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in collaborazione con
 



Conoscere la Cina


Per una serie di fortunate coincidenze, siamo riusciti ad ottenere, dopo ricerche laboriose, una serie di articoli scritti da Vincenzo Tusa per l'Ora di Palermo al suo ritorno dal viaggio in Cina nel 1973.

Vincenzo Tusa, che ha ricoperto l'incarico di Soprintendente alle antichità della Sicilia occidentale e la cattedra di Antichità puniche presso l'Università di Palermo è socio ordinario dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo, vicepresidente della Società siciliana per la storia patria, membro ordinario dell'Istituto archeologico germanico, socio nazionale dell'Accademia nazionale dei Lincei oltre che membro del Comitato d'onore dell'Associazione Italia-Cina.

Con vivo piacere, ne riproduciamo la serie, con il permesso dell'autore.

 


IL MIO INCONTRO CON LA CINA
di Vincenzo Tusa
in "L'Ora", quotidiano di Palermo, 1973
parte prima

E’ la prima volta che un archeologo italiano visita quell’immenso paese – La preparazione al viaggio e l’emozionante arrivo a Pechino – La spettacolare visione all’uscita dell’aeroporto: un’enorme distesa di verde – La visita alla "Porta della pace celeste" – Di notte a zonzo per la città

Recensendo il bel libro di Costantino Caldo (La terra e l’uomo in Cina, ed. Flaccovio, Palermo, 1973) sulle colonne di questo stesso giornale, Franco Micale ha scritto "che il merito di Caldo è quello di riuscire a offrire una visione molto ravvicinata, e pertanto una immagine viva, di questa realtà per noi in genere più remota di quanto non giustifichi la distanza".

Quel che dice Micale è assolutamente vero: sembra un paradosso ma, per quanto mi consta, ho l’impressione che ancora oggi si senta più vicina la luna che la Cina. Se così è, ovviamente non può essere la distanza la causa prima di questa situazione: piuttosto il motivo profondo è da ricercare in una certa interessata propaganda che qui sarebbe troppo lungo indagare ma che poggia le proprie basi sugli interessi capitalistici in Cina prima che, nel 1949, il Partito comunista prendesse il potere, sulla propaganda fascista ("pericolo giallo") certo non estranea agli interessi capitalistici e "last but not least", la azione della Chiesa cattolica attraverso i propri missionari, non completamente immune dagli interessi che facevano capo alle due componenti sopra specificate.

Tutto questo ha prodotto, a mio giudizio, una mancata conoscenza della Cina e quindi questo senso di lontananza. Io ritengo invece che sia dovere dei cittadini di qualsiasi continente conoscere quanto più possibile la Cina non solo perché costituisce un quarto dell’umanità ma perché si è realizzata in quel paese, ed ancora sotto certi aspetti, è in fase di realizzazione, una trasformazione dei rapporti umani basata sul marxismo di cui tutti abbiamo il dovere di renderci conto: e questo a prescindere dall’interesse che ognuno di noi dovrebbe sentire, di conoscere i propri simili.

Appunto per favorire questa conoscenza dirò del mio recente viaggio in Cina, trascrivendo quasi fedelmente i miei taccuini di viaggio, con l’intento di rendere "immediate" e quindi più percepibili e più proficue, le mie note.

Quando per la prima volta, qualche mese fa Giorgio Colajanni (a nome dell’Associazione Italia-Cina) mi parlò di un mio eventuale viaggio in Cina la mia prima reazione non fu di sorpresa o di euforia, come forse si potrebbe pensare, ma piuttosto di riflessione: capii subito che si trattava di un fatto di grandissima importanza per me, altrettanto capii che per un viaggio simile bisognava essere preparati.

Chiesi allora un po’ di tempo per decidere se andare o meno, non solo e non tanto per sistemare nel modo migliore le mie attività per il periodo di mia assenza, ma anche, e direi soprattutto, per prepararmi: questo feci in due settimane circa ed alla fine decisi di partecipare al viaggio.

Debbo confessare che le mie cognizione sulla Cina, pur avendo letto abbastanza, erano alquanto vaghe e nebulose, e non solo per gli avvenimenti recenti che hanno dato vita alla realtà cinese ma anche per la storia della Cina nel suo complesso, non conoscendo la quale, ovviamente, non si può comprendere la realtà presente.

Nessuna "Ufficialità"

Si aggiunga a questo la mia qualifica professionale: pensando ai vari colleghi, uno per uno (siamo pochi e quindi ci conosciamo tutti, più o meno) mi sembrò che nessun archeologo italiano fosse andato già in Cina: questo fatto attribuiva a mio giudizio una maggiore responsabilità al mio viaggio e m’imponeva vieppiù l’obbligo di una preparazione preventiva. Nell’un caso e nell’altro, sia quindi per la conoscenza di carattere generale che di quella specifica, archeologica, si trattava di avere una base di informazione tale da essere in grado di recepire la realtà che di lì a poco avrei incontrata.

Come ho detto sopra questo viaggio fu organizzato dall’Associazione Italia-Cina la quale mise insieme a tal proposito 21 personaggi di varia estrazione politica, culturale e sociale. L’intento dell’Associazione non si proponeva alcun incontro ufficiale ma solo di mettere in condizione queste 21 persone di conoscere quanto più possibile, in tre settimane, vari aspetti della realtà cinese con visite, incontri e rapporti vari in maniera da essere in grado, a loro volta, di diffondere questa conoscenza.

Prime ore a Pechino

Ritengo che questo sia un modo positivo di perseguire il fine dell’Associazione, quello di instaurare rapporti di amicizia tra il popolo italiano e quello cinese: senza la conoscenza reciproca, infatti nessun rapporto si può instaurare, e tanto meno quello dell’amicizia.

Con questi presupposti partimmo da Roma in un pomeriggio di questa primavera inoltrata [1973, ndr] e dopo un ottimo volo con brevi soste al Cairo, Karachi, Islamabad e dopo aver sorvolato la catena montuosa del Karakorum, arriviamo alle 16.30 dell’indomani all’aeroporto di Pechino: si è trattato di circa 20 ore di viaggio, tenendo conto ovviamente dello spostamento del fuso orario, di sette ore.

Il pensiero di trovarmi a Pechino provoca in me una certa emozione, ricordi e sensazioni varie si affollano in me, tali da appesantirmi quasi e da indurmi esclusivamente ad osservare e annotare quel che vedo e quel che penso.

Un grande ritratto di Mao è la prima immagine che ci si offre appena scesi dall’aereo; l’aeroporto si presenta lindo, ordinato, pulito in tutti i suoi ambienti. E’ abbastanza grande ma si direbbe contenuto, niente che possa rassomigliare agli aeroporti di Roma, Parigi o Londra. Ci accoglie un gruppo di cinesi inviati dall’Agenzia generale cinese per il turismo, l’Ente che si occupa degli stranieri in Cina; ci dimostrano una grande e schietta cordialità. I componenti questo gruppo, circa 10, parlano tutti italiano o francese, due di essi, Chang e Ten, ci accompagnano per tutto il viaggio, fino alla frontiera con Hong Kong. Con l’aiuto dei cinesi sbrighiamo al più presto le pratiche doganali e quindi usciamo fuori dall’aeroporto dove troviamo un pullman che ci attende per trasportarci in città. La prima impressione che provo all’uscita dall’aeroporto è data dalla grande, enorme distesa di verde che si presenta ai miei occhi, cosa che del resto avevo notato anche dall’aereo. Lungo il percorso dall’aeroporto a Pechino, circa 30 km. su una strada abbastanza larga e asfaltata sempre verde, dovunque, a destra e sinistra: sarà forse la deficienza di tale elemento nelle nostre città (come non pensare al percorso da Punta Raisi a Palermo?), sarà la mia origine contadina, sarà forse qualche altro motivo, è certo comunque che il verde produce in me una straordinaria sensazione: poche volte avevo provato altrove una sensazione simile.

Dimensione umana

Attraversiamo alcuni quartieri di Pechino per giungere in albergo: le strade che percorriamo sono abbastanza larghe, ben pavimentate, alberate, fiancheggiate da edifici non molto alti e frequentate da un discreto numero di cittadini, a piedi o in bicicletta: pochissime automobili, molti autobus per i servizi pubblici. Ne ricavo una gradevole impressione come di un ambiente a dimensione umana.

L’albergo che ci ospita è un grande edificio di costruzione recente, né bello né brutto, si chiama Chien-Men. All’interno è abbastanza spazioso e direi anche molto comodo: dormiamo in due per ogni stanza o, per meglio dire, per ogni appartamento. Quello che divido con Eugenio Giovanardi è composto da una grande stanza con due letti, bagno, un grande salotto con divani, poltrone, tavoli (tanto grande che vi abbiamo tenuto una riunione di tutta la delegazione); c’è il telefono (col quale parlo con Palermo, con una modica spesa), tutto il necessario per il te’, le pantofole, etc…

Ci sistemiamo negli appartamenti, ceniamo (dirò in seguito della cucina cinese) e poi si pensava di andare a dormire anche perché era logico e naturale avvertire una certa stanchezza per il lungo viaggio. A me personalmente però e a qualche altro membro della delegazione, sembrava strano e assurdo andare a letto, come se fossimo arrivati a Roma o in qualche altra città a noi familiare. Abbiamo così deciso di uscire per andare a vedere Tien An Men, la famosa piazza dove il 1° ottobre 1949 fu proclamata la Repubblica popolare cinese e dove si sono svolti e si svolgono i più importanti avvenimenti della Cina: il suo nome significa "Porta della Pace celeste", su di essa infatti si apre una delle porte della "città proibita". Ci dirigiamo verso questa piazza chiedendone la direzione ai cinesi che incontravamo essendo noi soli italiani senza interpreti: pronunciando "Tien An Men" il volto dei cinesi cui ci rivolgevamo si atteggiava ad un sorriso che sembrava di compiacimento e volentieri ci indicavano la via da seguire. Arriviamo così alla piazza, dopo circa un’ora di cammino: si dice che questa piazza sia la più grande del mondo, e forse è vero: pare che sia capace di contenere 500.000 persone. Quando noi siamo arrivati era già tardi, la piazza era tutta illuminata a giorno, era veramente impressionante: da questa impressione forse non erano estranei il ricordo degli avvenimenti politici che in essa si sono svolti e il sapere che questa piazza è il centro politico della nuova Cina. Di fronte alla piazza sono i palazzi imperiale ai quali si accede appunto attraverso la porta che dà il nome alla piazza stessa: sulla porta campeggia un enorme ritratto di Mao Tze Tung, mentre dall'altro lato, al centro della piazza, lungo la via che l'attraversa, ci sono i quattro ritratti, fortemente oleografici come il primo, riproducenti Marx, Engels, Lenin e Stalin.

Il nome dell’albergo

Grandi edifici fiancheggiano la piazza tra cui ad Ovest il più grande palazzo dell’Assemblea nazionale e ad Est l’altrettanto grande palazzo che ospita il Museo della Rivoluzione cinese: sono palazzi che risentono dello stile architettonico sovietico dell’epoca staliniana, modificato in meglio, però. Quasi al centro della piazza, sul lato Sud, è una grande stele di marmo decorata con rilievi e dedicata agli eroi popolari. Infine, in vari punti della piazza sono varie aiuole con fiori multicolori, benissimo conservate, che danno un impressione veramente gradevole.

Ci fermiamo nella piazza oltre un’ora e poi riprendiamo la via del ritorno verso l’albergo: ma qui cominciarono le nostre difficoltà! Non ricordavamo il nome dell’albergo, in ogni caso era impossibile farsi capire a parole dai cinesi: la lingua è veramente una grossa difficoltà!

Abbiamo girovagato a lungo nella notte per varie strade di Pechino, cercando di farci capire dai cinesi che incontravamo o con gesti o ripetendo il nome "hotel" che io fortunatamente avevo imparato e che suona "lui quae": tutti erano gentilissimi, alcuni ci hanno anche accompagnato. Alla fine, verso l’1.30 arriviamo al nostro albergo stanchi ma abbastanza soddisfatti.