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Superlega, l'ultimo attentato

di Gianfranco Giubilo - Ott. 1998

Verso il Terzo Millennio, con qualche apprensione. Non sarà per caso che il rimpianto dei «bei tempi», paradossalmente connotato di ogni epoca, possa finalmente acquistare un senso logico?
Sulla strada dello scetticismo ci prende per mano il calcio: che, ai «bei tempi» appunto, era un gioco e uno sport. Sul nostro amore per questo gioco, sui nostri sentimenti, sul rispetto delle tradizioni, più di una sciagura si è abbattuta, negli anni recenti, dal revisionismo di Sepp Blatter alle multinazionali, che almeno hanno il merito di aver soppiantato il mito dei «ricchi scemi».
E dopo la dilatazione della «Coppa dei Campioni» in «Coppa-dei-Campioni-o-forse-no», ora possiamo stare allegri: dal Duemila non avremo piu neanche la Champions League (Visto? Basta cambiare la lingua per mascherare il raggiro), né le sue parenti meno illustri ma pur sempre meta prestigiosa per tante società e tanti tifosi. Irrompe la Superlega, trascinandosi per mano la sorellina minore Pro Cup, auspice la costituenda European Football League. Vero e proprio campionato d'Europa per club, trentasei, tre gironi di dodici squadre, undici partite di regular season per ognuna, più un massimo di sette gare di play-off.
Rivoluzione non tanto nella formula, quanto nella filosofia dei «privilegi», società fondatrici con diritto di partecipazione in base ai risultati sportivi degli anni recenti. Tre ne vanta l'Italia (Inter, Milan e Juventus) insieme con altre tredici glorie della più fresca gloria calcistica continentale. Campo da completare secondo meriti di classifica e posti riservati ai singoli paesi: quattro per l'Italia, quindi uno oltre a quelli dei «fondatori». I cui privilegi, però, durano tre anni: poi classifiche aggiornate e possibili rotazioni.
Più ampio il campo della Pro Cup, 96 posti dei quali sei per l'Italia, le quattro migliori ammesse al primo turno, le altre due al preliminare. Ci sarebbe da piangere, se tradizione e sentimenti valessero ancora qualcosa di fronte a una prospettiva di 440 miliardi di lire a ognuna delle partecipanti alle nuove competizioni, cinque volte la cifra attualmente garantita dall'Uefa, che annuncia scomuniche, ma da uno scisma uscirebbe a pezzi.
Miliardi pagati naturalmente dal tifoso, che non potrà più sperare in diffusione tv in chiaro della squadra prediletta. Però, alla fine, si può anche indulgere all'ottimismo, visto che da non meno di quarant'anni si commemora un calcio destinato a sparire: ucciso via via dal mecenatismo, dalla violenza, dai bilanci poco chiari, dall'industrializzazione, dall'accantonamento delle «bandiere».
Pure, il calcio è ancora vivo e vitale: nonostante i Campioni che non sono Campioni, nonostante la Superlega stia per dare una mazzata terrificante all'attività delle squadre Nazionali, nonostante la volontaria perdita legata agli assidui oltraggi ai colori sociali. Saprà l'orgogliosa aquila laziale adattarsi a cedere il nido a un pomodoro rosso (e su fondo giallo poi!)?
Va meglio, in fondo, al cugino lupetto: i colori di trasferta che hanno soppiantato l'amaranto e oro capitolino sono l'arancione e il nero che richiamano l'immagine dei Cincinnati Bengals del football americano.
E una tigre, si sa, rispetto a un pomodoro è un simbolo gratificante.

 


  1. Superlega, l'ultimo attentato

  2. Annegati in una bolla di sapone

  3. Quelle squadre che arrivano doping

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  5. Sacchi, suicidio di un maestro

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  8. Sensi, una scelta da rispettare

  9. Guardalinee nun t'allargà.

  10. Il (poco) piacere dell'onestà

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