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  Giubileo


 

di Gianfranco Giubilo - Nov. 2001

Fino a dove? Fino a quando? Intanto è lì, sulla vetta della classifica e, da quando la vittoria vale tre punti, nessuna altra squadra aveva avuto quattro punti di vantaggio sulla seconda dopo otto giornate. Il Chievo sì. Squadra di rione, conduzione familiare, un presidente che regala simpatia e lezioni di umanità ad ogni apparizione televisiva: già, proprio attraverso la comunicazione tradizionalmente più sguaiata e più sbracata. E allora le due domandine iniziali che tutti si pongono, e che trepidanti girano agli addetti ai lavori altrettanto cauti nella lettura del futuro, sottintendono più una speranza che una risposta. Forse non arriverà fino ai vertici dell'estasi pura, questo bel sogno della squadretta da bar, forse non sarà tanto lungo da proporre incubi ricorrenti alle brutte sorellastre e alla perfida matrigna, forse le scarpine a bulloni non potranno ripetere il prodigio della loro antenata di cristallo. Ma in ogni caso, credo di poter dire che ci divertiremo tutti ancora per un bel po' di tempo, una compensazione per le tante, troppe brutture offerte, ma chi le vuole?, dall'alta società del nostro campionato, così attenta alle cifre da iperbole, che altrettanto iperbolici debiti produce, e alla dura, odiosa legge del risultato al disopra di ogni altro interesse. La favola del Chievo non deve essere letta con l'unica chiave della sorpresa sportiva, dell'impresa tanto più degna di attenzione nella sua imprevedibilità. Perché la Cenerentola di provincia è capace di regalare altre perle: come il gesto di Manfredini che invita Corini a battere in fallo laterale un calcio d'angolo a favore, correggendo una svista arbitrale.

La serenità, in campo e fuori, il divertimento, l'incoscienza se volete, l'autoironia: come nel racconto di quegli allenamenti diabolici e massacranti con le magliette di tutti i colori, quando non si deve mai sbagliare l'indirizzo nel recapitare il pallone al giallo, al verde, al rosso, al blu, secondo le istruzioni del maestro. Forse anche Gigi Del Neri, simpaticissima reincarnazione di Peter Sellers, ha nella mente l'addestramento maniacale caro all'invasato Arrigo Sacchi: ma sembra vivere e dispensare la sua filosofia con il sorriso sulle labbra e la serenità negli occhi, dote come poche contagiose in positivo. E sono cose che piacciono, se è vero che all'insospettabile capolista l'intera Italia calcistica rivolge sguardi e pensieri privi di astio, fondamentale materia prima delle gradinate di ogni stadio. È un buon segnale. Perché viene forse a suggerirci sommessamente che questo nostro appuntamento domenicale (scusate, troppo lungo tenere conto di anticipi, posticipi, rinvii) impastato di rabbia, di acredine, di furbate abominevoli, di palesi disonestà, comincia ad annoiare la brava gente che non considera il cervello un optional. Se un bravo allenatore come Malesani afferma che i falli dei suoi giocatori sono "falli leali", stiamo messi male. Per il meno peggio, non resta che affidarsi a una presa di coscienza degli arbitri: fin qui, salvo rare eccezioni come Collina e Braschi, involontari complici del teppismo. A parte le ricorrenti gomitate in bocca, con tanto di celestiali espressioni di innocenza ferita, basterebbe fare un po' di attenzione all'indegno teatrino delle aree di rigore sui calci piazzati. Non bisogna inventare niente, basta il regolamento. E se, come qualcuno paventa, ci saranno dieci rigori a partita, pazienza. Poi ce ne saranno sempre meno, forse si tornerà a un'accettabile normalità. Perché anche i furbi le bastonate non amano ricerverle con molta frequenza.

 


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