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Dino Viola, il peso di una assenza

di Gianfranco Giubilo - Feb. 1999

Un grigio, anonimo sabato di gennaio. La notizia, temuta ma purtroppo non inattesa: Dino Viola se ne è andato, il popolo rossogiallo piange il suo Presidente più amato, l'uomo che aveva riportato il tricolore a Roma dopo oltre quarant'anni. Il giorno dopo, con il lutto al braccio e nel cuore, sotto choc, la Roma perde all'Olimpico contro il Pisa, ma il tifo ha lacrime soltanto per il papà che l'ha lasciato orfano, privandolo anche dei suoi sogni.
Sono trascorsi otto anni da quel sabato crudele, il 19 di gennaio, la fine di una storia intensa e appassionata, a metà di una stagione che in ottobre aveva già lanciato nefasti segnali con la vicenda di Carnevale e Peruzzi traditi dal Lipopill, nome grottesco per un episodio altrettanto grottesco.
Undici, gli anni di una presidenza voluta e inseguita con la caparbietà e la tenacia di chi il suo posto al sole, nella vita, si era guadagnato senza gratificanti eredità o privilegi di casata.
Quando Gaetano Anzalone, in lacrime, si era arreso adeguandosi a passare la mano, per la Rometta delle facili ironie e del «pizza e fichi» avrebbe avuto inizio l'età dell'oro, una continuità di vertice mai conosciuta, e neanche sfiorata, nei precedenti cinquanta e passa anni di storia. Sarebbe limitativo ricordare il ritorno a Roma di Liedholm, la scelta di Falcao, la credibilità restituita alla vecchia bandiera porpora e oro, lo scudetto, le Coppe Italia.
Penso che a Dino Viola debba essere riconosciuto, in primo piano, la battaglia condotta per incrinare, se non infrangere, il muro di potere che le tradizionali padrone del calcio italiano avevano eretto a difesa di storiche posizioni di privilegio. Una battaglia che aveva visto Dino Viola assediato, osteggiato quasi ai limiti dell'emarginazione. Ma infine vincente nel segno dello stesso carattere e della stessa testardaggine che lo aveva portato alla guida della squadra da sempre prediletta. Lui, ligure di nascita ma capitolino affettivo fin dall'infanzia, di Roma e della Roma innamorato, mai disposto alla resa di fronte a lunghe resistenze.
Nel segno di un'amicizia sincera nel rispetto dei ruoli, e della quale tuttora sono fiero, mi piace ricordare il Dino Viola delle sottili dispute dialettiche, il «violese» che tutti impegnava in disagevole esame di interpretazione; il Dino Viola degli entusiasmi e dei sorrisi; il Dino Viola della fondamentale serenità di fronte ai momenti difficili e amari, che non sono mancati.
Otto anni non sono pochi, Presidente: ma il distacco ancora pesa, crudelmente. Con il rimpianto.

 


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  3. Quelle squadre che arrivano doping

  4. Dino Viola, il peso di una assenza

  5. Sacchi, suicidio di un maestro

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