IL “PASTORE”

Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore.
(Giovanni 10,11)



La via dominante per parlare di Dio è quella simbolica e la Bibbia ne è una testimonianza continua, vivida e affascinante. Si parte da segni concreti del mondo o dell’esperienza e si identificano in essi elementi che ci possono condurre verso l’alto, verso la pienezza e la perfezione, verso Dio. Ora, è noto che la matrice del popolo ebraico è nomadica e quindi legata alla vita pastorale, spesso sentita in tensione con quella sedentaria: emblemdtica è la scena di Abele, pastore, e Caino, agricoltore, col suo esito tragico. La Bibbia rivela spesso una certa nostalgia per il nomadismo, anche sulla base della vicenda esodica, quando Israele aveva vagato per quarant’anni nelle steppe dcl Sinai.

Ma ritorniamo al simbolismo pastorale e alla sua applicazione teologica al Signore che è chiamato anche nel Nuovo Testamento «il Pastore grande delle pecore» (Ebrei 13,20). In questa immagine due sono le componenti fondamentali. Da un lato, il pastore è la guida del gregge. Come dice il Salmo 23,4: «il suo bastone e il suo vincastro danno sicurezza» e guidano attraverso la valle oscura. Oppure, come dice Gesù, il pastore «deve condurre il gregge» all’ovile e le pecore «ascoltano la sua voce e lo seguono» (Giovanni 10,3-4).

D’altro lato c’è, però, un altro elemento rilevante a cui spesso non si bada: il pastore è il compagno di vita e di viaggio del suo gregge. Nel Salmo citato si afferma di «non temere alcun male perché tu sei con me». Egli non mette in salvo prima sé stesso, non si sfama o si disseta indipendentemente dal suo gregge, bensì ne condivide l’esistenza. Con un’immagine pastorale particolare, quella dell’otre che contiene l’acqua necessaria durante il trasferimento da un’oasi all’altra, il Salmista afferma che il Pastore divino «le mie lacrime nell’otre suo raccoglie» (Salmo 56,9), impedendo che le sofferenze si dissolvano nel non senso e nel nulla. Anzi, Gesù dichiara che il pastore «offre la vita per le pecore».


Il simbolismo ha spesso un profilo antitetico. Lo insegna il profeta Ezechiele quando nel capitolo 34 del suo libro delinea il comportamento dei pastori di Israele, ossia dei capi politici e religiosi, che si preoccupano solo di «nutrirsi di latte, di rivestirsi di lana, di ammazzare le pecore più grasse, ignorando le pecore deboli, non curando le inferme, non fasciando le ferite, non riportando le disperse».

Nel Vangelo di Giovanni al pastore è opposto, invece, il mercenario: egli nell’ora del pericolo è pronto solo a salvare sé stesso. Forse anche Gesù allude ai sacerdoti, agli scribi, ai politici del tempo o agli zeloti, i ribelli antiromani, tutti pronti a raggiungere i loro scopi e a tutelare i loro interessi, non certo a donare la vita per il gregge.

Il buon pastore — o, come dice il testo greco del capitolo 10 di Giovanni, il “bel pastore” — è colui che conosce e ama il suo gregge. È su questo modello che devono esemplarsi anche i pastori della Chiesa, a partire da Pietro che riceve la missione di pascere le pecore del gregge di Cristo (Giovanni 21, 15-17). È proprio san Pietro ad ammonire i pastori della Chiesa a «pascere il gregge di Dio..., facendosi modelli del gregge» (si legga 1 Pietro5, l-4).



LE PAROLE PER CAPIRE

MERCENARIO - Era il lavoratore salariato assunto a giornata con una “mercede~ pattuita volta per volta e versata a lui prima del tramonto del sole, al termine della sua prestazione (Levitico 19,13). Si ricordi la parabola dei lavoratori mandati nella vigna a ore diverse (Matteo 20,1-16).

PIETRA ANGOLARE - Si trattava della pietra che si metteva a base di un edificio o di quella che teneva insieme la volta di una sala. La sua funzione decisiva a livello architettonico l’aveva resa simbolo per designare il tempio di Sion (Salmo 118,22) oppure lo stesso Cristo all’interno della storia della salvezza (Marco 12,10) o della Chiesa (Efesini 2,20; 1 Pietro 2,4-8).