Mosè, l'uomo che parlava con Dio


«Mosè era il più mansueto di tutti gli uomini apparsi sulla terra...

Egli è il mio servo, l’uomo di fiducia di tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui in visione diretta e non per enigmi ed egli contempla l’immagine del Signore» (Numeri 12,3.7-8).

Questa epigrafe solenne posta sulle labbra stesse di Dio esalta Mosè, la grande guida di Israele verso la terra promessa. Dopo la sua morte sulla vetta del monte Nebo, davanti a quella terra che egli non avrebbe calpestato, la stessa Bibbia lo “canonizzerà” con queste parole: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui col quale il Signore parlava faccia a faccia... Uomo di pietà, universalmente stimato, aniato da Dio e dàgli uomini, il cui ricordo è in benedizione, glorioso tra i santi, potente contro i nemici » (Deuteronomio 34,10; Siracide45,l-2).

Abbiamo deciso di farlo transitare fugacemente sulla nostra ribalta, ove sfilano i personaggi biblici, in questa domenica della Santissima Trinità perché egli si affaccia nella prima lettura tratta dal capitolo 34 dell’Esodo. È il momento in cui egli ascende sulla cima del Sinai dopo aver approntato le tavole della Legge che gli è stata rivelata da Dio stesso.

Ed è in quella cornice solitaria e solenne che il Signore offre a Mosè una stupenda auto- definizione, una sorta di "carta d’identità” divina, tutta modulata sulla misericordia e sull’amore: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (34,6).

Per tracciare una fisionomia completa di Mosè ci vorrebbero pagine e pagine perché egli è il protagonista della vicenda capitale nella storia dell’Israele biblico, quella dell’esodo dall’oppressione faraonica, probabilmente attorno al XIII secolo a.C., mentre imperava sull’Egitto Ramses II, che cederà il passo a suo figlio Mernephtah. La sua biografia era, però, iniziata già con un evento clamoroso, dai risvolti leggendari, quello del suo abbandono in una cesta di papiro lungo il Nilo: là era stato salvato dalla figlia stessa del faraone (un’analoga salvezza era stata narrata secoli prima per il re Sargon di Akkad in Mesopotamia).

Il suo nome, anche se liberamente spiegato dalla Bibbia come «estratto dalle acque» (Esodo 2,10), in realtà è egiziano ed è da ricondurre al termine mo se, “figlio”, che è presente in molti nomi faraonici come Tot-mose, Ah-mose, Ramose/messe (‘figlio del dio Tot, Ah, Ra” e così via).

Sta di fatto che egli diverrà il vessillo di Israele oppresso; con suo fratello Aronne e la sorella Maria condurrà le trattative col faraone per quell’esodo dall’Egitto che in realtà nella Bibbia è descritto almeno in due forme (e quindi due eventi) diverse, come fuga e come espulsione. Sarà lui a fungere da intermediario con Dio nelle aspre solitudini del Sinai, a superare difficoltà di ogni genere durante la marcia nel deserto e a vedersi a sorpresa escluso dall’ingresso nella Terra promessa (su questo fatto la Bibbia è reticente, nonostante qualche cenno). Ma la tradizione giudaica successiva immaginerà che sulla vetta del monte Nebo, ove egli morirà, Dio sia sceso per strappargli l’anima dal corpo attraverso un bacio sulla bocca.