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  Per la realizzazione di questa pagina si ringrazia il dott. M. Melis per la cortese collaborazione.

 

I rapporti di lavoro subordinato erano quelli più importanti e prevalenti, soprattutto tra messaius mannus e contadini privi di terra e di altri mezzi di produzione, ma anche tra messaieddus e questi ultimi. Questi rapporti di lavoro erano prevalentemente di tre tipi standard:

1) a durata annuale, 2) a durata stagionale, 3) a durata giornaliera o estemporanea.

 

Rapporti a contratto annuale.

 

"Il rapporto durava un anno solare, a partire, di solito, dall'inizio di settembre, e si stipulava tra proprietario (meri) e lavoratori detti serbidoris (servitori), gerarchizzati secondo una scala che ne prestabiliva la carriera. Al vertice della scala gerarchica stava il sotsu, servo capo, seguito dal bastanti mannu, quindi dal bastanteddu dal boinargiu (bovaro), dal boinargeddu (giovane bovaro). Non in tutte le aziende che impiegavano mano d'opera a contratto annuale era presente tutta la gerarchia. Poteva anche esserci solo il sotsu, oppure il sotsu e un altro serbidori che si dividevano i compiti. Nelle aziende in cui era presente l'intera gerarchia, mentre sotsu e bastanti mannu erano unici, gli altri serbidoris potevano essere in numero molto variabile, a seconda della grandezza dell' azienda e delle scelte del padrone, che poteva preferire la mano d'opera salariata avventizia oppure il siste ma tradizionale di "compartecipanti" a contratto annuale. La gerarchia si basava sulla capacità dei vari serbidoris, che di solito coincideva anche con l'esperienza acquisita con l'età. Di solito la promozione avveniva cambiando padrone, perché per passare a un grado superiore bisognava aspettarne la vacanza. Il boinargiu era sempre un ragazzo sui diciotto anni, mentre il boinargeddu era un adolescente dai dieci ai diciassette anni. Erano questi i principianti della carriera servile. Le mansioni cui erano addetti i serbidoris erano quelle del disbrigo delle faccende domestiche direttamente legate all'agricoltura (di cui la principale era quella di accudire agli animali da lavoro) e quelle concernenti tutti i lavori agricoli in campagna e nell'aia. Non esisteva una divisione netta di compiti (o almeno non esisteva più in questo periodo), tuttavia certe mansioni spettavano di norma all'uno o all'altro dei serbidoris. Le funzioni di comando, che il padrone non si riservava personalmente o non demandava a qualcuno dei suoi familiari, competevano al sotsu e, in sua assenza, al bastanti mannu. La cura del bestiame da lavoro spettava in prevalenza al boinargu o boinargeddu. Chi nella scala gerarchica occupava un posto qualsiasi poteva dare ordini e direttive a chi ne occupava uno più basso. E'  ammissione comune che la situazione dei ragazzi inquadrati come boinargius e boinargeddus fosse la più dura. Durante le varie fasi di lavoro in campagna o nelle aie, ogni serbidori aveva di solito delle mansioni specifiche, anche se all'occorrenza partecipava allo svolgimento di tutte le altre. Ma la descrizione delle varie mansioni e competenze richiederebbe molto spazio (e varrebbe la pena occuparsene), perché si trattava di una faccenda rigidamente formalizzata nei minimi particolari.

 

Tutti i serbidoris venivano pagati con una parte fissa in danaro e con una parte in natura, variabile a seconda del grado. La parte in danaro ammontava a circa 200 lire negli anni intorno alla prima guerra mondiale, a. 300 lire nel 1930, a 475 lire nel 1940. La parte "in natura" comprendeva un tanto di "grano seminato", variabile a seconda del grado ricoperto nella gerarchia: di solito da un massimo di due quintali spettanti al sotsu si arrivava a un minimo di uno spettante al boinargeddu. E' necessario spiegare che cosa significava essere retribuiti con una certa quantità di "grano seminato". Al serbidori spettava un tanto di grano corrispondente alla rendita complessiva dell'annata: se la rendita complessiva dell'annata era stata del 15 per uno (quindici quintali per ogni quintale seminato) , al sotsu spettavano nel caso che gli spettassero due quintali di "grano seminato",trenta quintali, mentre al boinargeddu ne spettavano quindici quintali. A ciascuno spettava anche, ma in misura variabile, della legna da ardere e alcune altre cose che dipendevano dal tipo di colture e dal tipo di azienda. Il padrone aveva cura di scontare, dalla remunerazione i danni arrecati dai serbidoris agli attrezzi, agli animali, alle colture. I serbidoris avevano interesse a servire presso padroni che possedessero terreni buoni, poichè la parte più importante della loro retribuzione era quella consistente in "grano seminato". Man mano che si risale indietro nel tempo, risulta che i lavoratori di questo tipo erano direttamente legati alle condizioni della produzione. Ancora nei primi anni del se colo (e a volte anche in seguito) il padrone forniva ai serbidoris il vitto e l'alloggio e il compenso consisteva solo in natura, in relazione alla rendita dell'intera azienda. Fino agli anni sessanta, comunque, vigeva l'uso che i serbidoris pernottassero in casa del padrone. E fino a quest' epoca il padrone forniva ai suoi servi il nutrimento per quei pasti che si consumavano in campagna, che consistevano di pane, a volte accompagnato da formaggio e da un po' di vino del più scadente. Le serve domestiche provvedevano ogni sera a preparare la razione di pane spettante a ogni servo di campagna. Alle ore ventuno di solito, se i servi non avevano cenato in casa del padrone, dovevano rientrare presso la casa padronale e dormire in uno stanzone apposito, che serviva anche da deposito per gli attrezzi. Essi dormivano su stuoie di erbe palustri,tutti insieme,in modo che verso le due del mattino fossero tutti presenti per incominciare la nuova giornata di fatica, che durava fino al tramonto per le opere campestri, e fino a notte inoltrata per altri lavori "domestici" come quelli da dedicare al bestiame da lavoro. Solo il sotsu, se era sposato, aveva il privilegio di passare la notte tra il sabato e la domenica in casa sua. Gli altri serbidoris, di regola, erano tenuti a non assentarsi mai di notte da casa del padrone. Naturalmente l'osservanza rigida di questa norma dipendeva dalla "magnanimità" del padrone, il quale, di solito,soprattutto man mano che ci si avvicina alla metà del secolo, concedeva "libera uscita" ogni tanto soprattutto al sotsu e al bastanti mannu. Non era però raro che i servi si organizzassero per stabilire dei turni di "fuga", con precedenza per quelli sposati.

L'impiego di dipendenti a contratto annuale, con retribuzione in natura, era piuttosto limitato,in rapporto al numero degli addetti fissi all'attività agricola, ed è andato via via diminuendo fino a cessare quasi del tutto dopo gli anni cinquanta.

Si può quindi calcolare che gli altri lavoratori dipendenti a contratto giornaliero fossero vicino al migliaio. La percentuale dei serbidoris, rispetto a tutti gli altri lavoratori subordinati, era in media, negli anni '20 e '30, per l'intera zona di circa il 6%. Di solito si trattava di giovani non sposati, con eccezione dei due gradi più alti della gerarchia. Il resto dei dipendenti subordinati (cioè la maggioranza dei contadini) trovava impiego soprattutto come giornalieri, in piccola misura come impiegati stagionali e potevano perciò restare disoccupati per lunghi periodi. Anche i lavoratori dipendenti non annuali,perciò, cercavano di ottenere dei terreni da coltivare con la forma di contratto a mes'a pari, provvedendo a tutta la mano d'opera impiegabile con. soli strumenti a forza umana mediante il lavoro di tutti i membri validi della famiglia.

Infine, un osservazione generale. Pare evidente che questa forma di acquisto di forza di lavoro a contratto annuale è una sopravvivenza riadattata di forme di conduzione agricola di tipo pre - feudale e feudale. Anche se è assai lontana da ogni forma di servaggio, essa permetteva al padrone di servirsi delle capacità e della forza lavoro dei serbidoris in qualsiasi momento dei trecentosessantacinque giorni dell'anno e in pratica si trattava di una certa forma di capitale fisso, quantunque giuridicamente il dipendente annuale fosse libero di rompere il contratto prima della sua scadenza. In pratica però ciò non accadeva e non era nemmeno previsto che accadesse. Come non era previsto che il serbidori potesse disporre, senza beneplacito, in qualsiasi forma, del l'impiego del suo tempo".

 

 

 

RAPPORTI A CONTRATTO STAGIONALE

 

"Questi rapporti di lavoro si stipulano in momenti

di emergenza durante l'annata agraria. Il momento di emergenza più importante è quello che coincide col periodo della maturazione e del raccolto dei frutti. A contratto stagionale si assumevano perciò i guardiani di alcune colture specializzate (vigneti, mandorleti, uliveti, piccoli appezzamenti dove d'estate si coltivavano ortaggi) e i mietitori.

 

I guardiani di queste colture arboree e degli orti, che si coltivavano d'estate in terreni irrigui vicini all'abitato, dovevano risiedere giorno e notte nella zona da custodire, dimorando in un rifugio temporaneo costruito con legname e frasche. Il contratto si stipulava tra uno che si offriva come guardiano e vari proprietari di simili colture,che solitamente erano radunate in zone omogenee, pur appartenendo a diversi proprietari, appunto in vista della custodia durante il periodo della maturazione dei frutti. Il compenso al guardiano, cui ogni proprietario concorreva proporzionalmente in ragione dell' estensione del suo fondo, all'inizio del secolo era prevalentemente in natura, più recentemente in denaro.

 

Esisteva d'estate anche un guardiano delle aie comuni, dove si trebbiavano e si spagliavano cereali e leguminose. Esistevano infatti delle aree adibite a questo scopo ai margini dell'abitato, per l'uso delle quali ogni agricoltore pagava un canone d'affitto, in ragione della quantità di cereali che vi depositava, al proprietario del terreno adibito ad aia comune. Anche questo guardiano abitava giorno e notte in una dimora temporanea simile a quella degli altri guardiani.

 

Egli aiutava un po’ tutti durante le varie fasi dei lavori nell'aia. Non si stipulava con lui un contratto, ma si retribuiva in natura con una donazione detta notsu: i vari utenti dell'aia, cioè, al momento di portar via dall'aia i vari cereali e legumi spagliati, ne offrivano al guardiano una certa quantità che la tradizione regolava a seconda della quantità custodita, ma dipendeva anche dalla generosità di ciascuno. Col termine notsu si indicava tutta una serie di donazioni con cui si ricompensava, simbolicamente o di fatto, una certa prestazione, ricompensa o donazione cui si era sì obbligati, ma che dipendeva in certa parte dalla generosità del donatore.

 

Durante i grandi lavori estivi della mietitura, della trebbiatura e dell'immagazzinamento, sia i messaius mannus che i messaieddus dovevano ingaggiare Don contratto detto a skarada (questi mietitori erano detti skaraderis) . Ogni skaraderi doveva provvedere agli attrezzi da taglio che egli stesso usava e al tipo di vestiti adatti alla bisogna. Il compenso consisteva di solito nel dividere fra tutti gli skaraderis tanto grano (o il valore corrispettivo in denaro) quanto era stato quello seminato e il cui frutto veniva da essi mietuto. Il padrone forniva a questi mietitori il vitto giornaliero, compresa la cena, perché di solito si pernottava in campagna per l'intera settimana, soprattutto per risparmiare il tempo che si sarebbe impiegato negli spostamenti. La stagione estiva permetteva del resto il pernottamento all'aperto (si ricordi che qui non esistevano le case coloniche) . Ogni skaraderi aveva il diritto di portarsi dietro una spigolatrice (che di solito era sua moglie, o fidanzata, o figliola o sorella), che però era obbligata a fare certi lavori (come caricare i covoni sui carri e portare bevande ai mietitori) e a partecipare alle opere sull'aia, lavoro per il quale di solito era ricompensata con notsu in natura.

 

Quando la spigolatrice non era un parente dello skaraderi, era obbligata a versargli, al termine del raccolto, una certa quantità di grano, di solito circa 25 chilogrammi.

 

Verso la metà del secolo erano però più numerosi quei mietitori che preferivano lavorare a giornata. Siccome in questa zona, nel periodo della mietitura c'era lavoro sovrabbondante per tutti, risultava più facile far valere le proprie ragioni nel contrattare la paga giornaliera col padrone delle messi. L'ingaggio a skarada prevedeva invece un compenso forfetario e il lavoro fatto così a cottimo, a seconda della agibilità del terreno, poteva risultare non ben retribuito, in rapporto alla fatica effettiva.

 

RAPPORTI A CONTRATTO GIORNALIERO

 

"Man mano che si risale dagli inizi del secolo verso gli anni 50, diminuisce il numero dei dipendenti a contratto annuale e aumenta quello dei lavoratori avventizi a giornata. Almeno dopo il 1900, questa categoria di contadini era certamente la maggioranza delle persone attive nella zona.

 

I lavoratori giornalieri erano tenuti ad usare attrezzi di loro proprietà. Infatti essi venivano ingaggiati solo per lavori che richiedevano l'uso di attrezzi a sola forza umana o non ne richiedevano affatto.

 

Trovavano lavoro soprattutto nel periodo della zappatura (inverno - primavera), dell' estirpatura delle leguminose (fine primavera) e della mietitura. Vi erano quindi lunghi periodi di disoccupazione e di sottoccupazione che duravano in media circa quattro mesi all'anno, ma a volte anche cinque o sei mesi. Un modo per rimediare alla fame cronica conseguente ai lunghi periodi di disoccupazione era quello di riuscire a farsi assegnare da messaius mannus dei terreni da coltivare a mes'a pari, provvedendo a tutta la mano d'opera a forza umana. Venivano pagati in moneta una volta la settimana, il sabato sera o la domenica mattina. La loro giornata lavorativa andava dall'alba al tramonto. I giornalieri potevano essere maschi o femmine, ma, mentre i maschi partecipavano a tutte le fasi lavorative in cui o non si usavano attrezzi (diserbamento, estirpatura) , o se ne usavano a sola forza umana (zappatuttura, mietitura, spagliatura), alle donne erano riservati solo certi tipi di lavoro: zappatura, diserbamento, diradamento, cernita delle sementi, estirpatura delle leguminose, semina delle leguminose (ma non del grano) . Di solito le donne ricevevano un compenso inferiore di circa la metà a quello concesso ai maschi.

 

Questi lavori non avevano nessun potere contrattuale verso i loro padroni, essendo il loro lavoro "libero" sovrabbondante, fossero o non fossero degli specialisti. Non interferivano mai nello stabilire il salario giornaliero e dovevano fidarsi dell'onestà di chi faceva loro la grazia di ingaggiarli. Essi si trovavano a volte in gran numero ogni mattina all'alba presso le case dei messaius mannus nella speranza di avere una giornata di lavoro. Un espediente per rimediare qualche giornata con più probabilità era quello di stringere con messaius mannus dei rapporti di comparatico, che era difficile rifiutare, chiedendo loro di tenere a battesimo o a cresima i loro figli. La tradizione vuole che il compare non potesse, senza recare grave offesa, rifiutare, potendo, un favore al compare che chiedeva lavoro. Ma non era detto che la cosa funzionasse sempre.

Non c'è mai stato qui un vero e proprio "mercato delle braccia", almeno non nella forma in uso in altre zone del mezzogiorno italiano.

 

In pratica, comunque, i messaius mannus avevano larga possibilità sia di scelta che di imporre salari bassi, esistendo per la maggior parte dell'anno una massa di disoccupati. E' tradizione secolare, del resto, che il salario giornaliero venga, in questa zona, imposto dall' acquirente della forza lavoro...

Tali forme contrattuali, attualmente, vanno praticandosi sempre meno e lasciano spazio a nuove iniziative di lavoro per soddisfare la diminuita percentuale di popolazione attiva nel settore agricolo. La causa di questa diminuzione della popolazione e della trasformazione contrattuale va ricercata nei progressi tecnologici, evidenziatisi anche in questo settore e nelle nuove aperture mentali della classe lavoratrice, che attraverso i sindacati, la stampa e la televisione ha recepito per sé nuove funzioni e nuovi atteggiamenti.

 

In un dinamismo così articolato va caratterizzandosi la figura dell'esclusivo prestatore d'opera, quella del proprietario coltivatore che aderisce a forme associative efficaci, come le cooperative, la grande azienda che riassume gli intenti e gli interessi dell'imprenditore industriale ed infine quella del grande proprietario, che nel passato si limitava alla monocoltura, ma che oggi ha recepito non solo l'aggiornamento tecnologico, ma anche il concetto di policoltura in adeguamento alle necessità del momento. Crediamo che l'attuale momento socio - economico si possa considerare transitorio, in quanto la migrazione della popolazione verso altri settori è avvenuta con spostamenti troppo drastici e disordinati ed il progresso tecnologico ha evidenziato costi rilevanti non facilmente acquisibili da una popolazione che è rimasta prevalentemente rurale e con redditi modesti.

 

Consideriamo di transizione il momento anche perché fenomeni come quello della cooperazione in forme aggiornate vanno diffondendosi, anche se lentamente, per la scarsezza e peculiarità di tradizione cooperativistica e per la completa assenza nel mondo della scuola di indirizzi in questo senso.

 

[da: "edilizia e manifattura domestica in Trexenta" (1900-1960) M.Melis]

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