il tetto della chiesa e poi, per una parte, quello dell'asilo, fino ad arrivare alla finestra della camera indicataci.
Era una notte tremenda: faceva freddo e pioveva a dirotto come mai era piovuto in tutti i giorni di settembre, ma le armi erano più preziose di qualsiasi altra cosa al mondo e perciò non c'era da attendere oltre.
Il gruppo salì sul campanile, si dispose lungo il tetto dell'asilo e un partigiano arrivò fino alla finestra; senza molta difficoltà l'apri e una volta nella stanza, trovò subito le armi che cominciò a passare agli altri partigiani che si erano disposti in fila indiana sin quasi ad arrivare presso il campanile.
L'acqua continuava a venire giù, ma nessuno vi faceva più caso, tanta era l'emozione di essere entrati in possesso dei fucili.
Ben presto le armi furono calate in strada, ripercorrendo la stessa via del campanile.
Furono portati fuori 100 fucili e due cassette di cartucce: un bell'arsenale, se si pensa che il gruppo, fino a quel momento, era del tutto privo di armi. Dalla strada, con un carretto a mano, fucili e munizioni furono portati in casa di Di Menno Di Bucchianico, da dove, però, la mattina seguente avremmo dovuto farli sparire per tema di qualche perquisizione tedesca. Ma dove portarli? In nessuna delle nostre case esistevano nascondigli capaci di occultare un simile arsenale. Infine si pensò di portare il tutto nei locali degli uffici del Dottor Montesano, quei locali dei quali ci servivamo spesso per le riunioni, in via Monte Grappa.
Frattanto, nei giorni precedenti, tutti avevamo lavorato a fare proseliti per la nostra lotta. Per il tramite di amici e conoscenti fidati si erano uniti a noi alcuni internati politici e soldati sbandati dell'esercito; così eravamo diventati più di un centinaio di persone, tutti adulti fatta eccezione per due ragazzi: Adelmo Santoleri e Eustacchio Giovanelli dei quali ci servi­vamo per il lavoro di collegamento tra i vari gruppi che si erano formati nei diversi quartieri.


Notifica del Comando tedesco di Lanciano
AVVISO: Per tutti i membri dell'Armata Tedesca è proibito di requisire nelle case. Per saccheggi c'è la pena di morte! Solo con certificati del posto di servizio possono essere presentate delle richieste alla podesteria.


Intanto, i giovani ed i ragazzi, che dai loro familiari raccoglievano lo spirito di lotta contro i tedeschi e i fascisti, approfittavano di tutte le occasioni per arrecare danno al nemico, forando gomme delle macchine in sosta, togliendo bulloni dalle ruote dei camion, impadronendosi di qualsiasi attrezzo, danneg­giando in ogni modo gli autoveicoli degli invasori.
Dalle notizie che riuscivamo ad avere dalla Feliziani, interprete presso il comando tedesco, sapemmo che i tedeschi erano inferociti, non solo per i fatti di cui sopra, ma soprattutto per il furto delle armi, tanto che avevano deciso di mettere a soqquadro la città, pur di ritrovare la refurtiva e di porre fine agli atti di sabotaggio. Ciò ci indusse a considerare che il posto dove erano nascosti i fucili poteva essere pericoloso, così che decidemmo di distribuire le armi a tutti i partigiani in quanto si riteneva che ciascuno avrebbe potuto trovare il modo di nascondere un fucile e qualche caricatore Con la collaborazione dei due ragazzi, Santoleri e Giovannelli, riuscimmo ad avvisare l'intero gruppo convocandolo nel nostro arsenale d'occasione.
All'ora stabilita eravamo tutti presenti e come primo provvedimento istituimmo un servizio di sentinella sul muro che per una parte circondava il fabbricato. Ricordo che si offrì volontario il povero Achille Cuonzo. Si procedette alla rapida distribuzione delle armi (un fucile e due caricatori ciascuno) e fu stabilito di ritrovarci, la notte stessa, in località Pozzo Bagnaro, alla periferia della città.
Anche a questa riunione, verso l'una, fummo tutti presenti. Gli uomini furono' divisi per squadre e il comando di ciascuna squadra fu assunto da un ufficiale. L'organizzazione prendeva corpo, mentre di momento in momento la situazione si faceva sempre più tesa.
Nella stessa riunione fu constatata l'impossibilità di prevedere i futuri sviluppi della situazione e si stabilì che se non fosse stato possibile avvertire singolarmente i partigiani, il segnale del raduno di tutti gli uomini armati, sarebbe stato dato per mezzo del suono a distesa delle campane di tutte le chiese.
La sera, tutta la formazione partigiana si riunì a Pozzo Bagnaro dove si decise di ritrovarsi, armati, nella medesima località, all'alba del cinque ottobre. Alcune grotte avrebbero costituito il naturale rifugio al nostro raduno.
L'indomani, all'ora stabilita, a gruppi o isolatamente giungemmo sul luogo del convegno. Nonostante le precauzioni adottate, l'affluire di tanta gente nella medesima località cominciò ad essere notata da alcune persone. Molti, incuriositi, si riunivano presso il muraglione di Via Bastione, che ha la veduta nella valle di Pozzo Bagnaro; ed allorché fui posto di guardia alla grotta (mentre aveva inizio la riunione) mi chiesi se qualcuno non avesse finito col fare la spia giacché dal bastione, molto chiaramente, gli uominì armati erano stati visti aggirarsi nei pressi della grotta e nella campagna circostante.
La riunione ebbe fine verso mezzogiorno. La decisione presa fu di nascondere tutte le armi in una grotta poco distante dal luogo stesso della riunione, ma molto più riparata; di raggiungere ciascuno la propria casa per salutare i familiari e partire subito dopo alla volta delle montagne vicine dove si sarebbe dato inizio alla guerriglia insieme con altre formazioni già sorte o che si pensava di far sorgere.
A guardia delle armi furono lasciati due partigiani: Giuseppe Stella e un certo Raffaele. Ma le cose non dovevano andare così come si era stabilito!

Domenico D'AMELIO

Chieti, giugno 1974

L'ULTIMA GIORNATA DI TRENTINO LA BARBA

il suo coraggio, la sua fede.
Pomeriggio del 5 ottobre 1943, nella Villa Lanza, alle porte di Castelfrentano ove, da una settimana, ha preso dimora un comando di tappa delle S.S. tedesche. Sono una ventina di uomini, mezza dozzina di automezzi, agli ordini di un capitano di nome Franz, alto, bruno, elegante, con un tono inflessibile nella voce e nei gesti.
La villa è accogliente, con la frescura dei pini, le ombre del giardino, la visione panoramica della Majella e gli ospiti in divisa contano di rimanere in questo «buon ritiro» per lungo tempo, dimenticando che gli Alleati sono sbarcati a Termoli, ed hanno già elaborato il programma per raggiungere the river SANGRO, un nome, questo, riportato in rosso sulle carte topografiche di guerra.
Ecco verso le ore 16 il comandante viene disturbato nel suo lavoro pomeridiano che consiste nel selezionare, tagliare e preparare le foglie del tabacco, asportate dai magazzini dell'Azienda di Lanciano. Hanno condotto in sua presenza una «internata» di Castelfrentano, di origine lettone che in paese ha fermato alcuni soldati tedeschi invitandoli a disertare, a nascondersi, in attesa dell'imminente arrivo degli alleati.
L'interrogatorio è rapido, concitato: la bionda lettone parla bene il tedesco, non nega quanto accaduto, manifesta a viso aperto il suo disprezzo per i nazi invasori di Hitler, dimostrando di non aver paura di niente.
La faccenda è sbrigata in pochi minuti: la donna è portata via brutalmente e buttata in un camion che parte subito per
ignota destinazione. Ora, dietro il portello della macchina è irriconoscibile: si agita, si dispera, impreca, vuol buttarsi giù e questo è l'ultimo ricordo che resta di lei. Addio, addio.
Il Capitano ha ripreso contatto con le foglie d'oro di tabacco, quando bussano ancora alla sua porta. Due ufficiali spingono avanti un giovane alto, magro, malvestito, il viso di un assonnato.
Raccontano che è uno dei «ribelli» della rivolta armata di Lanciano iniziata nella notte precedente, con il sequestro di un camion tedesco, quasi un preludio alla travolgente lotta del giorno dopo.
Il giovane declina le sue generalità, dice di chiamarsi Trentino La Barba, di essere nativo di Lanciano, di fare il mestiere di funaio: l'interprete stenta a tradurre quest'ultima parola. Lo invitano a confessare tutto, a denunciare i nomi degli organizzatori della ribellione, far conoscere di quali armi sono in possesso e quali piani hanno preparato.
Trentino sa tutto, ma dice di non conoscere nulla. «Domani ammazzeremo i tuoi figli se non parli!» traduce l'interprete, ma il giovane fa segno di diniego con la testa e le successive insistenze cadono nel vuoto, mentre Franz si mostra seccato.
Viene portato via nel piazzale della villa addossata al muro con le mani dietro la nuca: diversi calci e pugni e lo buttano a terra e un soldato gli spara dietro un colpo di rivoltella per intimidirlo.
Dopo circa un'ora, Trentino è riportato dentro alla presenza del Capitano. Nuovo interrogatorio, con lo stesso risultato.
«Non hai parlato oggi, parlerai domani».
Il capitano batte le palme delle mani tre, quattro volte, quasi a scandire gli ordini per il prigioniero.
Trentino portato giù in una vecchia e umida legnaia del villino, viene legato ad un palo che sostiene la volta: i tre soldati che lo hanno accompagnato, gli ridono in faccia, poi chiudono l'uscio a doppia mandata e se ne vanno.
Ora il sole è tramontato dietro la Majella e le ombre della notte avvolgono i pini della Villa Lanza raccolta nel silenzio.
Cosa pensa Trentino nelle lunghe ore della notte in attesa dell'alba? Rivede i suoi compagni di Lanciano che si preparano alla dura battaglia e sono insonni, come lui, pieni di coraggio:
«Ma non devo essere ancora con loro?» E un pensiero accorato raggiunge la sua casa, la sua donna, suoi figli, mentre più insopportabili diventano i legacci che tolgono quasi il respiro.
Verso le sette del mattino, la sentinella apre la porta, va verso il prigioniero, borbotta qualche parola, lo slega e lo spinge avanti con pedate di scherno. Un camion fuori è già pronto per portar via Trentino: lo caricano sopra insieme a cinque, sei soldati. Il capitano a quell'ora è ancora a letto, mentre in cucina gli preparano la colazione.
Parte Trentino con i suoi carnefici, pronto all'olocausto della vita: egli sa, comprende, non si turba, rimane in piedi sul camion, ancora una prova di coraggio.
In quella stessa mattina, sei ottobre, i compagni di Trentino si battono eroicamente nelle strade e nelle piazze di Lanciano, contro gli oppressori di ogni libertà e contro i paladini di ogni tirannia, e riscattano nel sangue ogni onta di vergogna e di disonore.
Intanto il sacrificio di Trentino si è compiuto: lo ritroveranno - ancora in piedi - legato ad un albero, al Viale Cappuccini, il corpo straziato, il viso sfigurato, le occhiaie vuote, una immagine implorante un palpito di pietà.

Luigi DE GIORGIO

Lanciano, 6 ottobre 1944.

 

UNA MAESTRA

A infittire i tanti colori dell'autunno incipiente stavano le tute mimetiche dei soldati tedeschi che ne addensavano le tinte e ne attutivano i toni, ma che mettevano addosso tanta tristezza quanta non ne avrebbero saputa esprimere le nebbie e le piogge che rendono così melanconica quella stagione.
E ce n'erano a centinaia di tedeschi, dalla Chiesa di Santa Chiara alla Casa di Riposo, lungo le cunette, in pieno assetto di guerra, vigili, pronti, decisi.
Li avevamo appena visti, in piccoli gruppi, nei pressi dell'abitazione De Rosa - dove, feriti, eravamo stati ospitati - quando ci erano venuti a cacciare per farci abbandonare la città. Allora ci erano parsi persuasivi, oltre che imperiosi, ma ora erano alteri, cattivi, prepotenti: ora erano loro, i tedeschi! Ci apostrofavano con disprezzo, cercavano con lo sguardo nei nostri panni qualcosa che ci indicasse come «partigiani» e, accompagnando i nostri passi con un colpo di calcio lo del mitra sul dorso, ci ordinavano di proseguire lungo il Viale dei Cappuccini.
Io portavo Pierino cavalcioni. La striscia di garza che mi aveva fasciato la ferita alla coscia si era allentata ed era scivolata alla caviglia, dov'era visibile, il fianco destro di Pierino era una chiazza di sangue; non avevamo armi addosso, ma ne portavamo i segni sulle carni. E dovevamo passare di nuovo davanti ai tedeschi, per essere perquisiti. Un fremito di paura mi scosse e mi portò alla memoria le parole che Pierino aveva pronunciato qualche ora prima, mentre rovinava a terra, ferito: «Però se mmore, more pe' Lanciane...».
Eravamo giunti dinanzi ai tedeschi, al Larghetto S. Chiara, ed attendevamo che ci frugassero negli abiti. Ancora oggi non so se la calma di quel momento era da attribuirsi più alla giovanile incoscienza che alla convinta rassegnazione.
Mi fermai all'intimazione di un soldato, alzai meccanicamente le braccia, con Pierino che si teneva più saldamente aggrappato a me, ed attesi di essere perquisito. Invano. Ci fu fatto segno di proseguire e, meravigliato per la mancata ricognizione sulle nostre persone, mi guardai intorno per trovare una spiegazione a quanto era accaduto. Vidi accanto a noi la maestra Rachele Nardone che piangeva. La coraggiosa signora, che si era resa conto del pericolo che stavamo per correre, aveva posto senza indugio il suo bolerino sulle spalle di Pierino per nascondere il sangue alla vista dei tedeschi, gli aveva cinto i fianchi con le braccia e ne lamentava le condizioni di salute, quasi fosse un suo figliolo malato.
Con quel gesto affettuoso di madre la signora «maestra» ci aveva salvata la vita.

Mario BOSCO

 

LA MORTE DI DUE GIOVANI EROI

Il Circo, a piazza Garibaldi, assisteva gelido alla più pericolosa altalena acrobatica, alla più drammatica, a quella che doveva essere poi la tragedia conclusiva: la morte di due giovani che affrontavano lo spettacolo più sublime, quello di combattere per la libertà. Ci faceva da riparo il Circo a noi sei, incalzati dalla feroce astuzia dei soldati tedeschi avanzanti in ordine sparso, tra una bancarella e l'altra di piazza Garibaldi, in una morsa che sempre più si stringeva. Avevamo dietro noi il Ponte dell'Ammazzo, veramente sinistro nel suo nome che ricordava le vite perdute in esso, in altra battaglia, quattro secoli indietro. Affianco alla recinzione del Circo, oltre la strada, c'era Vincenzo Bianco, ferito all'inguine, implorante soccorso a noi che non potevamo darglierlo. Uscire dal riparo del recinto, infatti, significava essere «beccati» dai tiratori tedeschi appostati più a monte.
Ma Vincenzo bisognava salvarlo a tutti i costi, né era possibile rimanere a lungo coperti da quelle poche tavole della recinzione del Circo.
Decidemmo allora di indietreggiare col viso a fronte del nemico, pronti a rintuzzarlo, approfittando della copertura che ci dava il Circo; e così facendo, con un balzo finale che ci poteva dare soltanto la giovane età ed il timore di essere uccisi, riuscimmo ad arrivare dietro la casa, appena a destra del ponte guardando la valle, tenendo presente che il Circo trovavasi, pressapoco, dove oggi esiste il mercato coperto. Protetti dalla casa, potevamo appena guardare sporgendoci dallo spigolo nord, verso la strada e quindi verso il nostro carissimo Vincenzo che, sopportando un dolore atroce, rimaneva immobile in mezzo alla strada fingendosi morto, per non farsi sparare.
La distanza che ci divideva da lui era di una cinquantina di metri, ma essa sembrava invalicabile, per la presenza di un «cecchino» che intravvedevamo nascosto dietro la fontanina, più giù del forno di Marino.
E' ossessivo vedere un fratello che muore, che con uno sguardo disperato invoca aiuto e rimanere lì inerti senza alcuna possibilità pratica di dargli aiuto, di salvarlo. Ti prende come un soffocamento per l'ansia, il cuore ti batte da morire e la mente, quella mente che ragiona con freddezza, dirti che non puoi farci niente, ma nell'un tempo dirti che sei un vigliacco a non adoperarti soprattutto perchè fra noi sei vi erano i due fratelli di Vincenzo Bianco, Tonino e Mario, che cercavamo di tenere indietro, di non farli vedere.
Secoli di martirio sembravano quei minuti. E fu Giovanni Calabrò a sublimarli con estrema generosità: quella della propria vita. Egli decide di correre verso Vincenzo per riportarlo tra noi e si butta a correre.
Invano cerco disperatamente di trattenerlo; mi rimane la sua
giacca in mano, sfilatasi nella breve collutazione. Ricordo solo
i suoi foltissimi riccioli neri che sembravano giocherellare col
vento ed un colpo di fucile; poi tanto sangue sulla bianca camicia e Giovanni supino, col viso al cielo, contratto in muto dolore, a pochi metri dall'amico che voleva salvare.
Qualche soldato tedesco, cautamente, in ordine sparso, avanzava verso i due. C'era ancora una folle speranza di salvarli: aggirare il colle di Lancianovecchia, risalire dalla porta San Biagio e portarsi sulla ripa, a perpendicolo sui due amici feriti, per proteggerli dall'alto con un fuoco di sbarramento, con un qualsiasi accidenti, con un attirare l'attenzione dei tedeschi su noi e distoglierli da loro.
La corsa fu velocissima attraverso il Tiro a Segno, Porta S. Bagio, i vichi fino ai bastioni sovrastanti il Ponte dell'Ammazzo. Addirittura scivolai in corsa e caddi su una bomba a mano che portavo in tasca, nel pantalone, ma non pensai neppure che potesse scoppiare, tanta era l'ansia di arrivare sulla ripa, per fare una qualsiasi cosa in aiuto ai miei.
A pancia a terra ci portammo ai bordi della scarpata, per non farci individuare subito e, magari, prendere inosservati una mira giusta. Ognuno di noi doveva mirare su uno di loro, quasi pensando di decimarii, di spaventarli, di farli desistere. C'era l'alzo da sistemare nel fucile, per compensare il dislivello; ma di quanto? Non c'era tempo di ricordare le nozioni pre-militari, le teorie orecchiate; ci avevano già individuati e già sparavamo, mirando come si poteva, con le braccia nude graffiate dalla terra ogni volta che il fucile rinculava.
Poco dopo un cannone anticarro alzava la sua canna verso di noi, tra via Valera e piazza Garibaldi, sparandoci appena sotto il costone e poi sulla casa a ridosso, per colpirci di rimbalzo con le schegge. Ma non ci faceva paura il fuoco intenso, nè temevamo il combattimento.
Vi erano due vite da salvare e quelle vite erano di fratelli nostri; specie per me che con Vincenzo avevo diviso il latte della madre sua.
Una speranza gioiosa avemmo, quindi, allorchè cessò il fuoco e potemmo scorgere che Vincenzo era stato preso sottobraccio da due tedeschi e veniva trascinato lentamente verso Calabrò che - a terra - sussultava leggermente tra il sangue e lo sfinimento. Si pensava che volessero dare soccorso ai feriti e pazzesco sarebbe stata una nostra reazione. Ma quando fu effimera quella speranza! Appena vicini a Calabrò, Vincenzo veniva fatto cadere sullo stesso con un calcio brutale. Un grido straziante ci paralizzava: No, non uccidetemi, No, no! Le grida venivano coperte da una scarica di mitra che accomunava in un unico fiotto il sangue dei due, abbracciati per sempre, fratelli per sempre.
Rimane per noi il loro olocausto, la loro giovinezza donata, il loro grido di disperazione e di morte, e ricordarci l'amore che ci aveva uniti, l'amore che deve unirci nel cammino più civile più umano, più insopprimibile: quello nella libertà.

Luigi RUSSO

Lanciano, luglio 1974.

 

AL COMANDO TEDESCO CON MONS. TESAURI

«Il sottoscritto Pietro Tesauri Arcivescovo di Lanciano, per la verità' attesta:
L'ordine di sfoltamento da Lanciano fu dal 28 ottobre 1943 dato dai tedeschi ripetutamente e con crescente severità.
Entro il 30 novembre a Lanciano non doveva rimanere alcuno, pena si diceva, la fucilazione come spia. Il sottoscritto potè rimanere a stento fino all'ultimo per le sue funzioni religiose e specialmente per l'assistenza a vecchi ed infermi dell 'Ospedale. Però il 2 novembre fu imposto a lui pure lo sfollamento, anche a titolo di persuazione per gli altri e gli fu promesso (forse per assicurarne la partenza) un mezzo di trasporto che poi non gli fu dato, perchè il 30 novembre l'automezzo promesso servì al Comando tedesco per fuggire essendo stato sfondato il fronte del Sangro. E il sottoscritto potè rimanere a Lanciano miracolosamente».

Così Monsignor Tesauri si esprimeva ricordando quelle tragiche giornate del novembre del 1943.
Ma ecco nel limpido ricordo del reverendo don Enrico Giannattasio, in quel tempo segretario particolare dell'Arcivescovo, una testimonianza di quanto Monsignor Pietro Tesauri si sia prodigato nelle ore tragiche della dura rappresaglia teutonica del 6 e 7 ottobre del 1943:

«Verso le ore 9 di quel mattino del 6 ottobre eravamo nelle aule dell'Arcivescovado per l'assistenza agli esami di scuola
media degli alunni rimandati alla sessione autunnale. Quando si incominciarono a sentire i primi spari e le raffiche di mitra divennero più insistenti, ci rifugiammo nella cappella. Sembrava quello il luogo più sicuro. Con noi molte le donne, i ragazzi e i giovani del quartiere. Verso le dodici, mentre sembrava che fosse tornata un po' di calma, sentimmo furiosi colpi al portone della cappella: i tedeschi cercavano di sfondare la porta. Non ricevendo risposta, spararono nell'interno. Un proiettile si conticcò nel soffitto dove è rimasto visibile per molti anni. Nel panico di quei momenti, il nostro Monsignore era il più calmo. Già nella prima mattinata un proiettile l'aveva sfiorato. Si trovava nell'Episcopio intento al disbrigo di pratiche urgenti, quando il proiettile attraversò il vetro, il legno della finestra e si conficcò in una parete: era passato a pochi centimetri dalla sua testa.
Anche in quella situazione di grave pericolo, Monsignore restò calmo: era preoccupato soltanto della impossibilità che si stava creando di andare a portare soccorso là dove era più urgente.
Intanto i colpi alla porta diventavano sempre più forti e frequenti. Con Monsignore mi recai allora ad aprire. I tedeschi entrarono urlando «cave, cave!». Parole che non riuscimmo a comprendere. Si precipitarono nei locali e cominciarono la perquisizione. Nella stanza di don Prancesco Basciano rubarono un orologio: era un ricordo di famiglia. Nelle altre, portarono via tutto ciò che era possibile. Erano cose per la verità che non avevano altro valore se non quello affettivo.
La confusione e il timore erano intanto grandissimi. Nella stanza del refettorio a pianterreno c'era il corpo coperto di un giovane ferito ohe aveva cercato rifugio nella nostra casa nella mattinata: era Michele Cipollone, da tutti conosciuto come «Cipolletta» che, coperto alla meglio, respirava appena per l'orgasmo. Alcuni soldati si avvicinarono e lo scoprirono e credendo trattarsi di un malato, non chiesero chiarimenti. Fu per tutti noi un momento di grande timore. Subito dopo i militari andarono via, tra grida e incomprensibili parole.
Nel pomeriggio Monsignore ardeva dal desiderio di uscire:
le notizie che giungevano erano sempre più tragiche. Appena gli fu possibile si recò personalmente a portare l'estrema unzione ad un fucilato che era nel vicino larghetto del Malvò. Mentre la soldataglia tedesca piantonava tutte le strade, egli rimase in ginocchio presso il corpo del giovane Sammaciccia, trucidato qualche ora prima.
La notte non riposammo. All'alba del giorno dopo, il sette, Monsignore con don Francesco Basciano, il podestà della città avv. Antonio Dì Jenno e una signora in qualità di interprete, si incamminò verso il comando tedesco. Lo spingeva la speranza di poter aiutare in qualche modo la sua gente.
La dura rappresaglia infatti iniziata già dalla sera prima incombeva sulla intera città. Era una giornata fredda; già dal primo mattino una pioggia torrenziale cadeva sulla città.
Non fui con loro quel giorno. Quando tornarono seppi che
era stata quasi una «via crucis». Di tappa in tappa, dal villino del geometra Ciro Rossi, in viale Marconi, a pochi passi dalla sede arcivescovile, erano giunti a Castelfrentano. Le sentinelle tedesche, benchè i pochi presenti, qualche contadino e l'interprete, spiegassero ripetutamente che trattavasi del Vescovo della città, ridevano sguaiatamente nel vedere il gruppetto andare di casa in casa alla ricerca del comando. Intanto la pioggia intensa rendeva più faticoso il cammino.
Seppi più tardi che il comandante tedesco, il capitano Fòltsche, accolse il gruppetto aspramente e, intercalando le poche parole che diceva con pesanti pugni sul tavolo, aveva reso impossibile il colloquio.
Don Francesco, presente, ricordò quei momenti di grande tensione, con molta ansietà. Il capitano - precisò don Francesco nel suo racconto - guardava verso l'avvocato Di Jenno e «lo accusava di essere stato il responsabile della organizzazione e della rivolta». Al che il podestà rispose testualmente: «Se l'avessi organizzata io, l'avrei fatta certamente meglio». A queste parole l'Arcivescovo intervenne e cambiò discorso. Fu fortuna per noi, proseguì don Francesco, che l'ufficiale non comprese le parole dette dall'avv. Di Jenno.
L'intervento dell'Arcivescovo fu determinante. Infatti al termine del colloquio si ottenne la precisa assicurazione che non ci sarebbero state più rappresaglie. Così avvenne e fu quella la notizia più bella che tutti accogliemmo con viva gioia.
Iniziarono intanto i giorni duri dello sfollamento. «In Lanciano si doveva resistere casa per casa»: questo era l'ordine del comando tedesco. Tutti dovevano partire per il Nord. Ne venimmo a conoscenza un pomeriggio quando un cappellano militare tedesco di cui non conoscemmo mai il nome, in gran segreto ci cercò e in lingua francese ci informò delle decisioni prese dal suo comando; egli caldamente ci invitò a togliere da tutte le chiese della città le reliquie e il Santissimo Sacramento. Io allora, andai di corsa ad avvisare i parroci. L'arciprete don Giovanni Torrieri, il primo che incontrai, scoppiò a piangere alla notizia. Le chiese però erano già state tutte chiuse e la mia corsa fu quasi vana. Seppi più tardi che i parroci avevano provveduto di propria iniziativa dai giorni precedenti a mettere al riparo le sacre immagini e il Santissimo Sacramento.
Come è ormai noto a tutti non sfollammo più perchè gli alleati avevano sfondato improvvisamente il fronte sui fiume Sangro.
Sino al passaggio completo della prima linea, come nei precedenti mesi sino alla primavera inoltrata del '44, Monsignor Tesauri restò sempre in mezzo al popolo di Lanciano non pensando mai a se stesso, ma sempre ai suoi figlioli»».

Così Mons. Enrico Giannattasio, arciprete della bella chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano, ci ha raccontato in una breve intervista, parlando della nobile figura dell'Arcivescovo Tesauri, a ventisei anni di distanza dalla Rivolta.

Mario SPOLTORE

Lanciano, agosto 1969.

 

UNA PAGINA DI STORIA MEMORABILE E GENEROSA

Quel mattino del 6 ottobre, mentre la rivolta infuriava, un frate francescano del Convento di S. Antonio a LanCIano soccorreva i feriti, aiutava e consigliava i piu giovani. Era Padre Osvaldo Lemme.
A distanza di ventisei anni, padre Osvaldo, ora vicario provinciale dei f. m., ricorda quei tragici giorni con episodi rimasti sino ad oggi quasi sconosciuti.

Quel mattino del 6 ottobre uscii di convento, portando con me la stola ed il vasetto dell'olio, per l'estrema unzione. Pensai, fra me, che i tedeschi avrebbero avuto rispetto per un ministro del culto. Indovinai: debbo a questa felice ispirazione la vita, probabilmente, anche il risparmio dalla distruzione del palazzo «Bielli», e la salvezza degli ostaggi prelevati fra gli inquilini, inclusa una infermiera dell'ospedale, caricati su d'un camion e trasportati nella villa «Paolucci», situata lungo la strada che mena a Castelfrentano. Cosa era accaduto?
Gesto imprudente
Un giovane partigiano, dopo aver raggiunto l'ultimo piano o il tetto, all'insaputa degli inquilini, gettò su un mezzo militare tedesco una bomba a mano che, per fortuna, esplose a vuoto. I tedeschi tornarono sul luogo in numero maggiore, puntarono uno o due cannoncini contro il portone e circondarono il palazzo. Alcuni soldati irruppero negli appartamenti, misero a soqquadro le stanze con il pretesto di scovare i partigiani, ordinarono lo sfratto di donne e bambini, presero come ostaggi un gruppo di uomini e minacciarono di far saltare il palazzo. Nel panico e nella confusione, mentre salivo le scale, incontrai un soldato ubriaco, carico di oggetti preziosi rubati, il quale spingeva fuori, urlando, donne e bambini terrorizzati. Minacciava: «caput... tutti caput... casa caput... cattivi italiani...». Con i segni, più che con qualche parola, gli feci intendere che quella gente non c'entrava, che, se aveva una sposa, una mamma, un figlio, avesse compassione d'innocenti, estranei ed ignari del giovane che s'era infiltrato nel palazzo. Forse piansi... forse m'inginocchiai... non lo ricordo. Agli astanti sembrò che facessi l'una e l'altra cosa insieme. Vidi il volto del soldato rasserenarsi, battermi la mano sulla spalla ed andarsene, dopo aver chiamato i compagni che si trovavano sulla strada.
Decisi sino alla morte
Appena dopo mezzogiorno del sei ottobre m'aggiravo per il rione deUe case popolari. Avevo sentito che i partigiani s'erano nascosti negli scantinati. I tedeschi l'avevano sospettato. Una donna, con voce concitata, m'informò che nel palazzo avevano accolto tre giovani e che, per amore di Dio, aiutassi quei poveretti e gl'inquilini. I tedeschi andavano rastrellando e perquisendo ogni angolo dei palazzi adiacenti. Entrai, li chiamai. Erano pallidi, ma dal volto traspariva un non so che di fiero e deciso. Dissi: "Venite con me. Conservate sangue freddo e calma. Se incontriamo i tedeschi non vi innervosite. Dirò che mi accompagnate verso il cimitero, dove poco fa, avete trasportato un vostro compagno colpito a morte".
Ci incamminammo per uscire di città. Io mi sforzavo di conservare e d'infondere la calma. Erano guardinghi e sospettosi. Guadagnammo la strada che costeggia il muro di cinta dell'Ospedale civile e ci allontanammo un centinaio di metri dal cancello d'ingresso che, allora, era situato sul lato frontale del primo edifìcio.
D'improvviso, con un guizzo fulmineo, i tre giovani saltarono oltre il muretto, quasi presso la cappella mortuaria, dicendomi: «Padre, ci perdoni... abbiamo in tasca le bombe a mano... dobbiamo difenderci... viene una motocicletta tedesca». Mi voltai: una motocicletta a tre ruote, con tre tedeschi armati, sfrecciava sulla strada. Rimasi impietrito. Avevo notato che le tasche erano gonfie e con le mani reggevano il peso nascosto, ma non sospettavo che potessero essere armi. Ebbi appena il tempo di rispondere: «Ragazzi non potevate dirmelo... avrei consigliato di buttarle dietro la siepe...» che non li vidi più. S'erano rimpiattiti dietro il muretto e spiavano l'itinerario dei tedeschi. Mi trovai faccia a faccia con la morte: i tedeschi delusi nella fiducia che mi avevano accordato, avrebbero fucilato me e quei ragazzi. Pensai a mia madre, a mio fratello. I tedeschi non videro il gesto dei partigiani e, dopo aver esploso qualche colpo preventivo verso la fitta siepe collocata sul bordo opposto della strada che passa dinanzi al cancello dell'Ospedale, sterzarono a destra, fermarono la moto nello spazio tra l'edificio e il recinto e, mentre uno restava alla guida, gli altri due salirono per prelevare un compagno ferito, portato in ospedale dagli stessi partigiani.
Liberazione degli ostaggi
Sul calar della sera gli ostaggi strappati alle famiglie del palazzo «Bielli» furono rilasciati, dopo un interrogatorio ed una perquisizione minuziosa. Fu anche rilasciata l'infermiera dell'Ospedale che imprudentemente aveva tolto l'orologio d'oro al polso di un soldato ferito dai partigiani. Mi confidò che, dopo essere stata interrogata e rimproverata, dinanzi alle sue lacrime, l'ufficiale tedesco s'impietosì e la lasciò libera, senza che alcuno le torcesse un capello.
Macabri ed inesplicabili misfatti
Nella tarda serata di quel giorno mi trovavo in ospedale. I tedeschi avevano portato via dall'ospedale per curarli, i loro feriti. Non si fidavano dei medici italiani. All'improvviso giunse un camion. Scesero due soldati che frettolosamente, ci fecero cenno di aiutarli.
Aprirono la sponda posteriore, alzarono il tendone: c'erano sdraiati un uomo completamente nudo, due giovani donne, ferite. L'uomo era in mezzo. La donna di destra mormorò con un filo di voce: «Papà è grave... fate presto...». Deponemmo su una barella le donne. Ma quando gli infermieri si curvarono sull'uomo, si accorsero con sorpresa, che era cadavere. Quella sera, su una macchina tedesca, un padre irrigidito dalla morte, viaggiava accanto alla figlia colpita da una raffica di mitra, la quale credendo che fosse ancora vivo, l'accarezzava e gli rivolgeva tenere parole dì conforto! Non sono mai riuscito a spiegare erche l'uomo fosse stato denudato e trasportato fra due donne, tanto più che il corpo non aveva alcun segno di violenza.
Poco tempo prima o dopo (non ricordo) fu trasportato in ospedale una giovane napoletana che era fuggita dalla sua città per scampare ai bombardamenti alleati. Scoppiata la rivolta, in preda al panico, lasciò la casa, ed insieme ad altri civili,
imboccò il viale dei Cappuccini, per ripararsi in campagna. La loro imprudenza fu d'acquattarsi dentro la cunetta della strada, in un punto più profondo, appena sentirono il rumore di una camionetta tedesca. Furono scambiati per partigiani in agguato e i tedeschi, prima di avvicinarsi, fecero partire alcune raffiche. Una sventagliata raggiunse il fianco della giovane. Aveva uno squarcio da cui traboccavano le viscere. Mi disse che era fidanzata, che era fuggita da Napoli, ma non avrebbe mai sospe­tato che la morte la perseguitasse sino a Lanciano. Morì due giorni dopo.
Incendi e devastazioni
Quella stessa sera una giovane, accompagnata dalla mamma mi informò che il padre era stato colpito a morte dai tedeschi nella cucina. Mi feci indicare la casa. Attraversai le vie secondarie della città, costeggiai, sul ponte stretto come un corridoio, il muro della cattedrale, passai sotto l'arco del campanile, m'addentrai tra le viuzze buie e deserte di quel rione antico, vidi una porta spalancata, entrai e mi trovai dinanzi ad uno spettacolo terribile. L'uomo era rovesciato sul pavimento, in una pozza di sangue. I tedeschi, mi spiegò la figlia, avevano costretto le donne ad abbandonare la casa ed avevano ucciso il padre rimasto solo. Uscii con l'animo in tumulto, rifeci la strada parallela al corso principale: i negozi erano devastati, parecchi incendi divampavano violentemente sotto i portici bassi del corso e, più da lontano, verso Ferro di Cavallo, un pastificio si riduceva lentamente ad un rudere spaventoso. I tedeschi non sfrecciavano più per le strade, urlando e sparando anche quando non avevano un bersaglio da colpire, ma soltanto per incutere spavento. Silenzio, tenebre, bagliore dei roghi:
ecco che era Lanciano quella notte del sei ottobre 1943!
Il giorno seguente
La rivolta mostrò i segni completi il giorno seguente: tracce di rovine, cadaveri disseminati, case distrutte, fuggiaschi che tornavano con le masserie in città. Ma erano i morti, sparpagliati in ogni punto, che davano un carattere orrendo e pietoso allo scenariò di desolazione e lo rendevano ancora più triste. Tornai sul luogo dove la rivolta, se non erro, aveva fatto più vittime: l'imbocco di Viale dei Cappuccini e le immediate adiacenze. Avevo visto, il giorno prima, un fucile mitragliatore collocato su un terrazzino, quasi all'inizio di corso Roma. M'ero avvicinato al giovanetto Marsilio fucilato dai tedeschi. Aveva accanto il piccolo fucile quasi da trastullo, un grumo di sangue all'occhio. Più in là un altro giovane di cui non rammento il nome. Ma il giorno dopo il numero dei morti partigiani e civili aumentò incredibilmente. Trovai un uomo morto dietro le Scuole del Corso, sul ciglio dell'avvallamento che oggi hanno in parte appianato, un altro maciullato nel giardino antistante un villino, situato qualche dozzina di metri dopo il tabacchificio.
Anche la periferia fu colpita dalla rappresaglia. Rammenterò soltanto un episodio che sconvolse il mio spirito trebbiato già dalle violenze del giorno precedente. Era con me Frate Francesco Modugno. Ci informarono che un povero uomo era stato ucciso in contrada Iconicella. Corremmo sul luogo col baroccio del convento. Una bambina di dieci anni circa, con il vestito a brandelli, i piedi scalzi, singhiozzava sulla sponda di un torrentaccio asciutto. Le chiedemmo perche piangesse. Rispose che «laggiù c'era il papà ucciso». Non so come la piccola avesse intuito la disgrazia ed il luogo. Costeggiammo per poco il torrente con il cuore in gola, inteneriti dalle lacrime di quella creatura, ed osservammo cenci di carne, sangue schizzato, organi sparpagliati. Una bomba a mano tedesca l'aveva raggiunto mentre cercava di nascondersi in un punto più coperto del fossato, terrorizzato dai tedeschi che risalivano dal Sangro, per dare rinforzo alla guarnigione lancianese. Prendemmo un sacco, raccogliemmo i resti, li caricammo per portarli al cimitero.

padre Osvaldo LEMME

L'Aquila, settembre 1969

 

INCONTRO ALLE "GIUBBE ROSSE"

Sono a Firenze nel ferragosto ultimo. La città è spopolata e i negozi, modelli di signorilità e di ricchezza, sono chiusi per il tradizionale riposo estivo. Attraversano le strade eleganti macchine con targhe estere e si notano comitive di stranieri in giro, preceduti dall'immancabile «cicerone». Ragazze e giovinetti in succinte e strane divise, provenienti dal campeggio in ternazionale alle Cascine, si aggirano per la città, anch'essi forse, come me, stanchi ed annoiati da questo tedioso e lungo pomeriggio fiorentino.
Ecco Piazza della Repubblica con il grande arco di Via Strozzi. Alla Birreria Whùrer, i tavoli sono occupati da una folla elegante che si disseta al suono di un'orchestrina impazzita. Di fronte, in un locale più modesto, trovo posto per riposarmi. Sono al Caffè delle «GIUBBE ROSSE». Questo nome improvvisamente suscita tanti ricordi lontani. Rivedo in questo locale Papini e Marinetti, Soffici e Carrà, Palazzeschi e Pratella, intenti alla redazione di quella scapigliata «Lacerba» che noi leggevamo tutto di un fiato, perchè le idee nuove e geniali, anche se strane, sono belle.
- Scusi, mi fa accendere?
Una voce femminile mi distoglie da questi ricordi. E una signorina che siede al tavolo d'accanto. Le accendo la sigaretta.
- Non è di Firenze lei?
- No, sono abruzzese.
Sono solito qualificarmi così con un certo orgoglio, perchè vedo che gli abruzzesi dovunque si fanno onore, eppoi, avevo visitato, quella stessa mattina, la Capponcina di D'Annunzio a Settignano.
La signorina, difatti, ne rimane un poco impressionata perchè mi guarda con interesse e mi domanda ancora:
- Di dove, per favore?
- Di Lanciano.
Questo nome deve averla colpita.
- Di Lanciano? Proprio di Lanciano?
- Si. Conosce qualcuno?
- No. Nessuno. Son passata per Lanciano molti anni or sono. Tristi ricordi! Ma Lanciano mi sta a cuore più della mia stessa Firenze.
Un'ombra di tristezza vela ora il volto della donna, le cui reticenti risposte suscitano in me una viva curiosità.
- Non può sapere... Son cose passate!
- La prego.
- No, non può sapere. E un fatto che riguarda me sola.
- Sarò discreto, mi confidi... Capirà, è un lancianese che ora la prega.
Un lieve rossore appare sul viso della sconosciuta che resta un poco indecisa. Poi mi dice: - Mi vuole accompagnare alla posta?
- Volentieri.
Piazza della Repubblica è ora tutta iridata di grandi policrome iscrizioni luminose. Nel caffè di fronte un tenore canta una canzone napoletana.
Sotto i Portici della Posta la sconosciuta mi dice:
- Le racconto la mia storia perchè lei è il primo lancianese con cui parlo. Non si meravigli di quello che le dirò: la vita è piena di imprevisti. Chi poteva immaginare di incontrar lei stasera? Sarò breve. Nel 1943 io ero a Bari, fuggita di casa col fidanzato, un ufficiale, morto poi in un bombardamento aereo. Sola, in un ambiente sconosciuto, inesperta, fui presa nella voragine del male e precipitai sempre più, senza accorgermene, stordita dagli avvenimenti.
Nel novembre di quell'anno, un graduato dell'esercito tedesco mi portò con sé in Abruzzo, nella periferia di Lanciano ove aveva sede il comando della zona. Fu lì che sentii nominare la vostra città. I tedeschi ne dicevano un mondo di male, e progettavano di annientarla.
Una notte, ai primi di ottobre, se non sbaglio, catturarono un partigiano lancianese e fui straziata dalle grida di quel poveretto. Il mio amico mi disse che dovevano costringerlo a parlare, a tutti i costi, con mezzi persuasivi.
Le grida laceranti di quel giovane mi riportarono alla realtà della mia vita, facendomi vedere l'abisso ove ero precipitata. Volevo soccorrerlo e non potevo, volevo gridare anch'io perchè smettessero il supplizio, ma tutto era inutile. Era un mio fratello che straziavano e il carnefice era il mio amante. L'odio nacque improvviso e la risoluzione fulminea. Sentivo ribrezzo
di me stessa, mentre un proponimento forte si radicava nel cuore: trovare la via della redenzione.
Il giorno dopo un gran da fare. Lanciano si era ribellata e si combatteva nella città. I tedeschi erano inferociti e parlavano di voler bruciare il ribelle. Io approfittai della confusione e trovai la via della fuga. Dopo tante ore di cammino, fui accolta presso alcuni contadini che mi tennero come una loro parente. Dopo la liberazione tornai a Firenze. Da allora sono impiegata in uno stabilimento e vivo con mia sorella. Quella triste pagina della mia vita è dimenticata. Ma la salvezza la debbo a Lanciano che, difendendo la sua libertà e il suo onore, fece comprendere anche a me, povera creatura perduta, l'obbrobrio della vita che menavo, dandomi la forza e il coraggio di risollevarmi da quella situazione.
E con me, chi sa a quanti Italiani l'episodio eroico di Lanciano ha aperto gli occhi...
Il racconto mi rende attonito.
- Mi dica il suo nome - chiedo emozionato.
- A che vale? Forse un giorno ci rivedremo a Lanciano. Intanto me la saluti.
E la donna si allontana con un gesto di saluto, che si perde nel tramestio della sera fiorentina.

Alfredo BONTEMPI

 

IL RICORDO DI PINO MARSILIO

Un mitra tedesco trafugato e nascosto da un giovane, provoca la minaccia della rappresaglia degli occupanti. Ma le provocazioni spavalde dei razziatori dei nostri negozi, mettono a dura prova la pazienza dei cittadini. Il 5 ottobre, i partigiani, nell'intento di fronteggiare i tedeschi oppressori, con le armi che sono riusciti a raci­molare dai privati, ma specialmente dai carabinieri e, dietro forti opposizioni, dalla locale legione della M. V. S. N. (milizia volontaria sicurezza nazionale), riusciranno a disarmare dei soldati avvinazzati, a impadronirsi del loro mezzo militare con molti ordigni di guerra, facendolo precipitare nella Valle della Petrosa provocandone un impressionante incendio.
Il giorno dopo, il 6 ottobre, si scatena occasionalmente, il combattimento o guerriglia che segna la fulgida pagina della Lotta di Resistenza di Lanciano contro il nemico invasore solo fiducioso ne­le sue armi.
I tedeschi con i rinforzi sollecitati e avuti dietro una proditoria telefonata da parte del comando della Legione fascista, dalla vicina Piazzano di Atessa, cominciarono a scaricare, intramezzate da potenti colpi di cannoncini, frequenti raffiche di mitragliatrici piazzate e rotanti nel centro del quadrivio di S. Chiara, nelle varie direzioni di attacco da parte degl'impari mezzi dei nostri patrioti.
L'episodio più tragico e commovente, tra i tanti, riuscì a contemplarlo accorato e impotente, dall'alto del muro di cinta, la sentinella degli agenti delle carceri, quando, in un'avanzata spavalda, fecero irruenza gridando forte, ben tre soldati tedeschi armati di tutto punto contro il quindicenne (Giuseppe o) PINO MARSILIO che, da portaordini, era diventato improvvisamente un milite con un fucile e, con in tasca, delle bombe a mano che gli erano stati forniti nell'ultimo istante precedente la sparatoria.
Pino, deposto a terra il fucile, alzò piangendo le mani di adolescente, alla resa: ma il truce teutonico, non rispettò né il diritto di resa né l'età e, girandolo con forza, gli sventagliò sul dorso una raffica di mitra.
E, non pago della giovanissima vittima, fu visto strappare dal braccio del caduto, l'orologio che aveva segnato l'ora ditale vigliacco e spietato assassinio.
Dopo l'eccidio, il saccheggio e gl'incendi vari disseminati dalle S.S., nel mio giro di dolorosa ispezione, nel mattino piovoso del sette ottobre, sui luoghi che furono teatro dei luttuosi episodi, m'incontrai col carissimo eroico Delegato dei miei Aspiranti della Parrocchia di S. Lucia: egli aveva ancora gli occhi semichiusi, raggomitolato sul suo sangue - poco prima della sua immolazione, aveva ricevuto da me, la sua ultima Comunione - e aveva la giacca con una linea di impressionanti fori con brandelli conficcati nelle carni.
La mamma, la Signora Clelia, dal suo balcone, assicura di aver visto cadere quel giovanetto oltre la strada, di fronte alle Scuole Elementari del rione Funai; e, solo dopo, si accorse che era suo figlio Pino!

Il sottoscritto D. Italo Bomba, allora Vice Parroco di S. Lucia e Assistente Parrocchiale della Associazione della Gioventù Maschile "Pier Giorgio Frassati" e della relativa Sezione Aspiranti "Aldo Marcozzi", assicura a quanti leggeranno queste note, che esse rispondono alla più esatta verità storica.

D.Italino BOMBA

Lanciano, 31 agosto 1970

 


I PROTAGONISTI DELLA RESISTENZA LANCIANESE:
Riflessioni e commenti

"E se gli attori di quell'avvenimento furono pochi o molti, uomini maturi o giovani imberbi; se essi fossero o no sufficientemente addestrati non è rilevante..."

Rinunciando a disquisire sulle versioni di quei fatti; rinunciando alla ricerca dei dati sulla loro organizzazione; rinunciando all'esame quantitativo, della consistenza, cioè, dei fatti stessi, rimane fermo ed incontrovertibile, nel contesto di una guerra guerreggiata anche sulle nostre terre, l'avvenimento qui registrato della esplosione di una incontenibile carica di insofferenza, di rivolta, di ribellione contro i soprusi, contro le angherie, contro le sopraffazioni delle soldataglie tedesche che, evidentemente, non immaginavano di trovarsi di fronte ad un popolo costituzionalmete incapace di tollerare ingiustizie, angherie, soprusi.
E se gli attori di quell'avvenimento furono pochi o molti, uomini maturi o giovani imberbi; se essi fossero o no sufficientemente addestrati al maneggio delle armi; se a quell'avvenimento si senti o meno partecipe la Città nella sua intierezza; e se quella rivolta e quelle azioni di guerra si sono potute mostrare tali o da prestarsi ad essere considerate pazzeshe dai prudenti, dai cauti, dai misuratori perché iniziate senza tener conto, senza calcolo, delle temibili' e sicure conseguenze della reazione tedesca, tutto questo, a mio giudizio, non è rilevante.
Ciò che rimane un fatto storico di indiscusso valore, di profondo significato, è l'avvenimento in sé: l'esplosione dell'animo popolare della gente frentana contro gli oppressori;
è questo inserirsi di forza con un non importa se modesto episodio di guerra nel quadro di una guerra immane che ha avuto per te­tro il mondo; è questo manifestare l'insofferenza contro i prepotenti che sono gli animatori di tutte le guerre; e fu l'avvenimento che seguì, come è noto, di poco la esplosione dell'animo popolare napoletano contro il quale, cosi come da noi, reagì selvaggiamente la repressione tedesca; e fu avvenimento che servì ad indicare agli oppressi il modo di rispondere in prima persona alle provocazioni dei prepotenti ed agli oppressori come dura sarebbe stata la loro vita in ogni contrada, e cosa alla fine dovessero attendersi dalla somma delle insofferenze da essi provocate.
Qui dunque - questa è la verità storica - in quei giorni di trepida ansia, in un'ora (ricordiamo ciò che era accaduto l'8 di settembre) di grave turbamento e smarrimento dell'intera Nazione, esplodendo in azioni di guerra l'animo indomito di un popolo incapace di subire e di soffrire soprusi, si confusero insieme sangue di giovani vite e lacrime di mamme e trasformarono le vie della città e le strade delle sue campagne come le mura delle sue case in altare della Patria sul quale poterono cominciare a riaccendersi, con i propositi di riscatto, le luci della speranza e la fiducia nell'avvenire.
Che se furono pochi i protagonisti diretti di quelle azioni e se furono soprattutto giovani non mi pare che ci sia da meravigliarsi perché sono sempre i giovani ad essere i più generosi, i più intransige­ti, i più aperti, i più incapaci di calcolo, i più pronti agli atti di ardimento; ma essi non sarebbero tali se non fossero, anche inconsapevolmente, a ciò formati.
E la Città di Lanciano - che ha sempre educato i suoi figli al culto della libertà, all'amore della giustizia, alla venerazione del diritto
- nelle giornate che stiamo commemorando diede la misura di ciò che il respiro della libertà, il rispetto del diritto connaturati nell'animo dei cittadini avevano saputo ispirare alla parte più sensi­bile e più generosa della sua gioventù provocata dalla prepotenza e non disposta a subire la sopraffazione.
E quando è la Patria stessa, nelle più alte Magistrature dello Stato, che consacra il valore di quell'avvenimento, ne apprezza lo spirito, ne fissa la portata morale, lo eleva alla dignità di fatto. di guerra meritevole del suo più alto riconoscimento, per cui è tutta intera la Città di Lanciano ad essere posta su di un piano di nobiltà che non ha confronti, appare logico che ogni discussione cessi ed ogni tiepidezza scompaia, da quel momento imponendosi un solo dovere preciso, categorico, indeclinabile per ognuno che intenda riconoscersi e considerarsi figlio di questa Città: la consapevolezza cioè della propria dignità e l'obbligo di esserne imperituramente riconoscente ai protagonisti dei fatti eroici dell'ottobre del 1943 e soprattutto ai Caduti che quella dignità hanno a lui guadagnato.

Errico D'AMICO
Senatore della Repubblica

 

UN EPISODIO DELLA RESISTENZA A LANCIANO: GEMMA

Si è scritto molto, anche se non tutto, sulle vicende e i protagonisti della rivolta lancianese nell’ottobre del 1943. Pubblichiamo il ricordo di un episodio non conosciuto: Gemma, (Gemma Di Castelnuovo, nata a Lanciano il 19/11/1893), un’esemplare donna del popolo del quartiere Sacca, rischiando la vita, compie un gesto di grande pietà cristiana nei riguardi dei corpi straziati di alcuni giovanissimi eroi. Rino Di Martino (che da anni esercita egregiamente, in una città del Nord Italia, la professione di docente) in un grigio mattino dell’autunno del 1943 fu testimone, insieme al fratello, ragazzo come lui, di quel nobilissimo gesto.
Gemma: mai nome è da considerare più appropriato perché mai
nome ha rispecchiato con maggiore evidenza e chiarezza la persona cui apparteneva. Di essa vorrei qui parlare avendo visto come si distinse nella ricerca e nella cura dei corpi straziati dei caduti dopo la nota rivolta antitedesca della città di Lanciano nell’ottobre del 1943.
Gemma era una semplice e comune donna del popolo, conosciuta come solerte lavoratrice e mamma esemplare. Era sposata con un altrettanto comune ed onesto “mastro” muratore, del quale purtroppo non ricordo con esattezza il cognome, forse Micolucci. Abitava in città, nel rione Sacca, in un vicolo posto tra le vie Valera e Cavour, precisamente in quello prospiciente il palazzo dell’allora archivio notarile, ora sede di un istituto scolastico canadese. Aveva due figli, un maschio ed una femmina. Ricordo bene quest’ultima, Ines, perché amica e collega di lavoro di mia sorella in un calzificio.
Qui lei contrasse, dopo anni di dure fatiche, per giunta mal
compensate, una grave malattia che l’ha condotta, ancor giovane, alla morte. Dai primi di settembre di quell’anno (il 1943), denso di eventi cruciali che si susseguivano a brevissima distanza gli uni dagli altri, il nostro paese viveva momenti di drammatica incertezza e pericolosità. Anche a Lanciano tale pesante atmosfera era avvertita. In essa l’intera popolazione, sicuramente Gemma compresa, rimase profondamente e attivamente coinvolta. Fu così che la mattina successiva alle eroiche giornate del 5 e 6 di ottobre che avevano visto la gioventù di Lanciano insorgere, appena dopo quella napoletana, contro l’invasione nazista per scuoterne l’oppressione, io, ragazzino tredicenne, e Sandro, mio fratello minore, alle prime luci dell’alba, furtivamente e con tanta incoscienza uscimmo di casa spinti dal desiderio di curiosare tra le rovine ancora fumanti della città.
Non si udivano più gli spari dei giorni precedenti, ma si vedevano numerosi edifici gravemente danneggiati a causa degli incendi appiccati in più punti, per rappresaglia e crudele vendetta, dalle inferocite truppe occupanti. Ricordo bene che un velo di nebbia incombeva sulle case, il cielo era completamente coperto, soffiava un venticello di tramontana, lieve ma alquanto fresco, non insolito sulla costa d’Abruzzo nella stagione autunnale soggetta, fin dall’inizio, ad improvvisi mutamenti climatici; difatti, le due giornate precedenti erano state calde e soleggiate. La nebbia, intanto, da rada che era si infittiva sempre più trasformandosi, man mano, in una sottile pioggerella che tuttavia non c’impediva di continuare a girovagare, sia pure con tanta cautela, tra i vicoli e le vie della città.
Attraversammo Piazza Plebiscito dove notammo, saccheggiato e
bruciato, un negozio di calzature da poco ristrutturato ed abbellito, considerato, con orgoglio, la più elegante vetrina del posto.
Più avanti i portici comunali del Corso Trento e Trieste, da cima a
fondo, con i negozi tutti anch’essi saccheggiati ed incendiati, erano ridotti ad un cumulo di rovine.
Scorgemmo per terra, dietro l’edificio del liceo classico, il corpo
impressionante di una vittima civile della rappresaglia e ne fummo coinvolti. Superato l’allora Vallone del Borgo, giungemmo nella zona detta di Santa Chiara che era stata, il giorno precedente, principale teatro di lotta e ci dirigemmo verso le Torri Montanare.
Arrivammo nel punto della strada che fa angolo con Via Marconi.
Fu allora che in assoluta solitudine, immersa in religioso silenzio,
vedemmo Gemma. Era inginocchiata per terra e aveva accanto a
sé un secchio pieno d’acqua, un bianco catino ed alcuni asciugamani appoggiati su di una panchina di ferro posta alla sua sinistra.
Ai piedi di questa giaceva il corpo martirizzato dell’eroe
quindicenne Pino Marsilio. Lo riconobbi subito perché mio amico
e leale avversario nelle gare di catechismo che annualmente si organizzavano tra i vari circoli giovanili di azione cattolica della nostra città.
Gemma, con una spugna bagnata, gli detergeva l’imberbe delicato viso, ripulendolo dalla polvere e dall’umidità della notte. Poi mi pregò di sorreggerle il catino per consentirle di rimboccare più agevolmente, tra gli indumenti lacerati del piccolo patriota, lembi di carne fuoriusciti dal suo fianco destro, a causa di una mortale e crudele raffica di mitraglia. Mio fratello, nel frattempo, reggeva gli asciugamani, qua e là intrisi del sangue degli altri eroi che Gemma, in quel tristissimo mattino, riuscì per primi a raggiungere.
Terminata la sua pietosa opera sui resti del giovane Marsilio, la
cui tragica fine ci lasciò come impietriti, Gemma ci intimò con calma di allontanarci e di tornare a casa perché nella zona incombevano ancora gravi pericoli. Intanto, ella si dirigeva, con andatura lenta ma sicura, verso i campi sovrastanti l’antica via che rasenta le Torri Montanare dove giacevano i corpi di altri patrioti sui quali intendeva continuare l’opera pietosa iniziata con tanto spirito di solidarietà e di compassione. Qualcosa di simile, l’ho saputo dopo, aveva compiuto la principessa Cristina di Belgioioso durante la difesa della Repubblica Romana del 1849. Mentre tornavamo a casa, turbati per quanto avevamo visto, volgemmo lo sguardo verso l’orizzonte. Non lontano si scorgeva, maestosa e possente, appena offuscata da un velo di nebbia, con la cima leggermente imbiancata dalle prime nevi, la superba sagoma della Maiella Madre.
Sembrava volesse vegliare, orgogliosa e fiera, sul sonno eterno
dei suoi giovani eroici figli. Del suo nobile e spontaneo gesto
Gemma non ha mai fatto cenno con nessuno.
Donna umile e sinceramente disinteressata ha tenuto per lunghi
anni tutto dentro di sé. Per la prima volta, dopo oltre mezzo secolo, ho sentito il dovere, più che il desiderio, di ricordare questo singolare e toccante episodio e, soprattutto, di farlo conoscere. Io e mio fratello, in quel lontano mattino, unici, in una città deserta e martoriata, avemmo la ventura di assistere al gesto di una “crocerossina improvvisata” dal luminoso nome di Gemma, e la fortuna di ricevere una preziosa, indelebile lezione di vita che ha condizionato positivamente, nel corso degli anni, il nostro modo di pensare e di operare.

Rino DI MARTINO
da “Terra e Gente”, a. 2002 - n.2

 

ESMERALDA

La sua immagine non si cancella dalla sua memoria. Era la donna delle ricottelle.
Veniva ogni fine settimana da Castel Frentano. Picchiava leggermente, come persona intimidita, al portone di casa e, prima che salisse, sapevamo già chi poteva essere.
- Ecco Esmeralda - diceva Tittina, mia moglie, avvicinandosi ad
aprire. Esmeralda entrava. Non più alta di una bambina, vestiva
in marrone, la gonna leggermente rigonfia, il fazzoletto annodato sotto il mento con il paniere che custodiva le ricottelle infilato al braccio, sembrava una biscuit. Entrava in cucina, dietro Tittina.
Le ricottelle erano nascoste sotto un panno bianco, dentro certe
coppette di terracotta. Dopo di averle cavate fuori e rovesciate sui piatti, tutta sorridente ci offriva la giuncata. - E per i bimbi - diceva.
E un odore acidulo di latte si spargeva per la stanza.
E allora parlava a lungo di sè e di suo marito. Erano soli al mondo, senza figlioli, ma vivevano felici e contenti. La loro casetta, allietata dal canto di tanti uccelli e dal profumo di tanti fiori, era fuori dall’abitato, vicino ad un praticello ove potevano tranquillamente pascolare le loro pecorelle. Era un cuore semplice e puro, Esmeralda. Aveva gli occhi come il fiore del lino e sempre ridarelli.
Non era una donna come le altre dei campi. Venne la guerra. Brutti avvenimenti ci incalzavano. L’Italia dopo pochi mesi di incosciente euforia, arata dalla guerra, agonizzava.Fu invasa dallo straniero. Uomini di guerra, padroni delle nostre città, dei nostri averi, delle nostre vite, per diritto di guerra commettevano ogni sorta di soprusi, ogni sorta di violenza.
Nel pomeriggio del 9 settembre del 1943 comparvero a Lanciano. Il comando militare prese possesso di una villa posta fuori dalle mura della città, in contrada Marcianese, e di là cominciò ad emanare i suoi ordini. Emise decreti di perquisizioni, richiese molte cose, mezzi di trasporto, macchine da cucire e da scrivere, mobili delle case,biancheria, valige, orologi, il bestiame ai nostri contadini, i macchinari ai nostri industriali, persino la nostra balda gioventù per arruolarla, indrappellarla e inviarla ove maggiore era il pericolo.
Il popolo di Lanciano, dopo aver per più giorni pazientemente
inghiottito pane amaro, ostile ad ogni tirannia, non poté soffocare lo spirito della sua umana dignità e il 6 ottobre si rivoltò contro l’invasore. Fu una lotta impari per uomini e per armi. Gli uomini di guerra si tennero dapprima sulla difensiva, poi, ricevuti i rinforzi richiesti, affrontarono i rivoltosi, spostandosi da una strada all’altra della città, con camionette blindate, usando cannoncini e mitragliatrici, mentre il popolo, rappresentato da giovani pieni di ardimento, disponeva solo di poche bombe a mano e di pochi fucili.
Fu una vera carneficina ove perirono molti giovani lancianesi, ma
anche parecchi invasori. I giovani furono battuti, ma non domati.
Quella rivolta rivelò il loro alto ideale, quello cioé di voler creare,
con le loro mani, con il loro niente, con il loro cuore giovanile, un
domani meno duro, un futuro un po’ migliore, una vita più decente, libera da ogni odiosa sopraffazione straniera. In quel triste giorno, il comandante delle truppe stanziate a Lanciano lasciò la sede del comando per poter essere in mezzo ai suoi uomini e affrontare e domare i rivoltosi. In sede lasciò, in assetto di guerra, un suo subalterno con pochi poteri e pochi soldati. Una donnina di Lanciano, Marialuisa, persona da noi ben conosciuta, impegnatasi come domestica col comando fin dai primi giorni dell’invasione, era lì addetta al governo della villa e al servizio di cucina. Da lei sapemmo quello che accadde alla povera Esmeralda.
E sapemmo che nella mattina di quel giorno di ottobre, Esmeralda, con in capo una grossa cesta ricolma d’uva e di ricottelle, s’era incamminata verso Lanciano, nulla sapendo di quanto succedeva in città. Giunta presso la villa ove era il comando, fu fermata da un soldato armato e condotta alla presenza del vicecomandante, che, seduto in una poltrona, con i piedi poggiati sulla pietra del camino, ove scoppiettava tanta buona legna, fumava. Al saluto non rispose, non si alzò, non degnò di uno sgaurdo l’innocente creatura. Due altri soldati, anch’essi armati, deposero ai piedi dell’ufficiale la cesta che la donna portava. Esmeralda udì dei comandi gridati con voce sconosciuta e gutturale da quell’ufficiale, che, dopo aver buttato con rabbia la cicca nel fuoco, si alzò rumorosamente dalla poltrona e, posandole con disprezzo lo sguardo addosso, disse: - Ebbene signora,dove volete andare?-
Esmeralda, livida, le mani agitate da un lieve tremito nervoso,
non seppe rispondere.
- Eh, eh, cara signora, vedo che portate tanta roba buona. Ma si
tratta di altro. A Lanciano c’é rivoluzione. Sentite il crepitio delle
mitragliatrici? Gli scoppi del cannone? Molti dei miei compagni
sono là a domare la rivolta. Alcuni vengono uccisi da quei porci
traditori. Ci sparano addosso! Capite? Capite?! Ma avranno pane per i loro denti, saranno tutti annientati. Capite? Voi... non sapevate tutte queste cose?... Dove volevate andare? Per me voi siete una spia. Vi prendo e vi faccio fucilare.-
- A me fucilare? Ma voi siete pazzo! Cosa vi salta in testa? Gesù
Gesù, Maria Santissima, liberatemi da questo demonio. -
- Voi facevate finta di portare cibo da vendere a Lanciano per meglio dissimulare un vostro progetto. Siete caduta nelle mie mani.
Tanto peggio per voi. -
- Ma lasciatemi andare. Come potete sospettare di me che non ho mai pensato alle vostre cose? Lasciatemi andare in santa pace. -
- E’ la guerra, signora. Ditemi perché siete venuta da queste parti. Ditemi lo scopo della vostra venuta, e vi lascio libera. -
- Ma voi siete veramente cattivo. Io spia! Voi siete un menzognero e un brutale. Lasciatemi andare. Non voglio perdere altro tempo con voi. -
- Ah, voi mi provocate - gridò. E, rivoltandosi ai soldati, ordinò:
Portate fuori di qui questa donna e perquisitela. - Esmeralda fu condotta nel giardino e lì si fece pazientemente frugare da tutte le parti, sperando di essere alfine liberata. Non le
trovarono addosso che una immagine del Cuore di Gesù e poca
moneta. L’arrogante ufficiale, uscito anche lui in giardino, le disse:
- Signora, noi non abbiamo trovato nulla nelle vostre tasche. Ma
io vi accuso lo stesso di spionaggio. Noi abbiamo una legge, la legge dei sospetti. La mia accusa implica la pena di morte. Solo una cosa potrà salvarvi, nel dire la verità. -
- Ma quale verità volete che vi dica? La verità è questa: andavo a Lanciano per vendere la mia roba. Questa è la santa verità. Chiamate gente qui intorno e interrogatela. Io non sono una spia. Sono una donna onesta e timorata di Dio e non so spiegarmi il vostro villano modo di agire. -
- Voi siete una donna sfacciata, perfida, pericolosa. Ditemi dov’è
la sede del comando clandestino dei rivoltosi. Voi lo sapete e vi
ostinate a tacere. Portavate la vostra roba ai rivoltosi! Vergogna! Su via parlate. Nessuno saprà quanto mi direte. Se mi farete sapere quanto vi chiedo, voi sarete libera. Se rifiutate è la morte immediata. Scegliete. - Esmeralda rimase immobile, senza aprir bocca. Sentì gli occhi riempirsi di lagrime, per debolezza e per rabbia, mentre l’ufficiale, con rinnovata stizza e disprezzo, riprese: - Pensate che tra cinque minuti sarete morta. Tra cinque minuti... Avete capito? Parlate, dunque. -
- Ma cosa vi debbo dire? Della rivolta io non ne so nulla, nulla di
nulla. Voi volete sfogare la vostra rabbia su una povera innocente! Non ve ne vergognate?
L’ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.
Esmeralda fissò lo sguardo su alcuni crisantemi che un raggio di
sole graziosamente illuminava, poi, rivolgendosi all’ufficiale, balbettò:
Non fatemi del male. Abbiate pietà di me. Non macchiatevi
del sangue d’una donna innocente. Se mi uccidete, il Signore che è nei cieli vi punirà. -
L’ufficiale gridò: - Fuoco. -
Esmeralda fu colpita. Cadde di schianto, con la faccia a terra. I
soldati la presero per la testa e per le gambe e andarono a seppellirla in un fosso lì accanto, presso la siepe, e la coprirono di terra.
Il vigliacco assassino, apparentemente sereno, accese una sigaretta e rientrò nella villa. Prese un binocolo e da un balcone, aspirando grosse boccate di fumo, fissò lo sguardo verso Lanciano.
Scoppi di armi da fuoco si udivano ancora e si scorgevano dense
colonne di fumo nero. I malvagi uomini di guerra avevano appiccato il fuoco a molte case e a molti negozi della città ribelle, dopo averli furiosmente saccheggiati. Tornò a sedersi in poltrona e, vedendo la cesta della innocente vittima ricolma di ogni grazia di Dio, con un urlo chiamò Marialuisa, che accorse tremante, in grembiule bianco, e le disse:
- Conservate questa roba per il pranzo. -
Marialuisa, senza farsi scorgere, chiusa nella propria paura, aveva tutto visto e udito, tremando con terrore di fronte alla malvagità di quell’uomo squilibrato e beone. Quando i tedeschi fuggirono da Lanciano per non incappare nell’accerchiamento nemico, ci raccontò la spaventosa storia nei minimi particolari. Dalle sue parole ci fu facile ricostruire il tragico insidioso dialogo che si era svolto fra Esmeralda e l’ufficiale. E ci disse ancora che il povero Ignazio, dopo aver a lungo cercato la sua compagna, si rivolse anche al coniando tedesco, sperando di averne notizie. Fu preso e spedito in un campo di concentramento.
Rimanemmo stupiti della enormità di quella ferocia. Quel barbaro
assassino ci fece ribrezzo, disgusto, vergogna, paura. Nella mia
famiglia più di una lagrima fu versata.
Più gli anni passano, più il ricordo di Esmeralda e di Ignazio, mi
riempie di nostalgia. L’immagine di quelle care creature può allontanarsi dalla mia mente, può impallidire, può diventare imprecisa, come quella di tante altre persone amate, ma nel mio cuore è sempre viva con il suo fascino di grazia, è sempre piena di tanta, tanta dolce poesia.


ARMANDO MARCIANI
Da “Almanacco di Galeno 1971”.

 

ROCAMBOLESCA FUGA DI UNA DONNA CORAGGIOSA

Un’ebrea internata a Lanciano nel 1943 si salvò dalla fucilazione
tedesca fuggendo e nascondendosi in una stalla di Sant’Apollinare.

Nel 1938 vennero emanate in Italia leggi razziali che modificarono la situazione degli ebrei e il 10 giugno del 1940 con l’entrata in guerra dell’Italia cominciò il loro internamento.
Nel territorio nazionale ci furono in tutto quarantatré campi di
internamento. Durante la seconda guerra mondiale essi erano
concentrati maggiormente nell’Italia centrale.
In Abruzzo nel mese di giugno del 1940 venne stabilita l’apertura di un campo di concentramento, per soli internate, a Lanciano una città ritenuta non importante militarmente e fu scelta come sede la villa appartenente all’Avv. Filippo Sorge, nella zona Cappuccini, riadattata all’interno e munita di recinto.
All’inizio la direzione del campo fu affidata al podestà di Lanciano e successivamente passò a un funzionario di Pubblica Sicurezza. I carabinieri misero un posto di guardia in una casa che stava vicino alla villa per sorvegliare le internate. Esse, dopo un mese dall’istituzione del campo di concentramento erano quarantasette e appartenevano a varie nazionalità: tedesca, russa, polacca e inglese; nel mese di agosto del 1940 diventarono settantacinque.
Il direttore del campo compilava l’elenco dei presenti e lo aggiornava periodicamente mettendo: nome, cognome,età, nazionalità, razza e professione. All’arrivo di ogni internata veniva compilato un verbale con varie prescrizioni e firmato per approvazione dall’interessata. Ad esempio, era vietato allontanarsi dall’abitato senza autorizzazione, frequentare abitazioni private, possedere passaporti o documenti equipollenti, possedere gioielli di valore, leggere giornali stranieri, possedere apparecchi radio e, poi, si doveva serbare buona condotta, non fare discussioni, presentare tutta
la corrispondenza al preventivo controllo.
Il giorno 12 marzo del 1941 nel campo di concentramento per internate di Lanciano arrivò la signora Ilona Chrick in Chrepal,
un’austriaca di razza ebrea nata a Graz, di anni 45 e di professione casalinga, proveniente dalla cittadina di Abbazia, in provincia di Fiume, all’epoca italiana.
Per circa tre anni, con varie alternative, la signora Ilona rimase a
Lanciano in qualità di internata civile di guerra e, quando le truppe tedesche occuparono l’Italia e arrivarono a Lanciano, lei venne arrestata dalla polizia segreta (tedesca) chiamata Gestapo e portata nel carcere della città come ostaggio a causa di novantacinque donne ebree che erano fuggite, e sarebbe stata condannata a morte per mezzo della fucilazione, se le stesse non si fossero ripresentate al campo. La signora Ilona rimase tre mesi in prigione sorvegliata da quattro soldati armati tedeschi e non denunciò mai dove si trovassero le compagne ebree per essere solidale con loro e, di conseguenza, il comando tedesco decise di eseguire la sua condanna a morte.
Quando i soldati tedeschi la portavano da Lanciano a Chieti con un autocarro militare, in una curva oscura ella saltò dal mezzo e scappò in mezzo alle campagne approfittando dell’oscurità col cuore in gola, come si suol dire, per la paura di essere ripresa dai suoi accompagnatori da un momento all’altro e per le difficoltà incontrate.
Dopo circa ventiquattro chilometri di cammino, come lei stessa raccontò al sindaco di Lanciano, con una lettera scritta circa vent’anni dopo, si diresse verso una casa colonica alla periferia di Sant’Apollinare, (lato fiume Moro), e si fermò nell’abitazione della famiglia di Fiore De Nardis, un contadino di una certa età che era stato, negli anni giovanili, in America per lavoro. La famiglia, dopo avere ascoltato la storia della rocambolesca fuga, la accolse rischiando pene severe, la fece risollevare dal suo stato di abbattimento e poi la invitò a nascondersi in mezzo a balle di paglia che stavano in un pagliaio vicino casa e successivamente la fece restare nascosta nella stalla dove c’erano alcuni animali.
Nei primi giorni del mese di Dicembre del 1943 nel paese arrivarono le truppe alleate e la signora Ilona finalmente ritrovò con gioia la libertà da tempo desiderata. Poco dopo si procurò un passaporto ed emigrò negli Stati Uniti dove aveva un fratello.
A questo punto potrebbe sembrare tutto concluso con la città di Lanciano, invece non andò così, perché da New York il giorno 15 agosto del 1965 l’ex-internata scrisse una lunga lettera al sindaco Francesco Paolo Giancristoforo, conservata nell’archivio storico comunale, per chiedergli un attestato firmato anche da un notaio e per l’atto allegò un dollaro nella lettera.
Nella dichiarazione doveva essere affermata la sua permanenza come internata civile di guerra nel campo di concentramento di Lanciano per ottenere l’indennità dal governo austriaco per le sofferenze patite durante il suo internamento. Come testimone ella indicò un cittadino molto conosciuto a Lanciano: Vittorio Siniscalco, parente della citata famiglia De Nardis, il quale rilasciò esplicita dichiarazione scritta all’autorità comunale su tutto quello che sapeva.
A distanza di tanti anni dagli eventi narrati la casa De Nardis in Sant’Apollinare si apre soltanto poche volte l’anno, in preferenza durante la stagione estiva e a ritornarci, per una breve villeggiatura,è l’erede Filippo che vive a Roma con la sua famiglia. In un cordiale incontro avuto con lui, ho raccontato le vicende sopra narrate ed egli,allora bambino, ha detto di ricordare ancora “ quella bionda signora” che stava nascosta nella stalla vivendo con gli animali e qualche volta, attraverso una scalinata interna alla casa, toccò a lui scendere nella stalla portando dalla cucina del cibo e un sorriso di conforto alla signora Ilona che soffriva tanto.

DESIDERIO DI PAOLO

 

INTERVISTA AD ANGELO CIAVARELLI - partigiano
Testimonianze già apparse sull’opuscolo “1943-1983 - Quarantennale della Resistenza e della Liberazione”

- Vuole ricostruire, signor Ciavarelli, quanto accadde nei giorni della insurrezione e soprattutto quegli episodi, dei quali è stato protagonista? -
- Ci eravamo organizzati militarmente ed eravamo inquadrati in plotoni. Il mio comandante di plotone era il tenente medico Carlo Schönheim, ungherese di origine, ma residente in Italia da molto tempo.
Dopo l’attacco contro due autoblindo tedesche, avvenuto in località Pozzo Bagnaro, dove passava la strada di circonvallazione, attacco a cui partecipai anch’io, il dottor Schonheim, prevedendo la reazione dei tedeschi, ci ordinò di collocarci nei punti strategicamente più importanti della città. Fu così che, assieme ad altri due compagni, (Bisbano Angelo e Costantini Licio), fui mandato nella zona di Lanciano vecchia in un vico di Largo Ricci, esattamente dietro alla “casa di tolleranza”. Ci appostammo in una terrazzina, dalla quale si poteva controllare la strada d’accesso per Pozzo Bagnaro, l’attuale “Via per Frisa”. Eravamo armati e tenevamo a disposizione numerose bombe a mano. Ci avevano detto di tenerci pronti nel caso che venissimo attaccati. Mentre eravamo là di presidio, ecco che sopraggiunse una camionetta con tre o quattro tedeschi; anzi, mi sembra che erano proprio quattro. Uno di essi entrò nel vico e si avviò verso il punto dove stavamo noi. Ad un certo momento, egli ci scorse e vide che eravamo dei ragazzini, ma armati e pronti ad entrare in azione. Il tedesco ebbe un attimo di esitazione e rimase un po’ sorpreso per la nostra presenza, nulla sapendo di quanto era avvenuto a Pozzo Bagnaro quello stesso 5 ottobre. Nel frattempo, gli intimai l’alt e dissi a Licio di disarmarlo, facendo in modo che questi non si portasse dietro di lui. In tal caso, infatti, c’era la possibilità che colpissi Licio. Intanto, Bisbano era andato verso l’entrata del vico per osservare i movimenti degli altri soldati tedeschi e per accertare se stessero per venire.
Naturalmente, il soldato da me fermato cercava di fare quanto avevo previsto, cioé di mettersi al riparo di Licio onde impedirmi di sparare. Gridai, allora, a Licio di stare attento e lasciai partire un colpo che ferì il tedesco al ginocchio destro. Caduto a terra e dolorante per la ferita, gli saltammo addosso e lo disarmammo.
I suoi commilitoni, sentito lo sparo, si allontanarono in tutta fretta e mi accorsi di questa precipitosa fuga dal rumore dei loro passi. Ma subito dopo ci raggiunse il dottor Schonheim, che si trovava nel vicino porticato della chiesa di San Biagio ed aveva udito lo sparo. A lui chiedemmo, alquanto impauriti, come agire. Egli ci rassicurò e ci esortò a stare calmi, dicendo che non era successo nulla di grave.
Il dottore pensò, per prima cosa, a far rimuovere la camionetta abbandonata dai tedeschi e la fece nascondere dietro la chiesa. Poiché il soldato rimasto ferito si lamentava, si decise, anche per umanità e carità cristiana, di portarlo all’ospedale. Lo accompagnarono, (lo ricordo bene), due donne: la signora Anna De Nardis, (moglie di un certo Farfallini), che abitava proprio nel vico di Largo Ricci, e la signora Ida Sargiacomo, (madre dell’ingegner Sargiacomo). Queste caricarono il ferito su un carrettino e lo avvolsero in un lenzuolo. Purtroppo, appena giunto in ospedale, il tedesco spirò per l’enorme perdita di sangue.
Ecco, io sono stato protagonista di questo episodio accaduto il 5 ottobre. Ma voglio continuare il racconto di quanto avvenne il giorno successivo. -
- Certamente ed anzi la pregherei di procedere ad una narrazione precisa, giacché quanto avvenne quel 6 ottobre si può considerare, come lei sa benissimo, la fase culminante della rivolta lancianese. -
- La sera stessa del 5 ottobre ricevemmo disposizioni per eventuali azioni di rappresaglia che il Comando germanico poteva scatenare durante la notte. La mattina del giorno seguente ci riunimmo presso il tirassegno, dove avevamo il deposito di armi e munizioni, lungo la strada per Frisa, (era questo il luogo in cui eravamo soliti riunirci), e decidemmo di portarci in città, salendo per “Via San Egidio”. Era nostra intenzione di impadronirci di tutte le armi che si trovassero nella Caserma della Milizia e così facemmo.
Ci sparpagliammo per la città con la speranza di cogliere di sorpresa i tedeschi, ma questi erano stati già avvertiti forse per qualche soffiata ed erano a conoscenza dei nostri propositi. Fu così che ebbe inizio la fase più cruenta dell’insurrezione. -
- Quale ruolo ha svolto durante questa fase? -
Ho partecipato anche ai combattimenti del 6 ottobre. Mi fu affidato il compito di recarmi nella zona prossima al campo di Tupone, vicino al palazzo dell’A. T. I. Era allora una zona pressoché deserta, quasi completamente priva di costruzioni, fatta eccezione per due edifici: quello dove aveva sede l’ONMI e quello di proprietà del geometra Ciro Rossi. Era, dunque, una zona difficile da controllare.
Assieme a me vennero altri, tutti amici carissimi: Giovanni Calabrò, Tommaso Oliva e Raffaele Stella. Noi quattro eravamo appostati a breve distanza l’uno dall’altro. Finché i tedeschi avanzarono lungo Viale Cappuccini e raggiunsero la Caserma della Milizia, potemmo facilmente mantenere le nostre posizioni anche perché eravamo protetti da una scalinata esterna, dietro la quale potevamo ripararci. Ma poi i tedeschi cominciarono ad avvicinarsi sempre di più, fecero entrare in azione un cannoncino che sparava quasi di continuo. Erano armati con fucili mitragliatori e mitragliette per cui erano nettamente superiori a noi, che avevamo armi antiquate, come il moschetto ’38, e meno precise. Ci ordinarono di ritirarci, cercando, però, di coprirci le spalle con il villino del geometra Rossi.
I nostri superiori temevano, infatti, che potessimo rimanere uccisi durante il ripiegamento. La nostra ritirata continuò fino all’altezza dell’incrocio da dove inizia la strada per Orsogna, in prossimità delle Torri Montanare. Qui ci appostammo e mantenemmo il combattimento per molto tempo. Durante la ritirata molti persero la vita. Tra questi il povero Giovanni Calabrò, che rimase ucciso proprio a pochi metri di distanza da me, colpito da una raffica di mitra nella schiena. Purtroppo, morì sul colpo e non ci fu niente da fare. Se fosse rimasto almeno ferito, avrei cercato di trasportarlo, ma era morto all’istante.
Voglio sottolineare, a questo punto, che i mezzi a nostra disposizione erano scarsi, che le nostre armi, come ho già prima ricordato, non erano adeguate a sostenere lo scontro contro un nemico superiore numericamente e ben equipaggiato. Avevamo però l’entusiasmo della nostra giovinezza e l’incoscienza tipica di quest’ètà. -
- Ricorda, signor Ciavarelli, cosa avvenne dopo le tragiche giornate
dell’insurrezione? -
- Dopo quel drammatico 6 ottobre e dopo la strenua resistenza opposta ai tedeschi, - i quali in quella circostanza subirono anche perdite non lievi per il fatto che noi potevamo agire da una posizione militarmente buona, mentre essi erano costretti a muoversi allo scoperto -, continuammo a ritirarci lungo la strada per Frisa e ci fermammo sul fiume Moro. Ricordo che scegliemmo come ricovero un pagliaio e qui restammo per molti giorni, dato che si trattava di un posto tranquillo, lontano dalla città. Erano con me quasi tutti quelli del plotone del dottor Schonheim: c’era Tommaso Oliva; c’era un certo Gioielli; c’era Rocco Stella; c’erano tanti amici. Dormivamo nel pagliaio e una signora, che ci conosceva, ci dava da mangiare qualcosa, (una pentola di fagioli ed un po’ di pane).
Decisi, infine, di non starmene più con le mani in mano e, assieme a mio fratello, Giacomo Ciavarelli, ed a un amico, Giuseppe Bacillieri, mi allontanai da quel posto anche perché avevamo avuto ordine di non stare insieme, di nasconderci e di indossare possibilmente vestiti diversi da quelli che portavamo al momento della rivolta, affinché i tedeschi non ci riconoscessero e non ci prendessero in caso di eventuali azioni di rastrellamento.
Così, ci recammo in una contrada che era sotto il fiume, chiamata Befenza, e qui trovammo ospitalità presso una famiglia di contadini, di cognome Paolucci. Devo riconoscere che ci ha aiutato molto sia dandoci da mangiare, sia avvertendoci della presenza dei tedeschi, tutte le volte in cui erano nelle vicinanze. Un giorno, riuscimmo a passare il Sangro, nonostante che il fronte fosse ancora fermo su questa linea. Avevamo intenzione, infatti, di dire a quanti abitavano dall’altra parte del fiume come stavano le cose. Pertanto, varcato il fiume, ci dirigemmo verso Torino di Sangro.
Eravamo giunti all’altezza delle prime case del paese, quando incontrammo un certo Cardinale Giuseppe al quale dicemmo qual era la situazione a Lanciano, precisando, tra l’altro, che i tedeschi erano pochissimi, che si erano arroccati ad Ortona ed a Orsogna, che avevano una postazione-radio mobile in località Madonna del Carmine e che, quindi, si poteva attraversare il fiume con una certa sicurezza.
A conferma di questo fatto voglio riferire un episodio che mi capitò alcuni giorni dopo, all’inizio del mese di novembre, e cioé l’incontro con un militare inglese, che aveva attraversato il fiume e che svolgeva attività di spionaggio nella zona di Lanciano, esattamente presso il boschetto di Barbati, (l’attuale “Via Morelli”). Questo inglese frequentava la trattoria del “Buon gusto”, gestita da Pierino Franceschini, e molte volte ho pranzato con lui. Quando venne a conoscenza che io e gli altri amici, che mi accompagnavano, eravamo tutti partigiani, cominciò ad aprirsi e siccome parlava bene in italiano, ci comunicò molte notizie circa le azioni che il Comando inglese stava preparando, proprio alla vigilia dell’ingresso dei reparti dell’VIII Armata a Lanciano. Anzi, ricordo perfettamente che, alla fine di novembre, ci fu un tremendo cannoneggiamento da parte di batterie tedesche diretto contro la contrada Sabbioni. Tutta questa zona fu colpita violentemente e vi furono molti morti e molti feriti, tra cui anche dei bambini, come la piccola Ida Tupone. Io, assieme a mio fratello ed ad altri, mi prodigai per soccorrere i feriti e portare i più gravi all’ospedale.
Tra le vittime del bombardamento tedesco ci furono ben quattordici/quindici persone che persero la vita non a causa delle schegge,
ma perché una cannonata colpì il luogo dove avevano trovato ricovero, cioé una cantina tutta piena di botti ricolme di vino.
Quando la cannonata centrò il locale, le botti furono sfondate dallo stesso spostamento d’aria ed il vino fuoriuscito invase la cantina. I poveri rifugiati, che stavano raccolti intorno ad un caminetto situato al centro della stanza, furono sommersi dall’enorme quantità di vino, giacché ognuna di quelle botti ne conteneva otto/dieci quintali, e morirono affogati. Fu, certo, un’esperienza sconvolgente soprattutto per quanto riguarda l’opera di soccorso dei feriti. Ricordo che quel giorno pioveva a dirotto e c’era dappertutto fango.
Mentre i tedeschi occupavano ancora Lanciano, entrai a far parte della loro polizia militare allo scopo di evitare soprusi ai danni della popolazione e furti nei negozi. Ogni notte si perlustravano le strade della città ed andavamo in tre, un tedesco e due di noi.
Quando vennero gli inglesi, svolsi lo stesso tipo di servizio sempre a favore della popolazione.
- Ricorda qualche episodio dei periodo successivo alla venuta dei reparti inglesi? -
- Ricordo, anzitutto, che gli inglesi entrarono a Lanciano agli inizi di dicembre ed io fui il primo partigiano ad essere stato intervistato da Radio-Londra e da RadioMosca. La mattina del 3 dicembre andammo noi stessi ad accogliere il primo reparto dell’VIII Armata. Era costituito da indiani e si era fermato in prossimità della chiesa di S. Antonio. Nonostante che dichiarassimo di essere partigiani, ci fecero mettere davanti ai cannoni e così entrammo in città. Il nostro compito principale continuò ad essere, anche dopo l’arrivo delle truppe inglesi, quello di assistere ed aiutare la popolazione di Lanciano, coadiuvando le autorità militari nel mantenere l’ordine pubblico e nell’effettuare tutte quelle operazioni che si rendessero indispensabili per allievare e migliorare le dure condizioni di vita della cittadinanza. Fu istituito, per nostra volontà, anche un ufficio di assistenza agli sfollati, utile specie per quelli che erano in una situazione piuttosto critica. Io stesso, in quella occasione, aiutai a trovare alloggio una sfollata di Ortona, che era incinta.
I tedeschi, prima di andarsene, compirono numerosi espropri, come nel caso della Fonderia Mari. I fratelli Mari, proprietari e gestori di questa rinomata Fonderia, erano stati avvertiti delle cattive intenzioni dei militari germanici e si dettero da fare per evitarle.
Io ed un amico, (ne ricordo il nome: Silvino Martelli), li aiutammo a nascondere i torni.
D’altra parte, bisogna riconoscere che anche gli inglesi si comportarono, almeno agli inizi, con distacco e con durezza nei confronti della popolazione civile. Soprattutto gli indiani ed i neozelandesi infastidirono la cittadinanza. Fortuna che tra i reparti dell’VIII Armata c’erano pure dei soldati italiani appartenenti alla “Nembo”. Furono questi che ci vennero incontro e ci soccorsero all’occorrenza.
Dopo la liberazione dai tedeschi, s’era costituito, a Lanciano, il Comitato di Liberazione Nazionale, i cui membri si riunivano a casa di Federico Mola. Quest’ultimo, però, a causa del suo atteggiamento libertario e provocatore nei confronti delle autorità militari inglesi, fu fatto arrestare. Ricordo, a tal proposito, che anche altri cittadini lancianesi, come Orlando Iannone, furono arrestati perché avevano protestato contro il comportamento dei soldati dell’VIII Armata.
Ecco perché noi partigiani, che avevamo sostenuto l’impari lotta contro il tedesco invasore, cercammo, in quel frangente, di difendere la cittadinanza da ogni eventuale sopruso.

Vincenzo LIBERTINI

 

INTERVISTA A DOMENICO PANTALEONE - partigiano

- Signor Pantaleone, vuol parlare dell’insurrezione ottobrina e dei fatti che la videro principale protagonista? - - Voglio precisare, prima di tutto, che allora ero giovane e che, come tanti altri miei coetanei, partecipai alle riunioni di un gruppo di antifascisti ed antinazisti, costituitosi a Lanciano appunto con lo scopo di combattere i tedeschi. - La mattina del 5 ottobre, fummo convocati e mandati nella zona dell’attuale strada che collega Lanciano con Frisa, allora nota con la denominazione di Pozzo Bagnaro. Ci riunimmo in questa zona perché era lontana dalla città e quindi poco frequentata. Nel corso della mattinata, verso mezzogiorno, arrivò uno degli organizzatori del nostro gruppo, un certo De Luca, che poi seppi essere un ufficiale dell’esercito e per l’esattezza un tenente. Egli ci invitò a deporre momentaneamente le armi e a nasconderle nelle grotte, che c’erano in quella zona, giacché disse che un’azione insurrezionale non era propizia nella circostanza in cui ci trovavamo, essendo l’VIII Armata ben al di là del fiume Sangro e non prevedendosi un suo immediato attacco. Decidemmo, così, di nascondere le armi in alcune grotte e di porvi a guardia alcuni dei nostri.
Se non che, la sera di quello stesso giorno, avvenne improvvisamente Lo scontro tra i nostri e due autoblindo tedesche a Pozzo Bagnaro. lo devo dire con tutta onestà che non vi partecipai per il semplice fatto che non ebbi neanche il tempo materiale per esservi presente. Seppi successivamente che quello scontro era accaduto all’improvviso giacché i due automezzi germanici erano stati indirizzati erroneamente verso la strada per Frisa dal concittadino Florindo Miscia, al quale i soldati tedeschi si erano rivolti per chiedere informazioni circa la direzione da seguire per imboccare la strada per Ortona e Pescara.
Quando i nostri compagni, che erano di guardia alle armi, videro avvicinarsi le due autoblindo, pensarono subito di essere stati scoperti e cominciarono a sparare. Dopo questo episodio, ricevemmo l’ordine di armarci e prendemmo, così, tutte le armi che avevamo a disposizione: moschetti, fucili e bombe a mano. Io ed altri sei o sette compagni ci recammo in una contrada vicina a Lanciano, posta in una zona collinare da dove si poteva vedere tutta la città.
Quando gli spari divennero più frequenti e la rivolta raggiunse la fase di massima intensità, la mattina del 6 ottobre, subito ci accorgemmo di quanto stava accadendo e ci preparammo a scendere verso Lanciano, anche perché, nel frattempo, era arrivata una staffetta che sollecitò il nostro intervento immediato.
Giunti a Lanciano, ci dislocammo in una zona di aperta campagna, corrispondente all’attuale “Via Marconi”, ma che allora era pressoché deserta ed era nota con il nome di “campagna di Tupone”, essendo questi il maggior proprietario dei terreni. Qui avvenne uno scontro tremendo con i tedeschi, che avanzavano da Viale Cappuccini. Molti amici, che stavano assieme a me in quel frangente, vi persero la vita, tra cui Stella Raffaele e Trozzi Nicolino. Ricordo con precisione e con profondo rammarico la morte di uno di questi cari amici, Achille Cuonzo, colpito in bocca da un proiettile e morto quasi davanti a me, senza che me ne accorgessi immediatamente giacché nel corpo non presentava segni di ferite particolarmente gravi.
Intanto, fummo costretti a ritirarci, data la schiacciante superiorità del nemico. Io, poi, assieme ad altri mi allontanai da Lanciano e mi rifugiai verso contrada Madonna del Carmine, anzi tra questa località e la contrada Nasuti. Da lì potei scorgere il fumo denso degli incendi che si levavano dalla città in quel tragico 6 ottobre e capii che per noi la situazione si era fatta molto critica.
I tedeschi, sedata l’insurrezione, rimasero ancora a Lanciano e più esattamente nella zona del Sangro, essendo ormai imminente l’arrivo delle truppe inglesi. Il Comando germanico emise un proclama in cui si ordinava alla popolazione di collaborare con i soldati ed alcuni di noi furono presi e costretti a lavorare. I tedeschi non stavano in città, ma erano dislocati all’intorno. Ogni tanto, però, compivano delle incursioni in città, rubando nei negozi e chiedendo con la forza a tutti qualunque cosa avessero bisogno. Tale situazione durò fino all’arrivo degli inglesi. - - Ecco, vuol parlare, signor Pantaleone, del periodo in cui a Lanciano c’erano gli Alleati? Più precisamente, dei rapporti tra le autorità, i militari dell’VIII Armata e la popolazione civile? -
- L’arrivo degli inglesi a Lanciano avvenne, (lo ricordo benissimo), il giorno 3 dicembre. Fu un fatto inaspettato per tutti poiché gli stessi soldati tedeschi, rimasti nella zona di Lanciano, non si attendevano l’attacco violentissimo sferrato dai reparti dell’VIII Armata.
Quella mattina del 3 dicembre stavo sotto il ponte di Diocleziano assieme ad altri sfollati, quando sentii dire da un tale che era passata una motocicletta guidata da un soldato con un berretto rosso. Capii subito, da questo particolare, che si trattava di un soldato inglese, essendo il berretto rosso una caratteristica della divisa dei militari britannici.
Alcune ore dopo, essendosi sparsa la voce che gli inglesi erano giunti in città, mi avviai assieme ad altri compagni verso il Piano della Fiera e qui incontrammo il primo reparto dell’VIII Armata venuto a liberarci. Ricordo che erano indiani e che li invitammo ad entrare in città, accogliendoli come liberatori. Ma essi avanzarono con circospezione, attenti ad evitare possibili agguati. Finalmente, dopo aver visto che non vi era neanche l’ombra di un soldato tedesco, credettero a quanto avevamo detto loro e si convinsero di stare tra gente ospitale, che li salutava festosamente. Gli inglesi avevano con loro una gran quantità di generi alimentari: cioccolata, carne in scatola, caffé. Una parte di questi viveri fu distribuita anche tra la popolazione, che viveva, ormai da molto tempo, in condizioni precarie. La vita tornò normale dopo la liberazione.

Vincenzo LIBERTINI

 

LA VICENDA DEL 5-6 OTTOBRE INSERÌ L’ABRUZZO
NELLA STORIA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Le vicende del 5-6 ottobre 1943 e quelle, più ampie, della guerra in Abruzzo tra le truppe tedesche e gli Alleati rivestono una notevole importanza storica. Se, tuttavia, si guarda a quanto sì è scritto sui fatti di quei terribili mesi in Italia e all’ estero, ci si accorge che è stato più ampio il rilievo ad essi dato dalla storiografia straniera, particolarmente inglese, canadese e statunitense che da quella italiana. Quest’ ultima, infatti, ha centrato la sua attenzione sugli eventi del fronte tirrenico, connessi principalmente alla sorte di Cassino, Anzio e Roma. Gli avvenimenti del fronte adriatico vengono tuttora mantenuti in una specie di penombra e considerati secondari rispetto ai combattimenti svoltisi sul fronte tirrenico. Si ha l’impressione che gli storici italiani non si siano resi conto) che il comando alleato, sino alla battaglia di Ortona, puntò quasi esclusivamente sul fronte adriatico, affidando all’VIII Armata il compito di superare Pescara ed aggirare di conseguenza Roma. Questo compito, per una serie di circostanze che qui non è il caso di spiegare, non fu assolto, se non parzialmente e ciò determinò una catena di conseguenze sulla condotta della guerra non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa., La rivolta lancianese del 5-6 ottobre trovò immediata eco nei servizi internazionali di Radio Londra e Radio New York e fu oggetto di rapporti da parte dei vari comandi alleati del settore del Mediterraneo. Essa esplose all’improvviso e non potè essere, purtroppo, coordinata con le azioni militari dell’VIII Armata, ancora troppo lontana dalle rive del Sangro.
Per quanto riguarda la guerra in Abruzzo, che ebbe sul Sangro e in Ortona ed Orsogna i suoi teatri d’operazione più sanguinosi, esistono parecchie pubblicazioni importanti. Ricordiamo il volume del comandante dell’VIII Armata Mar. B. Montgomery: “Da El Alamein al fiume Sangro”, tradotto per conto dell’editore Garzanti di Milano. Contiene la relazione ufficiale di circa 15 pagine, sulla battaglia del Sangro.
Meno solenne e più vivace è il libro di Erik Linklater intitolato “The campaign in Italy”, (London 1951), che, però, non è stato ancora tradotto in italiano. In questo libro sono narrati quasi tutti i fatti militari svoltisi in terra frentana e l’autore si è servito anche dei diari di diversi comandanti.
W. Churchill si occupa della guerra in Abruzzo nella parte quinta della sua importante opera: “La seconda guerra mondiale”. I contributi giornalistici, stranieri e italiani, sono molto numerosi. Tra gli storici italiani della Resistenza merita un ricordo particolare Roberto Battaglia, che ha saputo dare un’interpretazione approfondita della rivolta lancianese, da lui considerata una delle prime manifestazioni del risveglio della provincia italiana.
L’Amm. Comunale di Lanciano ha intenzione di pubblicare, nella sua interezza, la relazione che accompagnò presso il Ministero della Difesa la documentazione per la concessione della medaglia d’ oro. Essa potrebbe servire di base ad una monografia storica su quegli eventi straordinari, che dovrebbe avere caratteri tali da inserirsi degnamente nella più qualificata storiografia italiana relativa alla Seconda Guerra Mondiale.
È certo che le gesta dei combattenti del 5-6 ottobre 1943 sono profondamente acquisite al sentimento popolare frentano. A quell’impresa, condotta esclusivamente contro lo straniero sopraffattore, parteciparono uomini di tutte le tendenze politiche, dalla destra alla sinistra. Questa caratteristica ne fissa per sempre il clima e l’ispirazione risorgimentale. Quelli che si immolarono nell’ardua lotta erano tutti giovani e per ognuno di essi si potrebbero ripetere i bellissimi versi che Garcia Lorca dedica al suo eroe:

Tarderà molto a nascere, se nasce, un andaluso così puro, così ricco di avventura.
Canto la tua eleganza con parole che gemono e ricordo una brezza triste tra gli ulivi.

Giovanni NATIVIO
da “Itinerari” - Anno V - Dicembre 1966 - n. 8

 

LANCIANO NELLA STORIA RECENTE D’ITALIA

Giorgio Bocca ha pubblicato presso l’ed. Laterza di Bari una «Storia dell’Italia partigiana», che viene dopo l’ormai celebre libro di R. Battaglia e l’ampia opera di F. Frassati.
Bocca si è proposto di rendere con “chiarezza ed equilibrio storico i sentimenti che fecero del 1943-45 la stagione migliore della nostra vita”. Non intendiamo qui pronunciare un giudizio sul valore dell’opera, che è comunque notevole, perché essa ha già meritato recensioni e valutazioni da penne molto più importanti della nostra.
Diciamo solo che Bocca esce dallo schema tradizionale per tentare un esame spregiudicato di quello che è stato chiamato il “secondo risorgimento”.
Quasi due pagine del libro sono dedicate a Lanciano e, nonostante il severo e sconcertante rigo iniziale, tutto il brano ha un andamento affettuoso di una epicità disadorna, ma efficace e penetrante.
Il Bocca comincia così: «l’insurrezione di Lanciano è l’unica inopportuna del Sud. Gli insorti scendono in campo il 5 ottobre sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle giornate di Napoli, senza attendere che le avanguardie dell’VIII Armata inglese abbiano varcato il Trigno e senza mettere nel conto delle cose possibili che stiano ferme sul fiume per altri due mesi, come invece accade».
“Inopportuna”, dunque, l’insurrezione di Lanciano? Ma - e lo ha osservato sul Corriere della Sera (4 dic. 1966) D. Bartoli recensendo il libro di Bocca - tutta la Resistenza ebbe scarsa importanza militare.
Non fu un’azione decisiva; gli Alleati avrebbero vinto in ogni caso. “Inopportuna” in che senso? Bocca si contraddice allora quando giustamente afferma che l’importanza della Resistenza sta tutta nel suo valore politico e - aggiunge Bartoli - nel suo valore morale?
Ma dopo il polemico preludio, l’autore coglie figure, immagini, crudeli esempi di brutalità e pietà con il suo stile personalissimo.
C’è pure qualche particolare pittoresco che non tutti i lancianesi conoscono, come questo: « Si combatte fino a sera, anche i vecchi partecipano alla lotta: uno che porta munizioni dietro le Torri Montanare ha la pipa troncata da un proiettile: ma continua a fare la spola con due bombe a mano appese alla cintura». Non sfugge a Bocca l’episodio della madre di Vincenzo Bianco, che si riporta a casa il corpo esanime del figlio: i vicini facevano ala e si inginocchiavano al suo passaggio.
Oppure quello dell’impronta lasciata sull’asfalto dal sangue di Pierino Sammaciccia. «Per mesi, nonostante l’insistenza della pioggia e poi della neve, l’impronta rimase sempre viva e raffigurante il caduto, che sembrava dovesse colà risorgere».
Le pagine dello storico si chiudono con alcuni giudizi sulle insurrezioni del Sud, dopo aver reso omaggio alla « pietà popolare » di Lanciano, umana anche con il nemico.
Sulla rivolta lancianese già aveva scritto R. Battaglia, sottolineandone il carattere schiettamente popolare; ma un inquadramento storico preciso essa, prima che sul libro di Bocca, l’ha trovato nell’ampia e documentata “ della Resistenza” di P. Secchia e F. Frassati. In quest’ultima opera l’esito sfortunato della rivolta è imputato alla strana condotta di guerra del Maresciallo Montgomery.
“La cittadinanza - scrivono i due autori - di Lanciano, sperando nell’arrivo degli alleati, aveva voluto scendere in campo, per agevolarne l’avanzata e affrettare la propria liberazione. Una speranza illusoria, pur se le artiglierie britanniche tuonavano vicinissime”.

GIOVANNI NATIVIO
da “Itinerari” - Anno V - Dicembre 1966 - n. 8

 

DISCORSO DEL SINDACO, AVV. FILIPPO PAOLINI,
in occasione del cinquantesimo Anniversario della consegna della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Città di Lanciano

Ho pensato più volte, in questi giorni, su che cosa i nostri Martiri Lancianesi avrebbero scritto se solo gliene fosse stata data la possibilità prima del loro estremo sacrificio.
E così, come spesso accade in questi casi, cercando tra i pensieri le giuste parole nell’intento di non essere tiepidi o ripetitivi, ho ritrovato una di quelle pagine che in simili circostanze riaffiorano sempre più vive ed attuali dagli scaffali delle nostre biblioteche. Mi sono così imbattuto in una delle tante struggenti “Lettere dei condannati a morte per la Resistenza” ; casualmente in quelle del Capitano di Artiglieria Franco Balbis, 32 anni, Medaglia d’Oro e d’Argento al Valor Militare. Leggo testualmente:
“La Divina Provvidenza non ha concesso che io offrissi all’Italia sui campi d’Africa quella vita che ho dedicato alla Patria il giorno in cui vestii per la prima volta il grigioverde. Iddio mi permette oggi di dare l’olocausto supremo di tutto me stesso all’Italia nostra ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice!
Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra Terra ad essere onorata e stimata nel mondo intero.
Lascio nello strazio e nella tragedia dell’ora presente i miei Genitori dai quali ho imparato come si vive, si combatte e si muore. Prego i miei di non voler portare il lutto per la mia morte; quando si è dato un figlio alla Patria, comunque esso venga offerto, non lo si deve ricordare col segno della sventura.
Con la coscienza sicura d’aver sempre voluto servire il mio Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone d’esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta. Possa il mio grido di “Viva l’Italia libera” sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice!”
Cittadini di Lanciano, la Storia, la nostra vera e gloriosa Storia, non può essere riscritta; può essere approfondita, meditata, integrata ma al di là delle inutili perifrasi ciò che resta fermo ed incontrovertibile è l’avvenimento in sé sul quale noi quest’oggi ci soffermiamo.
E’ la verità dell’esplosione dell’animo della gente frentana contro l’ottusa oppressione; è l’impeto di una incontenibile carica di insofferenza,
di rivolta, di ribellione contro le sopraffazioni di una soldataglia che non aveva nulla in comune con l’onore militare; è la triste verità storica di una inerme popolazione civile frentana sottoposta per ben oltre 9 mesi a privazioni e sofferenze sulle linee di fuoco di una guerra immane che ha avuto per teatro il Mondo. Al cospetto di tutto ciò cessi ogni discussione, scompaia ogni tiepidezza; solo il ricordo, il silenzio e l’onore dei giusti parlino ai nostri cuori.
La Storia della Rivolta Lancianese non potrà mai essere offuscata; il martirio dei nostri giovani mai dimenticato.
Il sangue versato, le terribili privazioni di quei giorni, la nostra gloriosa Medaglia d’Oro non potranno mai essere oggetto di oblio. Ecco perché siamo qui quest’oggi; ecco perché da sempre e per sempre la nostra Città ricorderà con solennità il 6 Ottobre; ecco perché rendiamo devoto omaggio agli Eroi Ottobrini nei luoghi dove eroicamente si immolarono non per un’ideale di morte, ma perché attraverso la comprensione del dramma storico del passato e per mezzo del loro nobile insegnamento di sacrificio la nostra amata Comunità comprendesse quella che può essere l’unica via al progresso e alla concordia civile, vale a dire, la Libertà e la Pace. In conclusione, mi sia consentito congedarmi con alcuni doverosi ringraziamenti a Voi tutti, Autorità, Familiari delle vittime, Rappresentanti delle Associazioni Combattentistiche, delle Associazioni d’Arma e Cittadini, per la vostra significativa partecipazione e, in modo particolare, un pubblico e dovuto ringraziamento al nostro Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nonché al Presidente della Camera dei Deputati, On.le Pierferdinando Casini, i quali in questi mesi si sono fortemente prodigati ed interessati personalmente, affinché la Zecca dello Stato coniasse appositamente per la Città di Lanciano un’unica copia fedele della nostra gloriosa Medaglia D’Oro al Valor Militare il cui originale, come ben ricorderete, alcuni anni orsono fu tristemente sottratto al nostro Gonfalone. E’ per me dunque motivo di grande onore e vivissimo compiacimento al Vostro cospetto e del Signor Prefetto, qui oggi tra noi nella veste di incaricato ufficiale delle più alte Autorità dello Stato, poter così annunciare, proprio nel cinquantennale della consegna della nostra Medaglia d’Oro al Valor Militare, il rinnovarsi di un così ambito riconoscimento da parte della Repubblica Italiana che non può non riconfermare in noi tutti l’orgoglio e l’estrema importanza del nostro grande passato.
Viva l’Italia libera, Viva tutti i combattenti per la Libertà e la Pace, Viva il 6 Ottobre!

Filippo PAOLINI
Lanciano, 6 ottobre 2002


Lanciano, 6 ottobre 2002 - Il dott. Aldo Vaccaro, Prefetto della Provincia di Chieti, mentre appone sul gonfalone della città la nuova Medaglia d'Oro in sostituzione della originale trafugata. (foto di A. Mucci)



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MOTIVAZIONE DELLA RICOMPENSA


PRESENTAZIONE edizione 1970

PRESENTAZIONE edizione 2003

INTRODUZIONE

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GLI EROI

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I GIORNI DELLO SFOLLAMENTO E DELLA LIBERAZIONE

DALLA STAMPA

TESTIMONIANZE

IL 6 OTTOBRE NEL CANTO DI ALCUNI POETI

MONUMENTO E SACRARIO DEI CADUTI

INTITOLAZIONI

CONTRIBUTO DI LANCIANO ALLA GUERRA DI LIBERAZIONE

LE CIFRE DELLA RESISTENZA

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