CORAGGIO E FIEREZZA DI UNA MADRE


«Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me».

Le parole paradossali di Gesù, che risuoneranno nel Vangelo di questa domenica (Matteo 10,37) — e che sono l’espressione, di impronta semitica, di un atteggiamento di scelta radicale e senza compromessi per Cristo e per il Regno di Dio —, ci permettono di evocare una figura anonima ma di alto profilo eroico e spirituale che è delineata nel capitolo 7 del secondo Libro dei Maccabei.

È, questo, un libro deuterocanonico (è scritto in greco ed è solo nel Canone biblico cattolico), frutto del sunto di un’opera più ampia di un certo Giasone di Cirene, opera andata perduta. Lo scopo del testo, che ha tonalità e colori accesi e appassionati, era quello di esaltare l’epopea della rivoluzione dei fratelli Maccabei che, sotto la guida di uno di loro, Giuda, si ribellarono al potere siro-ellenistico che tentava di imporre anche a Israele fede, cultura, usi e costumi di netta impostazione pagana (lI secolo a.C.).
Il libro — che è autonomo e non è la continuazione del primo Libro dei Maccabei — celebra l’eroismo dei combattenti ebrei attraverso alcuni racconti esemplari.

Quella della madre di sette figli è forse la più “patetica” e commovente di queste narrazioni: la pagina, che è tutta in crescendo, dovrebbe essere letta integralmente. La madre, con coraggio sovrumano, spinge i sette figli a non esitare nell’affrontare la morte, nella consapevolezza che essa non sarà un abisso di nulla e di dissoluzione, ma una soglia aperta per entrare in una nuova vita. È così che il secondo dei figli, prima di esalare l’ultimo respiro, grida al carnefice: «Tu, scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (7,9).

La stessa fierezza e fiducia, stimolate dalla madre, sono testimoniate dal quarto dei figli che puntando l’indice contro il boia, esclama: «È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te la risurrezione non sarà per la vita» (7,14).

Da queste parole appare evidente che il giudaismo del periodo ellenistico credeva fermamente nella risurrezione come destino ultimo della creatura umana e nel giudizio divino sul bene e sul male. Similmente si era convinti che l’essere intero deriva dal Creatore che «l’ha fatto non da cose preesistenti» (7,28). È la dottrina della “creazione dal nulla” che è alla base della fiducia nella risurrezione, opera dello stesso Creatore.

Il racconto mette in scena in modo diretto anche il re Antioco IV, che regnò dal 175 al 64 a.C. sulla Siria e sulla Palestina cercando di imporre in modo rigido lo stile di vita greco e provocando la rivoluzione dei Maccabei a cui sopra si accennava. L’autore sacro lo raffigura come un personaggio sadico che «si sfoga sul più piccolo dei fratelli più duramente che sugli altri, sentendosi invelenito dallo scherno» (7,39) che quel ragazzino gli opponeva. «Ultima dopo i figli, anche la madre incontrò la morte» (7,41).