Un altro fatto evidente è al versetto
Gv 1,14 si passa dal singolare di terza persona ad un plurale di prima persona:
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi
vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di
verità (...) Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”.
C'è una sottolineatura su un plurale “noi tutti”, ma chi sono costoro? Il
testo è stato rielaborato, e il noi è proprio dell'assemblea liturgica, è il noi dei
singoli cristiani che si trovano a vivere insieme, è il noi della chiesa giovannea.
Anche nel prologo della lettera agli Efesini c'è una benedizione tipica
della liturgia sinagogale, in cui si esprime, dopo aver preso coscienza di quello
che Dio dà, una specie di lode e benedizione di ritorno; è una specie di inno
liturgico celebrativo.
Lo stesso vale per le formule di fede diffuse nell'epistolario paolino, cioè dei
piccoli “Credo” che l'assemblea esprime insieme. Bastano questi esempi.
Troviamo in tutto il “corpo paolino” un'abbondanza rilevante di inni, a volte
allo stato puro, altre volte rielaborati (è il caso dell'inno cristologico di Filippesi, formule di fede espressione della fede della comunità; tanto basta per dirci
che nell'epistolario paolino è presente e in qualche maniera attiva il gruppo, il
noi della comunità ecclesiale, al punto che c'è una certa pendolarità. Paolo
quando scrive indirizza il suo scritto espressamente all'assemblea liturgica, e lo
abbiamo visto nella prima Lettera ai Tessalonicesi (Cfr. lTs 5, 27).
Le sue lettere venivano lette nelle assemblee, ma non è presente solo un passaggio da Paolo all'assemblea liturgica, ma anche c'è un passaggio dall'assemblea liturgica a Paolo; nel senso che Paolo condivide l'esperienza
dell'assemblea liturgica, la prende, la fa sua e quando nel caso di Fil 2 sembra
riprendere un inno prepaolino, semplicemente Paolo riprende un inno dall'uso
liturgico di una Chiesa che ha fondato lui e lo fa suo condividendo l'esperienza
liturgica dell'assemblea e se ne arricchisce.
Questo è il terzo livello della fede in Paolo, cioè quando appare come
soggetto della fede in Paolo non soltanto la singola persona, ma la singola
persona accanto ad altre persone che già credono in un atteggiamento di
condivi-sione e comunicazione.
C'è un salto qualitativo, una esplosione nuova di
contenuto che si esprime sia negli inni sia nelle cosiddette formule di fede.
C'è un quarto livello di fede, che possiamo chiamare missionario: quando
una comunità come quella di Antiochia, ha maturato la fede ai tre livelli appena
descritti, avverte una comunicazione ulteriore, non solo uno scambio all'interno
della comunità, ma una proposta a coloro che non hanno mai sentito parlare di
questi valori. Si va a portare agli altri un contenuto di fede che già si possiede.
Da questo possiamo vedere alcune caratteristiche importanti di questa
comunicazione di fede: La fede deve essere annunciata, chi annuncerà il
vangelo? dice Paolo. Anche l'annuncio del vangelo fatto dalla comunità e da
Paolo è un esercizio della fede al quarto livello.
Da questo si capisce una
qualche configurazione della missione, cioè la missione non è propaganda, non è una specie di aggregazione fanatica, dobbiamo portare quanta più gente
possibile, e neppure di una propaganda teolo-gica; la spinta per la missione è
una spinta di condivisione e di amore: ho una ricchezza bellissima e non la
voglio tenere per me e la comunico agli altri; lo stesso Paolo dice che l'amore di
Cristo fa pressione in noi.
La condivisione missionaria di Paolo la troviamo a
partire da Atti degli Apostoli al capitolo 9 in poi: questa non è una biografia di
Paolo, ma è una interpretazione, è la figura di Paolo vista come la punta di
diamante della Chiesa missionaria in atteggiamento di missione.
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