6 Ottobre 1974.
Dai quaderni sfuggiti alla perquisizione dei
militari cileni dopo il "golpe" esce,
come da un affascinante romanzo, la
straordinaria vicenda umana di Pablo Neruda, il
grande poeta cileno (premio Nobel 1971)
scomparso un anno fa. I viaggi, gli amori e le
lotte dello scrittore che da ragazzo sognava
sulle pagine di Salgari e che nella sua lunga
vita ebbe, tra gli amici più cari, Garcia
Lorca, Pablo Picasso e Slavador Allende.
OGNI NOTTE UNA BELLA BIRMANA VOLEVA
PUGNALARLO NEL SONNO
Santiago, 24 settembre 1973, un
lunedì. I primi raggi di sole, di una tiepida
alba della primavera cilena, illuminano quella
casa in Calle Marquez de la Plata. È una
costruzione bassa, a più blocchi, dalle pareti
esterne color giallo e blu intenso. Quando una
pattuglia di soldati vi giunge davanti, tutto
intorno è silenzio. Un silenzio assoluto che
rivela la drammatica tensione in cui vive la
città a quattordici giorni dal colpo di stato
militare che, in Cile, ha soffocato nel sangue
il sogno di democrazia di Salvador Allende.
A un ordine, i soldati si lanciano contro la
casa. Ne forzano il cancello, ne divelgono la
porta d'ingresso, la loro furia devastatrice
infrange vetri, distrugge mobili e quadri, si
accanisce su ogni cosa e su tanti, tanti libri.
La casa, i libri sono di Pablo Neruda ma il
poeta cileno, che soltanto due anni prima ha
ricevuto il premio Nobel per la letteratura, non
può assistere a questo scempio. L'orologio
della sua vita di uomo e di artista si è
fermato poche ore prima, alle 22.30 del ventitré
settembre, in una camera della clinica Santa
Maria a Santiago.
Così, quella mattina, mentre gli uomini di
cultura di tutto il mondo piangevano la morte
del poeta più grande che il Cile abbia avuto, i
militari del generale Augusto Pinochet
"celebravano", la sua perdita cercando
rabbiosamente i quaderni su cui egli aveva
finito di scrivere, appena nove giorni prima,
l'autobiografia. Era un documento importante per
loro perché Neruda, che era legato a Salvador
Allende da profonda amicizia, aveva avuto tutto
il tempo di scrivere su quelle pagine tante cose
"scomode". Che Allende, per esempio,
non si era ucciso, come volevano fare credere
gli autori del colpo di stato, ma era stato
assassinato; che il suo corpo era stato
crivellato dai colpi delle mitragliatrici di
quei soldati che avevano tradito, ancora una
volta, il Cile. Ma quando i militari giunsero
nella casa di Neruda, i suoi quaderni erano già
stati messi al sicuro da amici fidati. Ora, in
occasione del primo anniversario della morte del
poeta, vengono pubblicati in Italia dalla
SugarCo. Il volume, il cui titolo originale è
"Confesso che ho vissuto", è
l'affascinante romanzo della vita di un uomo che
non ha mai separato la poesia dall'impegno umano
e civile.
I PRIMI VERSI PER LA MATRIGNA
Racconta Neruda che negli anni dolci
dell'infanzia, quando il mondo è una continua
scoperta, scrisse la sua prima poesia. Era
allora un ragazzino mingherlino che trascorreva
gran parte delle giornate nelle campagne di
Temuco, alle falde della cordigliera delle Ande.
Passeggiate per lui affascinanti e dalle quali
tornava, eccitato, con le tasche piene di
scarabei. A sera, si immergeva nella lettura dei
romanzi di Emilio Salgari: le avventure di
Sandokan lo mandavano in estasi. E la storia in
cui il suo eroe era state salvato, in Malesia,
da sicura morte per fame, dall'albero del pane,
il poeta la ricorderà molti anni dopo.
Una sera, dunque, il piccolo Neruda si sentì
pervadere da una strana emozione. Non sapeva
cosa fosse, era la prima volta che provava
questa sensazione, e per la prima volta si trovò
a scrivere alcune parole su un foglio. Parole
diverse da quelle che usava abitualmente, quasi
in rima; parole che parlavano di sua madre (era
in realtà la sua dolce matrigna perché la
madre di Neruda era morta poco dopo averlo messo
al mondo). Emozionato, trascrisse la poesia in
bella copia e corse in salotto dove i suoi
genitori stavano conversando. Il padre prese il
foglio dalla grafia incerta, lo lesse
velocemente e glielo restituì chiedendogli da
dove avesse copiato quelle cose... Fu così,
racconta Neruda nelle sue memorie, che scrisse
la sua prima poesia; e fu così, aggiunge con
ironia, che, per la prima volta, la
"critica letteraria" si occupò della
sua opera.
Neruda si chiamava in realtà Ricardo Eliecer
Neftali Reyes y Basoalto, un nome sontuoso per
il timido e gracile figlio del conducente di un
treno che trasportava ghiaia. Un nome che, però,
si sarebbe adattato bene a un poeta se il padre
non avesse cercato con tutti i mezzi di
impedirgli di continuare a scrivere versi.
Allora Ricardo, quando a quindici anni inviò
alcune poesie a una rivista letteraria, pensò
di cambiare nome. Scelse il primo che gli venne
in mente, Neruda, e soltanto molti anni dopo
scoprì che era lo stesso di uno scrittore
cecoslovacco dell'Ottocento.
Nel 1927 (aveva soltanto ventitré anni) Pablo
Neruda cominciò una nuova vita. Dopo aver
vissuto e studiato a Santiago, nella turbinosa
atmosfera bohémiènne degli intellettuali
sempre con pochi soldi in tasca e tanta voglia
di scrivere (in quegli anni aveva pubblicato le
prime raccolte di poesie,
"Crepuscolario", "Venti poemi
d'amore e una canzone disperata"), a Neruda
ven ne offerto di diventare console del Cile
all'estero. Tutto fu così improvviso, quasi
casuale, che quando il poeta si trovò di fronte
al ministro degli Esteri che gli elencava le
sedi diplomatiche vacanti, scelse Rangoon in
Birmania. Lui, in realtà, non sapeva nemmeno
dove Rangoon si trovasse: aveva pronunciato quel
nome perché era l'unico che, per l'emozione,
era riuscito ad afferrare fra i tanti che il
ministro gli aveva elencato. Ricorda Neruda nel
suo libro che soltanto dopo, su un vecchio e
ammaccato mappamondo, scoprì dove sarebbe
andato a vivere e a lavorare.
A Rangoon, Neruda aveva appuntamento con uno dei
più intensi e pericolosi amori della sua vita.
In quella città, in quel Paese così
"diverso ", il poeta rifiutò di
vivere, come molti altri diplomatici, in una
sorta di "splendido isolamento",
lontano dalla realtà che li circondava. Anzi,
lui preferiva aggirarsi per le strade di
Rangoon, entrare in contatto con la gente,
sedersi in quei locali caotici, in Cile,
racconta "si beveva il miglior tè del
mondo e nei quali un diplomatico non avrebbe mai
osato mettere piede". Fu proprio in uno di
questi giri per la città che gli occhi di
Neruda si in contrarono con quelli di una
bellissima ragazza indigena. Si chiamava Josie
Bliss e fu un amore a prima vista, intenso,
travolgente, forse troppo bruciante per quella
ragazza che, in pubblico, amava vestire
all'inglese, ma in casa indossava il
tradizionale sarong dai colori smaglianti.
L'INCONTRO CON LA MANGUSTA
Infatti, dopo alcuni mesi, Josie cominciò ad
essere gelosa. Sospettava delle lettere che
Neruda riceveva dal Cile, delle persone che lo
avvicinavano, di ogni cosa. Era giunta a un tale
stadio di gelosia che il poeta l'aveva sorpresa
più volte aggirarsi intorno al suo letto,
mentre lui dormiva, brandendo un affilato
pugnale con la chiara intenzione di ucciderlo,
ma senza mai decidersi a farlo. E forse questa
sarebbe stata la tragica conclusione del loro
amore se a Neruda non fosse arrivato l'ordine di
trasferirsi nella sede diplomatica di Colombo,
nell'isola di Ceylon. Quella partenza fu quasi
una fuga. Il poeta infatti lasciò la sua casa e
l'ignara Josie Bliss senza neanche una valigia,
come se andasse a fare una breve passeggiata.
Era l'unico modo per evitare le conseguenze
della terribile gelosia della donna.
Sin da piccolo, sin da quando correva per le
campagne intorno a Temuco, Pablo Neruda aveva
sempre voluto bene agli animali. A Ceylon fu
proprio un piccolo animale che divenne il suo
migliore amico. Era una mangusta, una di quelle
simpatiche bestiole che sanno però diventare
terribili quando incontrano un serpente: lo
assalgono e lo uccidono senza pietà. Neruda
aveva raccolto la mangusta ancora piccola ai
margini di una foresta poco dopo l'arrivo
nell'isola e, da allora, era entrata nella sua
vita, gli stava sempre vicino, lo seguiva
dovunque e quando, all'ora della siesta, il
poeta si appisolava lei si accucciava fra la sua
spalla e la testa e lì si addormentava.
Un giorno, racconta Neruda nel suo libro, questa
bestiola gli fece fare una terribile brutta
figura. Alcuni ragazzi si era no presentati a
casa del poeta invocando l'aiuto della mangusta.
Sulla strada, poco distante, c'era un grosso
serpente e Kiria, così si chiamava
l'animaletto, era la sola che avrebbe potuto
ucciderlo. Fiero di poter mostrare il coraggio
del suo piccolo amico, Neruda prese in braccio
la mangusta, seguito dai bambini, si diresse
verso il luogo in cui si trovava il serpente.
Era un esemplare della nera e micidiale vipera
di Russell e se ne stava tranquillamente a
prendere il sole su un grosso tubo dipinto di
bianco. Il poeta avanzò fino a pochi passi del
rettile e quindi lasciò libera la sua mangusta.
Kiria cominciò ad avvicinarsi con
circospezione, Neruda e i bambini trattenevano
il fiato in attesa della terribile battaglia che
di lì a poco sarebbe scoppiata. Il serpente alzò
la testa, fissò per un attimo la mangusta, poi,
lentamente, aperse le fauci. Kiria, tra la
sorpresa di tutti, cominciò a fuggire
precipitosamente e non si fermò fino a casa.
Nonostante questa piccola
"vigliaccheria", l'amicizia fra Neruda
e Kiria sarebbe durata ancora a lungo se la
mangusta. che lo aveva poi seguito fra mille
difficoltà doganali a Batavia (l'odierna
Djakarta), la sua nuova sede diplomatica, un
giorno non fosse improvvisamente scomparsa.
Uccisa? Rubata? Neruda non lo seppe mai e soffrì
molto per la sua perdita.
L'OMBRELLATA DI ELSA MORANTE
Nel 1932 si concluse l'esperienza orientale
del ventottenne Pablo Neruda. In quegli anni
Neruda aveva sempre continuato a scrivere e
stavano già maturando le raccolte di versi in
più volumi "Residenza in terra ". Lo
attendevano sedi diplomatiche ancora più
importanti, Buenos Aires, Madrid, Città di
Messico, Parigi, la drammatica esperienza della
guerra civile spagnola, l'elezione a senatore
della Repubblica cilena e, successivamente, la
persecuzione politica e l'esilio. Anni di lotte,
di tensioni, anni in cui Neruda avrebbe
incontrato alcuni dei personaggi più
significativi del nostro secolo, come Garçia
Lorca e Pablo Picasso, e avrebbe scritto opere
come "Canto Generale".
Fu quando era console a Buenos Aires che Neruda
conobbe Federico Garçia Lorca. Fra i due nacque
subito una profonda amicizia, un affiatamento
totale. Racconta Neruda che ad un banchetto,
offerto in loro onore dal Pen Club di Buenos
Aires, quando si giunse al momento dei discorsi
lui e Garçia Lorca si alzarono
contemporaneamente in piedi. I vicini di tavolo
di Neruda, creclendo che avesse commesso una
gaffe, cominciarono a tirarlo per la giacca
pregandolo di sedersi fintantoché il poeta
spagnolo non avesse finito di parlare. Invece,
non si trattava di un errore: i due amici si
erano accordati in precedenza per parlare
insieme; ognuno di loro avrebbe detto una frase,
e così fecero. Quella sera il discorso, che
improvvisarono, fu dedicato al poeta Ruben
Dario.
Anche Pablo Picasso divenne un grande amico del
poeta cileno. Di lui Neruda ricorda un episodio
avvenuto a Parigi nel periodo in cui il poeta si
trovava in esilio nella capitale francese. Era
allora ospite nella fastosa casa di François
Giroux al Palais Royal e lì, su una parete,
c'era un grande quadro del pittore spagnolo. Si
trattava di una tela del periodo cubista,
un'opera che a Neruda piaceva moltissimo. Quando
un giorno Pablo Picasso andò nella casa a
fargli visita. Neruda gli parlò con entusiasmo
di quel quadro. Il pittore allora fissò per
qualche minuto, con attenzione, la sua vecchia
tela e poi concluse che, sì, in fondo, non era
proprio male.
Neruda ricorda anche un suo viaggio in Italia
nell'immediato dopoguerra. Era stato invitato
nel nostro Paese per una serie di conferenze
durante le quali avrebbe anche letto alcune
delle sue poesie. Non fu un'esperienza
completamente tranquilla. Infatti a Napoli, una
mattina, alcuni poliziotti si presentarono al
suo albergo e gli comunicarono, senza fornire
alcuna spiegazione, che doveva immediatamente
abbandonare l'Italia perché era stato espulso.
Sorpreso e anche un po' amareggiato, cominciò
dunque il suo viaggio verso la frontiera in
compagnia di due poliziotti. Giunto alla
stazione di Roma, dove doveva cambiare treno,
Pablo Neruda si trovò circondato da una folla
di scrittori e di intellettuali italiani che
gridavano il suo nome. C'erano anche Alberto
Moravia, Elsa Morante, Carlo Levi, il pittore
Renato Guttuso. I poliziotti cercarono di
arginare l'assalto di tutta quella gente e ne
nacque un parapiglia. Neruda ricorda che vide
Elsa Morante colpire sulla testa uno dei
poliziotti con un ombrellino di seta. Tutti
gridavano che era ingiusto, inammissibile che
Pablo Neruda venisse espulso dall'ltalia. La
situazione rischiava di diventare veramente
pericolosa quando, improvvisamente, giunse la
notizia che era stato revocato l'ordine di
espulsione del poeta cileno.
CON MAO E FIDEL CASTRO
Pablo Neruda non abbandonò mai la sua
vocazione di vagabondo del mondo. Fra un viaggio
e l'altro (fu anche molte volte in Cina e
nell'Unione Sovietica), fra un incontro, breve
ma intenso, con Mao Tse tung e un lungo
colloquio con Fidel Castro, continuò a scrivere
poesie. Quando nel 1971 ricevette il premio
Nobel per la letteratura Pablo Neruda aveva
sessantasette anni, era ambasciatore del Cile a
Parigi, era un uomo sereno e felice insieme con
la moglie Ma tilde Urrutia.
Restò in Francia ancora un anno poi, all'inizio
del 1973, decise di rientrare in Cile, di
tornare a quella sua casa in cui aveva raccolto
tanti giocattoli ("perché servono a
conservare in un uomo quello che di bambino c'è
in lui "), alcune polene, una collezione di
navi in bottiglia e le splendide conchiglie che
da tempo andava raccogliendo. Lavorava alle sue
memorie, aveva in mente alcune idee per altre
nuove opere ma l'orologio della vita stava
segnando le ultime sue ore. Qualche mese, poi la
morte.Questo libro, che ora viene pubblicato in
Italia, è stato il suo ultimo saluto.
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