Foja Tonda
di Franco Ziliani
Il mondo del vino è proprio bello perché
è vario. C’è chi pensa che per far apparire
più “importante” il proprio rosso sia indispensabile
addizionarlo di Cabernet o di Merlot, c’è
chi pensa che i problemi commerciali e d’immagine
si risolvano ricorrendo ai servigi del top
winemaker del momento, c’è chi stende tappetini
rossi all’influente wine writer guidaiolo
e c’è invece chi, più modestamente, leggendo
i tuoi articoli, e trovando una certa consonanza
con quello che scrivi, ti invita a visitare
la sua azienda, se ti va, se hai tempo, per
raccontarti e farti partecipe di un suo sogno.
Il mio incontro con Albino Armani, produttore
attivo in quella porzione della Valdadige
che appare quasi come una terra di nessuno
“condannata” ad essere punto finale del Trentino
e avvio di quel Veneto che guarda alla Valpolicella,
è proprio nato così, dalla simpatica “spudoratezza”
di un uomo, prima che di un vignaiolo, che
prima di presentarti i suoi vini, le buone
cose, in bianco e in rosso, che produce nella
sua cantina di Dolcé, ha voluto, quasi sfogandosi,
raccontarti l’utopia di riuscire a rendere
quella “terra dei forti” (caratterizzata
dalle fortificazioni che austriaci e italiani
eressero a presidio della valle tra il 1848
e la fine del secolo) qualcosa di vivo e
di avvertibile, un territorio dalle forti
connotazioni non solo paesaggistiche, architettoniche
e naturalistiche, ma un vero, riconoscibile
terroir.
Per fare questo, per riuscire in questo tentativo
di dare unità e visibilità ad una zona, la
bassa Valdadige, che ha comunque un fascino
non indifferente sia che si scenda da Rovereto
sia che la si prenda da Affi senza imboccare
l’autostrada del Brennero, Armani, quasi
come un missionario, non ha risparmiato energie.
E’ riuscito a conglobare attorno ad un progetto
un gruppo di produttori tra cui spiccano,
in territorio trentino, Letrari, Cascina
Ballarin, la Cantina Sociale di Avio, la
Cadalora, Maso Roveri, in terra veronese,
le Fraghe, ha fatto approvare la creazione
della sottozona Terra dei Forti all’interno
dell’ampia, troppo ampia e indistinta Doc
Valdadige e, soprattutto, vincendo scetticismi,
esitazioni, ironie, ha avuto la forza, in
quel mare di Pinot grigio che anch’egli contribuisce
a produrre e ad inviare nel mondo, di creare
un’oasi, uno spazio al di là del mercato
e delle mode che i signori della chiocciola,
se fossero davvero attenti alla salvaguardia
delle più autentiche tradizioni di una zona
e non venissero distratti da altri interessi,
avrebbero dovuto mettere sotto tutela e ufficialmente
adottare.
Armani, difatti, in un mondo del vino che
va verso la standardizzazione ed il testardo
e commercialmente orientato basarsi su poche
varietà (lo Chardonnay, il Sauvignon, il
Cabernet ed il Merlot su cui lui stesso lavora,
peraltro con ottimi, convincentissimi risultati,
soprattutto nel Sauvignon Vigneto Campo Napoleone
e nel rosso Corvara dove un 30% di Corvina
serve a dare carattere), persegue la lucida
follia di salvare dalla sparizione un vitigno
che ufficialmente non c’è e non dovrebbe
esistere, almeno secondo i repertori ufficiali
che sanciscono quali varietà possano presenti
in un dato territorio, autorizzate e raccomandate,
e quali invece no.
Con un’operazione che con felice definizione
l’amico Angelo Peretti ha chiamato di “archeologia
del gusto”, Armani da alcuni anni va recuperando
e riproponendo all’attenzione un vitigno,
il cosiddetto foja tonda, di cui analisi
ampelografiche e del DNA sanciscono la differenza,
sia dall’Enanzio, presente nell’area di Avio,
che dal vitigno toscano Foglia Tonda, e che
studi approfonditi quinquennali effettuati
presso l'Istituto Agrario di S.Michele all'Adige
da ricercatori quali Stefanini e Tommasi
hanno stabilito essere “una varietà del tutto
a se stante, appartenente solo al territorio
della Vallagarina meridionale e residente
in quest'area da "sempre", addirittura,
all’epoca dell'ultima glaciazione”. Una varietà
imparentata con le vecchie viti “lambrusche”
o “labrusche” che ci riportano ai primordi
della viticoltura, alla vitis silvestris,
alle vecchie viti prefillosseriche su piede
franco.
Testardo come un mulo, capace di dare vita
a convegni scientifici atti a richiamare
l’attenzione su questo unicum viticolo, Armani,
proprio di recente, assieme a Paolo Castelletti
ha fatto partire la richiesta di reiscrizione
della "nuova" varietà denominata
Casetta, con i sinonimi di Foia Tonda o Maranela.
Conoscendolo e apprezzando la sua tenacia
siamo convinti che ce la potrà fare e arrivare
al riconoscimento da parte del ministero
della varietà in modo ufficiale forse già
entro la vendemmia prossima o forse entro
l'estate.
Non ci aspettiamo di certo che la riscoperta
e la restituzione a piena dignità di questa
varietà autoctona dalla buccia sottile che
va trattata quasi come un Pinot nero e quindi
con ogni delicatezza, possa cambiare il destino
viticolo di quest’area ormai segnata dal
dominio del Pinot grigio, ma considerati
alcuni veri e propri “miracoli” già messi
a segno, ovvero l’essere riusciti a coinvolgere
in un progetto comune i sindaci del territorio
che comprende Rivoli veronese, Brentino,
Dolcé e Avio e a trovare un filo rosso tra
Trentino e Alto Veneto nel nome del sud della
Vallagarina, ci fa bene sperare.
Per chi vuole conoscere cosa possa essere
oggi, nel pieno di un’era di merlotizzazione
imperante, il profumo ed il sapore ed il
fascino unico, quasi indescrivibile e arcano
di un vino e di un vitigno che ufficialmente
non esistono e che vengono da lontano e che
danno la misura dell’antica tradizione vinicola
di questa zona, il vino c’è e Albino Armani
lo produce con l’amore, le cure instancabili,
la passione mai doma, la fede e la sana follia
che, forse, non riserverebbe nemmeno ad un
grande cru di Borgogna o di Bordeaux, se
la sorte lo portasse improvvisamente a diventare
proprietario di un Montrachet o di un Clos.
Il vino, una Igt Vallagarina rosso, si chiama,
e non poteva chiamarsi altrimenti, Foja tonda,
e prima che arrivi definitivamente l’estate
vi consigliamo di venirlo a provare direttamente
in loco, in qualche trattoria caratteristica
dove le influenze trentine si sposano con
quelle veronesi in una cucina semplice e
saporosa dove i formaggi come il Monte Veronese
Dop d’allevo, gli asparagi, le lumache, la
lucanica, le carni alla brace, la selvaggina,
la magnifica polenta con farina di Storo,
dettano legge.
Proviamo a descrivere dunque questo vino,
convinti che solo l’assaggio diretto potrà
rendervi il piacere di scoprire un prodotto
uguale solo a se stesso, pieno di carattere,
“zergo” lo definisce bene Veronelli intendendo
sottolineare la sua “elegante rusticità”,
apparentemente scontroso ma soprattutto schietto
e orgoglioso d’essere unico ed inimitabile.
Colore rubino violaceo intenso, consistente,
profondo, ma vivace, ricco di polpa, mostra
subito al naso un carattere fruttoso / selvatico
spiccato che ricorda la mora di rovo con
un leggero accento speziato, la prugna matura
ma non troppo, e soprattutto la fragola di
bosco. Un vino, per dirla con un termine
locale intraducibile, che “sa de freschin”,
che ha mantenuto la vivezza, la naturalità,
la terrosità dell’uva e del terreno su cui
nasce, che è concentrato, ma soprattutto
espressivo, un po’ ribelle e irriducibile
ad una definizione. Così si conferma anche
al gusto, con una bocca di bella consistenza,
segnata da un frutto nitido e succoso, ancora
vibrante, leggermente amaro sul fondo, piacevolmente
tannico e molto sapido, dal carattere saldo,
brusco, nervoso, saporito che sembra non
concedersi interamente e preferisce farsi
rincorrere come un folletto, mantenendo una
certa lunghezza, persistenza e densità. Difficile,
anzi impossibile, trovare un termine di paragone,
anche se in qualcosa potrebbe ricordare un
Marzemino, oppure un Refosco dal peduncolo
rosso di quelli buoni, ma con una maggiore,
prugnosa, terrosa, selvatica vivezza. In
piemontese lo si potrebbe definire, ma dimenticatevi
il vino, che non c’entra in alcun modo, un
“arneis”, un tipo bizzarro, burbero, imprevedibile,
scontroso, ma non cattivo. Sembrerebbe un
limite, un elemento limitativo, ma se si
ricorda che proprio le persone dotate di
maggiore carattere e personalità hanno, inevitabilmente,
un carattere non docile, che può pungere
e forse incutere timore, ecco tracciato il
migliore complimento per questo Foja tonda,
orgoglioso e consapevole della propria unicità,
ma pronto ad accogliere a braccia aperte
l’amante di Bacco che sappia capirlo e diventargli
amico, sorso dopo sorso.
Franco Ziliani - da "WineReport"
10 maggio 2001
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Considerazioni storico-geografiche sulla
parte conclusiva della Valdadige (Ala, Avio
- Chiusa Veneta e dintorni)
di Giorgio Lucchini
Il territorio compreso tra l'anfiteatro
morenico
di Rivoli Veronese e gli ultimi
venti chilometri
della Valdadige in lato Sud,
fin dall'antichità
fu di strategica importanza,
perché interessato
dalla via di transito tra il
Nord Europa
e la Padania. Consistentemente
fortificato
e difeso da castelli e da forti
accolse due
importantissime vie di comunicazione:
l'Adige,
navigabile dal mare fino a Bronzolo,
borgo
a sud di Bolzano, e la strada
che percorreva
il fondovalle: Claudia Augusta
in epoca romana,
via Imperiale nel basso Medio
Evo, strada
d' Alemagna nel sei-settecento.,
strada Postale
Vecchia in epoche più vicine
a noi. Partendo
dai tempi più lontani e procedendo
in ordine
diacronico, le prime forme di
difesa militare
di cui restano tracce certe o
di tipo archeologico
o di tipo documentario o di entrambi,
furono
costruite sul monte Rocca di
Rivoli (La Rocca),
sulle pendici del monte Pastello
a Dolcè
( el Casteleto), in località
Magnon del Comune
di Brentino-Belluno (Castel Presina),
sul
Montarion di Ossenigo ( Castello
) e nel
territorio di Avio (Castello).
Le opere murarie consistevano in castelli,
alcuni imponenti, altri meno e in torri di
guardia; tutti edifici comunque posti sia
a difesa di interessi territoriali ben precisi
sia in funzione di controllo delle vie di
comunicazione, già citate.
Vediamo brevemente quelli più vividi e significativi.
Il fortilizio più importante, quello di Avio,
costruito, molto probabilmente su un preesistente
presidio romano tra i secoli XI e XIII, fu
la principale dimora dei Castelbarco, la
famiglia che ideò il progetto di controllo
della valle e delle vie di comunicazione
che la attraversavano.
Un caratteristico luogo fortificato era il
Casteleto del paese di Dolcè, capoluogo comunale
sulla sponda sinistra del fiume. Posto a
400 metri s.l.m., sopra l'abitato del paese,
da recenti indagini sembra sia stato edificato
agli inizi del secolo XI come luogo di rifugio
per la popolazione locale in caso di pericolo
e come custodia e deposito di granaglie nei
momenti di difficoltà.
Non rimangono tracce murarie del castello
d'Ossenigo, per altro ricordato nel materiale
d'archivio perché tra il 1209 e il 1210 fu
spettatore di alcune vicende politiche riguardanti
il conflitto tra papato ed impero che coinvolsero
il Marchese Azzo VI d'Este, la famiglia veronese
dei Conti di San Bonifacio e l'imperatore
Ottone IV.
Un caso del tutto particolare è quello della
Presina. Gli storici locali lo hanno definito
castello, non sapendo come altrimenti inquadrare
una cavità naturale ampia, nella quale mano
umana ha creato una serie di nicchie regolari
utilizzate per sostenere un'imponente struttura
lignea disposta a piani successivi. Recenti
ricerche hanno ipotizzato però che non di
un vero e proprio castello si sia trattato,
ma piuttosto di un eremo frequentato tra
i secoli XII e XIV.
La Rocca di Rivoli ha lasciato imponenti
resti e tracce d'archivio consistenti e importanti.
Elemento nodale di controllo militare della
via dell'Adige, la fortificazione fu assediata
e distrutta da Federico Barbarossa nella
seconda metà del secolo XII.
Tra la fine del medioevo e l'inizio dell'età
moderna, svolsero un basilare ruolo di sorveglianza
e di dogana fluviale i due castelli della
Chiusa e della Corvara o Crovara. Posti a
pochi chilometri di distanza l'uno dall'altro
sulle sponde contrapposte del fiume atesino,
i due fortilizi agirono di concerto nel controllo
delle imbarcazioni che scendevano o risalivano
la corrente dell'Adige.
Conclusasi l'esperienza della dominazione
veneta, la terra di fondovalle fu configurata
in modo diverso per quel che riguarda la
dislocazione di baluardi e di forti.
L'Austriaco Imperiale Regio Ufficio delle
Fortificazioni di Verona, dopo la sabauda
campagna militare del 1848, su suggerimento
tratto dalle riflessioni del maresciallo
Radetzki, diede corso alla progettazione
ed all'esecuzione delle costruzioni, ben
quattro, che dominano e arginano l'imbocco
Sud della valle dell'Adige, valle che, come
già sostenuto, ha sempre costituito la più
naturale, tradizionale e comoda via di penetrazione
e di transito per i popoli nordici e per
i loro eserciti. Dopo il 1866, le edificazioni
passarono in mano italiana e furono inserite,
non senza un opportuno lavoro d'adattamento
ed ammodernamento, nel sistema difensivo
denominato Linea delle Alpi.
E' convinzione che l'aspetto storico di un
territorio, sia intimamente legato a quello
geografico; ebbene, il vero elemento pregnante
e qualificante della zona è stato ed è il
fiume. L' Adige infatti, fin dai tempi più
lontani ha impartito una specie di ritmo
quasi musicale, a tutta la collocazione degli
insediamenti umani e alla distribuzione dei
suoli agrari che si alternano lungo il tratto
vallivo.
Sono stati i meandri, creati e modellati
dalla corrente del corso d'acqua, ad imbastire
una specie di assioma, per cui ad ogni curva
del fiume corrispondono due unità: un ben
definito spazio agrario e un nucleo insediativo
ad esso afferente; detto in altri termini:
i vari cambi di direzione del corso d'acqua
, limitati dalle pendici dei Lessini ad oriente
e del Monte Baldo ad occidente, creano una
sorta di micro-spazi al centro dei quali
vi è un paese. La campagna circostante nel
passato (oggi non più per le mutate condizioni
economiche), era sufficiente per alimentare
l'economia, basata esclusivamente sull'agricoltura
di sussistenza, di ciascun insediamento antropico
stesso. Ancora oggi è verificabile tale strutturazione
geografica, anche se sta rapidamente scomparendo
l'intelaiatura primaria, per cui ad ansa
piccola corrispondeva paese piccolo, ad ansa
grande faceva capo paese grande. Due esempi
per chiarire adeguatamente il concetto: Avio
è chiuso da un'ampia curva del fiume, ed
il nucleo abitativo fu nel passato di una
certa consistenza; analogamente, ma in forma
esattamente contraria, Ceraino, dotato di
un'ansa piccola, era ed è rimasto un borgo
minuscolo.
Anche l'aspetto religioso, fu condizionato
da tale alternanza: ogni paese corrisponde
ad una parrocchia; la parrocchia è rappresentata
da una chiesa, ed ogni chiesa effigia un
elemento visibile del paesaggio.
In conclusione queste considerazioni vorrebbero
porre l'attenzione sull'ordine con il quale
si è articolato il territorio vallivo: insediamenti,
campanili, campagne, fiume, anse, pendici
dei monti differenziano gli elementi geografici
e rendono la Valdadige una zona vivida, del
tutto estranea all'idea di borgo diffuso,
sinonimo dell'indeterminato, del vago e del
geograficamente confuso, oggi assai comune
in molte parti della nostra Regione..
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