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 parla la figlia del presidente allende

 
 

NIENTE DI PERSONALE, MA..."

di FRANCESCO ANFOSSI

"Non mi importa che Pinochet sia arrestato, ma processato. Nei confronti dell’ex dittatore non desidero vendetta, ma solo giustizia e verità".

Non mi interessa vedere Augusto Pinochet dietro le sbarre di una cella. Ormai è troppo vecchio. Del resto anche la giustizia spagnola, che ne ha chiesto l’estradizione, non lo prevede. Torni pure nel suo Cile, anche se a mio padre aveva offerto l’esilio. Quello che davvero mi interessa è che venga condannato, che il popolo cileno possa finalmente avere verità e giustizia".

Isabel Allende, una delle tre figlie del presidente Salvador Allende, continua a scandire questo binomio a ogni occasione. Perché, spiega, "sono i due pilastri su cui si fonda la Costituzione di qualsiasi popolo". Senza verità e giustizia, "la verità sui massacri, le torture, i desaparecidos e la giustizia su quei misfatti, non ci sarà mai una democrazia compiuta".

Nella vita di Isabel ci sono quindici anni di esilio. Da Santiago, dove è tornata nel 1988, si è precipitata a Londra: per assistere alle sedute dei Comuni e dei Lords sulla richiesta di estradizione del vecchio dittatore, e per sensibilizzare l’opinione pubblica di mezza Europa. Mantenere viva la memoria di suo padre è la missione di questa sociologa di 54 anni, deputata socialista, con una cugina omonima scrittrice di successo che vive negli Stati Uniti: "Ogni tanto qualcuno mi porta un suo libro e mi chiede di autografarlo, io lo faccio egualmente spiegando chi sono e che cosa voglio che rimanga vivo nel mio ricordo".

È stata lei stessa a definirsi "ambasciatrice delle coscienze". Da Londra a Madrid, per assistere alle audizioni del giudice Garzón e per ripetere ancora una volta che la richiesta di estradizione è già una vittoria morale, "perché Pinochet è già stato condannato dal mondo. Se Pinochet è diventato oggetto di sette richieste di estradizione in tutta Europa, dalla Germania all’Italia, dalla Spagna alla Francia, allora sarà possibile far sì che lo stesso avvenga in Cile, dove per venticinque anni il dittatore è rimasto un intoccabile".

Nelle sue parole non c’è astio, non c’è desiderio di vendetta personale. "Sono deputata in Parlamento e quasi ogni giorno mi imbatto nei generali che facevano parte della giunta militare di Pinochet e che il tiranno ha voluto venissero eletti senatori, senza consultazione popolare. Per non parlare delle persone che collaborarono con il suo regime. Ci salutiamo educatamente, ci diciamo buongiorno e buonasera. Siamo in democrazia, ormai, anche se è una democrazia che deve crescere. Che cosa penso della famiglia Pinochet? Provo solo indifferenza, null’altro. Non ho mai conosciuto nessuno di loro, nemmeno le figlie".

Gli stessi sentimenti li riserva per gli altri imputati del processo di cui Garzón è pubblico ministero. Una lunga lista di grandi ufficiali e collaboratori, 35 in tutto, da Manuel Contreras a Pedro Espinoza, oggi generali a riposo. Una specie di Norimberga cilena, fatta di criminali, torturatori, responsabili della Dina, la terribile polizia politica, di mandanti di omicidi dentro e fuori il Cile. "Anche l’Italia è stato teatro di queste persecuzioni: voglio ricordare il tentato omicidio di Bernardo Leighton, democristiano cileno, nell’ottobre 1975, e l’omicidio di Orlando Letelier, ministro degli Esteri di mio padre. Ho desiderato la verità e nient’altro fin dal primo momento. E non mi impressionano le manifestazioni a Santiago in favore del tiranno. Si tratta di una minoranza, quella dell’estrema destra, anche se è una minoranza che strilla". Sentimenti provati fin da quando la giovane Isabel, quell’11 settembre del 1973, lasciò le sale del Palazzo della Moneda, dove un pugno di fedelissimi si stringeva intorno al suo presidente, al El Chico come lo chiamavano affettuosamente la moglie e le figlie, preparandosi all’ultimo assalto. "Qui si va fino alla fine", le sussurravano accompagnandola fuori del Palazzo.

"Mio padre sapeva che da lì a poco avrebbero bombardato la Moneda, ma rifiutò l’offerta di consegnarsi e prendere la via dell’esilio. Voglio rimanere leale al mio popolo, anche a prezzo della vita, mi disse. Poi aggiunse che le grandi strade della libertà si sarebbero aperte e che il suo esempio avrebbe varcato i confini, che le libere coscienze avrebbero trionfato. Ho pensato a quelle parole mille volte. Le trovo incredibili, molto poetiche, davvero".

(Tratto da Famiglia Cristiana http://www.stpauls.it/fc98/4598fc/4598fc28.htm)