TESTIMONIANZE
MESSAGGIO AGLI ITALIANI DEL PRESIDENTE DELLA
REPUBBLICA ANTONIO SEGNI - Capodanno 1964
Pur nel suo fervore operoso, la nazione italiana non ha dimenticato
di onorare, nel ventennale della Resistenza, tutti coloro che fermamente
credettero nella rinascita della patria - unita, libera e democratica
- dagli errori e dalle rovine di una guerra non voluta e non sentita
dal popolo, ma pur affrontata con coraggio ed eroismo, e di riaffermare
i valori perenni che ispirarono e sostennero l’azione di questa
rinascita. Il sacrificio di Boves, quello di Lanciano, i fatti d’armi
di Montelugo sono, fra i tanti episodi gloriosi, una testimonianza
fulgida e duratura dell’intensa spiritualità e del tenace
amor di patria che hanno armato la mano e infiammato gli spiriti generosi
di coloro che combatterono per il riscatto dell’Italia.
ANTONIO SEGNI
XX Anniversario della Rivolta. Il Presidente
della Repubblica, Antonio Segni, l'On. Mariano Rumor, il sindaco della
città, prof. F.Paolo Giancristofaro, e il sen. Giuseppe Spataro.
IL SENATO DELLA REPUBBLICA
Il Senato della Repubblica ha commemorato nella seduta pomeridiana
del 3 ottobre 1963 il XX Anniversario dell'Insurrezione Lancianese
contro i tedeschi.
Resoconto sommario
SPATARO. Rievocando la rivolta di Lanciano contro
i tedeschi, ricorda che nel settembre 1943 i tedeschi commisero a
Lanciano ogni genere dl soprusi e di violenze. Il 5 ottobre si ebbe
il primo scontro armato tra partigiani e tedeschi in seguito al quale
questi ultimi sottoposero un partigiano catturato alle più
inumane torture, affinché la popolazione vedesse a quali conseguenze
sarebbero andati incontro i ribelli. Ma la ferocia dimostrata dai
tedeschi non raggiunse lo scopo di far desistere la popolazione dalla
lotta: divampò invece quell'aperta rivolta che è ormai
consacrata alla storia patria come la «rivolta lancianese».
Ai combattimenti, nei quali trovarono la morte molti cittadini e ancor
più numerosi tedeschi, parteciparono molti giovanissimi studenti
ed operai; e alla rievocazione di quei giovani caduti, associa il
ricordo del sacrificio di Bernardino Zelioli, figlio del Vice Presidente
del Senato, caduto sotto il piombo tedesco all'età di diciotto
anni.
Per vendicarsi nei confronti della città che aveva dimostrato
un così strenuo spirito di ribellione i tedeschi, anche dopo
la liberazione di Lanciano, la sottoposero a violenti bombardamenti,
fino al giugno del 1944, uccidendo molte persone e distruggendo la
ferrovia, tutte le industrie e molti edifici.
A Lanciano, medaglia d'oro al valor militare, vada l'omaggio del Senato,
con l'auspicio che i valori di libertà e di giu stizia per
i quali tanto generoso sangue è stato versato siano sempre
vivi nei cuori degli Italiani.
Di PAOLANTONIO. Afferma che gli episodi di eroismo del popolo di Lanciano
sono una pagina indimenticabile per l'Abruzzo, che ha dato duecentoquarantasei
caduti partigiani alla guerra di Liberazione.
A nome del Gruppo comunista, rende omaggio a quanti hanno fatto sacrificio
di se stessi per cancellare la vergogna fascista e restituire l'italia
alla libertà e alla democrazia.
MORABITO. Si associa, a nome del Gruppo socialista, alle nobili parole
pronunciate dai senatori Spataro e Di Paolantonio, eprimendo l'augurio
che il ricordo del sacrificio dei martiri della Resistenza possa rafforzare
gli ideali patriottici, nel loro significato più vero e più
nobile.
MARTINELLI. Ministro delle Finanze. Si associa, a nome del
Governo, alla celebrazione del ventesimo anniversario dell'insurrezione
di Lanciano, che, con l'eroismo dei suoi figli, ha dato un indimenticabile
contributo alla lotta per la riconquista delle libertà democratiche.
PRESIDENTE. Afferma anzitutto che il Senato non può che essere
lieto che, nel ventennale della Resistenza, tutto il Paese ricordi
gli avvenimenti più gloriosi della storia recente d'Italia,
quale quello dell'insurrezione di Lanciano.
La terra d'Abruzzo ha dato un grande contributo di valore e di sangue
a tutte le guerre del Risorgimento ed alla guerra del 1915-1918. Ai
ricordi di quelle gloriose gesta si unisce la memoria dell'eroismo
del popolo di Lanciano. Il Senato non può che provare commozione
allorché si rievocano gli eroismi dei cittadini amanti del
loro Paese e della libertà e perciò, commemora oggi
con pensiero commosso i caduti dl Lanciano, che hanno dato un valido
contributo alla liberazione dell'Abruzzo e di tutta l'Italia.
LA PRIMA APERTA RIBELLIONE DEGLI ABRUZZESI
Il 6 ottobre 1944 ebbi l'onore di rappresentare
il nuovo Governo democratico alla celebrazione del primo anniversario
della ardita e gloriosa rivolta lancianese e allo scoprimento della
lapide commemorativa al Piazzale dei Martiri.
Esaltai il valore dei combattenti e la solidarietà dell'intera
cittadinanza nella lotta contro i tedeschi e i loro sostenitori, resi
omaggio agli eroici caduti e in quella occasione volli anche dire
che la Patria doveva conferire la medaglia d'oro al valor militare
alla città di Lanciano.
Il 25 settembre 1952, in rappresentanza del Governo, accompagnai il
Presidente della Repubblica per la consegna della medaglia d'oro che
Luigi Einaudi appuntò sul gonfalone comunale dl Lanciano.
Per il XX anniversario delle gesta dell'ottobre 1943 non dimenticate
e non dimenticabili, Lanciano, alla presenza del Presidente della
Repubblica Antonio Segni, si appresta a ricordare gli ideali dl indipendenza
nazionale, di libertà e dl democrazia per i quali, dopo venti
anni di dittatura, i Lancianesi - come migliaia di Italiani dl ogni
regione - vollero insorgere, seppero coraggiosamente combattere ed
anche generosamente morire.
Quegli ideali di allora sono gli ideali che ancora oggi devono trovare
tutti uniti gli Italiani pensosi del bene della Patria e desiderosi
del progresso del popolo nella libertà e nella pace.
«Rievocazioni e celebrazioni come quella di stamane hanno un
valore sostanziale oltre quello formale consistente nella cerimonia
che acquista una particolare solennità per la sua ambita presenza
e per la quale al fervido ringraziamento del Sindaco aggiungo quello
altrettanto fervido del Comitato delle onoranze ai martiri di Lanciano.
Il valore sostanziale sta nel benefico effetto che scaturisce nei
sentimenti della collettività di fronte al ricordo delle sofferenze
che furono della collettività.
Da una situazione drammatica che coinvolge una comunità nasce
sempre uno spirito unitario che, col tempo, il ritorno alla normalità,
naturalmente assopisce.
Ma l'assopimento non deve trasformarsi in oblio. Ecco perché
certe date e certi eventi i popoli li consacrano alla storia, e bisogna
ricordarli con solennità e con devozione; e bisogna rievocarne
i particolari, anche se i nomi e gli episodi sono noti a tutti voi,
Lancianesi, anziani, giovani e giovanissimi; noti a chi li ha vissuti
e a chi li ha appresi per i racconti degli adulti.
Da questa città partì la prima aperta ribellione degli
Abruzzesi che scrissero così le prime fulgide pagine della
resistenza.
La data del 25 luglio era stata accolta qui come in ogni parte d'italia,
con le più vive manifestazioni di gioia; e i cittadini, che
nel breve periodo antecedente l'armistizio credevano fosse stata riconquistata
per sempre la libertà, accolsero con animo fortemente ostile
i tedeschi quando essi il 12 settembre occuparono Lanciano.
E cominciò subito la guerra fredda, fatta di ostruzionismo
e di sabotaggio. A questa azione mano mano partecipava un numero sempre
maggiore di cittadini dl ogni classe sociale, di ogni età,
uniti con slancio generoso nella lotta contro l'oppressore.
XX Anniversario della Rivolta. L'On. Giuseppe Spataro
rievoca il sacrificio dei Martiri ottobrini (foto Pallini).
I tedeschi, oltre a commettere ogni genere di sopraffazione e di soprusi,
imponevano ai cittadini lavori per rifornire altri reparti dell'Esercito
di generi alimentari, che asportavano dai magazzini. Ma l'organizzaione
clandestina fu così bene preparata da diventare una resistenza
sistematica e continua. Una squadra di guastatori si era specializzata
nell'incendiare i camion e danneggiare le linee telefoniche militari.
I tedeschi disposero il coprifuoco ed il pattugliamento nell'interno
della città e alla periferia. La popolazione però era
ormai decisa ad agire e non si lasciò intimidire.
Oltre i 23 morti nei combattimenti del 5 e 6 ottobre, si ebbero più
dl 500 morti civili; la Ferrovia Sangritana fu completamente distrutta,
distrutto fu l'ospedale civile, distrutti furono gli stabilimenti
industriali e distrutto fu anche l'edificio dove era stata la tipografia
della Casa Editrice Carabba che vantava una nobile tradizione dl pubblicazioni
di alta cultura; danngeggiati e distrutti furono 8540 vani.
Assai doloroso fu quindi il bilancio delle perdite umane e assai grave
fu quello dei danni subiti da Lanciano e dai paesi del circondano.
Un devoto pensiero va rivolto alla memoria dell'Arcivescovo Mons.
Pietro Tesauri, il quale con la sua fervida attività pastorale
contribuì a lenire le sofferenze della popolazione e un sentimento
di riconoscenza deve essere espresso per quelle Autorità che
con dignità seppero rappresentare la città in quel difficile
periodo.
Nelle campagne che furono occupate dai tedeschi è da segnalare
il fiero comportamento dei contadini: moltissimi ex
combattenti della guerra nazionale 15-18, avevano un sentimento di
avversione per le truppe tedesche e non solo non collaborarono ed
evitarono il lavoro obbligatorio, ma riuscirono a fare con molta efficacia
opera di sabotaggio. Quei coltivatori meritano una particolare segnalazione
anche per il loro comportamento post-bellico. Nella zona di Lanciano
tra il fiume Sangro ed il piccolo fiume Moro, la guerra combattuta
ha sostato per circa 8 mesi.
I contadini hanno affrontato prima tutti i rischi della guerra che
è passata su di loro; e nel riprendere poi il lavoro particolarmente
pesante per le condizioni del terreno, hanno più volte pagato
con la vita l'azione eseguita per lo sminamento.
Quando all'inizio dell'inverno del '43 gli alleati sospesero le loro
azioni per l'avanzata, mentre i tedeschi cercavano di consolidare
le loro posizioni, si formò la Brigata dei Patrioti della Majella,
alla quale aderirono molti giovani di Lanciano, dei paesi vicini e
di altre province abruzzesi.
La valorosa e gloriosa Brigata della Majella formata di 1500 volontari,
al comando del Capitano Ettore Troilo, dette validissimo contributo
dl azione e di sangue per la liberazione non solo dell'Abruzzo, ma
anche delle regioni centro-settentrionali, combattendo fino ad Asiago
nella primavera del 1945. Avanti a Lei, Signor Presidente, inviamo
un deferente pensiero alla memoria dei 54 caduti, un saluto riconoscente
al 131 feriti, dl cui 36 mutilati e ricordiamo le 15 medaglie d'argento,
le 43 medaglie di bronzo e le 144 croci di guerra al valore militare
assegnate ai Patrioti della Majella.
Signor Presidente,
Lanciano accolse con profonda commozione il riconoscimento della Patria
per il suo comportamento e per il sacrificio di tanti suoi figli con
la concessione della medaglia d'oro al valore militare che il Presidente
Einaudi appuntò sul gonfalone comunale il 25 settembre 1952.
Successivamente in Abruzzo furono concesse la medaglia d'oro al valore
civile alla città di Ortona a Mare e le medaglie d'argento
alle città di Avezzano e dl Francavilla a Mare.
La sua auspicata visita, Signor Presidente, è considerata
come il più alto attestato dei sentimenti patriottici non solo
di questa popolazione, ma di tutte le popolazioni abruzzesi che sono
sempre fedeli, come quelle della sua nobile isola, alle migliori tradizioni
di amor patrio, di fede religiosa, di disciplina e di sacrificio,
in guerra e in pace, costituendo una sicura riserva morale in ogni
contingenza difficile della vita della nazione.
Piazza Plebiscito: il glorioso gonfalone di Lanciano
scortato da Carabinieri, Vigili Urbani e giovani.
Gli ideali di indipendenza della Patria, di libertà,
di democrazia, di giustizia che splendevano agli occhi degli italiani
nel momento del pericolo e del rischio, gli ideali per i quali tanti
hanno volontariamente e generosamente immolato la propria vita, sono
gli ideali che ancora oggi devono essere sempre presenti nell'azione
di ciascun italiano, quale che sia il posto di lavoro e di responsabilità.
Il Ministro dell'Interno, On. Mariano Rumor, autorevole rappresentante
del Governo in questa giornata memorabile per Lanciano, per la provincia
di Chieti e per la regione, recentenmente, avanti al Parlamento, ha
detto che lo Stato ideale al quale dobbiamo aspirare è ancora
in fase di costruzione; lo Stato ideale cioè secondo i moderni
e più giusti principi di una democrazia la più peffetta
secondo le umane possibilità. Ebbene, la rievocazione della
«Rivolta lancianese» la quale volle condannare i regimi
di dittature, vana sarebbe se non fosse accampagnata oggi da parte
nostra dalla ferma volontà di fare, più e meglio del
passato, il nostro dovere per la realizzazione di quei supremi ideali
che rappresentano il vero patrimonio dei più alti valori della
resistenza; la piena libertà cioè di tutti i cittadini
in un regime che si basi su saldi e stabili istituti democratici,
in una comunità nazionale nella quale siano eliminati gli squilibri
e le differenze ancora esistenti dando a tutti la possibilità
del lavoro equamente compensato.
Noi non abbiamo dimenticato le condizioni dell'Abruzzo nel 1944; tutto
vi era da ricostruire, dalle già deficienti comunicazioni stradali
e ferroviarie alle abitazioni, alle aule scolastiche, agli ospedali.
Dopo la ricostruzione, dopo il traguardo di un primo miglioramento
nelle condizioni dl lavoro e di vita, anche in Abruzzo si avverte
la necessità che si continui - con passo anzi più celere
- nella via del progresso, per dare un'istruzione professionale ai
giovani, per assicurare ai volenterosi la possibilità di frequentare
nella stessa regione scuole superiori ed universitarie, poiché
è indispensabile trattenere in Abruzzo le nuove leve di giovani,
preziose energie dl cui si ha bisogno per lo sviluppo industriale,
agricolo e commerciale.
Ma l'auspicato progresso morale ed economico si realizza dov'è
vera democrazia.
Collaborare perciò alla costruzione dello stato democratico
ideale, cui ha fatto riferimento il Ministro Rumor nel suo discorso
alla Camera, vuole essere e deve essere il nostro impegno, l'impegno
che il popolo di Lanciano che ha sofferto, ha combattuto, ha sperato,
l'impegno che le genti d'Abruzzo tanto provate dalla guerra e tanto
trascurate dal precedente regime, assumono solennemente in nome dei
caduti avanti a Lei Signor Presidente, per nuove luminose mete dl
progresso civile e di sviluppo democratico dell'Italia.
Giuseppe SPATARO
Vice Presidente del Senato
Lanciano, 6 ottobre 1963 - Ventennale della Rivolta.
Telegramma del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi,
inviato il 27 settembre 1952, in occasione del conferimento della
Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Città di Lanciano.
GIORNO PER GIORNO
Dal diario di Bruno Bolaffio interprete presso il Comune
30 settembre 1943
Mi trovo nella mia camera d'albergo quando d'un tratto
sento delle voci eccitatissime. Scendo e chiedo ad Attilio che cosa
sta succedendo. Egli, pallidissimo, sta per chiudere la porta dell'albergo
e mi assicura che 600 «guastatori» marciano su Lanciano
per dinamitare ed eseguire delle rappresaglie. Ritengo impossibile
che i guastatori si siano preannunciati e mi reco imniedìatamente
sulla piazza, dove si vocifera persino, che alcuni di essi siano già
arrivati. Scorgo però unicamente alcuni aviatori tedeschi con
i loro fazzoletti da collo blu.
Tutti i negozi sono chiusi e ovunque regna un grande nervosismo. Probabilmente
qualcuno ha sparso la voce ed i nervi della popolazione, già
tanto scossi, hanno fatto il resto. Persino la sera, quando sto cenando,
tutti sussultano nella sala da pranzo, ogni volta che passano davanti
all'albergo alcuni camion pesanti.
1 ottobre 1943
Di buona mattina dei soldati hanno forzato il portone
dl una fabbrica e vi sono penetrati, hanno perquisito tutti i locali
e si sono poi ritirati portando via alcune piccole cose come ricordo.
Non molto lontano dalla fabbrica, davanti al grande impianto per la
fermentazione del tabacco, si sono fermati parecchi camion tedeschi.
Vengono febbrilmente caricate migliaia di balle. Questo certamente
sarebbe stato evitato, se il tabacco fosse stato immagazzinato presso
i contadini produttori e distribuito per tempo una parte alla popolazione.
Da mesi ormai a Lanciano e dintorni non si trova più nulla
da fumare. Se non ci si fosse fidati della procedura burocratica,
aspettando il nulla-osta del Prefetto, non si sarebbe arrivati a questo
punto.
Alle 11 si sentono forti rumori di motori. Centinaia di fortezze volanti
sorvolano Lanciano in direzione del mare Adriatico.
La sera arrivano altri camion tedeschi con un gran numero di soldati.
Pare che si tratti di gruppi dispersi che girovagano nella regione
e ne approfittano per riempire i loro camion vuoti.
2 ottobre 1943
Al mattino di buon'ora caricano già l'olio d'oliva sequestrato
e approfittano dell'occasione per caricare pure 7.000 chili di grano
dai depositi del Consorzio Agrario. Tutto ciò avviene a velocità
febbrile mentre la popolazione disarmata non può che star li
a guardare
3 ottobre 1943
Oggi regna una relativa calma. Verso mezzogiorno
un gran numero di aerei sorvolano Lanciano e tutti per la strada stanno
a guardare quegli «uccelli» grigio argento tanto pericolosi.
Poco dopo si cominciano a sentire per diverso tempo le detonazioni
delle bombe lanciate nella campagna circostante la città.
Dopo un forte temporale, verso le undici di sera, si verfica
un altro piccolo incidente quando del soldati tedeschi di passaggio
cercano di entrare con la forza nell'albergo per prendervi alloggio.
Attilio riesce, senza sapere nemmeno lui come e dopo lunga discussione,
a farli desistere dal loro intento.
4 ottobre 1943
La mattina presto si sente un forte rumore di motori
senza però scorgere gli aerei. Poco dopo si sentono per la
prima volta spari di artiglieria che si protraggono per delle ore.
Nella mattina si ripete il saccheggio dei depositi di Lanciano. E
la volta anche di alcuni negozi, soprattutto sul Corso Trento e Trieste.
Tali violazioni da parte dei soldati armati fino ai denti. che arrivano
in camion, penetrano nei negozi e si fanno consegnare della merce
senza pagare, incominciano a diventare sempre più frequenti.
Sembra proprio che si sia sparsa la voce che la città sia il
luogo ideale per tali imprese da cavalieri predoni. E' chiaro che
tutto ciò non contribuisce a calmare la popolazione.
Dei soldati tedeschi armati fino ai denti sono arrivati in camion
ed hanno letteralmente vuotato un negozio di stoffe nel Corso Trento
e Trieste. Dopo aver caricato l'ultima pezza alcuni di essi sono entrati
nel negozio accanto, un ottico, ed erano in procinto di svaligiare
anche questo. Nel negozio in quel momento era presente un generale
italiano in pensione che fece qualche commento sul riprovevole comportamento
dei militari.
I soldati, senza far tante storie, imbarcano il generale su una macchina
e se lo portano via. Era troppo! Il generale, era persona già
anziana che la popolazione teneva in gran rispetto. In un attimo si
era radunata una grande folla che urlando aveva circondato i tedeschi.
Il resto dei soldati cerca di squagliarsela al più presto mentre
la folla continua ad aumentare, urlante e furibonda e si mette poi
in moto verso il Municipio, dove il Podestà accompagnato da
alcuni consiglieri comunali, sta per scendere le scale essendo stato
avvertito dell'accaduto. La folla forsennata si precipita sul Podestà
e sul segretario Comunale e li bastona di santa ragione.
Gli animi eccitati si sono così sfogati sul Podestà
e sul segretario comunale nella convinzione che la colpa di tutto
ciò, sia del Podestà che non ha provveduto a sospendere
arbitrariamente il tesseramento, distribuendo l'olio d'oliva, il grano
ed il tabacco tra la popolazione, evitando così che tali generi
cadessero in mano dei tedeschi.
Poco dopo la folla si calma anche se l'atmosfera rimane tesa perchè
arrivano continuamente dei gruppi di tedeschi con i mitra spianati
e si verificano altri saccheggi di depositi e negozi.
Per fortuna vengono riaccompagnati a Lanciano il generale, il Sindaco
ed il segretario comunale che si erano recati al comando tedesco nella
città vicina. Ognuno di essi si trova su una macchina tedesca
sotto la scorta di quattro soldati armati.
Alle 5 il banditore passa nelle strade con la sua tromba ed annuncia
che per la sera stessa era stato ordinato il coprifuoco a partire
dalle ore 19.
Poco prima un ufficiale tedesco si era presentato al Sindaco, protestando
e lagnandosi degli incidenti verificatisi la mattina; chiese un foglio
di carta da lettera con l'intestazione del Comune di Lanciano sul
quale scrisse il seguente ordine in lingua tedesca:
1) Entro le ore 15 dovevano essere consegnate
tutte le armi, compresi i fucili da caccia, le armi della polizia
e tutte le munizioni.
2) Ieri sera alle sette si era vista circolare ancora della gente.
A decorrere da oggi sarà sparato su chiunque si troverà
fuori dopo l'ora del coprifuoco. Tutti i negozi, i caffè e
ristoranti debbono chiudere alle 18,30.
3) Tutti i medicinali ed attrezzi, che necessitano al medico militare,
vengono sequestrati e debbono essere consegnati in base alla sua scelta.
4) Gli oggetti che saranno scelti da militari della sussistenza e
che questi riterranno necessari per la truppa, come orologi, apparecchi
radio, materiale da cancelleria, ecc. vengono sequestrati e debbono
quindi essere consegnati.
5) Le derrate alimentari scelte dal furiere quali piselli, fagioli,
riso, ecc. necessarie al sostentamento delle truppe stazionate nei
dintorni di Lanciano, devono essere consegnate.
6) Il Sindaco deve mettere a disposizione del personale qualificato,
esperto di magazzinaggio della merce richiesta.
7) Le relative spese vanno a carico del Comune contro quietanza del
posto militare che requisisce.
Verso le ore 18 arrivano improvvisamente al Circolo tre soldati
tedeschi che chiedono energicamente di parlare con qualcuno che parli
il francese. Informano l'interprete che mentre
essi stavano prendendo il gelato al Caffè Modernissimo dal
loro camion militare stazionato davanti al Caffè era stato
asportato un fucile mitragliatore. Se entro le ore 19 tale fucile
mitragliatore non fosse stato restituito - essi aggiungono - avrebbero
adottato delle rappresaglie. Poco dopo sentiamo il banditore comunale
che con la sua tromba chiama a raccolta la gente in piazza. La folla,
senza fiatare, ascolta l'intimazione. Dopo l'ultima parola la folla
si mette gridare «bravo, bravo...».
5 ottobre 1943
Già alle nove del mattino si vede arrivare
il capitano «olio» (così viene comunemente chiamato
il capitano responsabile del sequestro dell'olio) scendere il corso
facendo grandi gesti, sbattendo il suo frustino. Dietro di lui un
po' discosti due ufficiali. Più indietro segue l'automobile
del capitano ed un camion pieno di soldati armati fino ai denti con
i mitra pronti, spianati contro la folla. Tale corteo si reca al Municipio
probabilmente per ordinare altri sequestri.
Nella fabbrica di tessuti invece tutto sembra calmo a parte il fatto
che poco prima è arrivata un'autoambulanza con tanto di croce
rossa dalla quale, guidati da un sottufficiale, sono scesi otto soldati
armati di mitra che chiedono di entrare nello stabilimento.
Siccome il portiere ora tiene sempre il portone aperto, essi non hanno
bisogno di sfondarlo.
Dopo aver perquisito tutto il complesso si sono recati nella casa
accanto. Quale preda del loro operato portano via tre fiaschi di vino.
Poco dopo ripartono nella loro ambulanza.
Verso mezzogiorno ha avuto luogo un altro forte bombardamento nei
dintorni e sentiamo fortissime detonazioni di artiglierie.
Pure oggi un gran numero di negozi è stato svaligiato. Inoltre
dal deposito dei medicinali sono stati asportati dei medicinali di
ogni genere malgrado che a Lanciano e dintorni le medicine scarseggiano.
L'ordine, scritto ieri in Municipio dall'ufficiale sembra essere considerato
quale patente di franchigia per tali sequestri che
in tempi normali si chiamano saccheggi. E' quindi comprensibile che
tale tensione a causa di tutti questi incidenti senza fine, abbia
raggiunto il culmine.
Nel pomeriggio arriva un treno da Castei di Sangro, gravemente danneggiato.
Era stato mitragliato da aerei americani. Si lamentano tre morti e
circa una trentina di feriti.
Verso sera nuovo grande subbuglio. Ormai siamo in continuo stato di
eccitazione. Ragazzi lancianesi «Patrioti» si sono armati
ed hanno attaccato all'entrata della città due camion tedeschi.
Uno dei camion è in fiamme, l'altro è rovesciato. Poco
dopo arrivano altri camion con soldati e si sente una intensa sparatoria.
Dato l'imbrunire i tedeschi si ritirano. Mezz'ora più tardi
si vede un gran bagliore: anche il secondo camion è in fiamme.
Sembra che avesse caricato della polvere da sparo. Improvvisamente
scorgiamo nel buio un soldato tedesco che corre, nervosissimo, urlando
«porcheria, maledetta porcheria, dove stanno gli altri compagni?
Due dei miei camerati sono feriti ai piedi». Corre giù
per la strada in direzione dell'ospedale, mentre noi rimaniamo rinchiusi
essendo passate le sette, ora del coprifuoco.
Le cose s'inaspriscono.
6 ottobre 1943
Sono quasi le tre e mezzo e il combattimento non
accenna a perdere d'intensità. Quando finalmente esso si attenua
arrivano carri armati e veicoli corazzati da ricognizione. Prendono
degli ostaggi nella casa accanto. Le urla dei famigliari sono sconvolgenti.
Poco dopo i tedeschi cercano di penetrare nel garage dell'albergo,
il locale nel quale ci siamo rifugiati. Ci troviamo dietro una
grande catasta di legna per proteggerci. Con oggetti duri, i tedeschi
cercano di sfondare la porta, ma dato che non ci riescono sparano
col mitra. Crediamo già arrivata la nostra ultima ora. Le pallottle
si conficcano nella catasta di legna, le schegge volano per aria,
ma nessuna pallottola l'attraversa, e sembra quasi un miracolo che
nessuno di noi sia stato ferito. I tedeschi pare abbiano improvvisamente
cambiato idea pensando forse che nel garage non ci sia nessuno. Ad
ogni modo se ne vanno. Le strade intorno all'albergo diventano più
calme. La lotta si sposta in direzione dell'ospedale.
Cerco di raggiungere la mia camera dalla quale è più
facile vedere che cosa succede per la strada. Tutto è ricoperto
di calcinacci, di vetri rotti e nella mia camera d'angolo si vedono
dappertutto i fori dei proiettili.
Siccome non si sentono più spari, guardo cautamente attraverso
le veneziane della finestra. Sotto di me sull'incrocio, è appostato
un cannone anticarro puntato verso il corso. Sulla strada non si vede
anima viva quando all'improvviso in fondo al Corso appaiono due donne,
che spingono una carrozzella a due ruote sulla quale è adagiato
un ferito. Il soldato tedesco scatta. Le due donne, malgrado che la
canna del cannone sia puntata nella loro direzione, continuano ad
avanzare imperturbabili. Il soldato non tira anche se ha la mano posata
sul grilletto. Sembra ipnotizzato. Quando le donne si sono avvicinate
a circa dieci metri, una di esse, una ragazza, si dirige direttamente
verso il soldato e gli dice «non sparare, mio fratello è
ferito». Il soldato non capisce l'italiano e la ragazza gli
da dei colpetti sulla spalla. Il soldato sembra impietrito dietro
il suo cannone. La ragazza torna verso la carrozzella e, insieme alla
madre, la spinge col ferito coperto di sangue verso l'ospedale.
In fondo al corso, vicino alla piazza, si alzano improvvisamente delle
nuvole di fumo. Giù sul corso si trovano parecchie autoblinde
e motociclette. Un negozio dopo l'altro viene scassato, le porte forzate
e la merce in parte portata fuori. I tedeschi gettano poi nei negozi
dei contenitori pieni di un liquido inflammabile, incendiandoli. Mentre
alcuni buttano il liquido infiammabile in un negozio, altri s'impegnano
a scassare le saracinesche di un negozio di musica. Poco dopo ne escono
alcuni soldati con degli strumenti musicali. Uno suona «Lily
Marlen», mentre un altro lancia un contenitore pieno di liquido
infiammabile nel locale del negozio, che in pochi istanti è
in preda alle fiamme.
Vedo il pericolo di essere bruciato vivo perché non passerà
molto tempo che arriveranno anche all'albergo Palomba per incendiare
anche quello. Sono fermamente deciso di fuggire
da questa trappola. Non prendo che un cappotto ed una giacca, abbandonando
tutto il resto e lascio l'albergo dalla porta posteriore.
Trovo rifugio nella villa del dott. Armando Marciani, farmacista a
Lanciano e cognato del dott. Jacovella. La madre del dottore mi viene
incontro per chiedermi se non avessi visto suo figlio, già
uscito di casa prima delle nove e non ancora rientrato. La povera
donna era naturalmente preoccupatissima.
Lentamente si fa buio. Il chiarore degli incendi è visibile
sopra Lanciano. Si distinguono in mezzo alle nuvole di fumo due focolari
isolati. Alte colonne di fiamme s'alzano in direzione dl Viale Cappuccini.
Sembra che sia in fiamme il mulino del grano.
Una massa di gente passa davanti a noi dirigendosi verso l'aperta
campagna, trascinandosi dietro valigie, coperte e fagotti. Sconvolti,
con le facce segnate dalla disperazione, coi loro bambini piangenti,
questa povera gente cerca di salvare almeno qualcosa dalle sue case
distrutte ed è ora in cerca di un rifugio. Ci si sente correre
un brivido di freddo nella schiena nel vedere questo terribile spettacolo
con lo sfondo di Lanciano in fiamme.
Sono ospite di casa Marciani. Che casa ospitale, che merviglioso
senso della famiglia, quanta bontà regna tra queste mura.
Sono più che felice per aver trovato in giorni così
duri e difficili della gente tanto buona alla quale va tutta la mia
gratitudine senza limiti.
30 ottobre 1943
Anche oggi m'aspetta parecchio lavoro. Il Sindaco
mi chiama e mi prega di recarmi immediatamente al calzifìcio
Torrieri per evitare che siano sottratte illegalmente delle calze.
Riesco a fermare i soldati nel loro intento. Più tardi debbo
andare dal sottotenente medico tedesco per liberare un ferito di guerra,
che con altri era stato preso per lavorare per I tedeschi. Riesco
a liberare questo povero diavolo ed il sottotenente medico, un berlinese,
mi tiene un discorso di mezz'ora in merito al cattivo stato di salute
della popolazione.
31 ottobre 1943
Alle dieci il Podestà parlando al microfono
dall'altoparlante installato sul Municipio informa la folla radunatasi
sulla piazza che ieri sera gli è stato trasmesso l'ordine di
sgombero per Lanciano senza che lui ne fosse stato prima interpellato.
Il Prefetto di Chieti ha ordinato l'evacuazione della citta di Lanciano
e dei suoi dintorni. Egli però si rifiuta di dar seguito a
tale ordine, tanto più che altre località situate al
sud del fiume Sangro, non sono state evacuate, malgrado che si trovino
nella zona d'operazioni. Egli deve prima mettersi in contatto con
il Prefetto impegnandosi di tenere 'al corrente la popolazione di
Lanciano di qualsiasi dettaglio, anche del più piccolo.
La gente è tutta disperata ed è in attesa di quello
che succederà.
Nel pomeriggio, malgrado che sia domenica, si ordina al Sindaco di
presentarsi al Comando militare tedesco '(Ortskommandantur) ed
io debbo accompagnarlo in qualità di interprete. Il tenente
Brannieder, comandante militare locale, venticinquenne, non sembra
all'altezza del suo compito. Ha piuttosto l'aria di una donna isterica.
Mi accorgo immediatamente che il Sindaco Di Jenno ed il tenente Braunieder
per nulla si possono sopportare.
Il tenente avanza un sacco di richieste: apparecchi radio, pale, legna,
carbone, filo metallico, il tutto beninteso contro biglietti di quietanza.
Il colloquio è assai acceso ed io nella mia veste di interprete
cerco di attenuare il tenore del linguaggio, delle due parti.
1 novembre 1943
Il Sindaco parla nuovamente al microfono facendo
nascere una fievole speranza che l'ordine di evacuazione venga revocato.
Egli vuole assolutamente recarsi a Chieti per discutere direttamente
con il Prefetto.
Un promemoria viene preparato dal giudice Pasqualino, nel quale si
fanno alcune proposte in merito ad uno sgombero parziale e si espongono
le difficoltà esistenti per l'evacuazione, dato che mancano
totalmente i mezzi di trasporto per portar via i
malati, i vecchi ed i bambini e che non sono stati previsti delle
zone di accoglimento per gli sfollati. Sono io che debbo tradurre
tale verbale in tedesco e debbo farlo all'ora del pasto, perché
sembra che alle due il Sindaco troverà una possibilità
di parlare con il generale comandante. Quando l'ing. Jurza torna tranquillamente
dai pranzo esamina con pignoleria la mia traduzione cercandovi ad
ogni costo qualche errore. Consulta più volte un dizionario
e sembra quasi irritato di non trovare alcun errore nella traduzione.
Detta traduzione l'ing. Jurza la presenta immediatamente al Sindaco,
ma passa tutto il pomeriggio senza che al Sindaco si presenti l'occasione
di parlare al generale.
2 novembre 1943
Il Sindaco ha saputo che ho tradotto il verbale ed
alle nove mi fa chiamare al Comando militare tedesco poiché
il Comandante gli aveva promesso una macchina per potersi recare a
Chieti. Dobbiamo attendere davanti al Comando e passano delle ore.
Alle 12 generosamente il «signor» Comandante militare
mette a nostra disposizìone l'ultima macchina rimasta a Lanciano,
una Fiat «Balilla» senza ruota di scorta, più adatta
per un cimitero di macchine, che per un viaggio a Chieti. L'unico
autoveicolo che si trova ancora a Lanciano e che dovrebbe servire
per il medico condotto. Tutte le altre macchine sono state una dopo
l'altra portate via di forza da unità militari di passaggio.
Siccome la macchina destinataci è senza benzina e perciò
non può essere usata, dobbiamo recarci al Comando d'artiglieria
dove, dopo lunghe trattative, ci viene promesso, che alle ore 13 ci
avrebbero messo una macchina a disposizione. Alle 13.30 ci troviamo
ancora piantati per la strada. Con noi c'è il sottufficiale
Zimmermarin della Polizia tedesca che ci è stato assegnato
e che ha l'ordine di accompagnarci. Finalmente arriva una macchina
ma siccome un altro ufficiale ed un militare in congedo vi devono
ugualmente prendere posto, nella macchina non c'è più
posto per noi. Si sentono comandi a destra e a sinistra. F'inalmente
il tenente Fischer si occupa personalmente della faccenda; va al comando
locale e quando torna, da ordine
che si procuri immediatamente un'altra macchina e così alla
fine partiamo alle tre in una piccola macchina militare a tre posti,
tipo campestre, in sei per Chieti. Sommamente scomoda, con al volante
un autista pazzo che ci conduce ad una velocità infernale fino
a Chieti. Arriviamo a Chieti completamente esausti Per fortuna per
la strada non abbiamo incontrato aerei e siamo ben felici quando abbiamo
raggiunto la nostra meta. Solo dopo le 16 il Sindaco ha la possibilità
di parlare con il Prefetto ed a noi tocca aspettare due ore e mezzo.
Al ritorno il Sindaco ci racconta che nell'entrare nel salone del
Prefetto aveva inciampato e caduto, e si era scusato, dicendo al Prefetto
che anche se era caduto ed abbassato, non si era messo in ginocchio
davanti a lui.
Per contro il Prefetto ha ricevuto il Sindaco con le seguenti parole:
«Sono lieto di fare la conoscenza del Podestà ribelle».
Il Prefetto promette di parlare con il generale in merito all'evacuazione
di Lanciano e di fare tutto il possibile per rendere meno grave la
situazione. Inoltre egli desidera che a Lanciano sia ricostituito
il Fascio, ciò che il Sindaco rifiuta nuovamente, considerato
che attualmente a Lanciano tutte le tendenze politiche vanno d'accordo.
Ottiene pure dal Prefetto un'assegnazione di L 600.000 per far fronte
alle esigenze della sofferente popolazione.
Il ritorno è tutt'altro che gradevole. Siamo stati presi nel
mezzo di una lunga colonna di autocarri che trasportano munizioni
al fronte. Gli autocarri viaggiano tutti a fari schermati e malgrado
che la notte sia chiara formiamo un lungo nastro luminoso sulla strada,
per fortuna nessun aereo ci scorge. Vicino a Guardiagrele lasciamo
finalmente la colonna, ch'era stato impossibile sorpassare. E' sera
inoltrata quando arriviamo a Lanciano. illesi, anche se mezzo congelati.
3 novembre 1943
Nel pomeriggio il Sindaco viene chiamato al Comando
locale tedesco ed io debbo accompagnarlo poiche il colonnello Kròkel
desidera parlargli.
Il colonnello Kròkel insiste perche la città sia evacuata
al
più presto. Egli fa un piano contenente lo sgombero organizzato
prevedendo i luoghi di raccolta per i profughi come anche le soste
previste e la strada da seguire. Qualsiasi Opposizione da parte del
Sindaco è inutile poiché il colonnello Kròkel
afferma ripetutamente, che tutte queste misure, se anche sembrano
dure, sono prese unicamente per il bene della popolazione, perche
fra poco a Lanciano non rimarrà più una pietra sull'altra,
e che allora non ci saranno più medici né medicine,
ecc. Insiste tassativamente che il Sindaco dia inizio all'evacuazione,
con destinazione della popolazione verso il Nord e precisamente nelle
province di Teramo, Ascoli Piceno e Macerata. Eccezione sarà
fatta per quegli elementi indispensabili per il funzionamento dei
servizi utili ai tedeschi. A queste persone sarà dato - dopo
accurato controllo da parte delle autorità militari tedesche
- una tessera speciale per la permanenza in Lanciano dopo l'evacuazione.
Il predetto colonnello dichiara al Sindaco, che dopo la data fissata
per lo sgombero, chiunque verrà trovato privo della speciale
tessera a sud della linea Ortona-Orsogna, sarà considerato
spia di guerra e quindi fucilato.
Il Sindaco prende nota di tutto con tristezza e non perde l'occasione
di lagnarsi per le continue requisizioni. Il colonnello Kròkel
parla poi a parte con il sottotenente Braunleder proibendogli qualsiasi
altra requisizione.
4 novembre 1943
Abbiamo passato una cattiva notte. Alle undici meno
un quarto un aereo è passato a bassa quota, dietro la casa
del dottore, tirando con la mitragliatrice. Alle undici e un quarto
si è sentito un gran rumore e la forte scossa di una bomba
caduta vicinissima. Ci siamo vestiti in un attimo, siamo usciti ed
abbiamo constatato che la bomba era caduta a 50 metri dalla casa,
distruggendo tre padiglioni del calzificio Torrieri. Gli aviatori
tornano continuamente e mitragliano tutti i dintorni E' l'una quando
lascio la trincea di protezione.
Alle tre meno un quarto il Sindaco ed io siamo nuovamente chiamati
al Comando tedesco, dove si trova il colonnello
Kròkel, il quale ci comunica che tra poco sarebbe arrivato
l'ufficiale di collegamento tra il Prefetto di Chieti ed il Generale.
Non passa molto tempo ed arriva il tenente Schildheuer, un ufficiale
molto risoluto che con le sue maniere energiche riesce tutt'altro
che simpatico.
Il Sindaco espone i suoi dubbi e l'atrocità dell'evacuazione,
dato che la popolazione (donne, vecchi, bambini, paralitici, ecc.)
dovrebbero sotto le intemperie raggiungere a piedi, in questa stagione,
le località lontane di destinazione, per mancanza di mezzi
da parte delle autorità tedesche.
Obietta inoltre, che la popolazione è priva di alimenti, mezzi
ed indumenti e che preferisce rimanere a Lanciano subendo tutte le
conseguenze del campo di battaglia piuttosto che morire per strada.
Il comando tedesco fa vive pressioni per lo sgombero.
Il Sindaco informa il colonnello Kròkel, che tutto potrebbe
essere organizzato (fogli di via, ecc.) per la partenza, ma che da
parte del Prefetto di Chieti nulla è stato fatto ancora e che
anzi quest'ultimo ieri ancora al telefono aveva lasciato intendere
piuttosto, che l'evacuazione avrebbe potuto essere ancora rimandata.
Di fatti ieri il Sindaco finalmente aveva potuto mettersi in contatto
telefonico con Chieti, e ciò dietro ordine del colonnello Kròkel
tramite il telefono del Comando d'artiglieria, poiché tutta
la rete normale telefonica era stata requisita dai tedeschi.
Il tenente Schildheuer arrabbiatissimo - tipo rozzo e scortese - decide
ed insiste che il Sindaco si rechi immediatamente con lui a Chieti
per ricevere le necessarie istruzioni per l'evacuazione che dovrebbe
essere effettuata entro 8 giorni, dandoci appena il tempo di andare
a prendere i nostri cappotti.
Raggiunta Chieti, il Tenente Schildheuer dopo lungo colloquio con
il Vice Prefetto Ucheri, assicura il maggior conforto da parte delle
tre province ospitali e da al Sindaco Di Jenno ordine tassativo in
nome del Generale, che la popolazione di Lanciano deve evacuare nel
termine fissato e che al massimo potranno rimanere a Lanciano 7.000
persone dei circa 30.000 abitanti, ottenendo tale cifra dopo lunghissimi
combattimenti, ivi compresi anche i familiari degli operai e artigiani,
costretti a lavorare con i tedeschi. Vengono indicate da parte del
predetto ufficiale le direzioni di marcia per la popolazione ed il
Sindaco ottiene, in via del tutto eccezionale, anche la direzione
di marcia della strada 5. Vito-Ortona per poi proseguire verso Nord.
Con ciò ha inizio la grande beffa ai danni dei militari ed
ufficiali tedeschi. Gli sfollati per questa strada si possono fermare
nelle relative campagne, dove il controllo tedesco è quasi
inesistente e rientrare a Lanciano, evitando la deportazione in massa
verso Nord.
5 novembre 1943
Alle ore 14,30 giunge il Tenente Schildheuer a Lanciano,
insistendo per un più rapido sgombero che deve essere ultimato
entro le ore 18 dell'8 novembre.
ottiene il Sindaco dal predetto Ufficiale tedesco - dopo varie insistenze
- l'approvazione di un foglio di sfollamento speciale, compilato e
studiato dal Sindaco stesso e da pochi intimi suoi, nel quale si fa
menzione che le famiglie non possono essere smembrate per alcun motivo
(neanche per adibire gli uomini validi al servizio di lavoro) prima
che sia stata raggiunta la destinazione cui la famiglia è avviata.
Tale documento redatto in italiano ed in tedesco, controfirmato dal
Sindaco e dall'autorità tedesca veniva consegnato a ciascun
capo famiglia, che doveva sfollare.
6 novembre 1943
Alle prime ore vengono rapidamente istituiti gli
uffici necessari per l'assistenza agli sfollati, compilati i moduli.
Dato che il Comando tedesco richiedeva alla sera di ciascun giorno
fino al giorno 8 novembre, il numero degli sfollati partenti, ed aveva
lasciato facolta ad ogni capo famiglia di non contrifirmare il documento;
il numero effettivo che doveva essere comunicato seralmente dal Sindaco
al comando militare tedesco, non corrispondeva a quello degli effettivi
partenti, e così il comando stesso non aveva la possibilità
di controllare tale manipolazione. Risultavano persone partite, ma
di fatto erano rimaste a Lanciano.
La resistenza della popolazione di Lanciano ai diversi ordini tedeschi
era in atto ed è una delle più belle pagine che abbia
vissuto, fatta di gente attaccata alla propria città, alla
propria terra, alle proprie case, nonostante i gravi pericoli, le
incognite del futuro ed in barba a tutte le minacce e fucili del soldato
tedesco.
Era la resistenza della. popolazione di Lanciano di tutti i ceti.
7 novembre 1943
Continua il lavoro per compilare i fogli di sfollamento
con relativa calma ed il Sindaco dopo diverse difficoltà ottiene
per i malati la messa a disposizione di 6 auto-ambulanze giornaliere
per il loro trasporto a Chieti.
8 novembre 1943
L'evacuazione raggiunge il culmine data l'imminenza
del termine fissato dall'ufficiale di collegamento Schildheuer.
Nel pomeriggio, in mezzo a questi pensieri, ansie e preoccupazioni
ed il forte lavoro il tenente Braunieder - comandante la piazza -
richiede per telefono 2 biciclette che gli debbono essere consegnate
entro un'ora.
Avendo il Sindaco in tale momento ben altre serie preoccupazioni per
la popolazione di Lanciano che doveva sgomberare, si rifiutava in
pieno di eseguire quell'ordine del comandante e rispose che quelle
biciclette richieste insieme ad altre poche rimaste a Lanciano dovevano
servire unicamente per i bisogni della popolazione che non poteva
disporre di altri mezzi di locomozione.
Dopo tale rifiuto il predetto ufficiale ha avuto la costanza di telefonare
al Sindaco per ben sei volte, minacciandolo atrocemente. Solo allora
gli furono mandate 2 vecchie biciclette militari a ruota fissa esistenti
nell'ufficio delle guardie municipali.
Dopo pochi istanti le biciclette furono restituite: era stata una
offesa personale per il Comandante Braunleder e venne dato ordine
al Sindaco di presentarsi subito al Comando, per chiedere scusa, altrimenti
avrebbero provveduto al suo arresto.
Il Sindaco Di Jenno, nonostante le minacce intimategli non si è
mosso dal suo ufficio.
Manifesto affisso su molte case della città
qualche giorno dopo la rivolta.
9 novembre 1943
Ieri sera, come tassativamente richiesto dai diversi
ufficiali tedeschi, la somma totale degli sfollati di Lanciano (come
da fogli di sfollamenti consegnati) risultava di circa 22.000, mentre
in verità non più di 5.000 avevano lasciato Lanciano
e questi in gran numero si erano recati nei dintorni della città.
I tedeschi si mostrarono soddisfatti del loro operato e la resistenza
della popolazione di Lanciano con a capo il Sindaco ed alcuni fedeli
seguaci poteva essere soddisfatta della vittoria contro l'invasore,
che non si era accorto della grande beffa compiuta contro i suoi piani
inumani.
Alla mattina si presenta un sottufficiale di polizia tedesca con modi
inurbani al Municipio e sedendosi sul tavolo nell'ufficio del Sindaco,
chiede, picchiando i pugni sul tavolo stesso, la distinta degli internati
stranieri. (A Lanciano esisteva un campo di internati stranieri) in
gran parte ebrei, che dopo il 6 ottobre 1943 furono rilasciati in
libertà concedendo a tanti delle carte d'identità false,
con nomi italiani, affinché non potessero essere identificati
dalla polizia tedesca).
Il Sindaco si rifiuta di consegnare tale lista - facendo figurare
di non esserne in possesso - e viene insultato in maniera indescrivibile
da detto sottufficiale che aggiunge di adottare provvedimenti a suo
carico. Il Sindaco avverte un ex internato austriaco ebreo Sig. Weigel
di allontanarsi onde non essere preso, (era stato assunto come interprete
per traduzioni scritte,
sempre al fine di non farlo esporre a pericoli circa un eventuale
riconoscimento da parte dei tedeschi che ormai prendevano tutte le
persone per strada, di qualsiasi età e classe sociale per il
loro servizio del lavoro).
Alle ore 14 arriva un altro tenente della polizia, insistendo sul
medesimo argomento come alla mattina il predetto sottufficiale. Il
Sindaco comunica al tenente che è stato insultato da un loro
sottufficiale e lascia il suo posto di Sindaco e precisa che tornerà
solamente quando quel sottufficiale gli avrà presentato le
sue scuse.
Il Sindaco se ne va e ritorna solo verso le ore 17,30, cioe quando
il sottufficiale si presenta per chiedergli scusa dell'accaduto.
Bruno BOLAFFIO
Lanciano, 1943
IL MINIDIARIO DI ANTONIO DI IENNO
14 Settembre 1943 - Febbraio 1944
L’avvocato Antonio Di Ienno, sindaco durante l’Amministrazione
1956-1960, amava spesso ricordare che era stato Podestà
di Lanciano nel periodo drammatico dell’occupazione tedesca,
e in seguito – caso unico nella storia del periodo bellico
nel nostro paese – venne nominato anche sindaco dal Comando
Militare Alleato, il 4 dicembre 1943, al momento della liberazione
della città.
Rovistando in questi giorni fra vecchie carte, ho ritrovato
una serie di appunti, una specie di minidiario, che l’avvocato
Di Ienno mi consegnò, in occasione di una intervista che mi
concesse nell’ottobre 1963, per la celebrazione del ventennale
della rivolta armata lancianese. Una celebrazione cui partecipò
quell’anno anche il Presidente della Repubblica on. Antonio
Segni.
Il diario, una serie di appunti su fogli staccati di quaderni
di scuola, riguarda il periodo 14 settembre 1943 – febbraio
1944. Il 14 settembre fu il giorno in cui i tedeschi si impadronirono
del deposito carburanti dell’Aeronautica, custodito nel recinto
di uno stabilimento tessile ai Cappuccini.
Del diario trascriveremo gli appunti del periodo fino all’arrivo
a Lanciano degli alleati. Si tratta per lo più di avvenimenti
già ricordati da Bruno Bolaffio, l’interprete di cui
il podestà
Di Ienno si serviva per parlare con gli occupanti tedeschi. Il
diario di quest’ultimo, pubblicato sul volume “5 e 6 ottobre
1943”, fatto stampare dal Comune di Lanciano nel 1984, si ferma,
però, al 9 novembre 1943. Ci è sembrato, pertanto, interessante
conoscere, sia pure sommariamente dagli appunti
scarni dell’avv. Di Ienno, gli altri 25 giorni di “storia
lancianese”
fino al 4 dicembre 1943.
Ma seguiamo un po’ il diario e cerchiamo di ritrascriverlo e
interpretarlo nella calligrafia non sempre chiara e leggibile del
suo autore:
14 settembre (1943): Ottenuto che i carabinieri
rimangano armati. Si nascondono ingenti quantità di grano e
di olio per mezzo della sezione alimentazione (Magg. Toni, Cialfi).
Carte d’identità false agli ex internati, al magg. Carosella,
ten. Pellegrini e militari sbandati.
5 ottobre. Pomeriggio: Via per Frisa, assalto e incendio
di due camion tedeschi.
6 ottobre: Giornata di combattimento. Rimango fino alle 13
in Municipio. Il podestà F. P. Lotti si è dimesso. Assumo
l’incarico
io (vice podestà).
7 ottobre. Mattina: Mi reco con l’arcivescovo Mons.
Tesauri al comando tedesco ubicato al villino “Lanza”
di Castelfrentano.
7 ottobre. Pomeriggio: Col vice segretario Carapelle e con
De Rentiis concludo un accordo di tregua col comandante tedesco Föltsche.
8 ottobre:L’Arcivescovo vuole che il Podestà
informi dell’accordo la popolazione dalla balaustra della Cattedrale.
Si seppelliscono i caduti dopo gli accertamenti di legge e
l’ispezione cadaverica del dott. Vittorio Carabba. Di Menno
Di Bucchianico e gli Ottobrini si mettono a disposizione del
podestà.
9 ottobre: In seno alla “Stat Polizei” vengono
inclusi i partigiani
combattenti del 6 ottobre. Nella consulta antifascista inclusi
l’avv. Raffaele Bellini e Federico Mola. Create squadre di
soccorso per intervenire nelle zone bombardate con elementi
coraggiosi, per la maggior parte gli stessi che hanno combattuto
contro i tedeschi. Create false carte d’identità per
i carabinieri
Nanei, Amati ecc.. Intervengo presso i tedeschi per far ridurre la
richiesta di lavoratori da impiegare nel Sangro da 600 a 60. Fatti
rilasciare gli uomini rastrellati.
20 ottobre: Mi reco a Treglio presso il col. Krochel per
protestare
contro i soprusi del ten. Braunleder, comandante della Piazza, che
mi ha proibito di uscire dalla città senza permesso del comando
tedesco.
28 ottobre: Convocato a Chieti e invitato a ricostruire il
P.N.F. disciolto il 25 luglio. Mi rifiuto. Il Prefetto mi dice che
sono un “podestà ribelle”, la stessa espressione
usata in una relazione al comando tedesco.
2 novembre: Parto per Chieti con l’interprete Bolaffio
per far revocare l’ordine di sfollamento. Bombardamento della
città mentre si discute, ma invano, in Prefettura. Mi dicono
che le operazioni belliche sono previste per la zona di Lanciano e
che la città potrà essere minata e distrutta. Ottengo
il rinvio dello sfollamento al 6 novembre. Si ottiene la stampa di
un foglio di sfollamento bilingue che permette di far figurare sfollati
quelli che volontariamente vogliono rimanere in città. Si redigono
elenchi gonfiati di impiegati che possono rimanere in città
fino all’ultimo. Nell’elenco sono compresi nomi di funzionari
fittizi. Si includono negli stati di famiglia dei funzionari persone
che non ne fanno parte. Intervengo per evitare il rastrellamento degli
uomini delle famiglie che veramente sfollano e ottengo il rilascio
di quelli già prelevati. Si distribuisce denaro a coloro che
sfollano col foglio bilingue.
17 novembre: Agenti della Gestapo e della Feldgendarmerie
mi prelevano e mi portano a Canosa. Mi dicono che potrò
essere fucilato per la relazione da me inviata al Comando Superiore
Tedesco del Maresciallo Kesselring, dove ho denunciato i soprusi dei
soldati di occupazione e il martirio di Trentino La Barba con l’enucleazione
degli occhi. Giunge un maggiore medico tedesco che intende verificare
la veridicità delle cose da me denunziate.
19 novembre: Dopo due giorni di detenzione vengo liberato
e ricondotto a Lanciano. Mi dicono che durante la notte del 17
novembre i patrioti del 6 ottobre hanno minacciato di riprendere
le armi se non venivo liberato. Il maggiore tedesco incari cato di
controllare i verbali medici e della magistratura sulla morte di Trentino
La Barba sembra non abbia trovato nulla di chiaro e di preciso. Lo
stesso giorno ho un colloquio col ten. col. Krokel, presente il ten.
Braunleder ed altri ufficiali tedeschi. Chiedo la sostituzione del
ten. Braunleder da comandante della piazza. Questi viene sostituito
col ten. col. Knol.
23 novembre. Bombardamento aereo della città da parte di
quadrimotori alleati. Corro nei luoghi colpiti dalle bombe. Viene
salvato il vecchio R... I tedeschi pretendono lo sfollamento
totale della città, da attuarsi subito.
24 novembre: Riesco a strappare tre giorni di proroga allo
sfollamento totale.
26 novembre: Bombardamento aereo alleato e distruzione
dell’ospedale. Viene risparmiata la palazzina ove abito con
la
famiglia. Un miracolo della Madonna del Ponte. Con pochi animosi provvedo
a far trasportare i feriti nel Palazzo De Giorgio. Il dott. Cipollone
e il dottor De Cecco non hanno mai abbandonato i malati.
27 novembre: I tedeschi insistono per l’abbandono della
città dei civili autorizzati che vi sono rimasti. Riesco ad
ottenere altri tre giorni di proroga.
30 novembre: Altre 48 ore di proroga. Le mine per far saltare
la città sono ammucchiate al campo sportivo. Finché
vi sono i civili non si può procedere ad alcuna distruzione.
1 dicembre: Inizia lo sfollamento verso Frisa. Si forma una
colonna sulla strada provinciale. Si apprende intanto che il comando
tedesco è fuggito da Treglio. La colonna viene rifornita
di viveri a Frisa. Si invitano gli sfollati a non andare oltre Frisa,
perché i tedeschi sono in fuga al Sangro.
3 dicembre: Giungono in città le avanguardie indiane
dell’ VIII Armata. Te Deum di Mons. Tesauri all’interno
del rifugio dove mi trovo.
4 dicembre: Vengo nominato sindaco dal Comando Militare
Alleato per meriti durante l’occupazione tedesca. Gli sfollati
tornano. La città si popola di nuovo. Si dorme nei rifugi.
Mi rifiuto
di indicare agli inglesi i nomi di profittatori e propagandisti
fascisti da inviare al campo di Padula. C’è con me Amerigo
Di Nenno. Si attiva il mulino con motore a scoppio fornito dagli alleati.
Si tira fuori il grano e l’olio nascosto e sottratto alla requisizione
tedesca.
Il minidiario dell’avv. Di Ienno continua fino ad occupazione
alleata inoltrata. Ma i particolari contenuti in quest’ultima
parte non credo abbiano molto interesse ai fini della ricostruzione
storica del periodo dell’occupazione tedesca che ci sembra piu
importante. Rimane la domanda: i tedeschi volevano
davvero distruggere Lanciano? Perché non l’hanno fatto?
La
risposta è incerta. Di sicuro si può dire che i tedeschi
intuirono
abbastanza bene il doppio gioco del podestà: un po’ con
i partigiani e un po’ con loro. Ma con la linea di difesa al
Sangro avevano ben altro cui pensare. L’avvocato Di Ienno podestà
costituiva per loro una certa garanzia, perché la città
non si rivoltasse di nuovo come aveva fatto il 6 ottobre. Parimenti
si ha
motivo di credere che lo sfollamento fu chiesto per non avere
una popolazione ostile in una città nelle immediate retrovie
della linea di difesa creata al Sangro. Così come si può
essere
certi che la città non subì ulteriori distruzioni dopo
gli incendi
del 6 ottobre, così come i tedeschi avevano fatto altrove,
perche
gli occupanti, incalzati dall’VIII Armata Britannica che aveva
sgominata la linea di difesa a Mozzagrogna e a S. Maria Imbaro
sul ciglione del Sangro, furono costretti ad abbandonare
Lanciano per riorganizzarsi e resistere oltre il Moro, ad Ortona
e a Orsogna.
a cura di Mario LANCI
da “Terra e Gente” n. 1, 1988
I PARTIGIANI SI ARMANO
La ricerca delle armi non fu cosa molto facile in
quanto non vi era possibilità di averne dalle forze di polizia
(carabinieri) ne' tanto meno dai fascisti che in quei giorni erano
tornati quasi tutti al loro servizio. Comunque fu studiato un piano
d'azione diretto dal generale a riposo Ginesio Mercadante, da Americo
Di Menno Di Bucchianico (che divenne poi il Comandante della formazione
partigiana), da Avvento Montesano, dal Dott. Carlo Shonheim, da Domenico
Marino e da altri ufficiali di Lanciano che in quei giorni si erano
uniti a noi.
Per avere le armi si pensò di avvicinare alcuni fascisti nella
speranza che i rapporti di amicizia ci avrebbero salvaguardato da
possibili tradimenti. Il tentativo, invero, non andò male poichè
attraverso alcune informazioni riuscimmo a sapere che, chiusi in una
camera del comando della Milizia vi erano un centinaio di moschetti
mod. 91. Ma come venirne in possesso? Il rischio era costituito non
tanto dalla presenza dei fascisti (anche se i più faziosi,
in quei giorni, avevano ripreso fiato vantandosi nelle loro camicie
nere e, forti della protezione tedesca, avevano nuovamente sfoderato
la loro arroganza e prepotenza), ma dal fatto che presso quel comando
dormivano circa una ventina di tedeschi. Se qualcuno fosse stato scoperto
nel mentre rubava i fucili, non avrebbe avuto scampo.
Malgrado ciò si decise di correre il rischio con la speranza
di farla franca.
E' la notte del 2 ottobre; un gruppo di giovani di cui facevano parte
Vincenzo Pagone, Raffaele Stella, Achille Cuonzo, Giuseppe Castiglione,
Pasquale Sauro, Ulisse D'Angelo e qualche altro, si recò a
prendere le armi.
I moschetti erano depositati in una stanza nella quale si poteva accedere
dall'asilo «Maria Vittoria». Il gruppo partigiano, quindi,
passando per il campanile della chiesa di Santa Chiara, avrebbe dovuto
attraversare dapprima tutto il tetto della chiesa e poi, per una parte,
quello dell'asilo, fino ad arrivare alla finestra della camera indicataci.
Era una notte tremenda: faceva freddo e pioveva a dirotto come mai
era piovuto in tutti i giorni di settembre, ma le armi erano più
preziose di qualsiasi altra cosa al mondo e perciò non c'era
da attendere oltre.
Il gruppo salì sul campanile, si dispose lungo il tetto dell'asilo
e un partigiano arrivò fino alla finestra; senza molta difficoltà
l'apri e una volta nella stanza, trovò subito le armi che cominciò
a passare agli altri partigiani che si erano disposti in fila indiana
sin quasi ad arrivare presso il campanile.
L'acqua continuava a venire giù, ma nessuno vi faceva più
caso, tanta era l'emozione di essere entrati in possesso dei fucili.
Ben presto le armi furono calate in strada, ripercorrendo la stessa
via del campanile.
Furono portati fuori 100 fucili e due cassette di cartucce: un bell'arsenale,
se si pensa che il gruppo, fino a quel momento, era del tutto privo
di armi. Dalla strada, con un carretto a mano, fucili e munizioni
furono portati in casa di Di Menno Di Bucchianico, da dove, però,
la mattina seguente avremmo dovuto farli sparire per tema di qualche
perquisizione tedesca. Ma dove portarli? In nessuna delle nostre case
esistevano nascondigli capaci di occultare un simile arsenale. Infine
si pensò di portare il tutto nei locali degli uffici del Dottor
Montesano, quei locali dei quali ci servivamo spesso per le riunioni,
in via Monte Grappa.
Frattanto, nei giorni precedenti, tutti avevamo lavorato a fare proseliti
per la nostra lotta. Per il tramite di amici e conoscenti fidati si
erano uniti a noi alcuni internati politici e soldati sbandati dell'esercito;
così eravamo diventati più di un centinaio di persone,
tutti adulti fatta eccezione per due ragazzi: Adelmo Santoleri e Eustacchio
Giovanelli dei quali ci servivamo per il lavoro di collegamento
tra i vari gruppi che si erano formati nei diversi quartieri.
Notifica del Comando tedesco di Lanciano
AVVISO: Per tutti i membri dell'Armata Tedesca è proibito di
requisire nelle case. Per saccheggi c'è la pena di morte! Solo
con certificati del posto di servizio possono essere presentate delle
richieste alla podesteria.
Intanto, i giovani ed i ragazzi, che dai loro familiari raccoglievano
lo spirito di lotta contro i tedeschi e i fascisti, approfittavano
di tutte le occasioni per arrecare danno al nemico, forando gomme
delle macchine in sosta, togliendo bulloni dalle ruote dei camion,
impadronendosi di qualsiasi attrezzo, danneggiando in ogni modo
gli autoveicoli degli invasori.
Dalle notizie che riuscivamo ad avere dalla Feliziani, interprete
presso il comando tedesco, sapemmo che i tedeschi erano inferociti,
non solo per i fatti di cui sopra, ma soprattutto per il furto delle
armi, tanto che avevano deciso di mettere a soqquadro la città,
pur di ritrovare la refurtiva e di porre fine agli atti di sabotaggio.
Ciò ci indusse a considerare che il posto dove erano nascosti
i fucili poteva essere pericoloso, così che decidemmo di distribuire
le armi a tutti i partigiani in quanto si riteneva che ciascuno avrebbe
potuto trovare il modo di nascondere un fucile e qualche caricatore
Con la collaborazione dei due ragazzi, Santoleri e Giovannelli, riuscimmo
ad avvisare l'intero gruppo convocandolo nel nostro arsenale d'occasione.
All'ora stabilita eravamo tutti presenti e come primo provvedimento
istituimmo un servizio di sentinella sul muro che per una parte circondava
il fabbricato. Ricordo che si offrì volontario il povero Achille
Cuonzo. Si procedette alla rapida distribuzione delle armi (un fucile
e due caricatori ciascuno) e fu stabilito di ritrovarci, la notte
stessa, in località Pozzo Bagnaro, alla periferia della città.
Anche a questa riunione, verso l'una, fummo tutti presenti. Gli uomini
furono' divisi per squadre e il comando di ciascuna squadra fu assunto
da un ufficiale. L'organizzazione prendeva corpo, mentre di momento
in momento la situazione si faceva sempre più tesa.
Nella stessa riunione fu constatata l'impossibilità di prevedere
i futuri sviluppi della situazione e si stabilì che se non
fosse stato possibile avvertire singolarmente i partigiani, il segnale
del raduno di tutti gli uomini armati, sarebbe stato dato per mezzo
del suono a distesa delle campane di tutte le chiese.
La sera, tutta la formazione partigiana si riunì a Pozzo Bagnaro
dove si decise di ritrovarsi, armati, nella medesima località,
all'alba del cinque ottobre. Alcune grotte avrebbero costituito il
naturale rifugio al nostro raduno.
L'indomani, all'ora stabilita, a gruppi o isolatamente giungemmo sul
luogo del convegno. Nonostante le precauzioni adottate, l'affluire
di tanta gente nella medesima località cominciò ad essere
notata da alcune persone. Molti, incuriositi, si riunivano presso
il muraglione di Via Bastione, che ha la veduta nella valle di Pozzo
Bagnaro; ed allorché fui posto di guardia alla grotta (mentre
aveva inizio la riunione) mi chiesi se qualcuno non avesse finito
col fare la spia giacché dal bastione, molto chiaramente, gli
uominì armati erano stati visti aggirarsi nei pressi della
grotta e nella campagna circostante.
La riunione ebbe fine verso mezzogiorno. La decisione presa fu di
nascondere tutte le armi in una grotta poco distante dal luogo stesso
della riunione, ma molto più riparata; di raggiungere ciascuno
la propria casa per salutare i familiari e partire subito dopo alla
volta delle montagne vicine dove si sarebbe dato inizio alla guerriglia
insieme con altre formazioni già sorte o che si pensava di
far sorgere.
A guardia delle armi furono lasciati due partigiani: Giuseppe Stella
e un certo Raffaele. Ma le cose non dovevano andare così come
si era stabilito!
Domenico D'AMELIO
Chieti, giugno 1974
L'ULTIMA GIORNATA DI TRENTINO LA BARBA
il suo coraggio, la sua fede.
Pomeriggio del 5 ottobre 1943, nella Villa Lanza, alle porte
di Castelfrentano ove, da una settimana, ha preso dimora un comando
di tappa delle S.S. tedesche. Sono una ventina di uomini, mezza dozzina
di automezzi, agli ordini di un capitano di nome Franz, alto, bruno,
elegante, con un tono inflessibile nella voce e nei gesti.
La villa è accogliente, con la frescura dei pini, le ombre
del giardino, la visione panoramica della Majella e gli ospiti in
divisa contano di rimanere in questo «buon ritiro» per
lungo tempo, dimenticando che gli Alleati sono sbarcati a Termoli,
ed hanno già elaborato il programma per raggiungere the river
SANGRO, un nome, questo, riportato in rosso sulle carte topografiche
di guerra.
Ecco verso le ore 16 il comandante viene disturbato nel suo lavoro
pomeridiano che consiste nel selezionare, tagliare e preparare le
foglie del tabacco, asportate dai magazzini dell'Azienda di Lanciano.
Hanno condotto in sua presenza una «internata» di Castelfrentano,
di origine lettone che in paese ha fermato alcuni soldati tedeschi
invitandoli a disertare, a nascondersi, in attesa dell'imminente arrivo
degli alleati.
L'interrogatorio è rapido, concitato: la bionda lettone parla
bene il tedesco, non nega quanto accaduto, manifesta a viso aperto
il suo disprezzo per i nazi invasori di Hitler, dimostrando di non
aver paura di niente.
La faccenda è sbrigata in pochi minuti: la donna è portata
via brutalmente e buttata in un camion che parte subito per
ignota destinazione. Ora, dietro il portello della macchina è
irriconoscibile: si agita, si dispera, impreca, vuol buttarsi giù
e questo è l'ultimo ricordo che resta di lei. Addio, addio.
Il Capitano ha ripreso contatto con le foglie d'oro di tabacco, quando
bussano ancora alla sua porta. Due ufficiali spingono avanti un giovane
alto, magro, malvestito, il viso di un assonnato.
Raccontano che è uno dei «ribelli» della rivolta
armata di Lanciano iniziata nella notte precedente, con il sequestro
di un camion tedesco, quasi un preludio alla travolgente lotta del
giorno dopo.
Il giovane declina le sue generalità, dice di chiamarsi Trentino
La Barba, di essere nativo di Lanciano, di fare il mestiere di funaio:
l'interprete stenta a tradurre quest'ultima parola. Lo invitano a
confessare tutto, a denunciare i nomi degli organizzatori della ribellione,
far conoscere di quali armi sono in possesso e quali piani hanno preparato.
Trentino sa tutto, ma dice di non conoscere nulla. «Domani ammazzeremo
i tuoi figli se non parli!» traduce l'interprete, ma il giovane
fa segno di diniego con la testa e le successive insistenze cadono
nel vuoto, mentre Franz si mostra seccato.
Viene portato via nel piazzale della villa addossata al muro con le
mani dietro la nuca: diversi calci e pugni e lo buttano a terra e
un soldato gli spara dietro un colpo di rivoltella per intimidirlo.
Dopo circa un'ora, Trentino è riportato dentro alla presenza
del Capitano. Nuovo interrogatorio, con lo stesso risultato.
«Non hai parlato oggi, parlerai domani».
Il capitano batte le palme delle mani tre, quattro volte, quasi a
scandire gli ordini per il prigioniero.
Trentino portato giù in una vecchia e umida legnaia del villino,
viene legato ad un palo che sostiene la volta: i tre soldati che lo
hanno accompagnato, gli ridono in faccia, poi chiudono l'uscio a doppia
mandata e se ne vanno.
Ora il sole è tramontato dietro la Majella e le ombre della
notte avvolgono i pini della Villa Lanza raccolta nel silenzio.
Cosa pensa Trentino nelle lunghe ore della notte in attesa dell'alba?
Rivede i suoi compagni di Lanciano che si preparano alla dura battaglia
e sono insonni, come lui, pieni di coraggio:
«Ma non devo essere ancora con loro?» E un pensiero accorato
raggiunge la sua casa, la sua donna, suoi figli, mentre più
insopportabili diventano i legacci che tolgono quasi il respiro.
Verso le sette del mattino, la sentinella apre la porta, va verso
il prigioniero, borbotta qualche parola, lo slega e lo spinge avanti
con pedate di scherno. Un camion fuori è già pronto
per portar via Trentino: lo caricano sopra insieme a cinque, sei soldati.
Il capitano a quell'ora è ancora a letto, mentre in cucina
gli preparano la colazione.
Parte Trentino con i suoi carnefici, pronto all'olocausto della vita:
egli sa, comprende, non si turba, rimane in piedi sul camion, ancora
una prova di coraggio.
In quella stessa mattina, sei ottobre, i compagni di Trentino si battono
eroicamente nelle strade e nelle piazze di Lanciano, contro gli oppressori
di ogni libertà e contro i paladini di ogni tirannia, e riscattano
nel sangue ogni onta di vergogna e di disonore.
Intanto il sacrificio di Trentino si è compiuto: lo ritroveranno
- ancora in piedi - legato ad un albero, al Viale Cappuccini, il corpo
straziato, il viso sfigurato, le occhiaie vuote, una immagine implorante
un palpito di pietà.
Luigi DE GIORGIO
Lanciano, 6 ottobre 1944.
UNA MAESTRA
A infittire i tanti colori dell'autunno incipiente
stavano le tute mimetiche dei soldati tedeschi che ne addensavano
le tinte e ne attutivano i toni, ma che mettevano addosso tanta tristezza
quanta non ne avrebbero saputa esprimere le nebbie e le piogge che
rendono così melanconica quella stagione.
E ce n'erano a centinaia di tedeschi, dalla Chiesa di Santa Chiara
alla Casa di Riposo, lungo le cunette, in pieno assetto di guerra,
vigili, pronti, decisi.
Li avevamo appena visti, in piccoli gruppi, nei pressi dell'abitazione
De Rosa - dove, feriti, eravamo stati ospitati - quando ci erano venuti
a cacciare per farci abbandonare la città. Allora ci erano
parsi persuasivi, oltre che imperiosi, ma ora erano alteri, cattivi,
prepotenti: ora erano loro, i tedeschi! Ci apostrofavano con disprezzo,
cercavano con lo sguardo nei nostri panni qualcosa che ci indicasse
come «partigiani» e, accompagnando i nostri passi con
un colpo di calcio lo del mitra sul dorso, ci ordinavano di proseguire
lungo il Viale dei Cappuccini.
Io portavo Pierino cavalcioni. La striscia di garza che mi aveva fasciato
la ferita alla coscia si era allentata ed era scivolata alla caviglia,
dov'era visibile, il fianco destro di Pierino era una chiazza di sangue;
non avevamo armi addosso, ma ne portavamo i segni sulle carni. E dovevamo
passare di nuovo davanti ai tedeschi, per essere perquisiti. Un fremito
di paura mi scosse e mi portò alla memoria le parole che Pierino
aveva pronunciato qualche ora prima, mentre rovinava a terra, ferito:
«Però se mmore, more pe' Lanciane...».
Eravamo giunti dinanzi ai tedeschi, al Larghetto S. Chiara, ed attendevamo
che ci frugassero negli abiti. Ancora oggi non so se la calma di quel
momento era da attribuirsi più alla giovanile incoscienza che
alla convinta rassegnazione.
Mi fermai all'intimazione di un soldato, alzai meccanicamente le braccia,
con Pierino che si teneva più saldamente aggrappato a me, ed
attesi di essere perquisito. Invano. Ci fu fatto segno di proseguire
e, meravigliato per la mancata ricognizione sulle nostre persone,
mi guardai intorno per trovare una spiegazione a quanto era accaduto.
Vidi accanto a noi la maestra Rachele Nardone che piangeva. La coraggiosa
signora, che si era resa conto del pericolo che stavamo per correre,
aveva posto senza indugio il suo bolerino sulle spalle di Pierino
per nascondere il sangue alla vista dei tedeschi, gli aveva cinto
i fianchi con le braccia e ne lamentava le condizioni di salute, quasi
fosse un suo figliolo malato.
Con quel gesto affettuoso di madre la signora «maestra»
ci aveva salvata la vita.
Mario BOSCO
LA MORTE DI DUE GIOVANI EROI
Il Circo, a piazza Garibaldi, assisteva gelido alla
più pericolosa altalena acrobatica, alla più drammatica,
a quella che doveva essere poi la tragedia conclusiva: la morte di
due giovani che affrontavano lo spettacolo più sublime, quello
di combattere per la libertà. Ci faceva da riparo il Circo
a noi sei, incalzati dalla feroce astuzia dei soldati tedeschi avanzanti
in ordine sparso, tra una bancarella e l'altra di piazza Garibaldi,
in una morsa che sempre più si stringeva. Avevamo dietro noi
il Ponte dell'Ammazzo, veramente sinistro nel suo nome che ricordava
le vite perdute in esso, in altra battaglia, quattro secoli indietro.
Affianco alla recinzione del Circo, oltre la strada, c'era Vincenzo
Bianco, ferito all'inguine, implorante soccorso a noi che non potevamo
darglierlo. Uscire dal riparo del recinto, infatti, significava essere
«beccati» dai tiratori tedeschi appostati più a
monte.
Ma Vincenzo bisognava salvarlo a tutti i costi, né era possibile
rimanere a lungo coperti da quelle poche tavole della recinzione del
Circo.
Decidemmo allora di indietreggiare col viso a fronte del nemico, pronti
a rintuzzarlo, approfittando della copertura che ci dava il Circo;
e così facendo, con un balzo finale che ci poteva dare soltanto
la giovane età ed il timore di essere uccisi, riuscimmo ad
arrivare dietro la casa, appena a destra del ponte guardando la valle,
tenendo presente che il Circo trovavasi, pressapoco, dove oggi esiste
il mercato coperto. Protetti dalla casa, potevamo appena guardare
sporgendoci dallo spigolo nord, verso la strada e quindi verso il
nostro carissimo Vincenzo che, sopportando un dolore atroce, rimaneva
immobile in mezzo alla strada fingendosi morto, per non farsi sparare.
La distanza che ci divideva da lui era di una cinquantina di metri,
ma essa sembrava invalicabile, per la presenza di un «cecchino»
che intravvedevamo nascosto dietro la fontanina, più giù
del forno di Marino.
E' ossessivo vedere un fratello che muore, che con uno sguardo disperato
invoca aiuto e rimanere lì inerti senza alcuna possibilità
pratica di dargli aiuto, di salvarlo. Ti prende come un soffocamento
per l'ansia, il cuore ti batte da morire e la mente, quella mente
che ragiona con freddezza, dirti che non puoi farci niente, ma nell'un
tempo dirti che sei un vigliacco a non adoperarti soprattutto perchè
fra noi sei vi erano i due fratelli di Vincenzo Bianco, Tonino e Mario,
che cercavamo di tenere indietro, di non farli vedere.
Secoli di martirio sembravano quei minuti. E fu Giovanni Calabrò
a sublimarli con estrema generosità: quella della propria vita.
Egli decide di correre verso Vincenzo per riportarlo tra noi e si
butta a correre.
Invano cerco disperatamente di trattenerlo; mi rimane la sua
giacca in mano, sfilatasi nella breve collutazione. Ricordo solo
i suoi foltissimi riccioli neri che sembravano giocherellare col
vento ed un colpo di fucile; poi tanto sangue sulla bianca camicia
e Giovanni supino, col viso al cielo, contratto in muto dolore, a
pochi metri dall'amico che voleva salvare.
Qualche soldato tedesco, cautamente, in ordine sparso, avanzava verso
i due. C'era ancora una folle speranza di salvarli: aggirare il colle
di Lancianovecchia, risalire dalla porta San Biagio e portarsi sulla
ripa, a perpendicolo sui due amici feriti, per proteggerli dall'alto
con un fuoco di sbarramento, con un qualsiasi accidenti, con un attirare
l'attenzione dei tedeschi su noi e distoglierli da loro.
La corsa fu velocissima attraverso il Tiro a Segno, Porta S. Bagio,
i vichi fino ai bastioni sovrastanti il Ponte dell'Ammazzo. Addirittura
scivolai in corsa e caddi su una bomba a mano che portavo in tasca,
nel pantalone, ma non pensai neppure che potesse scoppiare, tanta
era l'ansia di arrivare sulla ripa, per fare una qualsiasi cosa in
aiuto ai miei.
A pancia a terra ci portammo ai bordi della scarpata, per non farci
individuare subito e, magari, prendere inosservati una mira giusta.
Ognuno di noi doveva mirare su uno di loro, quasi pensando di decimarii,
di spaventarli, di farli desistere. C'era l'alzo da sistemare nel
fucile, per compensare il dislivello; ma di quanto? Non c'era tempo
di ricordare le nozioni pre-militari, le teorie orecchiate; ci avevano
già individuati e già sparavamo, mirando come si poteva,
con le braccia nude graffiate dalla terra ogni volta che il fucile
rinculava.
Poco dopo un cannone anticarro alzava la sua canna verso di noi, tra
via Valera e piazza Garibaldi, sparandoci appena sotto il costone
e poi sulla casa a ridosso, per colpirci di rimbalzo con le schegge.
Ma non ci faceva paura il fuoco intenso, nè temevamo il combattimento.
Vi erano due vite da salvare e quelle vite erano di fratelli nostri;
specie per me che con Vincenzo avevo diviso il latte della madre sua.
Una speranza gioiosa avemmo, quindi, allorchè cessò
il fuoco e potemmo scorgere che Vincenzo era stato preso sottobraccio
da due tedeschi e veniva trascinato lentamente verso Calabrò
che - a terra - sussultava leggermente tra il sangue e lo sfinimento.
Si pensava che volessero dare soccorso ai feriti e pazzesco sarebbe
stata una nostra reazione. Ma quando fu effimera quella speranza!
Appena vicini a Calabrò, Vincenzo veniva fatto cadere sullo
stesso con un calcio brutale. Un grido straziante ci paralizzava:
No, non uccidetemi, No, no! Le grida venivano coperte da una scarica
di mitra che accomunava in un unico fiotto il sangue dei due, abbracciati
per sempre, fratelli per sempre.
Rimane per noi il loro olocausto, la loro giovinezza donata, il loro
grido di disperazione e di morte, e ricordarci l'amore che ci aveva
uniti, l'amore che deve unirci nel cammino più civile più
umano, più insopprimibile: quello nella libertà.
Luigi RUSSO
Lanciano, luglio 1974.
AL COMANDO TEDESCO CON MONS. TESAURI
«Il sottoscritto Pietro Tesauri Arcivescovo
di Lanciano, per la verità' attesta:
L'ordine di sfoltamento da Lanciano fu dal 28 ottobre 1943 dato dai
tedeschi ripetutamente e con crescente severità.
Entro il 30 novembre a Lanciano non doveva rimanere alcuno, pena si
diceva, la fucilazione come spia. Il sottoscritto potè rimanere
a stento fino all'ultimo per le sue funzioni religiose e specialmente
per l'assistenza a vecchi ed infermi dell 'Ospedale. Però il
2 novembre fu imposto a lui pure lo sfollamento, anche a titolo di
persuazione per gli altri e gli fu promesso (forse per assicurarne
la partenza) un mezzo di trasporto che poi non gli fu dato, perchè
il 30 novembre l'automezzo promesso servì al Comando tedesco
per fuggire essendo stato sfondato il fronte del Sangro. E il sottoscritto
potè rimanere a Lanciano miracolosamente».
Così Monsignor Tesauri si esprimeva ricordando
quelle tragiche giornate del novembre del 1943.
Ma ecco nel limpido ricordo del reverendo don Enrico Giannattasio,
in quel tempo segretario particolare dell'Arcivescovo, una testimonianza
di quanto Monsignor Pietro Tesauri si sia prodigato nelle ore tragiche
della dura rappresaglia teutonica del 6 e 7 ottobre del 1943:
«Verso le ore 9 di quel mattino del 6 ottobre
eravamo nelle aule dell'Arcivescovado per l'assistenza agli esami
di scuola
media degli alunni rimandati alla sessione autunnale. Quando si incominciarono
a sentire i primi spari e le raffiche di mitra divennero più
insistenti, ci rifugiammo nella cappella. Sembrava quello il luogo
più sicuro. Con noi molte le donne, i ragazzi e i giovani del
quartiere. Verso le dodici, mentre sembrava che fosse tornata un po'
di calma, sentimmo furiosi colpi al portone della cappella: i tedeschi
cercavano di sfondare la porta. Non ricevendo risposta, spararono
nell'interno. Un proiettile si conticcò nel soffitto dove è
rimasto visibile per molti anni. Nel panico di quei momenti, il nostro
Monsignore era il più calmo. Già nella prima mattinata
un proiettile l'aveva sfiorato. Si trovava nell'Episcopio intento
al disbrigo di pratiche urgenti, quando il proiettile attraversò
il vetro, il legno della finestra e si conficcò in una parete:
era passato a pochi centimetri dalla sua testa.
Anche in quella situazione di grave pericolo, Monsignore restò
calmo: era preoccupato soltanto della impossibilità che si
stava creando di andare a portare soccorso là dove era più
urgente.
Intanto i colpi alla porta diventavano sempre più forti e frequenti.
Con Monsignore mi recai allora ad aprire. I tedeschi entrarono urlando
«cave, cave!». Parole che non riuscimmo a comprendere.
Si precipitarono nei locali e cominciarono la perquisizione. Nella
stanza di don Prancesco Basciano rubarono un orologio: era un ricordo
di famiglia. Nelle altre, portarono via tutto ciò che era possibile.
Erano cose per la verità che non avevano altro valore se non
quello affettivo.
La confusione e il timore erano intanto grandissimi. Nella stanza
del refettorio a pianterreno c'era il corpo coperto di un giovane
ferito ohe aveva cercato rifugio nella nostra casa nella mattinata:
era Michele Cipollone, da tutti conosciuto come «Cipolletta»
che, coperto alla meglio, respirava appena per l'orgasmo. Alcuni soldati
si avvicinarono e lo scoprirono e credendo trattarsi di un malato,
non chiesero chiarimenti. Fu per tutti noi un momento di grande timore.
Subito dopo i militari andarono via, tra grida e incomprensibili parole.
Nel pomeriggio Monsignore ardeva dal desiderio di uscire:
le notizie che giungevano erano sempre più tragiche. Appena
gli fu possibile si recò personalmente a portare l'estrema
unzione ad un fucilato che era nel vicino larghetto del Malvò.
Mentre la soldataglia tedesca piantonava tutte le strade, egli rimase
in ginocchio presso il corpo del giovane Sammaciccia, trucidato qualche
ora prima.
La notte non riposammo. All'alba del giorno dopo, il sette, Monsignore
con don Francesco Basciano, il podestà della città avv.
Antonio Dì Jenno e una signora in qualità di interprete,
si incamminò verso il comando tedesco. Lo spingeva la speranza
di poter aiutare in qualche modo la sua gente.
La dura rappresaglia infatti iniziata già dalla sera prima
incombeva sulla intera città. Era una giornata fredda; già
dal primo mattino una pioggia torrenziale cadeva sulla città.
Non fui con loro quel giorno. Quando tornarono seppi che
era stata quasi una «via crucis». Di tappa in tappa, dal
villino del geometra Ciro Rossi, in viale Marconi, a pochi passi dalla
sede arcivescovile, erano giunti a Castelfrentano. Le sentinelle tedesche,
benchè i pochi presenti, qualche contadino e l'interprete,
spiegassero ripetutamente che trattavasi del Vescovo della città,
ridevano sguaiatamente nel vedere il gruppetto andare di casa in casa
alla ricerca del comando. Intanto la pioggia intensa rendeva più
faticoso il cammino.
Seppi più tardi che il comandante tedesco, il capitano Fòltsche,
accolse il gruppetto aspramente e, intercalando le poche parole che
diceva con pesanti pugni sul tavolo, aveva reso impossibile il colloquio.
Don Francesco, presente, ricordò quei momenti di grande tensione,
con molta ansietà. Il capitano - precisò don Francesco
nel suo racconto - guardava verso l'avvocato Di Jenno e «lo
accusava di essere stato il responsabile della organizzazione e della
rivolta». Al che il podestà rispose testualmente: «Se
l'avessi organizzata io, l'avrei fatta certamente meglio». A
queste parole l'Arcivescovo intervenne e cambiò discorso. Fu
fortuna per noi, proseguì don Francesco, che l'ufficiale non
comprese le parole dette dall'avv. Di Jenno.
L'intervento dell'Arcivescovo fu determinante. Infatti al termine
del colloquio si ottenne la precisa assicurazione che non ci sarebbero
state più rappresaglie. Così avvenne e fu quella la
notizia più bella che tutti accogliemmo con viva gioia.
Iniziarono intanto i giorni duri dello sfollamento. «In Lanciano
si doveva resistere casa per casa»: questo era l'ordine del
comando tedesco. Tutti dovevano partire per il Nord. Ne venimmo a
conoscenza un pomeriggio quando un cappellano militare tedesco di
cui non conoscemmo mai il nome, in gran segreto ci cercò e
in lingua francese ci informò delle decisioni prese dal suo
comando; egli caldamente ci invitò a togliere da tutte le chiese
della città le reliquie e il Santissimo Sacramento. Io allora,
andai di corsa ad avvisare i parroci. L'arciprete don Giovanni Torrieri,
il primo che incontrai, scoppiò a piangere alla notizia. Le
chiese però erano già state tutte chiuse e la mia corsa
fu quasi vana. Seppi più tardi che i parroci avevano provveduto
di propria iniziativa dai giorni precedenti a mettere al riparo le
sacre immagini e il Santissimo Sacramento.
Come è ormai noto a tutti non sfollammo più perchè
gli alleati avevano sfondato improvvisamente il fronte sui fiume Sangro.
Sino al passaggio completo della prima linea, come nei precedenti
mesi sino alla primavera inoltrata del '44, Monsignor Tesauri restò
sempre in mezzo al popolo di Lanciano non pensando mai a se stesso,
ma sempre ai suoi figlioli»».
Così Mons. Enrico Giannattasio, arciprete
della bella chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano, ci ha raccontato
in una breve intervista, parlando della nobile figura dell'Arcivescovo
Tesauri, a ventisei anni di distanza dalla Rivolta.
Mario SPOLTORE
Lanciano, agosto 1969.
UNA PAGINA DI STORIA MEMORABILE E GENEROSA
Quel mattino del 6 ottobre, mentre la rivolta
infuriava, un frate francescano del Convento di S. Antonio a LanCIano
soccorreva i feriti, aiutava e consigliava i piu giovani. Era Padre
Osvaldo Lemme.
A distanza di ventisei anni, padre Osvaldo, ora vicario provinciale
dei f. m., ricorda quei tragici giorni con episodi rimasti sino ad
oggi quasi sconosciuti.
Quel mattino del 6 ottobre uscii di convento, portando
con me la stola ed il vasetto dell'olio, per l'estrema unzione. Pensai,
fra me, che i tedeschi avrebbero avuto rispetto per un ministro del
culto. Indovinai: debbo a questa felice ispirazione la vita, probabilmente,
anche il risparmio dalla distruzione del palazzo «Bielli»,
e la salvezza degli ostaggi prelevati fra gli inquilini, inclusa una
infermiera dell'ospedale, caricati su d'un camion e trasportati nella
villa «Paolucci», situata lungo la strada che mena a Castelfrentano.
Cosa era accaduto?
Gesto imprudente
Un giovane partigiano, dopo aver raggiunto l'ultimo piano o il
tetto, all'insaputa degli inquilini, gettò su un mezzo militare
tedesco una bomba a mano che, per fortuna, esplose a vuoto. I tedeschi
tornarono sul luogo in numero maggiore, puntarono uno o due cannoncini
contro il portone e circondarono il palazzo. Alcuni soldati irruppero
negli appartamenti, misero a soqquadro le stanze con il pretesto di
scovare i partigiani, ordinarono lo sfratto di donne e bambini, presero
come ostaggi un gruppo di uomini e minacciarono di far saltare il
palazzo. Nel panico e nella confusione, mentre salivo le scale, incontrai
un soldato ubriaco, carico di oggetti preziosi rubati, il quale spingeva
fuori, urlando, donne e bambini terrorizzati. Minacciava: «caput...
tutti caput... casa caput... cattivi italiani...». Con i segni,
più che con qualche parola, gli feci intendere che quella gente
non c'entrava, che, se aveva una sposa, una mamma, un figlio, avesse
compassione d'innocenti, estranei ed ignari del giovane che s'era
infiltrato nel palazzo. Forse piansi... forse m'inginocchiai... non
lo ricordo. Agli astanti sembrò che facessi l'una e l'altra
cosa insieme. Vidi il volto del soldato rasserenarsi, battermi la
mano sulla spalla ed andarsene, dopo aver chiamato i compagni che
si trovavano sulla strada.
Decisi sino alla morte
Appena dopo mezzogiorno del sei ottobre m'aggiravo per il rione
deUe case popolari. Avevo sentito che i partigiani s'erano nascosti
negli scantinati. I tedeschi l'avevano sospettato. Una donna, con
voce concitata, m'informò che nel palazzo avevano accolto tre
giovani e che, per amore di Dio, aiutassi quei poveretti e gl'inquilini.
I tedeschi andavano rastrellando e perquisendo ogni angolo dei palazzi
adiacenti. Entrai, li chiamai. Erano pallidi, ma dal volto traspariva
un non so che di fiero e deciso. Dissi: "Venite con me. Conservate
sangue freddo e calma. Se incontriamo i tedeschi non vi innervosite.
Dirò che mi accompagnate verso il cimitero, dove poco fa, avete
trasportato un vostro compagno colpito a morte".
Ci incamminammo per uscire di città. Io mi sforzavo di conservare
e d'infondere la calma. Erano guardinghi e sospettosi. Guadagnammo
la strada che costeggia il muro di cinta dell'Ospedale civile e ci
allontanammo un centinaio di metri dal cancello d'ingresso che, allora,
era situato sul lato frontale del primo edifìcio.
D'improvviso, con un guizzo fulmineo, i tre giovani saltarono oltre
il muretto, quasi presso la cappella mortuaria, dicendomi: «Padre,
ci perdoni... abbiamo in tasca le bombe a mano... dobbiamo difenderci...
viene una motocicletta tedesca». Mi voltai: una motocicletta
a tre ruote, con tre tedeschi armati, sfrecciava sulla strada. Rimasi
impietrito. Avevo notato che le tasche erano gonfie e con le mani
reggevano il peso nascosto, ma non sospettavo che potessero essere
armi. Ebbi appena il tempo di rispondere: «Ragazzi non potevate
dirmelo... avrei consigliato di buttarle dietro la siepe...»
che non li vidi più. S'erano rimpiattiti dietro il muretto
e spiavano l'itinerario dei tedeschi. Mi trovai faccia a faccia con
la morte: i tedeschi delusi nella fiducia che mi avevano accordato,
avrebbero fucilato me e quei ragazzi. Pensai a mia madre, a mio fratello.
I tedeschi non videro il gesto dei partigiani e, dopo aver esploso
qualche colpo preventivo verso la fitta siepe collocata sul bordo
opposto della strada che passa dinanzi al cancello dell'Ospedale,
sterzarono a destra, fermarono la moto nello spazio tra l'edificio
e il recinto e, mentre uno restava alla guida, gli altri due salirono
per prelevare un compagno ferito, portato in ospedale dagli stessi
partigiani.
Liberazione degli ostaggi
Sul calar della sera gli ostaggi strappati alle famiglie del palazzo
«Bielli» furono rilasciati, dopo un interrogatorio ed
una perquisizione minuziosa. Fu anche rilasciata l'infermiera dell'Ospedale
che imprudentemente aveva tolto l'orologio d'oro al polso di un soldato
ferito dai partigiani. Mi confidò che, dopo essere stata interrogata
e rimproverata, dinanzi alle sue lacrime, l'ufficiale tedesco s'impietosì
e la lasciò libera, senza che alcuno le torcesse un capello.
Macabri ed inesplicabili misfatti
Nella tarda serata di quel giorno mi trovavo in ospedale. I tedeschi
avevano portato via dall'ospedale per curarli, i loro feriti. Non
si fidavano dei medici italiani. All'improvviso giunse un camion.
Scesero due soldati che frettolosamente, ci fecero cenno di aiutarli.
Aprirono la sponda posteriore, alzarono il tendone: c'erano sdraiati
un uomo completamente nudo, due giovani donne, ferite. L'uomo era
in mezzo. La donna di destra mormorò con un filo di voce: «Papà
è grave... fate presto...». Deponemmo su una barella
le donne. Ma quando gli infermieri si curvarono sull'uomo, si accorsero
con sorpresa, che era cadavere. Quella sera, su una macchina tedesca,
un padre irrigidito dalla morte, viaggiava accanto alla figlia colpita
da una raffica di mitra, la quale credendo che fosse ancora vivo,
l'accarezzava e gli rivolgeva tenere parole dì conforto! Non
sono mai riuscito a spiegare erche l'uomo fosse stato denudato e trasportato
fra due donne, tanto più che il corpo non aveva alcun segno
di violenza.
Poco tempo prima o dopo (non ricordo) fu trasportato in ospedale una
giovane napoletana che era fuggita dalla sua città per scampare
ai bombardamenti alleati. Scoppiata la rivolta, in preda al panico,
lasciò la casa, ed insieme ad altri civili,
imboccò il viale dei Cappuccini, per ripararsi in campagna.
La loro imprudenza fu d'acquattarsi dentro la cunetta della strada,
in un punto più profondo, appena sentirono il rumore di una
camionetta tedesca. Furono scambiati per partigiani in agguato e i
tedeschi, prima di avvicinarsi, fecero partire alcune raffiche. Una
sventagliata raggiunse il fianco della giovane. Aveva uno squarcio
da cui traboccavano le viscere. Mi disse che era fidanzata, che era
fuggita da Napoli, ma non avrebbe mai sospetato che la morte
la perseguitasse sino a Lanciano. Morì due giorni dopo.
Incendi e devastazioni
Quella stessa sera una giovane, accompagnata dalla mamma mi informò
che il padre era stato colpito a morte dai tedeschi nella cucina.
Mi feci indicare la casa. Attraversai le vie secondarie della città,
costeggiai, sul ponte stretto come un corridoio, il muro della cattedrale,
passai sotto l'arco del campanile, m'addentrai tra le viuzze buie
e deserte di quel rione antico, vidi una porta spalancata, entrai
e mi trovai dinanzi ad uno spettacolo terribile. L'uomo era rovesciato
sul pavimento, in una pozza di sangue. I tedeschi, mi spiegò
la figlia, avevano costretto le donne ad abbandonare la casa ed avevano
ucciso il padre rimasto solo. Uscii con l'animo in tumulto, rifeci
la strada parallela al corso principale: i negozi erano devastati,
parecchi incendi divampavano violentemente sotto i portici bassi del
corso e, più da lontano, verso Ferro di Cavallo, un pastificio
si riduceva lentamente ad un rudere spaventoso. I tedeschi non sfrecciavano
più per le strade, urlando e sparando anche quando non avevano
un bersaglio da colpire, ma soltanto per incutere spavento. Silenzio,
tenebre, bagliore dei roghi:
ecco che era Lanciano quella notte del sei ottobre 1943!
Il giorno seguente
La rivolta mostrò i segni completi il giorno seguente:
tracce di rovine, cadaveri disseminati, case distrutte, fuggiaschi
che tornavano con le masserie in città. Ma erano i morti, sparpagliati
in ogni punto, che davano un carattere orrendo e pietoso allo scenariò
di desolazione e lo rendevano ancora più triste. Tornai sul
luogo dove la rivolta, se non erro, aveva fatto più vittime:
l'imbocco di Viale dei Cappuccini e le immediate adiacenze. Avevo
visto, il giorno prima, un fucile mitragliatore collocato su un terrazzino,
quasi all'inizio di corso Roma. M'ero avvicinato al giovanetto Marsilio
fucilato dai tedeschi. Aveva accanto il piccolo fucile quasi da trastullo,
un grumo di sangue all'occhio. Più in là un altro giovane
di cui non rammento il nome. Ma il giorno dopo il numero dei morti
partigiani e civili aumentò incredibilmente. Trovai un uomo
morto dietro le Scuole del Corso, sul ciglio dell'avvallamento che
oggi hanno in parte appianato, un altro maciullato nel giardino antistante
un villino, situato qualche dozzina di metri dopo il tabacchificio.
Anche la periferia fu colpita dalla rappresaglia. Rammenterò
soltanto un episodio che sconvolse il mio spirito trebbiato già
dalle violenze del giorno precedente. Era con me Frate Francesco Modugno.
Ci informarono che un povero uomo era stato ucciso in contrada Iconicella.
Corremmo sul luogo col baroccio del convento. Una bambina di dieci
anni circa, con il vestito a brandelli, i piedi scalzi, singhiozzava
sulla sponda di un torrentaccio asciutto. Le chiedemmo perche piangesse.
Rispose che «laggiù c'era il papà ucciso».
Non so come la piccola avesse intuito la disgrazia ed il luogo. Costeggiammo
per poco il torrente con il cuore in gola, inteneriti dalle lacrime
di quella creatura, ed osservammo cenci di carne, sangue schizzato,
organi sparpagliati. Una bomba a mano tedesca l'aveva raggiunto mentre
cercava di nascondersi in un punto più coperto del fossato,
terrorizzato dai tedeschi che risalivano dal Sangro, per dare rinforzo
alla guarnigione lancianese. Prendemmo un sacco, raccogliemmo i resti,
li caricammo per portarli al cimitero.
padre Osvaldo LEMME
L'Aquila, settembre 1969
INCONTRO ALLE "GIUBBE ROSSE"
Sono a Firenze nel ferragosto ultimo. La città
è spopolata e i negozi, modelli di signorilità e di
ricchezza, sono chiusi per il tradizionale riposo estivo. Attraversano
le strade eleganti macchine con targhe estere e si notano comitive
di stranieri in giro, preceduti dall'immancabile «cicerone».
Ragazze e giovinetti in succinte e strane divise, provenienti dal
campeggio in ternazionale alle Cascine, si aggirano per la città,
anch'essi forse, come me, stanchi ed annoiati da questo tedioso e
lungo pomeriggio fiorentino.
Ecco Piazza della Repubblica con il grande arco di Via Strozzi. Alla
Birreria Whùrer, i tavoli sono occupati da una folla elegante
che si disseta al suono di un'orchestrina impazzita. Di fronte, in
un locale più modesto, trovo posto per riposarmi. Sono al Caffè
delle «GIUBBE ROSSE». Questo nome improvvisamente suscita
tanti ricordi lontani. Rivedo in questo locale Papini e Marinetti,
Soffici e Carrà, Palazzeschi e Pratella, intenti alla redazione
di quella scapigliata «Lacerba» che noi leggevamo tutto
di un fiato, perchè le idee nuove e geniali, anche se strane,
sono belle.
- Scusi, mi fa accendere?
Una voce femminile mi distoglie da questi ricordi. E una signorina
che siede al tavolo d'accanto. Le accendo la sigaretta.
- Non è di Firenze lei?
- No, sono abruzzese.
Sono solito qualificarmi così con un certo orgoglio, perchè
vedo che gli abruzzesi dovunque si fanno onore, eppoi, avevo visitato,
quella stessa mattina, la Capponcina di D'Annunzio a Settignano.
La signorina, difatti, ne rimane un poco impressionata perchè
mi guarda con interesse e mi domanda ancora:
- Di dove, per favore?
- Di Lanciano.
Questo nome deve averla colpita.
- Di Lanciano? Proprio di Lanciano?
- Si. Conosce qualcuno?
- No. Nessuno. Son passata per Lanciano molti anni or sono. Tristi
ricordi! Ma Lanciano mi sta a cuore più della mia stessa Firenze.
Un'ombra di tristezza vela ora il volto della donna, le cui reticenti
risposte suscitano in me una viva curiosità.
- Non può sapere... Son cose passate!
- La prego.
- No, non può sapere. E un fatto che riguarda me sola.
- Sarò discreto, mi confidi... Capirà, è un lancianese
che ora la prega.
Un lieve rossore appare sul viso della sconosciuta che resta un poco
indecisa. Poi mi dice: - Mi vuole accompagnare alla posta?
- Volentieri.
Piazza della Repubblica è ora tutta iridata di grandi policrome
iscrizioni luminose. Nel caffè di fronte un tenore canta una
canzone napoletana.
Sotto i Portici della Posta la sconosciuta mi dice:
- Le racconto la mia storia perchè lei è il primo lancianese
con cui parlo. Non si meravigli di quello che le dirò: la vita
è piena di imprevisti. Chi poteva immaginare di incontrar lei
stasera? Sarò breve. Nel 1943 io ero a Bari, fuggita di casa
col fidanzato, un ufficiale, morto poi in un bombardamento aereo.
Sola, in un ambiente sconosciuto, inesperta, fui presa nella voragine
del male e precipitai sempre più, senza accorgermene, stordita
dagli avvenimenti.
Nel novembre di quell'anno, un graduato dell'esercito tedesco mi portò
con sé in Abruzzo, nella periferia di Lanciano ove aveva sede
il comando della zona. Fu lì che sentii nominare la vostra
città. I tedeschi ne dicevano un mondo di male, e progettavano
di annientarla.
Una notte, ai primi di ottobre, se non sbaglio, catturarono un partigiano
lancianese e fui straziata dalle grida di quel poveretto. Il mio amico
mi disse che dovevano costringerlo a parlare, a tutti i costi, con
mezzi persuasivi.
Le grida laceranti di quel giovane mi riportarono alla realtà
della mia vita, facendomi vedere l'abisso ove ero precipitata. Volevo
soccorrerlo e non potevo, volevo gridare anch'io perchè smettessero
il supplizio, ma tutto era inutile. Era un mio fratello che straziavano
e il carnefice era il mio amante. L'odio nacque improvviso e la risoluzione
fulminea. Sentivo ribrezzo
di me stessa, mentre un proponimento forte si radicava nel cuore:
trovare la via della redenzione.
Il giorno dopo un gran da fare. Lanciano si era ribellata e si combatteva
nella città. I tedeschi erano inferociti e parlavano di voler
bruciare il ribelle. Io approfittai della confusione e trovai la via
della fuga. Dopo tante ore di cammino, fui accolta presso alcuni contadini
che mi tennero come una loro parente. Dopo la liberazione tornai a
Firenze. Da allora sono impiegata in uno stabilimento e vivo con mia
sorella. Quella triste pagina della mia vita è dimenticata.
Ma la salvezza la debbo a Lanciano che, difendendo la sua libertà
e il suo onore, fece comprendere anche a me, povera creatura perduta,
l'obbrobrio della vita che menavo, dandomi la forza e il coraggio
di risollevarmi da quella situazione.
E con me, chi sa a quanti Italiani l'episodio eroico di Lanciano ha
aperto gli occhi...
Il racconto mi rende attonito.
- Mi dica il suo nome - chiedo emozionato.
- A che vale? Forse un giorno ci rivedremo a Lanciano. Intanto me
la saluti.
E la donna si allontana con un gesto di saluto, che si perde nel tramestio
della sera fiorentina.
Alfredo BONTEMPI
IL RICORDO DI PINO MARSILIO
Un mitra tedesco trafugato e nascosto da un giovane,
provoca la minaccia della rappresaglia degli occupanti. Ma le provocazioni
spavalde dei razziatori dei nostri negozi, mettono a dura prova la
pazienza dei cittadini. Il 5 ottobre, i partigiani, nell'intento di
fronteggiare i tedeschi oppressori, con le armi che sono riusciti
a racimolare dai privati, ma specialmente dai carabinieri e,
dietro forti opposizioni, dalla locale legione della M. V. S. N. (milizia
volontaria sicurezza nazionale), riusciranno a disarmare dei soldati
avvinazzati, a impadronirsi del loro mezzo militare con molti ordigni
di guerra, facendolo precipitare nella Valle della Petrosa provocandone
un impressionante incendio.
Il giorno dopo, il 6 ottobre, si scatena occasionalmente, il combattimento
o guerriglia che segna la fulgida pagina della Lotta di Resistenza
di Lanciano contro il nemico invasore solo fiducioso nele sue
armi.
I tedeschi con i rinforzi sollecitati e avuti dietro una proditoria
telefonata da parte del comando della Legione fascista, dalla vicina
Piazzano di Atessa, cominciarono a scaricare, intramezzate da potenti
colpi di cannoncini, frequenti raffiche di mitragliatrici piazzate
e rotanti nel centro del quadrivio di S. Chiara, nelle varie direzioni
di attacco da parte degl'impari mezzi dei nostri patrioti.
L'episodio più tragico e commovente, tra i tanti, riuscì
a contemplarlo accorato e impotente, dall'alto del muro di cinta,
la sentinella degli agenti delle carceri, quando, in un'avanzata spavalda,
fecero irruenza gridando forte, ben tre soldati tedeschi armati di
tutto punto contro il quindicenne (Giuseppe o) PINO MARSILIO che,
da portaordini, era diventato improvvisamente un milite con un fucile
e, con in tasca, delle bombe a mano che gli erano stati forniti nell'ultimo
istante precedente la sparatoria.
Pino, deposto a terra il fucile, alzò piangendo le mani di
adolescente, alla resa: ma il truce teutonico, non rispettò
né il diritto di resa né l'età e, girandolo con
forza, gli sventagliò sul dorso una raffica di mitra.
E, non pago della giovanissima vittima, fu visto strappare dal braccio
del caduto, l'orologio che aveva segnato l'ora ditale vigliacco e
spietato assassinio.
Dopo l'eccidio, il saccheggio e gl'incendi vari disseminati dalle
S.S., nel mio giro di dolorosa ispezione, nel mattino piovoso del
sette ottobre, sui luoghi che furono teatro dei luttuosi episodi,
m'incontrai col carissimo eroico Delegato dei miei Aspiranti della
Parrocchia di S. Lucia: egli aveva ancora gli occhi semichiusi, raggomitolato
sul suo sangue - poco prima della sua immolazione, aveva ricevuto
da me, la sua ultima Comunione - e aveva la giacca con una linea di
impressionanti fori con brandelli conficcati nelle carni.
La mamma, la Signora Clelia, dal suo balcone, assicura di aver visto
cadere quel giovanetto oltre la strada, di fronte alle Scuole Elementari
del rione Funai; e, solo dopo, si accorse che era suo figlio Pino!
Il sottoscritto D. Italo Bomba, allora Vice Parroco
di S. Lucia e Assistente Parrocchiale della Associazione della Gioventù
Maschile "Pier Giorgio Frassati" e della relativa Sezione
Aspiranti "Aldo Marcozzi", assicura a quanti leggeranno
queste note, che esse rispondono alla più esatta verità
storica.
D.Italino BOMBA
Lanciano, 31 agosto 1970
I PROTAGONISTI DELLA RESISTENZA LANCIANESE:
Riflessioni e commenti
"E se gli attori di quell'avvenimento furono pochi o molti,
uomini maturi o giovani imberbi; se essi fossero o no sufficientemente
addestrati non è rilevante..."
Rinunciando a disquisire sulle versioni di quei fatti;
rinunciando alla ricerca dei dati sulla loro organizzazione; rinunciando
all'esame quantitativo, della consistenza, cioè, dei fatti
stessi, rimane fermo ed incontrovertibile, nel contesto di una guerra
guerreggiata anche sulle nostre terre, l'avvenimento qui registrato
della esplosione di una incontenibile carica di insofferenza, di rivolta,
di ribellione contro i soprusi, contro le angherie, contro le sopraffazioni
delle soldataglie tedesche che, evidentemente, non immaginavano di
trovarsi di fronte ad un popolo costituzionalmete incapace di tollerare
ingiustizie, angherie, soprusi.
E se gli attori di quell'avvenimento furono pochi o molti, uomini
maturi o giovani imberbi; se essi fossero o no sufficientemente addestrati
al maneggio delle armi; se a quell'avvenimento si senti o meno partecipe
la Città nella sua intierezza; e se quella rivolta e quelle
azioni di guerra si sono potute mostrare tali o da prestarsi ad essere
considerate pazzeshe dai prudenti, dai cauti, dai misuratori perché
iniziate senza tener conto, senza calcolo, delle temibili' e sicure
conseguenze della reazione tedesca, tutto questo, a mio giudizio,
non è rilevante.
Ciò che rimane un fatto storico di indiscusso valore, di profondo
significato, è l'avvenimento in sé: l'esplosione dell'animo
popolare della gente frentana contro gli oppressori;
è questo inserirsi di forza con un non importa se modesto episodio
di guerra nel quadro di una guerra immane che ha avuto per tetro
il mondo; è questo manifestare l'insofferenza contro i prepotenti
che sono gli animatori di tutte le guerre; e fu l'avvenimento che
seguì, come è noto, di poco la esplosione dell'animo
popolare napoletano contro il quale, cosi come da noi, reagì
selvaggiamente la repressione tedesca; e fu avvenimento che servì
ad indicare agli oppressi il modo di rispondere in prima persona alle
provocazioni dei prepotenti ed agli oppressori come dura sarebbe stata
la loro vita in ogni contrada, e cosa alla fine dovessero attendersi
dalla somma delle insofferenze da essi provocate.
Qui dunque - questa è la verità storica - in quei giorni
di trepida ansia, in un'ora (ricordiamo ciò che era accaduto
l'8 di settembre) di grave turbamento e smarrimento dell'intera Nazione,
esplodendo in azioni di guerra l'animo indomito di un popolo incapace
di subire e di soffrire soprusi, si confusero insieme sangue di giovani
vite e lacrime di mamme e trasformarono le vie della città
e le strade delle sue campagne come le mura delle sue case in altare
della Patria sul quale poterono cominciare a riaccendersi, con i propositi
di riscatto, le luci della speranza e la fiducia nell'avvenire.
Che se furono pochi i protagonisti diretti di quelle azioni e se furono
soprattutto giovani non mi pare che ci sia da meravigliarsi perché
sono sempre i giovani ad essere i più generosi, i più
intransigeti, i più aperti, i più incapaci di calcolo,
i più pronti agli atti di ardimento; ma essi non sarebbero
tali se non fossero, anche inconsapevolmente, a ciò formati.
E la Città di Lanciano - che ha sempre educato i suoi figli
al culto della libertà, all'amore della giustizia, alla venerazione
del diritto
- nelle giornate che stiamo commemorando diede la misura di ciò
che il respiro della libertà, il rispetto del diritto connaturati
nell'animo dei cittadini avevano saputo ispirare alla parte più
sensibile e più generosa della sua gioventù provocata
dalla prepotenza e non disposta a subire la sopraffazione.
E quando è la Patria stessa, nelle più alte Magistrature
dello Stato, che consacra il valore di quell'avvenimento, ne apprezza
lo spirito, ne fissa la portata morale, lo eleva alla dignità
di fatto. di guerra meritevole del suo più alto riconoscimento,
per cui è tutta intera la Città di Lanciano ad essere
posta su di un piano di nobiltà che non ha confronti, appare
logico che ogni discussione cessi ed ogni tiepidezza scompaia, da
quel momento imponendosi un solo dovere preciso, categorico, indeclinabile
per ognuno che intenda riconoscersi e considerarsi figlio di questa
Città: la consapevolezza cioè della propria dignità
e l'obbligo di esserne imperituramente riconoscente ai protagonisti
dei fatti eroici dell'ottobre del 1943 e soprattutto ai Caduti che
quella dignità hanno a lui guadagnato.
Errico D'AMICO
Senatore della Repubblica
UN EPISODIO DELLA RESISTENZA A LANCIANO: GEMMA
Si è scritto molto, anche se non tutto, sulle
vicende e i protagonisti della rivolta lancianese nell’ottobre
del 1943. Pubblichiamo il ricordo di un episodio non conosciuto: Gemma,
(Gemma Di Castelnuovo, nata a Lanciano il 19/11/1893), un’esemplare
donna del popolo del quartiere Sacca, rischiando la vita, compie un
gesto di grande pietà cristiana nei riguardi dei corpi straziati
di alcuni giovanissimi eroi. Rino Di Martino (che da anni esercita
egregiamente, in una città del Nord Italia, la professione
di docente) in un grigio mattino dell’autunno del 1943 fu testimone,
insieme al fratello, ragazzo come lui, di quel nobilissimo gesto.
Gemma: mai nome è da considerare più appropriato perché
mai
nome ha rispecchiato con maggiore evidenza e chiarezza la persona
cui apparteneva. Di essa vorrei qui parlare avendo visto come si distinse
nella ricerca e nella cura dei corpi straziati dei caduti dopo la
nota rivolta antitedesca della città di Lanciano nell’ottobre
del 1943.
Gemma era una semplice e comune donna del popolo, conosciuta come
solerte lavoratrice e mamma esemplare. Era sposata con un altrettanto
comune ed onesto “mastro” muratore, del quale purtroppo
non ricordo con esattezza il cognome, forse Micolucci. Abitava in
città, nel rione Sacca, in un vicolo posto tra le vie Valera
e Cavour, precisamente in quello prospiciente il palazzo dell’allora
archivio notarile, ora sede di un istituto scolastico canadese. Aveva
due figli, un maschio ed una femmina. Ricordo bene quest’ultima,
Ines, perché amica e collega di lavoro di mia sorella in un
calzificio.
Qui lei contrasse, dopo anni di dure fatiche, per giunta mal
compensate, una grave malattia che l’ha condotta, ancor giovane,
alla morte. Dai primi di settembre di quell’anno (il 1943),
denso di eventi cruciali che si susseguivano a brevissima distanza
gli uni dagli altri, il nostro paese viveva momenti di drammatica
incertezza e pericolosità. Anche a Lanciano tale pesante atmosfera
era avvertita. In essa l’intera popolazione, sicuramente Gemma
compresa, rimase profondamente e attivamente coinvolta. Fu così
che la mattina successiva alle eroiche giornate del 5 e 6 di ottobre
che avevano visto la gioventù di Lanciano insorgere, appena
dopo quella napoletana, contro l’invasione nazista per scuoterne
l’oppressione, io, ragazzino tredicenne, e Sandro, mio fratello
minore, alle prime luci dell’alba, furtivamente e con tanta
incoscienza uscimmo di casa spinti dal desiderio di curiosare tra
le rovine ancora fumanti della città.
Non si udivano più gli spari dei giorni precedenti, ma si vedevano
numerosi edifici gravemente danneggiati a causa degli incendi appiccati
in più punti, per rappresaglia e crudele vendetta, dalle inferocite
truppe occupanti. Ricordo bene che un velo di nebbia incombeva sulle
case, il cielo era completamente coperto, soffiava un venticello di
tramontana, lieve ma alquanto fresco, non insolito sulla costa d’Abruzzo
nella stagione autunnale soggetta, fin dall’inizio, ad improvvisi
mutamenti climatici; difatti, le due giornate precedenti erano state
calde e soleggiate. La nebbia, intanto, da rada che era si infittiva
sempre più trasformandosi, man mano, in una sottile pioggerella
che tuttavia non c’impediva di continuare a girovagare, sia
pure con tanta cautela, tra i vicoli e le vie della città.
Attraversammo Piazza Plebiscito dove notammo, saccheggiato e
bruciato, un negozio di calzature da poco ristrutturato ed abbellito,
considerato, con orgoglio, la più elegante vetrina del posto.
Più avanti i portici comunali del Corso Trento e Trieste, da
cima a
fondo, con i negozi tutti anch’essi saccheggiati ed incendiati,
erano ridotti ad un cumulo di rovine.
Scorgemmo per terra, dietro l’edificio del liceo classico, il
corpo
impressionante di una vittima civile della rappresaglia e ne fummo
coinvolti. Superato l’allora Vallone del Borgo, giungemmo nella
zona detta di Santa Chiara che era stata, il giorno precedente, principale
teatro di lotta e ci dirigemmo verso le Torri Montanare.
Arrivammo nel punto della strada che fa angolo con Via Marconi.
Fu allora che in assoluta solitudine, immersa in religioso silenzio,
vedemmo Gemma. Era inginocchiata per terra e aveva accanto a
sé un secchio pieno d’acqua, un bianco catino ed alcuni
asciugamani appoggiati su di una panchina di ferro posta alla sua
sinistra.
Ai piedi di questa giaceva il corpo martirizzato dell’eroe
quindicenne Pino Marsilio. Lo riconobbi subito perché mio amico
e leale avversario nelle gare di catechismo che annualmente si organizzavano
tra i vari circoli giovanili di azione cattolica della nostra città.
Gemma, con una spugna bagnata, gli detergeva l’imberbe delicato
viso, ripulendolo dalla polvere e dall’umidità della
notte. Poi mi pregò di sorreggerle il catino per consentirle
di rimboccare più agevolmente, tra gli indumenti lacerati del
piccolo patriota, lembi di carne fuoriusciti dal suo fianco destro,
a causa di una mortale e crudele raffica di mitraglia. Mio fratello,
nel frattempo, reggeva gli asciugamani, qua e là intrisi del
sangue degli altri eroi che Gemma, in quel tristissimo mattino, riuscì
per primi a raggiungere.
Terminata la sua pietosa opera sui resti del giovane Marsilio, la
cui tragica fine ci lasciò come impietriti, Gemma ci intimò
con calma di allontanarci e di tornare a casa perché nella
zona incombevano ancora gravi pericoli. Intanto, ella si dirigeva,
con andatura lenta ma sicura, verso i campi sovrastanti l’antica
via che rasenta le Torri Montanare dove giacevano i corpi di altri
patrioti sui quali intendeva continuare l’opera pietosa iniziata
con tanto spirito di solidarietà e di compassione. Qualcosa
di simile, l’ho saputo dopo, aveva compiuto la principessa Cristina
di Belgioioso durante la difesa della Repubblica Romana del 1849.
Mentre tornavamo a casa, turbati per quanto avevamo visto, volgemmo
lo sguardo verso l’orizzonte. Non lontano si scorgeva, maestosa
e possente, appena offuscata da un velo di nebbia, con la cima leggermente
imbiancata dalle prime nevi, la superba sagoma della Maiella Madre.
Sembrava volesse vegliare, orgogliosa e fiera, sul sonno eterno
dei suoi giovani eroici figli. Del suo nobile e spontaneo gesto
Gemma non ha mai fatto cenno con nessuno.
Donna umile e sinceramente disinteressata ha tenuto per lunghi
anni tutto dentro di sé. Per la prima volta, dopo oltre mezzo
secolo, ho sentito il dovere, più che il desiderio, di ricordare
questo singolare e toccante episodio e, soprattutto, di farlo conoscere.
Io e mio fratello, in quel lontano mattino, unici, in una città
deserta e martoriata, avemmo la ventura di assistere al gesto di una
“crocerossina improvvisata” dal luminoso nome di Gemma,
e la fortuna di ricevere una preziosa, indelebile lezione di vita
che ha condizionato positivamente, nel corso degli anni, il nostro
modo di pensare e di operare.
Rino DI MARTINO
da “Terra e Gente”, a. 2002 - n.2
ESMERALDA
La sua immagine non si cancella dalla sua memoria.
Era la donna delle ricottelle.
Veniva ogni fine settimana da Castel Frentano. Picchiava leggermente,
come persona intimidita, al portone di casa e, prima che salisse,
sapevamo già chi poteva essere.
- Ecco Esmeralda - diceva Tittina, mia moglie, avvicinandosi ad
aprire. Esmeralda entrava. Non più alta di una bambina, vestiva
in marrone, la gonna leggermente rigonfia, il fazzoletto annodato
sotto il mento con il paniere che custodiva le ricottelle infilato
al braccio, sembrava una biscuit. Entrava in cucina, dietro Tittina.
Le ricottelle erano nascoste sotto un panno bianco, dentro certe
coppette di terracotta. Dopo di averle cavate fuori e rovesciate sui
piatti, tutta sorridente ci offriva la giuncata. - E per i bimbi -
diceva.
E un odore acidulo di latte si spargeva per la stanza.
E allora parlava a lungo di sè e di suo marito. Erano soli
al mondo, senza figlioli, ma vivevano felici e contenti. La loro casetta,
allietata dal canto di tanti uccelli e dal profumo di tanti fiori,
era fuori dall’abitato, vicino ad un praticello ove potevano
tranquillamente pascolare le loro pecorelle. Era un cuore semplice
e puro, Esmeralda. Aveva gli occhi come il fiore del lino e sempre
ridarelli.
Non era una donna come le altre dei campi. Venne la guerra. Brutti
avvenimenti ci incalzavano. L’Italia dopo pochi mesi di incosciente
euforia, arata dalla guerra, agonizzava.Fu invasa dallo straniero.
Uomini di guerra, padroni delle nostre città, dei nostri averi,
delle nostre vite, per diritto di guerra commettevano ogni sorta di
soprusi, ogni sorta di violenza.
Nel pomeriggio del 9 settembre del 1943 comparvero a Lanciano. Il
comando militare prese possesso di una villa posta fuori dalle mura
della città, in contrada Marcianese, e di là cominciò
ad emanare i suoi ordini. Emise decreti di perquisizioni, richiese
molte cose, mezzi di trasporto, macchine da cucire e da scrivere,
mobili delle case,biancheria, valige, orologi, il bestiame ai nostri
contadini, i macchinari ai nostri industriali, persino la nostra balda
gioventù per arruolarla, indrappellarla e inviarla ove maggiore
era il pericolo.
Il popolo di Lanciano, dopo aver per più giorni pazientemente
inghiottito pane amaro, ostile ad ogni tirannia, non poté soffocare
lo spirito della sua umana dignità e il 6 ottobre si rivoltò
contro l’invasore. Fu una lotta impari per uomini e per armi.
Gli uomini di guerra si tennero dapprima sulla difensiva, poi, ricevuti
i rinforzi richiesti, affrontarono i rivoltosi, spostandosi da una
strada all’altra della città, con camionette blindate,
usando cannoncini e mitragliatrici, mentre il popolo, rappresentato
da giovani pieni di ardimento, disponeva solo di poche bombe a mano
e di pochi fucili.
Fu una vera carneficina ove perirono molti giovani lancianesi, ma
anche parecchi invasori. I giovani furono battuti, ma non domati.
Quella rivolta rivelò il loro alto ideale, quello cioé
di voler creare,
con le loro mani, con il loro niente, con il loro cuore giovanile,
un
domani meno duro, un futuro un po’ migliore, una vita più
decente, libera da ogni odiosa sopraffazione straniera. In quel triste
giorno, il comandante delle truppe stanziate a Lanciano lasciò
la sede del comando per poter essere in mezzo ai suoi uomini e affrontare
e domare i rivoltosi. In sede lasciò, in assetto di guerra,
un suo subalterno con pochi poteri e pochi soldati. Una donnina di
Lanciano, Marialuisa, persona da noi ben conosciuta, impegnatasi come
domestica col comando fin dai primi giorni dell’invasione, era
lì addetta al governo della villa e al servizio di cucina.
Da lei sapemmo quello che accadde alla povera Esmeralda.
E sapemmo che nella mattina di quel giorno di ottobre, Esmeralda,
con in capo una grossa cesta ricolma d’uva e di ricottelle,
s’era incamminata verso Lanciano, nulla sapendo di quanto succedeva
in città. Giunta presso la villa ove era il comando, fu fermata
da un soldato armato e condotta alla presenza del vicecomandante,
che, seduto in una poltrona, con i piedi poggiati sulla pietra del
camino, ove scoppiettava tanta buona legna, fumava. Al saluto non
rispose, non si alzò, non degnò di uno sgaurdo l’innocente
creatura. Due altri soldati, anch’essi armati, deposero ai piedi
dell’ufficiale la cesta che la donna portava. Esmeralda udì
dei comandi gridati con voce sconosciuta e gutturale da quell’ufficiale,
che, dopo aver buttato con rabbia la cicca nel fuoco, si alzò
rumorosamente dalla poltrona e, posandole con disprezzo lo sguardo
addosso, disse: - Ebbene signora,dove volete andare?-
Esmeralda, livida, le mani agitate da un lieve tremito nervoso,
non seppe rispondere.
- Eh, eh, cara signora, vedo che portate tanta roba buona. Ma si
tratta di altro. A Lanciano c’é rivoluzione. Sentite
il crepitio delle
mitragliatrici? Gli scoppi del cannone? Molti dei miei compagni
sono là a domare la rivolta. Alcuni vengono uccisi da quei
porci
traditori. Ci sparano addosso! Capite? Capite?! Ma avranno pane per
i loro denti, saranno tutti annientati. Capite? Voi... non sapevate
tutte queste cose?... Dove volevate andare? Per me voi siete una spia.
Vi prendo e vi faccio fucilare.-
- A me fucilare? Ma voi siete pazzo! Cosa vi salta in testa? Gesù
Gesù, Maria Santissima, liberatemi da questo demonio. -
- Voi facevate finta di portare cibo da vendere a Lanciano per meglio
dissimulare un vostro progetto. Siete caduta nelle mie mani.
Tanto peggio per voi. -
- Ma lasciatemi andare. Come potete sospettare di me che non ho mai
pensato alle vostre cose? Lasciatemi andare in santa pace. -
- E’ la guerra, signora. Ditemi perché siete venuta da
queste parti. Ditemi lo scopo della vostra venuta, e vi lascio libera.
-
- Ma voi siete veramente cattivo. Io spia! Voi siete un menzognero
e un brutale. Lasciatemi andare. Non voglio perdere altro tempo con
voi. -
- Ah, voi mi provocate - gridò. E, rivoltandosi ai soldati,
ordinò:
Portate fuori di qui questa donna e perquisitela. - Esmeralda fu condotta
nel giardino e lì si fece pazientemente frugare da tutte le
parti, sperando di essere alfine liberata. Non le
trovarono addosso che una immagine del Cuore di Gesù e poca
moneta. L’arrogante ufficiale, uscito anche lui in giardino,
le disse:
- Signora, noi non abbiamo trovato nulla nelle vostre tasche. Ma
io vi accuso lo stesso di spionaggio. Noi abbiamo una legge, la legge
dei sospetti. La mia accusa implica la pena di morte. Solo una cosa
potrà salvarvi, nel dire la verità. -
- Ma quale verità volete che vi dica? La verità è
questa: andavo a Lanciano per vendere la mia roba. Questa è
la santa verità. Chiamate gente qui intorno e interrogatela.
Io non sono una spia. Sono una donna onesta e timorata di Dio e non
so spiegarmi il vostro villano modo di agire. -
- Voi siete una donna sfacciata, perfida, pericolosa. Ditemi dov’è
la sede del comando clandestino dei rivoltosi. Voi lo sapete e vi
ostinate a tacere. Portavate la vostra roba ai rivoltosi! Vergogna!
Su via parlate. Nessuno saprà quanto mi direte. Se mi farete
sapere quanto vi chiedo, voi sarete libera. Se rifiutate è
la morte immediata. Scegliete. - Esmeralda rimase immobile, senza
aprir bocca. Sentì gli occhi riempirsi di lagrime, per debolezza
e per rabbia, mentre l’ufficiale, con rinnovata stizza e disprezzo,
riprese: - Pensate che tra cinque minuti sarete morta. Tra cinque
minuti... Avete capito? Parlate, dunque. -
- Ma cosa vi debbo dire? Della rivolta io non ne so nulla, nulla di
nulla. Voi volete sfogare la vostra rabbia su una povera innocente!
Non ve ne vergognate?
L’ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.
Esmeralda fissò lo sguardo su alcuni crisantemi che un raggio
di
sole graziosamente illuminava, poi, rivolgendosi all’ufficiale,
balbettò:
Non fatemi del male. Abbiate pietà di me. Non macchiatevi
del sangue d’una donna innocente. Se mi uccidete, il Signore
che è nei cieli vi punirà. -
L’ufficiale gridò: - Fuoco. -
Esmeralda fu colpita. Cadde di schianto, con la faccia a terra. I
soldati la presero per la testa e per le gambe e andarono a seppellirla
in un fosso lì accanto, presso la siepe, e la coprirono di
terra.
Il vigliacco assassino, apparentemente sereno, accese una sigaretta
e rientrò nella villa. Prese un binocolo e da un balcone, aspirando
grosse boccate di fumo, fissò lo sguardo verso Lanciano.
Scoppi di armi da fuoco si udivano ancora e si scorgevano dense
colonne di fumo nero. I malvagi uomini di guerra avevano appiccato
il fuoco a molte case e a molti negozi della città ribelle,
dopo averli furiosmente saccheggiati. Tornò a sedersi in poltrona
e, vedendo la cesta della innocente vittima ricolma di ogni grazia
di Dio, con un urlo chiamò Marialuisa, che accorse tremante,
in grembiule bianco, e le disse:
- Conservate questa roba per il pranzo. -
Marialuisa, senza farsi scorgere, chiusa nella propria paura, aveva
tutto visto e udito, tremando con terrore di fronte alla malvagità
di quell’uomo squilibrato e beone. Quando i tedeschi fuggirono
da Lanciano per non incappare nell’accerchiamento nemico, ci
raccontò la spaventosa storia nei minimi particolari. Dalle
sue parole ci fu facile ricostruire il tragico insidioso dialogo che
si era svolto fra Esmeralda e l’ufficiale. E ci disse ancora
che il povero Ignazio, dopo aver a lungo cercato la sua compagna,
si rivolse anche al coniando tedesco, sperando di averne notizie.
Fu preso e spedito in un campo di concentramento.
Rimanemmo stupiti della enormità di quella ferocia. Quel barbaro
assassino ci fece ribrezzo, disgusto, vergogna, paura. Nella mia
famiglia più di una lagrima fu versata.
Più gli anni passano, più il ricordo di Esmeralda e
di Ignazio, mi
riempie di nostalgia. L’immagine di quelle care creature può
allontanarsi dalla mia mente, può impallidire, può diventare
imprecisa, come quella di tante altre persone amate, ma nel mio cuore
è sempre viva con il suo fascino di grazia, è sempre
piena di tanta, tanta dolce poesia.
ARMANDO MARCIANI
Da “Almanacco di Galeno 1971”.
ROCAMBOLESCA FUGA DI UNA DONNA CORAGGIOSA
Un’ebrea internata a Lanciano nel 1943 si
salvò dalla fucilazione
tedesca fuggendo e nascondendosi in una stalla di Sant’Apollinare.
Nel 1938 vennero emanate in Italia leggi razziali
che modificarono la situazione degli ebrei e il 10 giugno del 1940
con l’entrata in guerra dell’Italia cominciò il
loro internamento.
Nel territorio nazionale ci furono in tutto quarantatré campi
di
internamento. Durante la seconda guerra mondiale essi erano
concentrati maggiormente nell’Italia centrale.
In Abruzzo nel mese di giugno del 1940 venne stabilita l’apertura
di un campo di concentramento, per soli internate, a Lanciano una
città ritenuta non importante militarmente e fu scelta come
sede la villa appartenente all’Avv. Filippo Sorge, nella zona
Cappuccini, riadattata all’interno e munita di recinto.
All’inizio la direzione del campo fu affidata al podestà
di Lanciano e successivamente passò a un funzionario di Pubblica
Sicurezza. I carabinieri misero un posto di guardia in una casa che
stava vicino alla villa per sorvegliare le internate. Esse, dopo un
mese dall’istituzione del campo di concentramento erano quarantasette
e appartenevano a varie nazionalità: tedesca, russa, polacca
e inglese; nel mese di agosto del 1940 diventarono settantacinque.
Il direttore del campo compilava l’elenco dei presenti e lo
aggiornava periodicamente mettendo: nome, cognome,età, nazionalità,
razza e professione. All’arrivo di ogni internata veniva compilato
un verbale con varie prescrizioni e firmato per approvazione dall’interessata.
Ad esempio, era vietato allontanarsi dall’abitato senza autorizzazione,
frequentare abitazioni private, possedere passaporti o documenti equipollenti,
possedere gioielli di valore, leggere giornali stranieri, possedere
apparecchi radio e, poi, si doveva serbare buona condotta, non fare
discussioni, presentare tutta
la corrispondenza al preventivo controllo.
Il giorno 12 marzo del 1941 nel campo di concentramento per internate
di Lanciano arrivò la signora Ilona Chrick in Chrepal,
un’austriaca di razza ebrea nata a Graz, di anni 45 e di professione
casalinga, proveniente dalla cittadina di Abbazia, in provincia di
Fiume, all’epoca italiana.
Per circa tre anni, con varie alternative, la signora Ilona rimase
a
Lanciano in qualità di internata civile di guerra e, quando
le truppe tedesche occuparono l’Italia e arrivarono a Lanciano,
lei venne arrestata dalla polizia segreta (tedesca) chiamata Gestapo
e portata nel carcere della città come ostaggio a causa di
novantacinque donne ebree che erano fuggite, e sarebbe stata condannata
a morte per mezzo della fucilazione, se le stesse non si fossero ripresentate
al campo. La signora Ilona rimase tre mesi in prigione sorvegliata
da quattro soldati armati tedeschi e non denunciò mai dove
si trovassero le compagne ebree per essere solidale con loro e, di
conseguenza, il comando tedesco decise di eseguire la sua condanna
a morte.
Quando i soldati tedeschi la portavano da Lanciano a Chieti con un
autocarro militare, in una curva oscura ella saltò dal mezzo
e scappò in mezzo alle campagne approfittando dell’oscurità
col cuore in gola, come si suol dire, per la paura di essere ripresa
dai suoi accompagnatori da un momento all’altro e per le difficoltà
incontrate.
Dopo circa ventiquattro chilometri di cammino, come lei stessa raccontò
al sindaco di Lanciano, con una lettera scritta circa vent’anni
dopo, si diresse verso una casa colonica alla periferia di Sant’Apollinare,
(lato fiume Moro), e si fermò nell’abitazione della famiglia
di Fiore De Nardis, un contadino di una certa età che era stato,
negli anni giovanili, in America per lavoro. La famiglia, dopo avere
ascoltato la storia della rocambolesca fuga, la accolse rischiando
pene severe, la fece risollevare dal suo stato di abbattimento e poi
la invitò a nascondersi in mezzo a balle di paglia che stavano
in un pagliaio vicino casa e successivamente la fece restare nascosta
nella stalla dove c’erano alcuni animali.
Nei primi giorni del mese di Dicembre del 1943 nel paese arrivarono
le truppe alleate e la signora Ilona finalmente ritrovò con
gioia la libertà da tempo desiderata. Poco dopo si procurò
un passaporto ed emigrò negli Stati Uniti dove aveva un fratello.
A questo punto potrebbe sembrare tutto concluso con la città
di Lanciano, invece non andò così, perché da
New York il giorno 15 agosto del 1965 l’ex-internata scrisse
una lunga lettera al sindaco Francesco Paolo Giancristoforo, conservata
nell’archivio storico comunale, per chiedergli un attestato
firmato anche da un notaio e per l’atto allegò un dollaro
nella lettera.
Nella dichiarazione doveva essere affermata la sua permanenza come
internata civile di guerra nel campo di concentramento di Lanciano
per ottenere l’indennità dal governo austriaco per le
sofferenze patite durante il suo internamento. Come testimone ella
indicò un cittadino molto conosciuto a Lanciano: Vittorio Siniscalco,
parente della citata famiglia De Nardis, il quale rilasciò
esplicita dichiarazione scritta all’autorità comunale
su tutto quello che sapeva.
A distanza di tanti anni dagli eventi narrati la casa De Nardis in
Sant’Apollinare si apre soltanto poche volte l’anno, in
preferenza durante la stagione estiva e a ritornarci, per una breve
villeggiatura,è l’erede Filippo che vive a Roma con la
sua famiglia. In un cordiale incontro avuto con lui, ho raccontato
le vicende sopra narrate ed egli,allora bambino, ha detto di ricordare
ancora “ quella bionda signora” che stava nascosta nella
stalla vivendo con gli animali e qualche volta, attraverso una scalinata
interna alla casa, toccò a lui scendere nella stalla portando
dalla cucina del cibo e un sorriso di conforto alla signora Ilona
che soffriva tanto.
DESIDERIO DI PAOLO
INTERVISTA AD ANGELO CIAVARELLI - partigiano
Testimonianze già apparse sull’opuscolo “1943-1983
- Quarantennale della Resistenza e della Liberazione”
- Vuole ricostruire, signor Ciavarelli, quanto accadde
nei giorni della insurrezione e soprattutto quegli episodi, dei quali
è stato protagonista? -
- Ci eravamo organizzati militarmente ed eravamo inquadrati in plotoni.
Il mio comandante di plotone era il tenente medico Carlo Schönheim,
ungherese di origine, ma residente in Italia da molto tempo.
Dopo l’attacco contro due autoblindo tedesche, avvenuto in località
Pozzo Bagnaro, dove passava la strada di circonvallazione, attacco
a cui partecipai anch’io, il dottor Schonheim, prevedendo la
reazione dei tedeschi, ci ordinò di collocarci nei punti strategicamente
più importanti della città. Fu così che, assieme
ad altri due compagni, (Bisbano Angelo e Costantini Licio), fui mandato
nella zona di Lanciano vecchia in un vico di Largo Ricci, esattamente
dietro alla “casa di tolleranza”. Ci appostammo in una
terrazzina, dalla quale si poteva controllare la strada d’accesso
per Pozzo Bagnaro, l’attuale “Via per Frisa”. Eravamo
armati e tenevamo a disposizione numerose bombe a mano. Ci avevano
detto di tenerci pronti nel caso che venissimo attaccati. Mentre eravamo
là di presidio, ecco che sopraggiunse una camionetta con tre
o quattro tedeschi; anzi, mi sembra che erano proprio quattro. Uno
di essi entrò nel vico e si avviò verso il punto dove
stavamo noi. Ad un certo momento, egli ci scorse e vide che eravamo
dei ragazzini, ma armati e pronti ad entrare in azione. Il tedesco
ebbe un attimo di esitazione e rimase un po’ sorpreso per la
nostra presenza, nulla sapendo di quanto era avvenuto a Pozzo Bagnaro
quello stesso 5 ottobre. Nel frattempo, gli intimai l’alt e
dissi a Licio di disarmarlo, facendo in modo che questi non si portasse
dietro di lui. In tal caso, infatti, c’era la possibilità
che colpissi Licio. Intanto, Bisbano era andato verso l’entrata
del vico per osservare i movimenti degli altri soldati tedeschi e
per accertare se stessero per venire.
Naturalmente, il soldato da me fermato cercava di fare quanto avevo
previsto, cioé di mettersi al riparo di Licio onde impedirmi
di sparare. Gridai, allora, a Licio di stare attento e lasciai partire
un colpo che ferì il tedesco al ginocchio destro. Caduto a
terra e dolorante per la ferita, gli saltammo addosso e lo disarmammo.
I suoi commilitoni, sentito lo sparo, si allontanarono in tutta fretta
e mi accorsi di questa precipitosa fuga dal rumore dei loro passi.
Ma subito dopo ci raggiunse il dottor Schonheim, che si trovava nel
vicino porticato della chiesa di San Biagio ed aveva udito lo sparo.
A lui chiedemmo, alquanto impauriti, come agire. Egli ci rassicurò
e ci esortò a stare calmi, dicendo che non era successo nulla
di grave.
Il dottore pensò, per prima cosa, a far rimuovere la camionetta
abbandonata dai tedeschi e la fece nascondere dietro la chiesa. Poiché
il soldato rimasto ferito si lamentava, si decise, anche per umanità
e carità cristiana, di portarlo all’ospedale. Lo accompagnarono,
(lo ricordo bene), due donne: la signora Anna De Nardis, (moglie di
un certo Farfallini), che abitava proprio nel vico di Largo Ricci,
e la signora Ida Sargiacomo, (madre dell’ingegner Sargiacomo).
Queste caricarono il ferito su un carrettino e lo avvolsero in un
lenzuolo. Purtroppo, appena giunto in ospedale, il tedesco spirò
per l’enorme perdita di sangue.
Ecco, io sono stato protagonista di questo episodio accaduto il 5
ottobre. Ma voglio continuare il racconto di quanto avvenne il giorno
successivo. -
- Certamente ed anzi la pregherei di procedere ad una narrazione precisa,
giacché quanto avvenne quel 6 ottobre si può considerare,
come lei sa benissimo, la fase culminante della rivolta lancianese.
-
- La sera stessa del 5 ottobre ricevemmo disposizioni per eventuali
azioni di rappresaglia che il Comando germanico poteva scatenare durante
la notte. La mattina del giorno seguente ci riunimmo presso il tirassegno,
dove avevamo il deposito di armi e munizioni, lungo la strada per
Frisa, (era questo il luogo in cui eravamo soliti riunirci), e decidemmo
di portarci in città, salendo per “Via San Egidio”.
Era nostra intenzione di impadronirci di tutte le armi che si trovassero
nella Caserma della Milizia e così facemmo.
Ci sparpagliammo per la città con la speranza di cogliere di
sorpresa i tedeschi, ma questi erano stati già avvertiti forse
per qualche soffiata ed erano a conoscenza dei nostri propositi. Fu
così che ebbe inizio la fase più cruenta dell’insurrezione.
-
- Quale ruolo ha svolto durante questa fase? -
Ho partecipato anche ai combattimenti del 6 ottobre. Mi fu affidato
il compito di recarmi nella zona prossima al campo di Tupone, vicino
al palazzo dell’A. T. I. Era allora una zona pressoché
deserta, quasi completamente priva di costruzioni, fatta eccezione
per due edifici: quello dove aveva sede l’ONMI e quello di proprietà
del geometra Ciro Rossi. Era, dunque, una zona difficile da controllare.
Assieme a me vennero altri, tutti amici carissimi: Giovanni Calabrò,
Tommaso Oliva e Raffaele Stella. Noi quattro eravamo appostati a breve
distanza l’uno dall’altro. Finché i tedeschi avanzarono
lungo Viale Cappuccini e raggiunsero la Caserma della Milizia, potemmo
facilmente mantenere le nostre posizioni anche perché eravamo
protetti da una scalinata esterna, dietro la quale potevamo ripararci.
Ma poi i tedeschi cominciarono ad avvicinarsi sempre di più,
fecero entrare in azione un cannoncino che sparava quasi di continuo.
Erano armati con fucili mitragliatori e mitragliette per cui erano
nettamente superiori a noi, che avevamo armi antiquate, come il moschetto
’38, e meno precise. Ci ordinarono di ritirarci, cercando, però,
di coprirci le spalle con il villino del geometra Rossi.
I nostri superiori temevano, infatti, che potessimo rimanere uccisi
durante il ripiegamento. La nostra ritirata continuò fino all’altezza
dell’incrocio da dove inizia la strada per Orsogna, in prossimità
delle Torri Montanare. Qui ci appostammo e mantenemmo il combattimento
per molto tempo. Durante la ritirata molti persero la vita. Tra questi
il povero Giovanni Calabrò, che rimase ucciso proprio a pochi
metri di distanza da me, colpito da una raffica di mitra nella schiena.
Purtroppo, morì sul colpo e non ci fu niente da fare. Se fosse
rimasto almeno ferito, avrei cercato di trasportarlo, ma era morto
all’istante.
Voglio sottolineare, a questo punto, che i mezzi a nostra disposizione
erano scarsi, che le nostre armi, come ho già prima ricordato,
non erano adeguate a sostenere lo scontro contro un nemico superiore
numericamente e ben equipaggiato. Avevamo però l’entusiasmo
della nostra giovinezza e l’incoscienza tipica di quest’ètà.
-
- Ricorda, signor Ciavarelli, cosa avvenne dopo le tragiche giornate
dell’insurrezione? -
- Dopo quel drammatico 6 ottobre e dopo la strenua resistenza opposta
ai tedeschi, - i quali in quella circostanza subirono anche perdite
non lievi per il fatto che noi potevamo agire da una posizione militarmente
buona, mentre essi erano costretti a muoversi allo scoperto -, continuammo
a ritirarci lungo la strada per Frisa e ci fermammo sul fiume Moro.
Ricordo che scegliemmo come ricovero un pagliaio e qui restammo per
molti giorni, dato che si trattava di un posto tranquillo, lontano
dalla città. Erano con me quasi tutti quelli del plotone del
dottor Schonheim: c’era Tommaso Oliva; c’era un certo
Gioielli; c’era Rocco Stella; c’erano tanti amici. Dormivamo
nel pagliaio e una signora, che ci conosceva, ci dava da mangiare
qualcosa, (una pentola di fagioli ed un po’ di pane).
Decisi, infine, di non starmene più con le mani in mano e,
assieme a mio fratello, Giacomo Ciavarelli, ed a un amico, Giuseppe
Bacillieri, mi allontanai da quel posto anche perché avevamo
avuto ordine di non stare insieme, di nasconderci e di indossare possibilmente
vestiti diversi da quelli che portavamo al momento della rivolta,
affinché i tedeschi non ci riconoscessero e non ci prendessero
in caso di eventuali azioni di rastrellamento.
Così, ci recammo in una contrada che era sotto il fiume, chiamata
Befenza, e qui trovammo ospitalità presso una famiglia di contadini,
di cognome Paolucci. Devo riconoscere che ci ha aiutato molto sia
dandoci da mangiare, sia avvertendoci della presenza dei tedeschi,
tutte le volte in cui erano nelle vicinanze. Un giorno, riuscimmo
a passare il Sangro, nonostante che il fronte fosse ancora fermo su
questa linea. Avevamo intenzione, infatti, di dire a quanti abitavano
dall’altra parte del fiume come stavano le cose. Pertanto, varcato
il fiume, ci dirigemmo verso Torino di Sangro.
Eravamo giunti all’altezza delle prime case del paese, quando
incontrammo un certo Cardinale Giuseppe al quale dicemmo qual era
la situazione a Lanciano, precisando, tra l’altro, che i tedeschi
erano pochissimi, che si erano arroccati ad Ortona ed a Orsogna, che
avevano una postazione-radio mobile in località Madonna del
Carmine e che, quindi, si poteva attraversare il fiume con una certa
sicurezza.
A conferma di questo fatto voglio riferire un episodio che mi capitò
alcuni giorni dopo, all’inizio del mese di novembre, e cioé
l’incontro con un militare inglese, che aveva attraversato il
fiume e che svolgeva attività di spionaggio nella zona di Lanciano,
esattamente presso il boschetto di Barbati, (l’attuale “Via
Morelli”). Questo inglese frequentava la trattoria del “Buon
gusto”, gestita da Pierino Franceschini, e molte volte ho pranzato
con lui. Quando venne a conoscenza che io e gli altri amici, che mi
accompagnavano, eravamo tutti partigiani, cominciò ad aprirsi
e siccome parlava bene in italiano, ci comunicò molte notizie
circa le azioni che il Comando inglese stava preparando, proprio alla
vigilia dell’ingresso dei reparti dell’VIII Armata a Lanciano.
Anzi, ricordo perfettamente che, alla fine di novembre, ci fu un tremendo
cannoneggiamento da parte di batterie tedesche diretto contro la contrada
Sabbioni. Tutta questa zona fu colpita violentemente e vi furono molti
morti e molti feriti, tra cui anche dei bambini, come la piccola Ida
Tupone. Io, assieme a mio fratello ed ad altri, mi prodigai per soccorrere
i feriti e portare i più gravi all’ospedale.
Tra le vittime del bombardamento tedesco ci furono ben quattordici/quindici
persone che persero la vita non a causa delle schegge,
ma perché una cannonata colpì il luogo dove avevano
trovato ricovero, cioé una cantina tutta piena di botti ricolme
di vino.
Quando la cannonata centrò il locale, le botti furono sfondate
dallo stesso spostamento d’aria ed il vino fuoriuscito invase
la cantina. I poveri rifugiati, che stavano raccolti intorno ad un
caminetto situato al centro della stanza, furono sommersi dall’enorme
quantità di vino, giacché ognuna di quelle botti ne
conteneva otto/dieci quintali, e morirono affogati. Fu, certo, un’esperienza
sconvolgente soprattutto per quanto riguarda l’opera di soccorso
dei feriti. Ricordo che quel giorno pioveva a dirotto e c’era
dappertutto fango.
Mentre i tedeschi occupavano ancora Lanciano, entrai a far parte della
loro polizia militare allo scopo di evitare soprusi ai danni della
popolazione e furti nei negozi. Ogni notte si perlustravano le strade
della città ed andavamo in tre, un tedesco e due di noi.
Quando vennero gli inglesi, svolsi lo stesso tipo di servizio sempre
a favore della popolazione.
- Ricorda qualche episodio dei periodo successivo alla venuta dei
reparti inglesi? -
- Ricordo, anzitutto, che gli inglesi entrarono a Lanciano agli inizi
di dicembre ed io fui il primo partigiano ad essere stato intervistato
da Radio-Londra e da RadioMosca. La mattina del 3 dicembre andammo
noi stessi ad accogliere il primo reparto dell’VIII Armata.
Era costituito da indiani e si era fermato in prossimità della
chiesa di S. Antonio. Nonostante che dichiarassimo di essere partigiani,
ci fecero mettere davanti ai cannoni e così entrammo in città.
Il nostro compito principale continuò ad essere, anche dopo
l’arrivo delle truppe inglesi, quello di assistere ed aiutare
la popolazione di Lanciano, coadiuvando le autorità militari
nel mantenere l’ordine pubblico e nell’effettuare tutte
quelle operazioni che si rendessero indispensabili per allievare e
migliorare le dure condizioni di vita della cittadinanza. Fu istituito,
per nostra volontà, anche un ufficio di assistenza agli sfollati,
utile specie per quelli che erano in una situazione piuttosto critica.
Io stesso, in quella occasione, aiutai a trovare alloggio una sfollata
di Ortona, che era incinta.
I tedeschi, prima di andarsene, compirono numerosi espropri, come
nel caso della Fonderia Mari. I fratelli Mari, proprietari e gestori
di questa rinomata Fonderia, erano stati avvertiti delle cattive intenzioni
dei militari germanici e si dettero da fare per evitarle.
Io ed un amico, (ne ricordo il nome: Silvino Martelli), li aiutammo
a nascondere i torni.
D’altra parte, bisogna riconoscere che anche gli inglesi si
comportarono, almeno agli inizi, con distacco e con durezza nei confronti
della popolazione civile. Soprattutto gli indiani ed i neozelandesi
infastidirono la cittadinanza. Fortuna che tra i reparti dell’VIII
Armata c’erano pure dei soldati italiani appartenenti alla “Nembo”.
Furono questi che ci vennero incontro e ci soccorsero all’occorrenza.
Dopo la liberazione dai tedeschi, s’era costituito, a Lanciano,
il Comitato di Liberazione Nazionale, i cui membri si riunivano a
casa di Federico Mola. Quest’ultimo, però, a causa del
suo atteggiamento libertario e provocatore nei confronti delle autorità
militari inglesi, fu fatto arrestare. Ricordo, a tal proposito, che
anche altri cittadini lancianesi, come Orlando Iannone, furono arrestati
perché avevano protestato contro il comportamento dei soldati
dell’VIII Armata.
Ecco perché noi partigiani, che avevamo sostenuto l’impari
lotta contro il tedesco invasore, cercammo, in quel frangente, di
difendere la cittadinanza da ogni eventuale sopruso.
Vincenzo LIBERTINI
INTERVISTA A DOMENICO PANTALEONE - partigiano
- Signor Pantaleone, vuol parlare dell’insurrezione
ottobrina e dei fatti che la videro principale protagonista? - - Voglio
precisare, prima di tutto, che allora ero giovane e che, come tanti
altri miei coetanei, partecipai alle riunioni di un gruppo di antifascisti
ed antinazisti, costituitosi a Lanciano appunto con lo scopo di combattere
i tedeschi. - La mattina del 5 ottobre, fummo convocati e mandati
nella zona dell’attuale strada che collega Lanciano con Frisa,
allora nota con la denominazione di Pozzo Bagnaro. Ci riunimmo in
questa zona perché era lontana dalla città e quindi
poco frequentata. Nel corso della mattinata, verso mezzogiorno, arrivò
uno degli organizzatori del nostro gruppo, un certo De Luca, che poi
seppi essere un ufficiale dell’esercito e per l’esattezza
un tenente. Egli ci invitò a deporre momentaneamente le armi
e a nasconderle nelle grotte, che c’erano in quella zona, giacché
disse che un’azione insurrezionale non era propizia nella circostanza
in cui ci trovavamo, essendo l’VIII Armata ben al di là
del fiume Sangro e non prevedendosi un suo immediato attacco. Decidemmo,
così, di nascondere le armi in alcune grotte e di porvi a guardia
alcuni dei nostri.
Se non che, la sera di quello stesso giorno, avvenne improvvisamente
Lo scontro tra i nostri e due autoblindo tedesche a Pozzo Bagnaro.
lo devo dire con tutta onestà che non vi partecipai per il
semplice fatto che non ebbi neanche il tempo materiale per esservi
presente. Seppi successivamente che quello scontro era accaduto all’improvviso
giacché i due automezzi germanici erano stati indirizzati erroneamente
verso la strada per Frisa dal concittadino Florindo Miscia, al quale
i soldati tedeschi si erano rivolti per chiedere informazioni circa
la direzione da seguire per imboccare la strada per Ortona e Pescara.
Quando i nostri compagni, che erano di guardia alle armi, videro avvicinarsi
le due autoblindo, pensarono subito di essere stati scoperti e cominciarono
a sparare. Dopo questo episodio, ricevemmo l’ordine di armarci
e prendemmo, così, tutte le armi che avevamo a disposizione:
moschetti, fucili e bombe a mano. Io ed altri sei o sette compagni
ci recammo in una contrada vicina a Lanciano, posta in una zona collinare
da dove si poteva vedere tutta la città.
Quando gli spari divennero più frequenti e la rivolta raggiunse
la fase di massima intensità, la mattina del 6 ottobre, subito
ci accorgemmo di quanto stava accadendo e ci preparammo a scendere
verso Lanciano, anche perché, nel frattempo, era arrivata una
staffetta che sollecitò il nostro intervento immediato.
Giunti a Lanciano, ci dislocammo in una zona di aperta campagna, corrispondente
all’attuale “Via Marconi”, ma che allora era pressoché
deserta ed era nota con il nome di “campagna di Tupone”,
essendo questi il maggior proprietario dei terreni. Qui avvenne uno
scontro tremendo con i tedeschi, che avanzavano da Viale Cappuccini.
Molti amici, che stavano assieme a me in quel frangente, vi persero
la vita, tra cui Stella Raffaele e Trozzi Nicolino. Ricordo con precisione
e con profondo rammarico la morte di uno di questi cari amici, Achille
Cuonzo, colpito in bocca da un proiettile e morto quasi davanti a
me, senza che me ne accorgessi immediatamente giacché nel corpo
non presentava segni di ferite particolarmente gravi.
Intanto, fummo costretti a ritirarci, data la schiacciante superiorità
del nemico. Io, poi, assieme ad altri mi allontanai da Lanciano e
mi rifugiai verso contrada Madonna del Carmine, anzi tra questa località
e la contrada Nasuti. Da lì potei scorgere il fumo denso degli
incendi che si levavano dalla città in quel tragico 6 ottobre
e capii che per noi la situazione si era fatta molto critica.
I tedeschi, sedata l’insurrezione, rimasero ancora a Lanciano
e più esattamente nella zona del Sangro, essendo ormai imminente
l’arrivo delle truppe inglesi. Il Comando germanico emise un
proclama in cui si ordinava alla popolazione di collaborare con i
soldati ed alcuni di noi furono presi e costretti a lavorare. I tedeschi
non stavano in città, ma erano dislocati all’intorno.
Ogni tanto, però, compivano delle incursioni in città,
rubando nei negozi e chiedendo con la forza a tutti qualunque cosa
avessero bisogno. Tale situazione durò fino all’arrivo
degli inglesi. - - Ecco, vuol parlare, signor Pantaleone, del periodo
in cui a Lanciano c’erano gli Alleati? Più precisamente,
dei rapporti tra le autorità, i militari dell’VIII Armata
e la popolazione civile? -
- L’arrivo degli inglesi a Lanciano avvenne, (lo ricordo benissimo),
il giorno 3 dicembre. Fu un fatto inaspettato per tutti poiché
gli stessi soldati tedeschi, rimasti nella zona di Lanciano, non si
attendevano l’attacco violentissimo sferrato dai reparti dell’VIII
Armata.
Quella mattina del 3 dicembre stavo sotto il ponte di Diocleziano
assieme ad altri sfollati, quando sentii dire da un tale che era passata
una motocicletta guidata da un soldato con un berretto rosso. Capii
subito, da questo particolare, che si trattava di un soldato inglese,
essendo il berretto rosso una caratteristica della divisa dei militari
britannici.
Alcune ore dopo, essendosi sparsa la voce che gli inglesi erano giunti
in città, mi avviai assieme ad altri compagni verso il Piano
della Fiera e qui incontrammo il primo reparto dell’VIII Armata
venuto a liberarci. Ricordo che erano indiani e che li invitammo ad
entrare in città, accogliendoli come liberatori. Ma essi avanzarono
con circospezione, attenti ad evitare possibili agguati. Finalmente,
dopo aver visto che non vi era neanche l’ombra di un soldato
tedesco, credettero a quanto avevamo detto loro e si convinsero di
stare tra gente ospitale, che li salutava festosamente. Gli inglesi
avevano con loro una gran quantità di generi alimentari: cioccolata,
carne in scatola, caffé. Una parte di questi viveri fu distribuita
anche tra la popolazione, che viveva, ormai da molto tempo, in condizioni
precarie. La vita tornò normale dopo la liberazione.
Vincenzo LIBERTINI
LA VICENDA DEL 5-6 OTTOBRE INSERÌ L’ABRUZZO
NELLA STORIA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Le vicende del 5-6 ottobre 1943 e quelle, più
ampie, della guerra in Abruzzo tra le truppe tedesche e gli Alleati
rivestono una notevole importanza storica. Se, tuttavia, si guarda
a quanto sì è scritto sui fatti di quei terribili mesi
in Italia e all’ estero, ci si accorge che è stato più
ampio il rilievo ad essi dato dalla storiografia straniera, particolarmente
inglese, canadese e statunitense che da quella italiana. Quest’
ultima, infatti, ha centrato la sua attenzione sugli eventi del fronte
tirrenico, connessi principalmente alla sorte di Cassino, Anzio e
Roma. Gli avvenimenti del fronte adriatico vengono tuttora mantenuti
in una specie di penombra e considerati secondari rispetto ai combattimenti
svoltisi sul fronte tirrenico. Si ha l’impressione che gli storici
italiani non si siano resi conto) che il comando alleato, sino alla
battaglia di Ortona, puntò quasi esclusivamente sul fronte
adriatico, affidando all’VIII Armata il compito di superare
Pescara ed aggirare di conseguenza Roma. Questo compito, per una serie
di circostanze che qui non è il caso di spiegare, non fu assolto,
se non parzialmente e ciò determinò una catena di conseguenze
sulla condotta della guerra non solo in Italia, ma anche nel resto
d’Europa., La rivolta lancianese del 5-6 ottobre trovò
immediata eco nei servizi internazionali di Radio Londra e Radio New
York e fu oggetto di rapporti da parte dei vari comandi alleati del
settore del Mediterraneo. Essa esplose all’improvviso e non
potè essere, purtroppo, coordinata con le azioni militari dell’VIII
Armata, ancora troppo lontana dalle rive del Sangro.
Per quanto riguarda la guerra in Abruzzo, che ebbe sul Sangro e in
Ortona ed Orsogna i suoi teatri d’operazione più sanguinosi,
esistono parecchie pubblicazioni importanti. Ricordiamo il volume
del comandante dell’VIII Armata Mar. B. Montgomery: “Da
El Alamein al fiume Sangro”, tradotto per conto dell’editore
Garzanti di Milano. Contiene la relazione ufficiale di circa 15 pagine,
sulla battaglia del Sangro.
Meno solenne e più vivace è il libro di Erik Linklater
intitolato “The campaign in Italy”, (London 1951), che,
però, non è stato ancora tradotto in italiano. In questo
libro sono narrati quasi tutti i fatti militari svoltisi in terra
frentana e l’autore si è servito anche dei diari di diversi
comandanti.
W. Churchill si occupa della guerra in Abruzzo nella parte quinta
della sua importante opera: “La seconda guerra mondiale”.
I contributi giornalistici, stranieri e italiani, sono molto numerosi.
Tra gli storici italiani della Resistenza merita un ricordo particolare
Roberto Battaglia, che ha saputo dare un’interpretazione approfondita
della rivolta lancianese, da lui considerata una delle prime manifestazioni
del risveglio della provincia italiana.
L’Amm. Comunale di Lanciano ha intenzione di pubblicare, nella
sua interezza, la relazione che accompagnò presso il Ministero
della Difesa la documentazione per la concessione della medaglia d’
oro. Essa potrebbe servire di base ad una monografia storica su quegli
eventi straordinari, che dovrebbe avere caratteri tali da inserirsi
degnamente nella più qualificata storiografia italiana relativa
alla Seconda Guerra Mondiale.
È certo che le gesta dei combattenti del 5-6 ottobre 1943 sono
profondamente acquisite al sentimento popolare frentano. A quell’impresa,
condotta esclusivamente contro lo straniero sopraffattore, parteciparono
uomini di tutte le tendenze politiche, dalla destra alla sinistra.
Questa caratteristica ne fissa per sempre il clima e l’ispirazione
risorgimentale. Quelli che si immolarono nell’ardua lotta erano
tutti giovani e per ognuno di essi si potrebbero ripetere i bellissimi
versi che Garcia Lorca dedica al suo eroe:
Tarderà molto a nascere, se nasce, un
andaluso così puro, così ricco di avventura.
Canto la tua eleganza con parole che gemono e ricordo una brezza triste
tra gli ulivi.
Giovanni NATIVIO
da “Itinerari” - Anno V - Dicembre 1966 - n. 8
LANCIANO NELLA STORIA RECENTE D’ITALIA
Giorgio Bocca ha pubblicato presso l’ed. Laterza
di Bari una «Storia dell’Italia partigiana», che
viene dopo l’ormai celebre libro di R. Battaglia e l’ampia
opera di F. Frassati.
Bocca si è proposto di rendere con “chiarezza ed equilibrio
storico i sentimenti che fecero del 1943-45 la stagione migliore della
nostra vita”. Non intendiamo qui pronunciare un giudizio sul
valore dell’opera, che è comunque notevole, perché
essa ha già meritato recensioni e valutazioni da penne molto
più importanti della nostra.
Diciamo solo che Bocca esce dallo schema tradizionale per tentare
un esame spregiudicato di quello che è stato chiamato il “secondo
risorgimento”.
Quasi due pagine del libro sono dedicate a Lanciano e, nonostante
il severo e sconcertante rigo iniziale, tutto il brano ha un andamento
affettuoso di una epicità disadorna, ma efficace e penetrante.
Il Bocca comincia così: «l’insurrezione di Lanciano
è l’unica inopportuna del Sud. Gli insorti scendono in
campo il 5 ottobre sull’onda dell’entusiasmo suscitato
dalle giornate di Napoli, senza attendere che le avanguardie dell’VIII
Armata inglese abbiano varcato il Trigno e senza mettere nel conto
delle cose possibili che stiano ferme sul fiume per altri due mesi,
come invece accade».
“Inopportuna”, dunque, l’insurrezione di Lanciano?
Ma - e lo ha osservato sul Corriere della Sera (4 dic. 1966) D. Bartoli
recensendo il libro di Bocca - tutta la Resistenza ebbe scarsa importanza
militare.
Non fu un’azione decisiva; gli Alleati avrebbero vinto in ogni
caso. “Inopportuna” in che senso? Bocca si contraddice
allora quando giustamente afferma che l’importanza della Resistenza
sta tutta nel suo valore politico e - aggiunge Bartoli - nel suo valore
morale?
Ma dopo il polemico preludio, l’autore coglie figure, immagini,
crudeli esempi di brutalità e pietà con il suo stile
personalissimo.
C’è pure qualche particolare pittoresco che non tutti
i lancianesi conoscono, come questo: « Si combatte fino a sera,
anche i vecchi partecipano alla lotta: uno che porta munizioni dietro
le Torri Montanare ha la pipa troncata da un proiettile: ma continua
a fare la spola con due bombe a mano appese alla cintura». Non
sfugge a Bocca l’episodio della madre di Vincenzo Bianco, che
si riporta a casa il corpo esanime del figlio: i vicini facevano ala
e si inginocchiavano al suo passaggio.
Oppure quello dell’impronta lasciata sull’asfalto dal
sangue di Pierino Sammaciccia. «Per mesi, nonostante l’insistenza
della pioggia e poi della neve, l’impronta rimase sempre viva
e raffigurante il caduto, che sembrava dovesse colà risorgere».
Le pagine dello storico si chiudono con alcuni giudizi sulle insurrezioni
del Sud, dopo aver reso omaggio alla « pietà popolare
» di Lanciano, umana anche con il nemico.
Sulla rivolta lancianese già aveva scritto R. Battaglia, sottolineandone
il carattere schiettamente popolare; ma un inquadramento storico preciso
essa, prima che sul libro di Bocca, l’ha trovato nell’ampia
e documentata “ della Resistenza” di P. Secchia e F. Frassati.
In quest’ultima opera l’esito sfortunato della rivolta
è imputato alla strana condotta di guerra del Maresciallo Montgomery.
“La cittadinanza - scrivono i due autori - di Lanciano, sperando
nell’arrivo degli alleati, aveva voluto scendere in campo, per
agevolarne l’avanzata e affrettare la propria liberazione. Una
speranza illusoria, pur se le artiglierie britanniche tuonavano vicinissime”.
GIOVANNI NATIVIO
da “Itinerari” - Anno V - Dicembre 1966 - n. 8
DISCORSO DEL SINDACO, AVV. FILIPPO PAOLINI,
in occasione del cinquantesimo Anniversario della consegna della Medaglia
d’Oro al Valor Militare alla Città di Lanciano
Ho pensato più volte, in questi giorni, su che cosa i nostri
Martiri Lancianesi avrebbero scritto se solo gliene fosse stata data
la possibilità prima del loro estremo sacrificio.
E così, come spesso accade in questi casi, cercando tra i pensieri
le giuste parole nell’intento di non essere tiepidi o ripetitivi,
ho ritrovato una di quelle pagine che in simili circostanze riaffiorano
sempre più vive ed attuali dagli scaffali delle nostre biblioteche.
Mi sono così imbattuto in una delle tante struggenti “Lettere
dei condannati a morte per la Resistenza” ; casualmente in quelle
del Capitano di Artiglieria Franco Balbis, 32 anni, Medaglia d’Oro
e d’Argento al Valor Militare. Leggo testualmente:
“La Divina Provvidenza non ha concesso che io offrissi all’Italia
sui campi d’Africa quella vita che ho dedicato alla Patria il
giorno in cui vestii per la prima volta il grigioverde. Iddio mi permette
oggi di dare l’olocausto supremo di tutto me stesso all’Italia
nostra ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice!
Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana
e per riportare la nostra Terra ad essere onorata e stimata nel mondo
intero.
Lascio nello strazio e nella tragedia dell’ora presente i miei
Genitori dai quali ho imparato come si vive, si combatte e si muore.
Prego i miei di non voler portare il lutto per la mia morte; quando
si è dato un figlio alla Patria, comunque esso venga offerto,
non lo si deve ricordare col segno della sventura.
Con la coscienza sicura d’aver sempre voluto servire il mio
Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone
d’esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta.
Possa il mio grido di “Viva l’Italia libera” sovrastare
e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte; per
il bene e l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera,
per le quali muoio felice!”
Cittadini di Lanciano, la Storia, la nostra vera e gloriosa Storia,
non può essere riscritta; può essere approfondita, meditata,
integrata ma al di là delle inutili perifrasi ciò che
resta fermo ed incontrovertibile è l’avvenimento in sé
sul quale noi quest’oggi ci soffermiamo.
E’ la verità dell’esplosione dell’animo della
gente frentana contro l’ottusa oppressione; è l’impeto
di una incontenibile carica di insofferenza,
di rivolta, di ribellione contro le sopraffazioni di una soldataglia
che non aveva nulla in comune con l’onore militare; è
la triste verità storica di una inerme popolazione civile frentana
sottoposta per ben oltre 9 mesi a privazioni e sofferenze sulle linee
di fuoco di una guerra immane che ha avuto per teatro il Mondo. Al
cospetto di tutto ciò cessi ogni discussione, scompaia ogni
tiepidezza; solo il ricordo, il silenzio e l’onore dei giusti
parlino ai nostri cuori.
La Storia della Rivolta Lancianese non potrà mai essere offuscata;
il martirio dei nostri giovani mai dimenticato.
Il sangue versato, le terribili privazioni di quei giorni, la nostra
gloriosa Medaglia d’Oro non potranno mai essere oggetto di oblio.
Ecco perché siamo qui quest’oggi; ecco perché
da sempre e per sempre la nostra Città ricorderà con
solennità il 6 Ottobre; ecco perché rendiamo devoto
omaggio agli Eroi Ottobrini nei luoghi dove eroicamente si immolarono
non per un’ideale di morte, ma perché attraverso la comprensione
del dramma storico del passato e per mezzo del loro nobile insegnamento
di sacrificio la nostra amata Comunità comprendesse quella
che può essere l’unica via al progresso e alla concordia
civile, vale a dire, la Libertà e la Pace. In conclusione,
mi sia consentito congedarmi con alcuni doverosi ringraziamenti a
Voi tutti, Autorità, Familiari delle vittime, Rappresentanti
delle Associazioni Combattentistiche, delle Associazioni d’Arma
e Cittadini, per la vostra significativa partecipazione e, in modo
particolare, un pubblico e dovuto ringraziamento al nostro Presidente
della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nonché al Presidente
della Camera dei Deputati, On.le Pierferdinando Casini, i quali in
questi mesi si sono fortemente prodigati ed interessati personalmente,
affinché la Zecca dello Stato coniasse appositamente per la
Città di Lanciano un’unica copia fedele della nostra
gloriosa Medaglia D’Oro al Valor Militare il cui originale,
come ben ricorderete, alcuni anni orsono fu tristemente sottratto
al nostro Gonfalone. E’ per me dunque motivo di grande onore
e vivissimo compiacimento al Vostro cospetto e del Signor Prefetto,
qui oggi tra noi nella veste di incaricato ufficiale delle più
alte Autorità dello Stato, poter così annunciare, proprio
nel cinquantennale della consegna della nostra Medaglia d’Oro
al Valor Militare, il rinnovarsi di un così ambito riconoscimento
da parte della Repubblica Italiana che non può non riconfermare
in noi tutti l’orgoglio e l’estrema importanza del nostro
grande passato.
Viva l’Italia libera, Viva tutti i combattenti per la Libertà
e la Pace, Viva il 6 Ottobre!
Filippo PAOLINI
Lanciano, 6 ottobre 2002
Lanciano, 6 ottobre 2002 - Il dott. Aldo Vaccaro, Prefetto
della Provincia di Chieti, mentre appone sul gonfalone della città
la nuova Medaglia d'Oro in sostituzione della originale trafugata.
(foto di A. Mucci)
|