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Il terzo è la possibilità di accedere ai beni necessari al mantenimento, al superfluo e al gioco. Questa possibilità è sempre stata un elemento catalizzatore, dai primi baratti con l’ambra o le conchiglie fino ai computer games. Oggi le vie dello shopping puntano sull’attrattiva esercitata da oggetti luccicanti e accattivanti, e il consumismo si trasforma facilmente in una sorta di droga. Eppure dovremmo sempre stare attenti a condannare il desiderio troppo umano di beni materiali (come ammonisce Auden, " di regola sono quelli che odiano il piacere a diventare ingiusti ").

Il quarto è l’ambiente. La qualità della vita dipende dalla qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, dagli alberi e dagli spazi aperti. L’umanità ha vissuto in una incredibile quantità di ambienti diversissimi. In ciascuno di essi ha trovato il modo di convivere con un ecosistema dato, dai cui cambiamenti e dalle cui trasformazioni diveniva acutamente dipendente. La nostra dipendenza dall’ambiente si è cristallizzata nelle religioni che ne hanno trasformato gli elementi in divinità, e oggi è tornata a far parte integrante della nostra definizione di vita buona.

Il quinto è l’anima. La dimensione spirituale della vita ha spesso comportato tensioni con i legami familiari e comunitari, e con l’attrattiva esercitata dalle cose materiali. Ma una concezione spirituale dell’universo, della connessione tra tutte le cose e del timore di fronte alla sua immensità, si è resa manifesta nelle chiese, nei templi o nelle moschee sorte nel cuore stesso di ciascuna comunità. Mentre altri fattori catalizzatori riguardano la complessità, la necessità di colmare la nostra vita di significato e di possedimenti, questo elemento profondo della vita buona riguarda la semplicità e i fondamentali.

Geoff Mulgan, " Timeless Values ", in I. Christie e L. Nash (a cura di), The Good Life, Demos 1998.

 

 

2. "…la dicotomia aridamente tradizionale tra due definizioni di vita buona, il perseguimento prudente del proprio interesse, per quanto illuminato, e l’impegno altruistico, dev’essere ripensata. Al di sopra del livello di soddisfazione delle necessità di base, qualunque ragionevole concezione della qualità della vita implica entrambe queste componenti. Nessuno ritiene che la vita del mangiatore di loto possa essere considerata una vita buona, se comporta un danno diretto agli altri .

Come minimo, le esigenze della virtù impongono restrizioni collaterali a qualunque definizione di qualità della vita, e le concezioni ragionevoli delle aspirazioni umane impongono determinati limiti a ciò che il senso del dovere può ragionevolmente esigere da noi. I santi sono coloro che non limitano la propria virtù a quello che sarebbe unicamente il loro dovere. Naturalmente, il proprio interesse e il senso morale entrano spesso in conflitto, il che è inevitabile. Ma non costituiscono due definizioni indipendenti e complete in sé, l’una separatamente dall’altra, di ciò che rappresenta una vita buona.

La vita buona, persino per i mangiatori di loto, non consiste esclusivamente nel perseguire le nostre preferenze egoistiche. Anche i mangiatori di loto hanno bisogno di una comunità di amici, e quando hanno dei figli, iniziano ad avere delle preferenze sul modo in cui gli altri genitori educano i bambini e giocheranno e cresceranno con i loro. Ciò significa che l’idea di una società organizzata in modo tale da lasciare ai singoli assoluta libertà nell’impostare la loro vita come meglio credono, è semplicemente irrealizzabile.

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Ci sono preferenze invadenti buone e cattive, e la società deve trovare il modo di filtrarle. D’altra parte, il paternalismo incontrollato, tramite il quale la società potrebbe imporre una concezione di vita buona sostenuta dallo stato, farebbe violenza alle idee di troppe persone, anche lasciando da parte la violazione della libertà altrui, che è male in sé. Come possiamo allora individuare i principi per un’organizzazione sociale che promuova la qualità della vita, ma che al contempo riconosca la pluralità di idee in merito, il loro intersecarsi le une con le altre e la possibilità di conflitto tra individui che perseguono idee differenti, che operi perché le violazioni della libertà siano ridotte al minimo e che sia capace di contenere il paternalismo entro confini accettabili? Partirò dall’interrogativo che si chiede in quale misura si possa affermare che i governi e le società hanno il dovere di operare per promuovere la capacità degli individui di perseguire una vita buona. La maggioranza delle persone accettano l’idea che una ragionevole misura di libertà e di autonomia sia il punto di partenza indispensabile per poter perseguire la propria concezione personale di qualità della vita, e per poter coltivare le virtù ( l’azione morale eseguita sotto costrizione non è quasi mai particolarmente lodevole: se così non fosse, tutti i contribuenti dovrebbero essere pubblicamente esaltati per la loro generosità ).

Nel tempo, la libertà e l’autonomia dei cittadini si sono grandemente sviluppate cercando di trovare un equilibrio con gli obblighi sociali. Vi sono delle libertà fondamentali che non possono, in alcuna concezione ragionevole della qualità della vita, essere barattate in modo sconsiderato: tra esse comprendiamo, una vasta misura di libertà di parola, di movimento, di organizzazione, di sicurezza della vita e della propria incolumità, il diritto a processi equi eccetera.inizio_pagina.gif (1503 byte)

Vi sono chiaramente alcune cose di importanza fondamentali che gli individui da soli non possono realizzare, ma che soltanto lo stato può garantire, e che stanno alla base di qualunque ragionevole concezione di una vita dignitosa. La garanzia della pace è sicuramente la più basilare di queste componenti e, dato che gli stati sono sorti proprio come strumento per finanziare le guerre, è anche una delle più difficili da realizzare. Gli sforzi individuali poi sono di solito troppo insignificanti per riuscire a prevenire o a minimizzare l’impatto delle grandi ondate di inflazione che investono le nostre società, devastando vite intere e annullando prospettive di felicità, e lasciando dietro di sé povertà e vulnerabilità alle malattie, portando con sé guerre e influenzando la cultura fino a farla ripiegare su se stessa, verso l’irrazionalismo e la cupa disperazione. Se l’inflazione non è sempre e ovunque un fenomeno monetario, la complessa varietà delle sue cause è così vasta che soltanto organismi che hanno le dimensioni, il potere e le risorse di uno stato possono sperare di arrestare in modo efficace i meccanismi che la scatenano o almeno di mitigarne gli effetti.

In una società in cui il lavoro retribuito (qualsiasi cosa si pensi riguardo ai meriti del lavoro non retribuito) è divenuto un elemento portante del modo in cui la maggior parte delle persone si costruisce il proprio progetto di vita, non stupisce che la disoccupazione sia una delle grandi cause della mancanza di realizzazione personale, dello smarrimento della propria identità e della mancanza di rispetto di sé, e infine delle malattie e dei suicidi. Pertanto tutto ciò che i governi possono fare non soltanto per ampliare le opportunità di occupazione e di soddisfazione per quanti hanno un posto di lavoro, ma anche per assicurare maggiori opportunità anche a chi non ha un impiego, deve essere sicuramente classificato come prioritario. Anche il cosiddetto tasso di disoccupazione " naturale " o " non-inflazionistico " può essere ridotto grazie a un’azione governativa a livello microeconomico che consenta ai cittadini di impiegare al meglio il proprio capitale umano e sociale. Ancora una volta, è chiaro che molti governi europei non stanno superando questa prova, dal momento che la disoccupazione ha raggiunto livelli spaventosamente elevati in molti paesi.

Non può esistere una risposta generale alla domanda sul punto di equilibrio tra una protezione eccessiva e una insufficiente contro il rischio. Entrambi gli estremi sono insostenibili, ma non è chiaro quale " media virtus " aristotelica sarebbe praticabile contro tutte le crisi che colpiscono le società. Pertanto, il ruolo delle fondamenta costituzionali, sulle quali individui e comunità costruiscono il loro tentativo di realizzare una vita buona, non è quello di precisare il livello di protezione, contrariamente a quanto sostengono le posizioni più diffuse nel centro destra neoliberale o nella sinistra statalista che sostiene l’idea del vecchio stato sociale. È invece quello di stabilire un procedimento decisionale democratico che sia giusto e legittimo, riguardo al livello di rischio accettabile e di protezione accettabile, al fine di garantire le basi sulle quali i cittadini possono cercare di realizzare la loro idea di vita buona: questo è infatti una questione di poteri del governo, più che di doveri del governo.

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Sarebbe difficile accettare come idea di una vita buona l’aspirazione a vivere in una comunità in cui le decisioni in merito al livello di protezione contro i rischi fondamentali non fossero prese in modo trasparente, senza che nessuno possa chiederne conto e senza che fossero aperte all’influenza della volontà popolare. Se è vero che molti cittadini possono essere deferenti, cinici, fatalisti, indifferenti, opportunistici o pigri riguardo al coinvolgimento nella vita pubblica o semplicemente attraversare un ciclo storico di rifiuto di tale coinvolgimento, nessuno aspira a fare di questi atteggiamenti un elemento integrante della propria concezione di una vita buona, se non con un senso di rassegnazione, interpretandolo come male minore rispetto a qualunque altro atteggiamento ritenuto in quel momento realizzabile. Il dovere del governo in questo campo allora non è unicamente quello di indire le elezioni, ma di rinnovarsi dando vita a nuove forme di apertura e di partecipazione, per sconfiggere la mentalità politica secondo cui " chi vince prende tutto ", che si riduce troppo spesso in termini di classe dirigente elitaria. Governare tramite le virtù democratiche è parte integrante e importante di un modo di governare che aiuti i cittadini a realizzare una vita dignitosa anche in quei settori in cui si rendono necessarie decisioni collettive, e anche se quelle decisioni collettive consistono in ultima analisi nell’individuare le responsabilità nella gestione dei rischi. Ci sono poi rischi ai quali le generazioni presenti stanno esponendo le generazioni future, per esempio lasciando loro in eredità un debito pubblico spaventoso, o danni irreversibili alle risorse ambientali che i nostri posteri in un prevedibile futuro, quali che possano essere le loro ragionevoli concezioni della qualità della vita, vorranno ma non potranno modificare ("cerca di lasciare questo posto come lo vorresti trovare"). In questi campi c’è chi sostiene che i governi dovrebbero assumersi alcuni doveri, anche se probabilmente non imposti dalle costituzioni, per proteggere le generazioni future dall’irresponsabilità con cui alcuni cittadini di oggi, consumatori, investitori e lavoratori, perseguono le loro idee di qualità della vita anche a spese, appunto, delle libertà individuali delle generazioni future ( azioni di governo da attuarsi purchè non si incida sulle libertà fondamentali, civili e politiche dei cittadini di oggi ). Se accettiamo l’idea di perseguire seriamente una vita buona, molte delle nostre ideologie politiche e delle opinioni più diffuse sulla società – costituzionalismo liberale, comunitarismo statalista fondato sullo stato sociale – dovranno essere messe in discussione, e sostituite da altre.

Né il moralismo estremo, che esige che la nostra felicità sia subordinata alla nostra virtù, né l’edonismo crasso che incoraggia il consumismo bovino, possono rappresentare un’accurata descrizione di ciò che le persone considerano indispensabile quando devono dare la loro definizione di vita buona.

Le linee di confine di ciò che può essere considerata un’idea accettabile di vita buona sono vastissime, ma ci consentono di escludere quelle esplicitamente malvagie, quelle improponibili perché nocive all’ambiente, quelle fondate sullo sfruttamento, quelle improntate alla volgarità o alla rassegnazione, senza con questo pretendere che tutti si facciano santi. Soltanto gli individui, i nuclei familiari e le comunità possono perseguire o vivere una vita buona. Ma ciò non significa che la società e i governi possano autoassolversi da ogni responsabilità nel mettere i loro cittadini nella condizione di realizzarla. Al contrario, quando prendiamo sul serio l’idea di una vita buona, l’obiettivo ultimo dei loro doveri e poteri principali è proprio questo. I governi hanno un ruolo positivo ma limitato. È un metro ragionevole per misurare la moralità di uno stato verificare che non faccia niente di meno e niente di più di ciò che è necessario per sviluppare e sostenere le capacità dei propri cittadini che vogliono perseguire qualsiasi idea essi coltivino, purché ragionevole, di una vita buona.

 

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