Il lamento della figlia di Jefte

  
Era nato a Marino, la bella cittadina vicina a Roma, il 18 aprile 1605; era stato cantore e organista della cattedrale di Tivoli; era divenuto maestro di cappella del duomo di Assisi e, poi, della basilica S. Apollinare a Roma; fu ordinato sacerdote nel 1637 e visse in modo riservato e semplice nella città papale fino alla morte che lo colse ill 2 gennaio 1674.
È questa per sommi capi, la biografia di Giacomo Carissimi, uno dei maggiori musicisti del Seicento, autore di un numero enorme di testi musicali, dalle Messe ai mottetti, dalle cantate agli oratori.
Ecco, è proprio a uno dei suoi oratori che ora facciamo riferimento, anzi, il più celebre, Jefte, fatto di poco più di 25 minuti di musica stupenda e raffinata. Alla base di questa rappresentazione sacra drammatica (ma senza le scene) - tale è, infatti, l”oratorio”, genere musicale fiorito con la Riforma cattolica - c’è una pagina potente e sconcertante dell’Antico Testamento che ha per protagonista una specie di bandito, figlio di una prostituta, Jefte appunto.
Egli è chiamato dalla sua vita emarginata a diventare “giudice”, cioè governatore di Israele non ancora politicamente unificato in uno Stato nella terra appena conquistata.
Le tribù ebraiche sono, infatti, in difficoltà nel confronto-scontro con una popolazione forte e battagliera, gli Ammoniti, residenti nell’attuale Giordania, attorno alla capitale Amman.
Gli Israeliti si affidano, allora, a questo personaggio un po’ strano, circondato da un suo piccolo esercito di sbandati ed egli ingaggia una guerra fulminea contro i nemici di Israele, facendo un voto a Dio: secondo la sua mentalità un po’ grossolana, promette al Signore di offrirgli un sacrificio umano in caso di vittoria e, più precisamente, la prima persona che avrebbe incontrato rientrando a casa.
«Ed ecco», si narra nel capitolo II del libro dei Giudici, «venirgli incontro la figlia, con timpani e danze: era la sua unica figlia perché non aveva altri figli o figlie! Appena la vide, si stracciò le vesti e gridò: Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Ma io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarla! ».
Nell’oratorio di Canssimi questo grido si trasforma in un lamento indimenticabile, tragico e accorato, mentre la ragazza implora suo padre di concederle due mesi per «vagare tra i monti a piangere la verginità», cioè l’impossibilità di avere un figlio che avrebbe ricordato il suo nome e prolungato il tempo della sua vita. La lamentazione della donna, liberamente ricreata nell’oratorio di Carissimi, è uno dei vertici più alti dell’opera ed è solo nell’ascolto che è possibile coglierne il pathos e la fragranza, destinata com’è a illustrare una tragedia umana e spirituale.