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 LE RAGIONI SOCIALI E STORICHE DELLA DESTRA    

Introduzione
Il pensiero politico nazionale della destra
La difesa del lavoro nel pensiero della destra
Il pensiero economico della destra tra socializzazione e liberismo
La destra tra monetarismo ed interesse nazionale
La destra italiana tra irredentismo ed europeismo
Le ragioni sociali dell'Europa
Nazionalismo e mondialismo nel pensiero politico di destra
Unione monetaria, globalizzazione e stato nazionale
Relazione di sintesi
Dibattito

 
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Le ragioni sociali dell'Europa

Relazione del Dott. Mauro Nobilia, Segretario Generale della Unione Generale del Lavoro

Da sindacalista vedrò di aprire questo mio dibattito con delle provocazioni. La prima è questa: ringrazio Guido Anderson per aver promosso e realizzato questo interessantissimo Convegno, anche perché, io credo, che, di solito, la destra non è tardiva sull'affrontare taluni argomenti ma di solito si limita alle enunciazione e non ha una visione prospettica, una visione di lavoro prospettico di insieme. Secondo poi, quello che io giudico (tra virgolette, naturalmente) una carenza, un difetto, è che la destra non è una chiesa cioè non sa lavorare per raggiungere un obiettivo. Si limita di solito ad una costruzione, fondata. Non credo che ciano dubbi che io appartengo almeno sul piano culturale all'ambiente di destra ma, tuttavia, io sono stato traviato dal sindacato e quindi, in questa ottica, è una impostazione ed un itinerario, invece, assolutamente necessario. La terza provocazione riguarda una carenza che io continuo a vedere nella destra ed è che non fa di un individualismo responsabile la sua ragione d'essere ma addirittura non sa muovere da questo concetto per sviluppare una sorta di 'collettivismo d'azione. Non sa concepire né tantomeno realizzare quello che comunemente viene definito un lavoro di équipe, che si muove su diverse specificità, quindi su diversi ruoli, che fermi restando specificità, ruoli ed itinerari, mirino alla fine comunque alla realizzazione di un progetto comune.
Fatte queste provocazioni, da organizzazione confederale sindacale, noi ci crediamo di essere come uno spaccato della società. Oggi si è parlato molto della società. Noi la vediamo oggi in evoluzione profonda e molti fatti hanno determinato e determinano questa evoluzione. Io vorrei limitarmi all'Europa perché l'argomento del mio intervento è "Le aspettative sociali dell'Europa" e sono un attimo in difficoltà nel delinearle, non perché non le conosca, pur tuttavia per delineare un ragionamento logico varie componenti, diverse variabili vanno ad influire su quelle che sono le predette aspettative. Vediamo di dare un senso logico all'intervento. Si è parlato di globalizzazione. E' , in effetti, un processo in atto. I ho avuto la percezione immediata di cosa vuol dire globalizzazione quando, nel 1995, in piena trattativa a Palazzo Chigi sulla cosiddetta Riforma Dini, la 355 io guidavo la delegazione della CISNAL, non eravamo ancora U.G.L., in un momento di confronto sia con i Presidente Dini che con il Sottosegretario Giarda, per un passaggio che il Governo voleva fare in merito, credo, se non vado errato, al pubblico impiego, a fronte dell'ostinazione del Sottosegretario Giarda noi interrompemmo la trattativa, cioè la abbandonammo e andammo via da Palazzo Chigi.
Venimmo, dopo due ore, attivamente ricercati. C'erano i cellulari, allora già largamente in uso, che squillavano in continuazione. Il Presidente Dini ci rivoleva a Palazzo Chigi. Io potevo capire l'importanza del momento, era molto delicato che ha intanto impresso una prima azione piuttosto, importante, strutturale, alla riforma del sistema Presidenziale. Ma siccome sono peraltro un realista non trovavo i motivi di questo improvviso interesse nel Presidente Dini nei confronti della CISNAL, per tutta una serie di motivazioni. Mi venne, poi, spiegata la ragione. La Roiter, agenzia internazionale, stava battendo che la delegazione dei, tra virgolette "autonomi" (io non sono per nulla 'autonomo', nell'accezione corrente del termine, ma il giornalismo richiede delle esemplificazioni e dunque la Roiter stava battendo il fatto che l'aggregazione degli autonomi guidata da Mauro Nobilia aveva abbandonato Palazzo Chigi). Io continuavo a non capire, viene fuori la spiegazione che l'indomani mattina alle sei apriva la Borsa di Tokyo e quindi chissà quali sarebbero state le ripercussioni sull'apertura nei marcati nei riguardi della lira. Ebbi lì l'immediata percezione del fenomeno della globalizzazione che, in effetti, è un processo attualmente in atto. Ma l'unica vera globalizzazione è quella finanziaria, quella che ha raggiunto il più alto gradi di visibilità. Noi abbiamo costruito l'Europa, l'Europa muove da lontano ed il primo atto, il Trattato di Roma che muove dal 1957, in effetti poneva le basi e si articolava attraverso mattoni politici.
E' stato questo un processo che si è protratto fino al 1986 attraverso l'Atto Unico. Poi arriva Maastricht che, a mio avviso, pur ravvisando in quel trattato un modo pratico per realizzare comunque una unione, pur tuttavia diverge dal cammino intrapreso dal 1957. Per intanto liberalizza, rompe le barriere del cosiddetto mercato finanziario. Il problema è che oggi sui mercati finanziari europei stazionano quotidianamente 1000 miliardi di dollari che fluttuano secondo la regola e per la ricerca del profitto stesso. Si domanda, quale economia di quale stato può resistere ad un libero fluttuare di 1000 miliardi di dollari. Neppure la Germania. E noi sappiamo che in Europa lo Stato più forte è la Germania, attraverso la quale, essendo il primo partener comunitario, passa il 30% degli scambi commerciali, quindi è il partner economicamente più forte. Prima considerazione. Il trattato di Maastricht non ha in se né intenti né stimoli per una convergenza che vada al di là della convergenza monetaria. Certo tale trattato esprime anche intenti in ordine ad una convergenza di politica europea della difesa. L'unico segno visibile a questo riguardo è stato un tentativo, peraltro durato poco, di costituzione dell'armata franco-tedesca. Peraltro era molto limitata perché la Costituzione tedesca, che è stata modificata di recente, fino a non molto tempo fa impediva degli interventi di pace al di fuori dei confini nazionali. Comunque l'armata tedesca non è andata al di là di questa costruzione. L'altra convergenza che si poneva era quella in ordine alla giustizia. Pur tuttavia né la difesa né la giustizia hanno avuto poi un seguito nell'ambito della costruzione. L'unico seguito che ha avuto è stata l'unione monetaria. E noi siamo, tra 11 mesi, all'avvio dell'Euro.
Non ha una convergenza sociale, perché i pochi, e per altri aspetti anche significativi, in tema di coesione sociale, sono inibiti alla formula dell' "opting out" alla quale si è prontamente richiamata l'Inghilterra. Soprattutto non affronta minimamente ma neppure larvatamente una convergenza politica, perché in effetti, oggi, chi è che detta le direttive in ordine alle iniziative economiche e quindi, in sostanza, alle capacità o possibilità o meno di sviluppo degli Stati? Un organismo che è verticistico e viene definita Commissione. La quale si forma per designazione dei partner comunitari, oggi 15, poi, peraltro, il processo è in procinto di essere ulteriormente ampliato. Ma è un organismo verticistico. Esiste, eletto a suffragio universale, il Parlamento Europeo, non c'è alcun dubbio. Ma pur tuttavia il Parlamento Europeo non ha poteri. Né è previsto, sia pure in progressione, né il trattato di Maastricht peraltro lo menziona, il fatto dell'indirizzo nel creare una sovraordinazione politica. Perché tutto nasce da là. E se tutto nasce da là, tutto rimane, secondo quel trattato, alla semplice integrazione e coesione monetaria che è guidata, in parte, come da ultimo, dal cosiddetto patto di stabilità. Di stabilità e fortuna ha voluto che sia stato aggiunto anche 'di crescita'.
La crescita mi riconduce sempre ad una concezione economica. Sviluppo sarebbe stato molto meglio, comunque è stata definita crescita. Crescita che mira da un lato a mantenere virtuosi ai bilanci, cioè impegna i governi ad una gestione virtuosa dei loro bilanci una volta raggiunti i parametri di convergenza e, dall'altro lato, attraverso appunto il patto di stabilità, ma soprattutto, nel 1998, attraverso la Banca centrale Europea, il Sistema Europeo della Banche centrali, ad una convergenza dei prezzi. E' già un fatto importante di per se si, ma ci sono poi a fronte di tutto questo le diverse, differenziate, a volte anche in maniera profonda, situazioni, definiamole intanto economico sociali, tra i vari Stati membri. Queste differenze non sono date soltanto dalle situazioni economiche e sociali, perché questo può esser anche un fatto ma sicuramente importante è quanto tali differenze, sia pure in un progresso, in un lasso di tempo anche lungo, possano essere attenuate fino ad annullassi, per dare vero significato, non solo politico che non c'è, ma anche economico e sociale muovendo anche dalla costruzione politica delle forme di questa magra comunità, di questo magro Stato che, torno a ripetere, nel trattato di Maastricht non esistono.
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che qui si analizzano delle differenze che muovono dalle situazioni attuali. La Francia è indubbiamente uno Stato importante dove però l'età fa premio su qualunque concezione, per certi aspetti anche economica. L'ha smossa il problema delle 35 perché il Presidente del Consiglio ha sviluppato questa ipotesi ed ha inteso calarla obbligatoriamente sul sistema produttivo, ed il sindacato sta a vedere perché gli unici che si muovono sono, da un lato gli imprenditori, dall'altro i disoccupati. Anche perché il sindacato, in Francia, non ha una grossa presa, la sindacalizzazione raggiunge il 10% dei lavoratori. Questo è spiegabile con la valenza dello Stato, cioè questo intervento e presenza del pubblico va a permeare ogni aspetto della vita civile e sociale per cui il sindacato non ha avuto, non ha, e non avrà una grossa funzione. La concezione del cittadino nei confronti dello Stato è l'appartenenza ed è la grandezza della Francia. Ma se questa è la Francia da un altro lato abbiamo la Germania dove il sistema è ribaltato. Si può dire in maniera anche provocatoria che tutto il sistema in Germania si muove non più sullo Stato ma sulla banca. Però anche in Germania esiste un forte senso di appartenenza. Al di la del fatto che esiste come impianto economico-sociale il cosiddetto capitalismo buono, cioè il capitalismo renano, il quale ha portato ad esempio circa 3000 imprese tedesche a realizzare quella che in Italia è oggi una ambizione, ed un ambizione generale del sindacato, cioè un obiettivo di tutto il sindacato oggi: la cosiddetta 'partecipazione.
La partecipazione non ha certo attraversato la storia del sindacato italiano, muove da altre basi e con altre concezioni. In Germania esiste il sindacato unico. Quindi sul piano del concetto di partecipazione ha fatto su questo stesso concetto un impegno ed anche la realizzazione di un obiettivo contrattuale, ed infatti circa 3000 imprese tedesche oggi praticano la 'partecipazione' che è un sistema dualistico dove non c'è, se non in modo marginale, la proprietà del capitale, ma c'è una presenza che indirizza e controlla. Un po' come i Comitati di Indirizzo e Vigilanza dell'INPS. Questa è una forma dualistica ma che ha portato il sindacato, sviluppando la 'partecipazione' che non è solo ed esclusivamente degli utili, ad assumere delle responsabilità e ad avere anche il modo di praticare questa responsabilità, che non rimane più solo ed esclusivamente un fatto nominalistico, ma ha strumenti, modo, tempi per esercitarla. Nel contempo attraverso l'impianto di questa partecipazione delle responsabilità può, e lo a, attuare anche, attraverso il suo coinvolgimento, la gradualità del coinvolgimento che diventa gradualità di flessibilità. La Germania muove da quell'impianto. Noi, tanto per arrivare all'Italia stiamo un po' peggio. Non abbiamo avuto sul piano della storia politica le situazioni francesi né, tantomemo, tedesche. Neppure tangentopoli, in Europa, non ha avuto gli effetti che ha avuto in Italia. Fatto di costume, fatto storico, degenerazione particolare: non voglio addentrami in queste analisi. Fatto è che l'Italia nel fenomeno di tangentopoli è quella che ha avuto gli effetti più disgreganti.
Certo, c'è stata in Germania, Francia, Spagna e marginalmente in Portogallo, ma l'effetto più devastante, più disgregante è stato in Italia, dove, improvvisamente alla poca espressione della politica (gli anni 90 si concludono con una scarsa presenza della politica sulla scena) è arrivata la ventata destabilizzante (non voglio vedere da dove nasce né dove va in questa occasione, non mi interessa) che ha fatto sì che questa poca presenza venisse totalmente spazzata. Chiedo innanzitutto a me stesso chi doveva sostituire la politica per cercare il cosiddetto interesse generale cioè il bene comune? Lo ha fatto, a prescindere da come (se bene o se male attiene per ognuno agli impianti culturali che ha, alle analisi che compie, alle esperienze che ha maturato, per cui non voglio, qui, aggettivare) il sindacato e non poteva farlo che il sindacato nel momento stesso in cui in Italia la società si è evoluta, peraltro in parte in modo uguale ed in parte diverso da altri paesi.
E se ha un fondamento di verità (questo va analizzato meglio) il fatto che lo Stato, in qualche modo, debba riconsiderare se stesso, (non voglio dire qui in quale maniera, se smagrente o accrescitiva - c'è, comunque, una considerazione generale sul fatto che non debba essere così burocratico, pervasivo, frenante e così via) se in questa concezione il 70% delle prerogative di uno Stato risiedono in Europa e l'altro 30%, ha cominciato ad essere piuttosto palese il fatto di voler porre attenzione e dare significato alle specificità, che giustamente derivano dalla perdita di identità, la paura del futuro, il ritorno alle etnie, alle culture, il sangue, ma pure all'interesse. Io non voglio fare analisi sociologiche sul fatto del nord o nord-est, Bossi e così via. Però il nord è favorito perché fa parte dell'area centrale comunitaria che è meglio attrezzata, più organizzata, più fluida, meglio infrastrutturata e non c'è dubbio alcuno. La società: la società prima era di massa. C'era l'operaio, il sindacato agiva nell'ambito del concetto di massa perché la produzione era di massa e quindi automaticamente il Wellfare era di massa. Oggi parliamo di lavori parasubordinati.
Quando qualcuno si meraviglia perché le partite I.V.A. negli ultimi tre anni salgono a 8 milioni incrementando di 2 milioni e mezzo, non è perché improvvisamente tutti sono stati colti da questo spirito imprenditoriale , ne mancherebbero anche gli spazi per esercitare questa ventata di imprenditorialità, spazi e possibilità perché se la critica è carenza di infrastrutture, carenza di organizzazione e così via, mancherebbero, in realtà sono lavori subordinati, i cosiddetti lavori parasubordinati. Questi nell'ambito della ricerca, sempre più spinta, della flessibilità si caratterizzano automaticamente come consulenze coordinate e continuative. E' il mondo del lavoro che si sta evolvendo. Oggi il mondo del lavoro subordinato, fatti tutti i lavori cento, quello subordinato è il 38%. Ci sono 62% di lavori, che non sono come li conosciamo noi tradizionalmente, subordinati. Anche il sommerso ci riporta ad una serie di considerazioni sul fatto della perdita del senso dell'appartenenza ma pure della reciprocità.
Noi prima vedevano il sommerso ubicato in massima parte al sud e caratterizzato da lavoratori a bassa, a bassissima qualificazione. Oggi il sommerso è parimenti distribuito tra nord e sud ed è parimenti suddiviso tra lavoratori a bassa e bassissima qualificazione e lavoratori ad alta ed altissima qualificazione. Il fenomeno si aggrava perché sono questi ultimi che cercano una salvezza in una contrattazione individuale che non c'è, ma addirittura rifiutano il senso di responsabilità generale. Questo va ad aggravare ancor di più il fenomeno. Se questo è lo scenario, è stato detto che il sindacato ha mini respinte e visioni conservative o conservatrici e può essere anche vero, ma il sindacato si pone di fronte alla domanda (partendo dal fatto che il sindacato è tale, potendo essere più sensibile o possedere di più parti di un impianto culturale, ma fermo restando che nel suo modo di agire il primo aspetto da considerare sia quello di un'analisi comune dei problemi) di come deve porre, di come deve leggere la società. Certo non può non leggerne l'evoluzione né può non leggerne il fatto che la sola cura ed il solo interesse, il permanere dell'attenzione nel solo Stato nazionale non basta più. Come non basta più il concetto, un concetto spesso fine a sé stesso, di unità di un paese , di uno Stato. Allora come si fa a non considerare che oggi la scena internazionale è determinante (quasi in una forma contrastante con quella che è una impostazione tipica della destra).
Quando si parla, ad es. delle quote latte e la risposta è fare un piano agricolo nazionale, io posso dire che è un'ottima cosa e che indubbiamente a qualche cosa, forse, servirà, se non altro a compiere un'analisi puntuale di quelle che sono le esigenze del mondo agricolo nazionale, che sono esigenze tra le più disparate tra nord, centro e sud, e sono altresì differenti se le andiamo a rapportare con quello che è un paese vicino al nostro ma dalle caratteristiche agricole, a cominciare dalle dimensioni, la Francia. Allora se io penso di progettare una politica agricola nell'ambito nazionale io andrò poco lontano e non risolverò il problema delle quote latte. Le quote latte non sono un sistema articolato su premi e su punizioni, bensì appunto su quote, i premi e le punizioni sono la conseguenza. Il problema delle quote latte passa al cento per cento nella PAC, la politica agricola comunitaria ed io lì e solo lì devo agire e da nessun'altra parte. Poi posso calibrare gli effetti di quella politica sul territori nazionale nell'ambito di una visione politica degli effetti. Se io oggi voglio fare una politica di incentivazione degli investimenti al sud, che mancano, al di là della flessibilità che è fin troppa, devo pormi il problema di come favorire questi investimenti. Il sindacato è disponibile. Ma se corpo sociale è, se confederazione è se uno spaccato sociale è, se tra i suoi compiti rientra indubbiamente la tutela ma anche lo sviluppo, inteso nel senso di crescita economica, sociale e civile, morale dei suoi appartenenti e comunque del mondo del lavoro in senso lato, i non posso pensare di attuare un sistema disgregativo che faccia premio delle forze e penalizzi le debolezze perché pur vedendo le differenze devo concepire un percorso di graduale coesione. Altrimenti torno a ripetere che si disgrega il sistema.
Il sindacato è pronto e lo sa. Ha realizzato percorsi, itinerari, contesti, modi, perché la flessibilità della quale il sindacato ha piena consapevolezza circa la necessità, non sia fine a se stessa, cioè non diventi disgregatrice di quel poco di impianto di diritto del lavoro che è rimasto. Altrimenti siamo all'anarchia, ai rapporti di forza e non alla libertà come si diceva agli inizi di questo dibattito. Ah, ma se io voglio un attimo sconfinare, e si dovrebbe farlo e non continuare a picchiare sempre e soltanto in ordine alla flessibilità del lavoro, perché torno a ripetere che ce ne è fin troppa! Dai lavori a tempo parziale, ai salari di ingresso, alla flessibilità contrattata sui patti territoriali e sui contratti d'area e via e via e via. Ce ne è fin troppa! Ma semplicemente non si può impiegare, e difatti lo dimostrano i 140 patti territoriali sottoscritti che non ne è partito uno, ed i tre contratti d'area sottoscritti che non è partito uno, come non partiranno i tre contratti d'are in fieri, non potrà decollare perché mancano le ulteriori condizioni volti a richiamare gli investimenti, che da un lato si chiama carenza finanziaria, e non è colpa di nessuno se non del pregresso, se il mercato finanziario in Italia è asfittico. Noi abbiamo, mi dispiace dirlo, non vorrei che suoni d'offesa nei confronti dei capitalisti, non c'è offesa in questo, ma noi abbiamo un capitalismo che è d'accatto (), questo è il male, perché se ci fosse un capitalismo vero si potrebbe ragionare sulle prerogative, le possibilità, le modalità d'azione del capitale, ma non c'è.
Lo vediamo nelle privatizzazioni. Quando noi ragioniamo nei termini delle privatizzazioni e qualcuno dice: dobbiamo privatizzare tutto. No, il 50% è in mano allo Stato. No la golden share, no qui, no lì, tutto ai privati: Bene! Ma dove sono? Dove sono grandi investitori in Italia o grandi investitori in Europa. Gli unici investitori sono quelli che, in qualche modo, posseggono parte di quei mille miliardi di dollari, che possono anche convenzionalmente risiedere a Wall Street, ma non ha importanza, potrebbero stare al Kuala Lumpur, potrebbero stare nel Bangladesh, perché oggi con la globalizzazione finanziaria ed i l denaro elettronico si spostano milioni di dollari in un secondo da una parte all'altra del mondo, che importanza ha dove risiedono convenzionalmente? Automaticamente c'è una perdita di identità in tutti i sensi, compresa quella nazionale, alla quale non si contrappone, invece, una nuova vitalità della politica.
Il sindacato queste cose le analizza ed è pronto anche a fare la sua parte. Ma non vediamo, invece, una costruzione parallela, nel senso di coesistente, della politica. Da lì anche la confusione. Oggi la sinistra ha una visione conservatrice, invece una visione progressista la ha la destra. E poi altri illustri intervenuti hanno detto che in questa situazione si realizzano dei trasversalismi, si perdono, anzi s'accomunano alcune caratteristiche. Io credo, senza dare un enfasi, l'enfasi del passato, e senza tantomeno annettere a ciò che sto per dire i significati di un passato che per fortuna è passato e si sta pure perdendo nelle nebbie della memoria, ma io credo che in qualche modo occorra ricostruire soprattutto da parte di un movimento politico una ideologia, perché altrimenti tutto è contingente, altrimenti tutto è politico all'impronta, altrimenti non c'è la costruzione di un filone logico nel pensiero ed in conseguenza non c'è un andamento coerente nell'azione. Io lo vedo come necessità progettuale, cioè privandolo da tutte le enfasi che ha avuto, o che potrà avere, o che nell'ambito di un semplice dire gli si possa attribuire, invece sfoltendolo proprio, ma quantomeno di una impostazione ideologica. Se noi andiamo in un'Europa, torno a ripetere, priva di coesione sociale, economica, politica, che cosa pensiamo davvero di fare. Io sono convinto che una volta entrati in Europa, noi ci resteremo. Alcuni credono, c'entriamo, usciamo. Io sono convinto che ci resteremo Il problema non è quello di restarci o non restarci ma come ci resteremo. Quale sarà il ruolo dell'Italia?
Ovvero quale sarà il ruolo di una parte dell'Italia? Perché l'altra parte è già sistemata! Non voglio fare qui il discorso sud riguardo agli investimenti dei quali, peraltro, il sindacato si sta facendo carico perché è l'unico soggetto, a differenza della politica, che punta alla previdenza complementare come vitalizzazione o rivitalizzazione del mercato finanziario, puntando, ripeto, alla previdenza complementare e nell'ambito di un impianto normativo addirittura prevedere la finalizzazione di questa massa finanziaria verso investimenti nel mezzogiorno, per supplire all'asfitticità di questo mercato. Gradualità a fronte di una finalità. E se la è posta anche nell'ambito del sistema pensionistico al quale si accennava prima. Un sistema che è passato a ripartizione nel 1952, prima era capitalizzazione e contribuzione, nel 1952 gli investimenti possibili non riuscivano a competere con l'inflazione e quindi, necessariamente nel 1952 è passato a ripartizione. Poi, a fronte, nel 1969, di certe visioni culturali, è passato a retributivo. Oggi è ritornato a contributivo. Bene! Ma come si fa a fronte di un sistema del 1952, nel 1998 a pensare di passare a capitalizzazione. E' impossibile! Perché se il rapporto è 1.3/1, cioè un lavoratore punto tre regge un pensionato, una volta che si passa tutto il sistema a capitalizzazione chi paga le pensioni? Il problema è solo quello. Allora occorre un processo graduale. Tra le altre cose va data la previdenza complementare ma perché si realizzi ha bisogno della gradualità, del tempo, di una continuità e quindi della determinazione delle scelte politiche, non soltanto a consolidarlo, ma a realizzarlo il più velocemente possibile, che non ci sono! Non ci sono! Solo ed esclusivamente questo è il problema!
Ma se questo è il problema e noi dobbiamo giocare in Europa, ci si domanda a farci che cosa? Certo la identità nazionale è indubbiamente importante purché se ne trovi una. L'unità d'Italia per quanto importante possa essere stata e per come possa esprimere sicuramente un valore presente in tutti noi, il fatto di una unità d'Italia nata sulla scorta del Risorgimento non basta più. Occorre trovare altri valori ed altre motivazioni che rafforzino quello che è già presente nei nostri cuori, ma credo che occorra trovarlo. E se deve passare sulla valorizzazione delle specificità, cioè sul riconoscimento del diverso, per trovare un'unità, lo faccia! E questa è la prima considerazione finale. La seconda considerazione finale è: il concetto di destra e di sinistra, come è stato detto agli inizi, ha un che, oggi di relativo, perché mancando i vecchi impianti ideologici caratterizzanti, cioè chi sedeva a destra e chi sedeva a sinistra (io tra l'altro sapevo che accadde nella fase della Costituente nella Rivoluzione Francese ma, comunque, che sia poi accaduto in Germania ha poca rilevanza; c'era chi sedeva a destra e chi sedeva a sinistra) In Europa questi significati, quelli che noi ancora in qualche modo tendiamo ad analizzare, ad evolvere attraverso mille immagini, modi, tentativi, non ci sono! Non ci sono più! Certo il socialismo in qualche modo tiene ancora un significato ma ha assunto peraltro non una funzione conservatrice ma semmai una funzione propulsiva, se si cita Blair, perché Blair da laburista quindi socialista fa una politica squisitamente di destra, per come la conosciamo noi. Allora noi andiamo in Europa. Da soli? Forte di un'idea nazionale e di un valore di destra? E dove e? Con chi? Perché da soli non bastiamo. E di problemi d'Italia, sia essa nord, sia essa centro sud, nelle sue differenti profonde specificità e la risoluzione di queste stesse differenze passa là. E là, da soli, non bastiamo.
Il problema da parte di un movimento politico è quello di cercare di prefiggersi e se non c'è di costruire un fronte che si contrapponga. Oggi in Europa - non vi suoni strano, sappiate che la politica a volte è pure paradosso - una visione di sinistra, cosiddetta di sinistra è, scientemente, non scientemente, abbinata ad una visione liberista capitalista proveniente da oltre Atlantico. E' intimamente legata. Sarà per strategia politica, sarà per caso, ma è intimamente legata. Può apparire paradossale ma è così, come l'altra visione che c'è in Europa è quella che possiamo definire, sempre ricorrendo ad accezioni italiane trite e ritrite, cristiano sociale. Cioè quando si parla di un Aznar, in un governo di destra, destra perché in qualche modo ha dei presupposti politici di quella politica governativa che in qualche modo si richiamano a quella che noi conosciamo essere una cultura di destra, ma Aznar è un cristiano sociale non è un uomo di destra. I grandi filoni di pensiero e politici (non voglio creare immagini di schieramenti, non sono politologo) ma paradossalmente vedono una sinistra sostanzialmente alleata, sarà perché in qualche modo si deve contrapporre nello scenario comunitario ad un filone politico cristiano sociale, che va a cercare alleanze con una visione liberal capitalista. Ma così è. E questo è l'ultimo aspetto che noi dobbiamo considerare.
Certo la difesa dell'identità, l'interesse del paese o della nazione sono importanti, purché, credo, che su di essi si facciano un'analisi profonda ed esaustiva ed in conseguenza si vadano a determinare quelle linee strategiche che muovendo dalla conoscenza degli obiettivi si configurino all'interno di una, tra virgolette, 'ideologia', e nel contempo si sappia trovare insieme al senso della appartenenza, il senso della chiesa. Quello che nella sinistra si chiama apparato. La diversità delle componenti che, tuttavia, però, proprio per la loro diversità come l'Italia, realizzino il bene generale ovvero l'obiettivo unico.