Italo Moretti racconta il
Sud America
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Il
giornalista Italo Moretti, ex inviato della Rai,
ricostruisce una pagina di storia sugli anni dei
desaparecidos.
Nel
libro In Sudamerica (edito da Sperling
& Kupfer per la collana “Continente
desaparecido” diretta da Gianni Minà) Moretti
racconta trent’anni di storie latinoamericane
dalle dittature degli anni Settanta al difficile
cammino verso la democrazia. Inviato della Rai
(è stato anche direttore del TG3) fu tra i
giornalisti ad entrare nello stadio-prigione di
Santiago subito dopo il golpe di Pinochet. E fu
tra i primi a dare risalto alle denunce delle
madri e delle nonne di Plaza de Mayo quando la
stampa italiana taceva sul silenzioso genocidio
messo in atto dai generali. In Sudamerica è
un libro che si snoda rapido come un
documentario televisivo, ma nello stesso tempo
stupisce e commuove. «Sono stato testimone di
lotte e di speranze - dice - di errori e di
orrori, di viltà e di eroismi che era opportuno
recuperare dalla memoria e proporli in un
libro».
Testo dell'intervista
dell'Unione Sarda a Italo Moretti
(http://www.unionesarda.it/unione/2001/13-02-01/CULTURA/CLT01/A01.html)
Nell’autunno
del 1998 il generale Augusto Pinochet riceve a
Londra il mandato di arresto su richiesta del
giudice spagnolo Garzòn per i crimini commessi
in Cile durante la sua dittatura: sull’estradizione
si apre un caso internazionale che susciterà
molte polemiche sino alla liberazione dell’ex
dittatore. Oggi Pinochet si trova agli arresti
domiciliari nella sua villa fuori Santiago, in
attesa di un giudizio per i massacri commessi
dalla cosiddetta “carovana della morte”.
Nel dicembre scorso si è chiuso a Roma con
sette condanne il processo contro generali e
militari argentini accusati dell’uccisione di
otto cittadini italiani (tra cui due giovani
emigrati sardi) desaparecidos in Argentina.
Intanto sui giornali continuano ad emergere
storie di bambini nati nei centri clandestini di
detenzione e dati in adozione ai militari,
mentre le loro madri venivano uccise. Quei
bambini, diventati giovani di 22-24 anni,
scoprono ora di essere cresciuti nelle case dei
carnefici dei loro genitori. L’ultimo caso è
di qualche giorno fa: Rosa Roinsinbit,
vicepresidentessa dell’associazione delle “Nonne
di Plaza de Mayo” ha ritrovato il nipote
Rodolfo, nato nel 1978 nel famigerato centro
clandestino della Scuola di meccanica della
Marina (Esma). La madre Patricia era stata
prelevata dai militari mentre era incinta di
otto mesi e poi scomparsa poco dopo il parto.
Rodolfo venne dato in adozione a un ufficiale
dell’Aviazione, Francisco Gomez, che faceva
parte dei “gruppi di lavoro” dell’Esma (i
sequestratori) e che partecipò a numerosi “voli
della morte” durante i quali i prigionieri,
dopo essere stati drogati, venivano gettati nell’Oceano
dall’aereo e sparivano senza lasciare traccia.
La stessa fine che fece il sardo di Tresnuraghes
Martino Mastinu, detto “El Tano”, leader del
sindacato nei cantieri navali di Tigre.
Rodolfo è stato sottoposto ai test genetici del
Dna e presto il giudice dovrà restituirlo alla
famiglia naturale.
Mentre gran parte del continente sudamericano è
oggi governato da presidenti di centrosinistra,
le cronache politiche recenti richiamano
continuamente fatti che hanno le loro radici nei
decenni dominati da spietate dittature militari.
Eventi lontani dalla memoria della gente o
ignorati dall’informazione ufficiale, si
ripropongono con forza all’attenzione della
stampa mondiale. A Santiago il giudice Guzman
continua la sua inchiesta contro Pinochet, ma il
vecchio ex dittatore resiste in tutti i modi per
non essere portato davanti a un tribunale del
suo Paese, quel Cile che per oltre vent’anni
ha dominato col pugno di ferro. Ma cosa è
accaduto in quegli anni bui quando a Santiago il
giovane generale Pinochet aveva trasformato gli
stadi in enormi prigioni per rinchiudere
migliaia di dissidenti? Chi erano e perché
furono barbaramente eliminati i trentamila
desaparecidos in Argentina?
Il giornalista Italo Moretti, testimone di quel
tempo, ricostruisce una pagina di storia in
Italia volutamente trascurata perché fa
emergere le responsabilità e le connivenze di
politici, diplomatici, rappresentanti della
Chiesa, giornalisti e imprenditori che coprivano
o facevano ottimi affari con i militari
golpisti.
Moretti, lei è stato chiamato a testimoniare al
processo di Roma contro i generali argentini. Ai
giudici italiani ha svelato il ruolo della
Chiesa, complice del regime di Videla.
«Il nunzio apostolico Pio Laghi sicuramente
sapeva tutto, era a conoscenza di cosa avvenisse
nei centri clandestini. Eppure continuava a
giocare a tennis con l’ammiraglio Massera, uno
dei più feroci repressori. La Chiesa fu
complice soprattutto con i cappellani militari
come monsignor Tortolo, che benedicevano e
giustificavano i torturatori. Ma bisogna
ricordare anche i sacerdoti che si schierarono
apertamente e furono uccisi come il vescovo
Enrique Angelelli, investito da un’auto all’uscita
dalla messa».
In Cile invece la Chiesa fu uno dei pochi
baluardi contro Pinochet.
«Il cardinale Raùl Silva Henrìquez è stato
il cileno più amato dagli oppressi e odiato dai
militari, campione dei diritti umani in un paese
terrorizzato da vent’anni di dittatura. In
Cile i desaparecidos furono almeno tremila, ma
non si può quantificare la spietatezza di un
regime col numero delle vittime. Silva
Hernrìquez continuava a denunciare i crimini,
ad aiutare i poveri e ad assistere i familiari
dei desaparecidos».
È vero che il governo italiano e i nostri
diplomatici coprirono il regime dei generali
argentini?
«I desaparecidos documentati nella relazione
ufficiale “Nunca mas” sono 8960, sebbene si
sappia che furono almeno trentamila. In questo
tragico elenco figurano moltissimi nomi
italiani. Ma quando alla fine degli anni
Settanta le madri degli scomparsi vengono a Roma
restano deluse trovando sbarrate le porte di
Palazzo Chigi e della Farnesina. Nessuno le
vuole ricevere o per loro ci sono solo parole di
circostanza. L’atteggiamento delle autorità
italiane è morbido: in Parlamento il genocidio
argentino non riesce a diventare un caso. Quella
dell’Italia è una scelta politica: è lecito
il sospetto che il ministero degli Esteri non
desse rilievo a quanto stava succedendo perché
in Argentina c’erano fortissimi interessi e
investimenti dei maggiori gruppi italiani come
la Fiat e la Pirelli».
Lei riporta la testimonianza del console Enrico
Calamai, uno dei pochi che aiutò gli italiani a
nascondersi e a fuggire.
«Mentre la nostra sede diplomatica su ordine
dell’ambasciatore Carrara si era trasformata
in una sorta di bunker nel quale nessuno poteva
entrare, Calamai si adoperò in tutti i modi per
salvare centinaia di giovani. Calamai ha
testimoniato che sicuramente Carrara era amico
dei militari, ma che gli ordini arrivavano da
Roma».
Quando in Italia si ebbe l’esatta idea che l’Argentina
era stata trasformata in un gigantesco
mattatoio?
«Sin dall’inizio si sapeva, le notizie
arrivavano, io stesso feci numerosi servizi per
la Rai dall’Argentina e dal Cile. Ma solo dopo
la guerra delle Falkland e la caduta del regime
la stampa si accorse che un’intera generazione
era stata cancellata in silenzio da una perfetta
macchina di morte. Fu allora che il “Corriere
della Sera”, cacciato il direttore pidduista,
pubblicò l’elenco di centinaia di
desaparecidos italiani e che il presidente
Pertini fece pressioni perché si aprissero
processi contro i militari responsabili del
genocidio».
Dopo vent’anni i giudici della Corte d’Assise
di Roma hanno condannato due generali e quattro
sottufficiali per la scomparsa di otto cittadini
italiani, tra cui i sardi Martino Mastinu e
Mario Bonarino Marras. Difficilmente, però,
finiranno in carcere. Hanno senso questi
processi?
«L’importante non è che qualcuno finisca in
cella, ma il giudizio della storia. La sentenza
di Roma ha ristabilito la verità, ha consentito
di dare voce a chi è stato sequestrato,
torturato e fatto sparire nel più assoluto
silenzio. L’importante è aver restituito la
memoria non solo agli otto desaparecidos di cui
si è parlato nel processo, ma a tutti i
trentamila scomparsi nei lager o nell’Oceano».
Carlo Figari
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