GIAELE SALVA L’ESERCITO DI ISRAELE


«Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza... Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popoio che il giusto deve amare gli uomini». Queste parole, tratte dalla prima lettura biblica domenicale (Sapienza 12,18-19), ci permettono di intuire come anche l’Antico Testamento voglia condurre Israele verso un orizzonte di amore, di benevolenza, di generosità.

Certo, sono numerose le pagine bibliche grondanti sangue: esse, però, non ci devono scandalizzare, perché la Rivelazione non è una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo con l’estasi mistica, ma è concepita come un seme o un germe che si apre la strada nel terreno sordo, opaco e striato di sangue della storia. La miseria dell’uomo e la grandezza di Dio nella Bibbia camminano insieme.

È per questo che, quasi per contrasto con le frasi pacate e dolci del libro della Sapienza, noi facciamo entrare in scena una donna che riflette ancora una visioiie nazionalistica e pugnace. Tuttavia la sua azione, certamente crudele ed esecrabile, rivela l’anelito per la libertà e la giustizia di un popolo oppresso. La storia che vogliamo narrare è quella di Giaele, in ebraico lael, “capra di montagna”, un nome legato alla cultura nomadica e pastorale.

In quel periodo storico, forse nel XII secolo a.C., Israele era costituito da una serie di tribù autonome, rette da “giudici”, ossia da governatori locali. Nei momenti di maggior pericolo si costituivano coalizioni tribali a capo delle quali era posto un unico “giudice” carismatico.

Ora è il caso di una donna, conside rata una profetessa, Debora (“ape”): è lei a lanciare le tribù ebraiche in un aspro confronto coi potenti indigeni cananei, dotati di un forte esercito di carri guidato dal generale Sisara. La battaglia, però, si scatena durante un temporale e i carri cananei rimangono impantanati nella pianura settentrionale della Terrasanta e i militari fuggono, inseguiti dagli ebrei. Il generale Sisara corre, per salvarsi, verso un accampamento di nomadi appartenenti al gruppo dei qeniti, tradizionalmente ostili agli israeliti. Ma Giaele, moglie di un qenita, Eber, sceglie di schierarsi dalla parte dei più deboli, gli ebrei, che ora però sono i vincitori. Accoglie il generale, gli offre acqua e cagliata per dissetarlo e rifocillarlo e lo lascia addormentare.
Ma a questo punto lasciamo spazio allo splendido inno di Debora, l’eroina ebrea, che così canta il gesto macabro di Giaele.
«Una mano essa stese al picchetto (della tenda), e la destra a un martello da fabbri; / colpì Sisara, lo percosse alla testa, / ne fracassò, ne trapassò la tempia. / Ai piedi di lei si contorse, cadde, giacque; / ai piedi di lei si contorse, cadde, / dove si contorse, là cadde finito» (Giudici 5,26-27). Tre verbi riproducono visiva- mente la fine: «si contorse, cadde, giacque»; ma la loro triplice ripetizione estende e allarga il crollo del guerriero, facendolo simbolo della rovina del nemico intero.

Ben più debole è la ripresa di Manzoni nell’ode Marzo 1821: «quel (Dio) che in pugno alla maschia Giaele / pose il maglio, ed il colpo guidò». Sotto questa immagine violenta, però, l’autore sacro vuole esaltare la debolezza che, sostenuta dal Signore, trionfa, liberando le vittime dall’oppressione.