storia della Cartapesta

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Storia della Cartapesta Il Restauro del Cristo di Confortino Appendice  

Liberamente Tratto da

"Il Cristo in Cartapesta"

Tesi di Laurea di

 Gabriella Brigante

 

 Relatore:

  Prof. W. Lambertini

Correlatore

Prof. A. Panzetta

 

Accademia di Belle Arti Bologna


Indice

 

Storia della Cartapesta

Introduzione

La Cartapesta

Cartapesta Leccese

Cartapestai salentini

Tecnica della cartapesta

Cartapesta a Bologna

C.sta tra Lecce e Bologna

 

Il Restauro del Cristo

Descrizione

Stato di Conservazione

Consolidamento

Pulitura

Stuccatura

Integrazione pittorica

 

I Luoghi

Anzola Emilia

Chiesa di Anzola

Oratorio di Confortino

 

Appendice

Conclusioni

Ringraziamenti

Materiali usati

Bibliografia


Argomenti Correlati

Arte devozionale

l'Addolorata

Cristo deposto

Croce del Tacca

Divino infante

Antico arredo sacro

Sculture policrome

Anzola dell'Emilia


Approfondimenti

 

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L'ARTE DELLA CARTAPESTA A BOLOGNA E IN EMILIA ROMAGNA

 

L'oggetto di cartapesta, soprattutto quello di carattere devozionale e sacro, che è senza dubbio il preponderante di questa tecnica, ha una sua peculiarità che lo distingue dagli altri prodotti artistici di uguale soggetto, poiché possiede una sorta di impalpabile ambiguità tra sostanza ed apparenza, tra ricchezza espressiva e povertà materiale che lo fa apparire, non a torto, prodotto temporaneo, instabile e di fragile leggerezza.

La natura stessa della cartapesta, difatti, è legata all'opera di poco costo, di rapida esecuzione e di non lunga durata: la maggiore fortuna di tale tecnica, come si sa, è dovuta alle realizzazioni di grandi e piccoli apparati celebrativi (religiosi e civili) a macchine sceniche ed allegoriche di immediata ed efficace eloquenza.

 

Storia della Cartapesta

Domenico Piò, S. Giuseppe

Storia della Cartapesta

Angelo Piò, Sant' Antonio da Padova, cartapesta-stucco dipinto, altezza 180 cm.

 

In tutta l'epoca barocca è un fiorire rigogliosissimo di lavori effimeri in materiale povero: chiese, palazzi, piazze, giardini, teatri vedono operare squadre di artisti: architetti, scenografi, scultori, pittori, che, con legno, cartone, paglia, stracci, stoppa, colla e gesso, creano ricche composizioni destinate, nell'arco di breve tempo, ad essere consumate.

La Chiesa e la devozione pubblica chiedono, soprattutto in epoca post-tridentina, con sempre più frequenza opere scultoree, pregevoli artisticamente, espressive negli “effetti”, ma anche facilmente trasportabili dagli altari per essere portate in processione.

Scultori di ogni calibro creano originali o prototipi di immagini in cartapesta per la richiesta devota pubblica e privata.

In Emilia, statuari quali Angelo e Domenico Piò, Filippo Scandellari, Luigi Dardani o, a livello quasi industriale, i Graziani di Faenza, soddisfano numerosissime richieste con lavori di elevato valore plastico e intensa espressività.

 

Storia della Cartapesta

 

Chiesa dei Servi, Pietà in cartapesta, (Autore ignoto) XVII sec. Bologna.

 

 

La statuaria chiesistica, avvalendosi anche di artisti e artigiani di più modesta statura, si arricchisce di opere singole, gruppi, alti e bassi rilievi fino a tutto l'Ottocento, grazie a centri specializzati di produzione in Lombardia, Veneto, Emilia, Romagna, Roma, Napoli e, con caratteri ormai autonomi, a Lecce. Il livello artistico di molta di questa produzione, anche se corale e a volte semi industriale, si presenta generalmente sostenuto e dignitoso, adeguandosi con facilità ai canoni artistici, espressivi e alle tematiche religiose del tempo.

 

Il materiale povero non diviene quindi sinonimo di prodotto modesto in senso figurativo come altri prodotti popolari plastici; la cartapesta fino dall'inizio, si afferma come tecnica che permette la rapida esecuzione di idee e di temi in forma molto “degna” e di grande efficacia iconografica a costi relativamente contenuti.

Inoltre, soprattutto per gli oggetti di formato minore, per lo più destinati all'uso privato, l'artigianato artistico di questo settore favorisce la diffusione, a livello quasi popolare, di immagini realizzate da artisti di buona mano. Anche se in numero esiguo, ci sono pervenute targhe di soggetto religioso sei-settecentesche i cui schemi, modi e sensibilità sono riconducibili a iconografie classico-rinascimentali d'area toscana o settentrionale. Ciò sta a segnalare un lungo persistere di interesse per certe iconografie devote, favorite da un naturale attardarsi a un documentabile uso ripetitivo di calchi eseguiti su antiche opere.

La fragilità della cartapesta, la evoluzione nella devozione e nell'uso delle immagini nel culto della chiesa, specie dopo il Concilio Vaticano II, il cambiamento rapido di sensibilità estetica e, non da ultima, la scarsa considerazione legata ad un materiale povero e degradabile, sono stati i motivi prevalenti della dispersione e dell' incuria per un patrimonio storico, artistico e religioso meritevole invece di ben maggiore attenzione e cura.

Una ricerca di studio, per l'esame estetico delle opere, è opportuno iniziarla a Bologna e nel suo territorio, poiché le realizzazioni più significative è possibile visionarle in tale città, dove la cartapesta risulta adottata, come materia povera, duttile e leggera, alternativa alla scaiola stoffata o stoffa scaiola dagli artefici del “barocchetto” locale, per modellare, supportata da legno, terracotta e altri materiali, decorazioni varie e per realizzare statue ed apparati, sia sacri che profani, Molte delle statue modellate a Bologna per gli “apparati” dell'epoca barocca non sono sopravvissute, perché sono state considerate di poco pregio, essendo state modellate alla svelta, spesso in gruppo o con aiuti vari, perché predestinate a un uso effimero, come decoro e ornamento di banchetti e catafalchi e concepite per “apparare” e per “fingere” sontuosità e religiosità.

Sopravvivono soltanto le stampe dell'epoca, che ce le illustrano e che ci consentono di esaminarle e giudicarle, visionandole presso la Biblioteca dell'Archiginnasio (Raccolta Gozzadini).

Non mancano le relazioni scritte che descrivono tali “apparati”. Esemplare quella scritta per un Sepolcro in San Biagio del 1729.

 

Storia della Cartapesta

San Petronio, Cappella di S. Ivo, La Giustizia, Angelo Piò.

Le cento e cento statue di cartapesta e di stracci, e di un poco di filo di ferro, e di qualche scheggia d'asse montata in fretta e con sopraffina perizia ad ogni funerale di Papa, ad ogni ingresso solenne di cardinale legato o di testa coronata di passaggio;statue fatte di nulla (se non d'ingegno:che però non dura nella memoria), e dipinte a finto oro, a marmi finti:d'un sontuoso apparire, e di nessuna durata, se non nel pallido ricordo di qualche stampa. Così ha scritto Eugenio Riccomini.

Gli “apparatori” barocchi, nelle relazioni a stampa dell'epoca, sono indicati con la parola “ornatisti” e ciò fa supporre intenzioni di critica malevola e riduttiva.

Gli “apparati” risultano progettati da architetti, quindi venivano arricchiti da scultori / cartapestai con statue, per ultimi intervenivano gli incisori che li riproducevano per diffonderne l'immagine e ricordare a futura memoria le loro caratteristiche complessive.

Nel Convento dei Servi a Bologna è conservato un manoscritto di Carlo Vincenzo Maria Pedini intitolato Istoria del Convento di Bologna, scritto presumibilmente durante la prima metà del 1700, nel quale è possibile leggere “notizie”relative anche alla lavorazione e al costo di alcune statue in cartapesta.

 

Nel Foglio 52 si può leggere: Dell'anno 1745 li 5 aprile fu terminata la statua di M.V. Addolorata quale presentemente si venera nella nostra chiesa; fu fatta dal Sig. Angelo Piò bolognese, scultore il più gravo de' tempi presenti: Addì 1° maggio dell'anno suddetto fu collocata nella nicchia solita dell'altare alla medesima B.V.

Addolorata dedicato a perpetua di Lei adorazione e nell'anno 1746 fu portata in pubblica processione nella Domenica di Passione.

Per la suddetta statua furono pagate al suddetto sig. Angelo Piò lire 300 e gli furono e gli furono date di più lire 7 per puro regalo.

Quasi tutti i cartapestai hanno modellato anche statue in gesso o argilla, qualcuno le ha scolpite anche nel marmo.

 

 

 

Cartapesta emiliana: precedenti nel Rinascimento

Il Vasari accredita a Iacopo della Quercia, all'età di appena 19 anni, la prima statua  provvisoria, quando allestì con mezzi poveri una statua equestre per il condottiero Giovanni Azzo degli Ubaldini (venuto a morte all'improvviso nel corso della guerra contro Firenze, nel 1390), collocata nel duomo di Siena, a coronamento del catafalco.

La devozione della Vergine si era diffusa negli strati popolari quando le icone, perdendo in ieraticità, misero in risalto la relazione umana tra madre e figlio; aumentò, così, la richiesta “privata” di immagini.

Il santo vescovo di Firenze, fra' Giovanni Dominici (1357-1419) ne fu il solerte “testimonial”, raccomandando, nel trattato “Regole del governo di cura famigliare”, la diffusione di immagini nelle casa, affinché i fanciulli e le madri potessero vedere modelli da venerare e da imitare.

Ciò alimentò sia la produzione dozzinale e a buon mercato dei “Madonnari”; sia, in parallelo, l' impegno di grandi maestri, quali Ghiberti e Luca della Robbia che, nelle loro botteghe; fecero esperimenti per riprodurre rilievi, con la terra e lo stucco, per un mercato medio-alto.

 

Storia della Cartapesta

Lorenzo Ghiberti, Madonna e Bambino.

 

Storia della Cartapesta

Luca della Robbia, Madonna col Bambino,

(Firenze, Santa Felicita)

 

 

Le molte copie pervenute testimoniano la popolarità di tali opere “artigianali”, che furono prodotte successivamente anche da Desiderio da Settignano, dai fratelli Rossellino, dal Verrocchio, nella bottega di Neroccio de' Landi, in quella di Donatello e dei suoi seguaci, mentre i fratelli Rossellino, nella loro bottega a Firenze avevano prodotto bassorilievi su tavola, impiegando pasta di carta.

 

 

Storia della Cartapesta

 

Antonio Rossellino (Settignano 1427? Firenze 1481 ca.) e bottega,- Madonna col Bambino e angeli, 1460 ca.- Rilievo in cartapesta, cm 115x84x9- Museo della basilica di S. Nicola, Tolentino.

Jacopo Sansovino, trasferitosi a Venezia a causa della diaspora, avvenuta in seguito al sacco di Roma (1527), si dedicò alle produzioni a stampo con pasta di carta, nel modo in cui nella bottega di Andrea della Robbia, da lui frequentata, si riproducevano le formelle devozionali.

 

Mentre queste ultime, però, si consolidavano in forno, la cartapesta si essiccava all'aria, poi veniva gessata e dipinta (o patinata, per imitare altri materiali).

 

Intorno al 1540 Sansovino produsse a Venezia dei manufatti di cartapesta dei quali sono sopravvissuti tredici bassorilievi, collocati in vari musei: Bargello, Correr, Louvre, Berlino (Kaiser-F. Museum- dal 1956 ribattezzato Bodemuseum), Washington (S. H. Kress  Collection).

 

La cartapesta è foderata all'interno di tela sottile e il bassorilievo è applicato su tavole di legno, di dimensioni anche rilevanti.

Il soggetto è quello più diffuso nella devozione privata: la Madonna con Bambino, in due tipi ricorrenti: la Madonna seduta e il Bimbo in piedi; e la Madonna che tiene il suo Bambino in braccio.

 

 

Alcuni di questi bassorilievi sono policromi, imitano il marmo o la pietra, per cui spesso furono catalogati come lapidei o di “stucco romano”, ingannando critici e conservatori di collezioni. Al perfetto mimetismo e ai pochi esemplari pervenuti si deve dal Rinascimento in poi, la scarsa bibliografia sulla cartapesta.

 

Storia della Cartapesta

Jacopo Sansovino (Firenze 1486-Venezia 1570) Madonna col Bambino, cm 127x159x10(con cornice), Museum of Fine arts, Budapest.

Queste avevano un mercato proprio per la perfetta altra apparenza e per il prezzo modesto, se confrontate col prezzo dei “pezzi unici” di artisti di fama. Jacopo Sansovino ne regalò una copia a Piero Aretino, che, a sua volta ne fece dono a Vittoria Farnese, la quale ne fu entusiasta.

 

L'Aretino così ne informa l'autore in una lettera:” Il gran quadro di basso rilievo e di marmorea durezza composto, per volerlo sollevare fino al cielo con la lode, basta dir che da la mano di messer Iacopo ci venga...L'Illustrissima Vittoria Farnese...mi scrive che né in Roma né altrove mai se n'è visto un sì bello” (P. Aretino,Lettere).

La notazione “di marmorea durezza composto” è messa in risalto per elogiare la riuscita mimesi della cartapesta nel marmo.

 

Bologna conserva antichi esempi di tale statuaria. Nella Chiesa dei Servi fu posto con pompa solenne il 10 agosto 1643 (donato da Cesare Grati, di famiglia senatoria) un grande crocifisso di cartapesta, che un certo Zamaretta (o Zamaletta) avrebbe modellato entro una forma anteriore, reputata opera del Gianbologna (1524-1608). E' un simulacro cui si ricorreva in periodi di siccità, di carestia e di epidemie.

 

Anche per la facciata del Duomo di Firenze la cartapesta si usò per le parti importanti: le teste, le mani e i particolari minuti, come farà poi la statuaria devozionale. Il resto della statua si fabbricò modellando teli di juta o cotone, imbevuti in un bagno di colla forte bollente, su manichini di legno e paglia. Le pieghe e i drappeggi irrigidivano col freddo. I grandi fogli di carta per le statue effimere dei catafalchi arriveranno in epoca successiva, quando la tecnica cartaria ( le macchine “olandesi”) permetterà la produzione del grande formato e del nastro di carta praticamente continuo. La statua asciutta si pennellava con una tempera di gesso e biacca. Poi, levigata, la si lasciava bianca, sulla imitazione del “classico”, o la si dipingeva.

Storia della Cartapesta

Modello da Benedetto da Majano, sec.XIX, Madonna col Bambino, cm58x42x6, Museo del Bargello, Firenze.

La cartapesta nasce, si può dire, tra le quinte della scena o comunque viene impiegata in una prospettiva illusoria.

La ricetta toscana della cartapesta, in seguito al Rinascimento, era diffusa nei ducati emiliani artisticamente tributari di Firenze e fu utilizzata fino al 1980.

Dopo 130 anni troviamo codificata una ricetta in un testo che vuole inserire nella lingua toscana, le voci in uso nella bottega d'arte, i nomi degli utensili e delle tecniche di lavorazione. Il testo è il “Vocabolario toscano dell'arte del Disegno” di F. Baldinucci del 1681 che, alla voce cartapesta riporta, con la sicurezza di riferire una prassi consolidata:

 

 “ Ogni sorta di rottami di carta, tenuti per più giorni in macero in acqua chiara; poi benissimo pesti in un mortaio, tanto che la macera carta sia ridotta quasi come un unguento.

Con questa si fanno le maschere che si adoperano per il Carnevale, e ogni sorta di figure, di intero e non intero rilievo, di che si abbia la forma di gesso,

coprendo con essa cartapesta ben tenera e molle la superficie incavata della forma, poi comprimendola con una spugna delicata per trarne l'acqua, lasciando la cartapesta in grossezza di quattro fogli o più, secondo la proporzione della cosa da formarsi; come sia secca, si soppanna essa cartapesta con rottami di panno lino, i quali con l'aiuto di un pennello di setola s'appiccicano con pasta ( intendevano quella di farina di grano), mettendola a seccare al sole o al fuoco;poi si cava dalla forma, se ne tolgono con cesoie le superfluità, si commettono le parti con pasta e colla, per formare il tutto; poi se le dà sopra una mano di pece greca, che alla fiamma del fuoco si fa penetrar dentro alla cosa formata, per renderla soda;si pulisce, e poi come se fusse di legno d'altra materia, s'ingessa, si dipigne, s'indora, o altro si fa, che si voglia”.

Successivamente, sono stati messi a punto processi di lavorazione personali, sperimentando misture, collanti e antiparassitari, rendendo l'opera finita idrorepellente e ignifuga, oltre che, con accorgimenti ingegnosi, resistente e indeformabile.

La cartapesta si usava anche per le maschere carnevalesche e teatrali, che a Venezia si producevano anche di ceramica.

I bolognesi Angelo Piò e Filippo Scandellari l'applicarono alla statuaria per le chiese, seguendo la tecnica che il Sansovino aveva impiegato nei bassorilievi: un sottile strato sullo stampo ( le forme sono suddivise in pochi segmenti) e le cavità rinforzate all'interno con tele incollate.

Colui che dette inizio alla bottega faentina della cartapesta per fabbricare statue non effimere, ma realizzate per durare nei secoli, fu Ballanti-Graziani, in collaborazione con il figlio Giovan Battista.

Dei Ballanti, nel collegio Emiliani, a Fognano, c'è un gruppo di Maria col Bambino fra due santi domenicani, modellato con spesse carte incollate, gessate, quindi, dipinte; è uno degli esemplari presenti in Romagna e, per gli atteggiamenti e per i profili che la caratterizzano, sembra essere di scuola bolognese.

A metà del 1700 i Ballanti modificarono il procedimento fino ad ora seguito: allestirono stampi suddivisi in molti pezzi aperti, per premervi un buono strato (da 6 a 10 mm.) di pasta ben sfibrata da lunga macerazione, a volte bollita in caldaia, per affinarla senza alcun collante, togliendo l'acqua in eccesso con spugne.

Una volta asciutti, i pezzi erano foderati sul rovescio con lembi di tele sottili, applicati con colla di farina impastata con aceto salato, ad evitare muffe nel tempo.

Una volta secche, le parti si toglievano dallo stampo e venivano unite con cuciture a mano, a refe e radi tocchi di colla da falegname.

La cartapesta faentina è quindi uno stucco di carta , macerata in acqua, nella quale si sfibra e perde “nerbo” dopo essersi liberata degli additivi:colla, talco, coloranti di cui era caricata.

Storia della Cartapesta

 

Ballanti Graziani Giovanni Battista, Monumento a Romano Alfonso Gavina, 1816, stucco, Faenza,

Chiesa del Suffragio.

 

 

Storia della Cartapesta

Ballanti Graziani Giovanni Battista 12

Demetra, Forlì, Palazzo Manzoni, Scalone.

La carta ingombrava i vani appartati della bottega, fino al giorno in cui veniva sminuzzata e messa in ammollo in capienti mastelli.

Nella stagione calda, l'afrore della fermentazione ristagnava, nonostante il frequente ricambio dell'acqua.

Preferita era la carta fibrosa dei giornali, anche la “tolentino” (gialla come la paglia da cui era tratta) degli alimentaristi del cartone per imballaggio. Non veniva utilizzata la carta patinata e lucida, perché sovraccarica di talco e collanti.

La pasta di carta nuova (di cartiera) non aveva dato buona prova, poiché, al pregio di esser bianca e non olente, univa il difetto di non essere stabile: la fibra giovane,

nell'asciugarsi, si restringeva di un 10%, quanto bastava per compromettere l'assemblaggio della statua. Il tentativo di utilizzarla fu ripetuto più volte, poiché a due passi da Faenza, sulla strada per Brisignella, c'era la “ Cartiera” fondata nel 1675 dal bolognese Giovanni Antonio Passerini, attiva fino agli inizi del Novecento.

La cartapesta, strizzata dall'umidità superflua, ha moderata plasticità: non è duttile come la creta, ma obbedisce alle stecche e preferibilmente “premuta” piuttosto che “condotta” dai pollici, aderisce bene nello stampo.

 

 

 

1.1 Per durare nei secoli:  La pece greca

Il segreto della durevolezza di questi manufatti è un'antica resina, la pece greca, detta anche colofonia, perché a Colofone, nella Lidia, i Greci vi producevano la più rinomata. È il residuo solido della distillazione di varie resine : pino, larice, abete, pino mugo, ecc.., da cui si ricava anche l'essenza di trementina. Si presenta in masse color giallo ambrato, vetrose, fragili e ben macinabili.

 

Storia della Cartapesta

Scudo cinquecentesco, cartapesta e legno, cm101x74, Museo Bardini, Firenze.

Dopo il trattamento a fuoco, la statua aveva la consistenza “sonante” d' una membrana ossea, ma l'aspetto di un corpo carbonizzato, resistente all'umidità, inattaccabile da tarli e da insetti xilofogi, elastica agli urti, rigida e leggera. Seguiva la gessatura, utilizzando il solfato biidarato di calcio, gesso spento (detto anche gesso marcio), che è il componente dello stucco del vetraio, mentre il pittore lo stende sulla tela, stemperato in acqua di colla di “lapin”, come preparazione del dipinto.

Questa buacca era pennellata più volte sulla statua grezza e, quando era ben secca, si “poliva” con carta vetrata e pelle di smeriglio; la statua bianca veniva dipinta ad olio in due fasi: imprimitura e finitura, con colori all'olio macinati su lastra di marmo, seguendo la procedura fissata dai Ballanti e seguita dai Collina.

L'applicazione dei particolari “a parte” scudi, ali, bilance, palme, corone, lance e spade dava origine, nella serie derivata da stampi, o modellata ex novo, a varianti di postura e di colore.

 

 

 

 

1.2 La maniera del Vitené: Manichino di legno vestito di tela

 

 

Storia della Cartapesta

Enrico Dal Monte, San Giuseppe, San Petronio, Castel Bolognese.

Gaetano Vitené era stato a bottega da Ballanti con Giovanni Collina, ritrovato poi a Firenze, ai corsi di Lorenzo Bartolini.

Egli si discosterà dal metodo dei maestri; userà, infatti, la cartapesta soltanto per le teste, le mani e i piedi, che venivano fissati a un solido manichino di stecche lignee, inchiodate e fissate con colla forte. Alcune teste generiche erano di repertorio: venivano, infatti, indifferentemente assegnate ad un santo o ad un altro.

 

Sullo scheletrato, rimpolpato di paglia di riso stretta con giri di refe, si applicavano dei teli di lino o di juta, ammollati in colla calda. Mentre i teli si raffreddavano l'artista modellava le pieghe delle vesti, dei manti, delle maniche. Il disporsi dei teli, ancora bagnati, faceva sì che essi assumessero cadenze naturali che guidavano la mano dell’artista per modellarli secondo forme eleganti. Si spalmava poi la cartapesta sulle tele, per stuccare le giunte e raccordare le volute. Un rigoroso appiombo distingue le statue del Vitené e dei suoi successori, Enrico Dal Monte e Gaetano da quelle degli altri artigiani Le statue su manichino, anche se nate dallo stesso progetto, si modellavano una alla volta, adeguandole alla collocazione finale.

 

 

 


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 Ultimo Aggiornamento: 22/05/08.