CAINO: DAI CAMPI COLTIVATI ALLE CITTÀ


La parabola del seminatore che la liturgia di questa domenica ci propone (Matteo 13,1-23) ha come elemento di comparazione il lavoro dell’agricoltore. Ora, nella Bibbia il capostipite ideale di questa professione è Caino: di lui, infatti, si dice che era «un lavoratore del suolo» (Genesi 4,2). Si intravede già l’opposizione col fratello Abele il quale era “pastore di greggi”, antica e costante antitesi tra sedentari e nomadi, un contrasto che anche ai nostri giorni si sperimenta da parte dei cittadini nei confronti degli zingari e viceversa.

La Bibbia, che rivela spesso la nostalgia delle origini nomadiche, non ha esitazione nel privilegiare Abele. Il nome di Caino, in ebraico Qajin, è dalla Genesi liberamente spiegato come «essere acquistato/creato dal Signore» (4,1), ma si tratta di un’assonanza destinata a esaltare il dono di un Figlio da parte del Creatore.

Forse il significato più genuino del nome rimanda invece al “lavorare il metallo” e attesta ulteriormente la fisionomia di Caino come uomo della città: non per nulla di lui la Genesi dice che fu il primo «costruttore di una città» (4,17), e che tra i suoi discendenti si annoverava anche «Tubalqain, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro» (4,22). L’agricoltura trascina con sé lo sviluppo urbanistico e tecnologico.

Avendo già presentato in passato la figura di Abele, non vogliamo ora soffermarci sull’evento tragico che segnerà per sempre la vita di Caino l’agricoltore, ossia l’assassinio di suo fratello, simbolo della violenza che dilaga proprio dalle strutture più evolute e complesse della società.

Noi ora ci ferineremo solo su un aspetto della sua vicenda posteriore al delitto, quando la voce di Dio gli artiglia la coscienza mescolandosi alla voce del sangue di Abele: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (4,10). Su di lui piomba il giudizio divino che lo strappa dalla sua terra e lo fa «ramingo e fuggiasco» (4,12).

Ma ecco anche la svolta del pentimento del colpevole: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!» (4,13). Ed è a questo punto che il Signore assume sotto la sua personale giurisdizione il peccatore: «Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte! Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato» (4,15). Forsè in questo “segno” si vuole fare riferimento a un tatuaggio o alle acconciature dei capelli o alle insegne che nell’antico Vicino Oriente contraddistinguevano le varie tribù e i cn. In questo caso si alluderebbe all’emblema che contrassegnava forse i Qeniti, una tribù considerata discendente da Caino.

Certo è che il segno di Caino ha ormai per l’autore biblico un valore religioso. È indizio della cura di Dio anche nei confronti dei peccatori. Dopo aver condannato l’assassino, il Signore non lo abbandona al suo destino ma lo accoglie sotto quella tutela a cui tutte le vite appartengono: potrebbe essere questa una delle basi più limpide per attestare la condanna della pena di morte da parte dello Stato nei confronti dei criminali. Il profeta Ezechiele riferirà queste parole del Signore: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva...? Io non godo della morte di chi muore. Convertitevi e vivrete!» (18,23.32).