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01 aprile 2003
Come raccontarla questa guerra?
di Lidia Campagnano
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Come raccontarla questa guerra? A Bassora muoiono di sete, a Baghdad di bombe, gli uomini combattono, le donne li sostengono (se no la resistenza non si potrebbe fare, come certi vecchi italiani e vecchi iugoslavi, per esempio, potrebbero finalmente spiegare)
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tutti cercano di proteggere i loro bambini come non mai, ma come proteggerli dall'inferno che piove giorno e notte dal cielo.
Il tiranno? E' l'ultimo dei loro problemi, proprio l'ultimo, ora, il che rappresenta uno shock intellettuale solo per noi, qui. L'inferno è stato scatenato da un presidente statunitense invasato, i cui piccoli occhi sporchi di troppo benessere non hanno voluto vedere dov'era e chi era quel nemico che aveva abbattuto le torri di New York, e da un premier inglese convinto di saper manovrare il padrone del mondo senza dirglielo, convinto di avere un'intelligenza delle cose, per grazia (o per razza) ricevuta. Entrambi hanno mandato una massa di ventenni ignoranti a morire e a uccidere in cambio di un salario. Il mondo intero non voleva l'inferno, continua a non volerlo, il mondo intero si occupa di sé vivendo per le vie e per le piazze e gridando e mormorando in tutti i modi la rivendicazione della propria umanità elementare, la volontà di un futuro. Un'immensa conversazione plurilingue sta stendendosi sulla terra, una conversazione sulla pace, sulla giustizia, sulla democrazia, strana conversazione, strana tenuta emotiva, perché chi sa sostenere questa conversazione è anche quell'uomo o quella donna che a ogni bomba si sente mancare il fiato, la stessa persona che-lo sa bene- avrebbe un gran bisogno di piangere.
Questo è un riassunto possibile. Quel che verrà è già del tutto imprevedibile: la pura potenza, economica e militare, non ha affatto il dono della previsione e neanche quello del controllo sulla storia. Adesso possiamo anche ricordare certe lezioni di storia, o di filosofia della storia, secondo le quali quando la potenza si presenta nuda e cruda, senza ragioni, senza addobbi estetici, senza doni da offrire, quella potenza è sull'orlo del suo disfacimento. E perciò mena colpi all'impazzata.
Ma siamo tutti e tutte implicati nel dramma: non siano affatto spettatrici o spettatori, questa volta lo schermo televisivo non abbaglia. Dentro di noi un deposito di domande sul senso della vita, sulla nostra identità umana, sul valore dei nostri atti e delle nostre parole si è messo a vivere e a mandare messaggi, ci interroga dal risveglio alla notte: è quel tessuto interiore, prodottosi negli anni quasi a nostra insaputa, a portare così tanta gente, tutti i giorni, in tutto il mondo, sulla scena del lavoro di pace. Guardiamo, ragioniamo. Guardiamo tutto: i bambini che non abbiamo saputo proteggere da questo disastro, le donne irachene che ci guardano, a volte vestite col chador. Le donne che ci mandano schegge impazzite e sempre ritardate di informazione, visibilmente disorientate. Le donne, come Condoleeza Rice, appassionate di strategie belliche: enigmatiche forse più delle donne col chador e la bambina disidratata in braccio.
Il mondo sta diventando qualcosa d'altro. Noi stiamo diventando altre e altri. Non abbiamo modelli per questo diventare altre e altri. Perciò stiamo tenacemente in questa rete di conversazione sulla pace. Semplicemente. La speranza è qui, nell'opporsi al delirio mortuario dello strapotere, minuto per minuto, insieme.
Lidia Campagnano
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