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15
settembre 2002
Donne Palestinesi a Gaza.
Intervista a Mariangela Barbieri
di Mary Nicotra
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In occasione del Laboratorio di Mediazione Interculturale
'Genere, Individualità, Cultura' che si è svolto a Prato a fine agosto, ho avuto modo di
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ascoltare la relazione di Mariangela Barbieri sul
Women Emporwentent Project di Gaza.
Un progetto che ci ha avvicinate, anche attraversol e immagini di un
filmato, alle donne di Gaza, alla loro sofferenza e al progressivo
processo di empowerment che è stato reso possibile dal progetto.
Mariangela Barbieri è interessata alla comunicazione e alla
didattica. Ha lavorato negli anni '80 e '90 in progetti di
cooperazione internazionale (in Bolivia, Kenia, Palestina e
Vietnam). Ha realizzato documentari e reportages sulle problematiche
femminili nei paesi in via di sviluppo.
Vive e lavora attualmente a Ferrara.
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Collabora con Organizzazioni non Governative
fra cui
l'associazione C.I.S.S. (Cooperazione Internazionale Sud Sud) di
Palermo per la quale ha partecipato al Women Empowerment Project di
Gaza.
Ci ha gentilmente concesso un'intervista per condividere anche con
noi la sua esperienza.
Ci parli del Women Empowerment Project?
Il WEP, "Women's Empowerment Project", nasce
dall'esperienza del Centro di Salute Mentale Comunitaria di Gaza.
Questo centro si occupa in particolare degli effetti
psico-patologici generati dalla impossibilità di difendersi dalla
violenza e dalla negazione quotidiana di diritti umani fondamentali.
L'esperienza pluriennale del Dr. Eyad Al Sarraj e del suo staff ha
dimostrato che proprio le donne e i bambini sono il bersaglio più
fragile della violenza e dell'oppressione, in un tessuto sociale
ormai allo stremo.
Il WEP si fonda sull'idea che la terapia medica debba scorrere
insieme alla riappropriazione, da parte delle donne, di spazi,
tempi, istruzione e formazione, con il loro inserimento in un
contesto sociale ed economico più solido di quello che ha dato
origine ai loro problemi e con tutta una serie di strategie di
approccio alle fonti inconsapevoli di quei problemi: la famiglia, la
comunità, la scuola…
Le donne che si rivolgono al Programma provengono dai campi profughi
di Gaza, Khan Yunis e Rafah; molte di loro sono reduci da matrimoni
precoci e maltrattamenti familiari; alcune sono state detenute - o
sono madri, mogli, sorelle, figlie di detenuti - nelle prigioni
israeliane.
Altre hanno avuto in famiglia, o sono state esse stesse,
collaborators (confidenti degli israeliani): esistono molti studi
interamente dedicati alle molteplici conseguenze mentali e sociali
che colpiscono i collaborazionisti e le loro famiglie.
Tutte vivono in povertà, aggravata di volta in volta da una
situazione politica incerta e cadenzata dalle ricorrenti closures
israeliane dei territori cosiddetti dell'Autonomia Palestinese.
Il WEP inserisce le giovani donne in contesti formativi e didattici
per restituire loro il percorso educativo a volte mai iniziato, a
volte bruscamente interrotto per ragioni diverse, quali il
matrimonio in età scolare o la chiusura continuata delle scuole
negli anni dell'Intifada.
Proprio in quegli anni, in questa Regione, il lavoro di associazioni
come il WEP e tante altre, ha cercato di far fronte all'assenza di
uno Stato palestinese, accumulando dati ed esperienze oggi preziosi
nel difficile cammino verso la pace e la ricostruzione.
Che cosa è stato realizzato?
Un progetto di cooperazione con il WEP, promosso dal CISS, con il
finanziamento dell'Unione Europea. Sono stati attrezzati un
laboratorio di video-produzione e montaggio ed una camera oscura;
sono stati realizzati trimestri di formazione per circa duecento
donne provenienti dai campi profughi disseminati in tutta le
Regione. Il laboratorio Video-Fotografico è diventato un punto di
riferimento a Gaza ed ha aperto nuovi piccoli spiragli sul mercato
del lavoro per le donne. Durante i corsi di formazione sono state
realizzate le fotografie che compongono la mostra itinerante
"Gaza Portraits/Sguardi di donne su Gaza", ed un
video-documentario, "Ana Min Al Majdal".
Il video racconta la storia di alcune di loro?
Le fotografie raccontano il campo, la strada, i vecchi e i bambini
che li abitano. Il Video, Ana Min Al Majdal, è la realizzazione
collettiva di un unico racconto che si ripete: parla di un posto
lasciato molti anni prima, forse mai conosciuto e diventato ormai
mitico; parla della vita in un campo profughi ormai vissuto come la
propria patria. E' un parlare al femminile. Le fotografie e il video
hanno potuto fare ciò che nessuna delle fotografe che le ha
realizzate ha mai potuto: varcare il check-point che divide la
"Striscia" dal resto del mondo, e parlare della vita delle
donne di Gaza.
Cosa ha dato origine al Photo-Video Project ?
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L'idea di creare un laboratorio di fotografia e di video-produzione,
nasceva da una serie di riflessioni e di esperienze personali
nell'ambito di progetti di cooperazione internazionale.
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Lavorare in realtà difficili quale quella dei territori
dell'autonomia palestinese significa scontrarsi quotidianamente con
i bisogni fondamentali della gente: cibo, acqua, spazi salubri,
ospedali, scuole… Gli interventi di cooperazione privilegiano
quindi questi aspetti considerati vitali e prioritari soprattutto
per le donne.
Eppure, come sempre e forse più che altrove, conoscendo più a
fondo le donne percepivo una loro necessità meno emergenziale,
forse, ma comunque vitale: condividere, raccontare, esprimere la
propria condizione, parlare e descrivere. Io stessa sentivo
l'urgenza di testimoniare, ma quasi sempre avvertivo il mio racconto
come una interpretazione parziale e occidentale di quanto vedevo. In
troppe occasioni avevo giudicato aggressivi e prevaricanti quei
giornalisti in cerca di storie forti e intriganti che sarebbero
ripartiti la sera stessa, o il giorno dopo, con le loro
attrezzatissime troupes.
Bisognava allora che proprio l'oggetto di tanta attenzione mediatica
si appropriasse di altri strumenti di comunicazione. Le potenzialità
del connubio fra il mondo femminile e la riproduzione dell'immagine
di Gaza dal punto di vista delle donne sono diventate,
letteralmente, l'obiettivo del Photo-Video Training del "Womens'
Empowerment Project " di Gaza. Per le donne palestinesi si
trattava di entrare in domìni tradizionalmente maschili, anche
perchè la riproduzione delle sembianze umane è per la religione
islamica un atto sacrilego e irriverente, particolarmente precluso
alle donne. Una donna per strada con una telecamera o una macchina
fotografica attira gli sguardi, e ciò è considerato disdicevole,
ma nessuna di noi intendeva offendere la religione. Jamalat, una
delle partecipanti intervistate, motivava così il suo
interesse:
-Ho imparato fotografia e video qui al centro.Qui ho imparato come
mostrare alla gente la vita del popolo palestinese. So che la
religione islamica non approva, ma se noi non impariamo ad usare la
telecamera e la fotografia, le nostre immagini non potranno parlare
del popolo palestinese. Abbiamo un mucchio di cose da dire, ma
spesso non possiamo dirle. Le nostre immagini possono esprimere
queste cose meglio di noi -.
Il progetto è stato realizzato alla fine degli anni novanta,
avete notizie di queste donne oggi?
Da molto tempo non riusciamo ad avere notizie delle compagne di
lavoro al WEP. Sono certa che tutte stanno lavorando per cercare di
far fronte alle difficoltà di questa nuova occupazione ed alla
demolizione di quanto era stato, faticosamente, ricostruito. Temo
che manchino i liquidi di sviluppo e la carta per le foto, e che il
susseguirsi di stati d'allerta e di bombe costringa gli abitanti di
Gaza ad occuparsi dell'ennesima emergenza, senza uno spazio e un
tempo per raccontarsi.
Mary Nicotra
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