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di Gianfranco Giubilo - Mag. 2001
Eravamo pronti, per il segno della nobiltà. Mai, in precedenza, un derby romano aveva raggiunto un così consistente spessore, mai si era parlato di scudetto, con identiche ambizioni, sulle due sponde del Tevere, alla vigilia di una stracittadina. In occasione del primo scudetto giallorosso e dell'ultimo laziale, il divario tra le due formazioni non era particolarmente accentuato: sempre tale, però, da precludere ambizioni al "cugino" meno fortunato, al momento dello scontro in famiglia. Nel primo tricolore laziale, poco più di uno sparring, nel derby, la Rometta che ancora a lungo avrebbe stentato a decollare. E nel secondo trionfo romanista, non c'era proprio il derby, la Lazio malinconicamente in Serie B. L'ultima domenica di aprile proponeva le due squadre di Roma primattrici assolute sul piano nazionale, quasi un fastidioso terzo incomodo quella Juventus a lungo tiranna. C'erano solide fondamenta per un grande spettacolo, sul campo e ai margini, il duello tra due squadre costruite per vincere e con l'atteggiamento mentale di chi insegue il massimo obiettivo, sia pure su direttrici tattiche differenti. Su questo piano, il derby non ha deluso, regalando palpiti fortissimi, emozioni in altalena, anche l'atroce beffa di un doppio vantaggio sciupato e di un gol incassato all'ultimo secondo. Senza troppo recriminare, però: perché il risultato andava comunque valutato nell'ottica proposta dalla mezza impresa del Lecce a Torino; e perché la Lazio, lanciata in furiosa rincorsa, qualche merito se lo era pur ascritto.
Ma al derby-scudetto, il primo della storia capitolina, si chiedeva qualcosa in più: la certezza di tifoserie all'altezza dei vertici di qualità così faticosamente raggiunti, la coscienza di poter contenere la passione sportiva entro i confini della civiltà, una intelligente amministrazione di risorse che le coreografie e i canti corali, splendidi e suggestivi in Inghilterra, potevano offrire. In questo senso, si è fatto un passo indietro. Non sono molte le colpe del tifo giallorosso: anche se qualche striscione avrebbe potuto essere meno astioso e volgare, anche se qualche coro avrebbe potuto trovare nel silenzio un più nobile sostituto. Sull'altra sponda, uno sfacelo. A vuoto i ripetuti appelli di Sergio Cragnotti, che è civilissima persona; a vuoto gli stessi inviti diffusi dalla parte più responsabile della tifoseria, quella che dal delirio di pochi si sente fortemente penalizzata. Troppo facile parlare di imbecillità pura, che senza dubbio è il principale connotato del razzista becero. Al di là del deprimente livello mentale, c'era però in quegli striscioni e in quella sgradevole coreografia che offendeva la città prima ancora che una delle sue due squadre, una sorta di lucida strategia. Una ritorsione, forse, di fronte alla fermezza del patron laziale, una sorta di messaggio mafioso: a lasciar intendere che anche di peggio potrebbe accadere. Purtroppo non altro resta da invocare se non un più rigoroso atteggiamento delle forze dell'ordine. Non ci piace lo Stato di polizia, che può colpire a piacer suo criminali o innocenti. Ma qualche immagine, telecamere e fotografi dovrebbero pur offrirla, all'attenzione dei magistrati. Al di là dall'allontanamento dagli stadi, per il quale abbiamo visto teppisti atteggiarsi a martiri, una cella ben sorvegliata avrebbe forse qualche fattore deterrente in più. E se poi la chiave va perduta, pazienza.
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