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di Gianfranco Giubilo - Feb. 2001
Dedicato a un cavallo, ma non a caso. Salvo il banale consiglio di darsi all'ippica, è giusto spiegare come un periodico di calcio possa accordare la ribalta non ai piedi buoni, ma a zoccoli eccellenti. E perché, poi, su pagine tradizionalmente illustrate in rosso e in giallo. Facile: perché anche Varenne, un nome e una immagine che l'ultima domenica di gennaio hanno affascinato l'Italia e il mondo, è fondamentalmente un "lupetto", fedele alla maglia e alla bandiera. È doveroso ricordare, intanto, come per una volta l'impresa di un cavallo tutto italiano, di nascita e di scuderia, abbia tolto i titoli di testa e anche il "fondo" del più diffuso quotidiano sportivo al campionato di calcio, giocato in concomitanza. Perché il Prix d'Amerique non è una corsa di trotto: è la sublimazione della carriera di un trottatore, ed era dal 1947, l'anno del trionfo di Mistero, che un cavallo tutto italiano non trionfava nell'unico e impareggiabile campionato mondiale del trotto, sulla pista in carbonella del mitico ippodromo parigino di Vincennes. Varenne ha sei anni, per un asso del trotto è ancora la stagione della giovinezza, non quella della maturità, dunque larghi margini per un ancora più radioso futuro. Chi ha seguito la corsa in televisione, indici di ascolto da primato, chi ha visto sventolare sulle tribune parigine migliaia di tricolori, ha vissuto la sensazione di una rivincita, dopo la beffa europea di Trezeguet nell'Europeo di calcio. Che uno scugnizzo di casa nostra, acquistato a tre anni da un coraggioso avvocato napoletano e affidato a un giovane driver romano emergente, andasse a dettare legge nel regno del trotto, era un sogno impossibile. Fino a un anno fa, però, quando Varenne aveva tentato per la prima volta l'avventura dell'Amerique: beffato, ma comunque onorevolmente terzo, da una giuria sciovinista che aveva annullato due segnali felicissimi per il "Capitano", per convalidarne un terzo fasullo, con Varenne all'estrema retroguardia.
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