LE LINGUE DI FUOCO


Il racconto della Pentecoste cristiana presente nel capitolo 2 del secondo libro scritto da Luca, gli Atti degli Apostoli - un libro fatto nell’originale greco di 18.374 parole - ha stimolato non solo la teologia ma anche la fantasia. Quella raffigurazione dello Spirito Santo sotto il simbolo delle fiammelle (nell’originale si legge: «Lingue come di fuoco») ha dato il via a tante rappresentazioni artistiche con Maria e gli apostoli raccolti nel Cenacolo e con le teste sovrastate da altrettante fiamme. Ma in alcune chiese, in passato, alla lettura del brano degli Atti si facevano piovere dalle cupole petali di rose così da “sceneggiare” l’effetto del fuoco.
Anche in musica un famoso compositore, l’ungherese Zoltàn Kodàly (1882-1967), nel suo coro Per la Pentecoste non ha esitato a introdurre gli “zeng bong”, strumenti popolari della sua terra che imitano il suono delle campane. Ma non dobbiamo dimenticare un altro e meno noto musicista, il tedesco Wolfgang Fortner (1907-1987), che ha composto un moderno oratorio, la Storia di Pentecoste (1965), abbandonando gli aspetti foicloristici e concentrandosi sui temi spirituali di questa festa. Nel suono e nel canto egli, infatti, ha voluto coagulare l’esperienza dello Spirito che si fa parola, conversione e redenzione.
Ma ritorniamo alla pagina biblica e alla sua bellezza. Essa, ovviamente, si alimenta all’Antico Testamento e, in particolare, al simbolo del vento per una ragione abbastanza semplice e spontanea: in ebraico, un unico termine, ruah indica sia “vento” sia “spirito”. E' per questo che Gesù dice a Nicodemo: «Il vento soffia dove vuole e tu ne odi la voce, ma non sai mai da dove viene né dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Giovanni 3,8). Non sorprende più, a questo punto, il gesto apparentemente stravagante che il Cristo risorto compie sui discepoli la sera di Pasqua in quella che è stata chiamata “la Pentecoste giovannea”. Infatti, è ancora Giovanni a riferire: «I discepoli gioirono a vedere il Signore... Egli soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo!» (20,20-22).
Lo Spirito è quasi il respiro della stessa vita di Dio che viene infusa in noi per cui il fedele non considera più Dio come un imperatore impassibile che ci sovrasta minaccioso, bensì come un padre nei cui confronti si può usare quell’appellativo aramaico, la lingua stessa del Gesù storico, abha’, cioè “babbo, papà”. In questa luce diventano limpide le parole di Paolo: «Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba’, Padre!» (Galati 4,6). In noi c’è lo stesso respiro della vita di Cristo, il Figlio per eccellenza.
La pagina di Luca, però, attinge anche alla tradizione giudaica e in filigrana al Cenacolo fa balenare il monte dell’alleanza, il Sinai. Ecco, infatti, come un filosofo di Alessandria d’Egitto, Filone, contemporaneo di Paolo e di Luca, descrive il prodigio del monte: «Un rombo invisibile si era prodotto nell’aria, un vento si era articolato in parole e aveva trasformato l’aria in fuoco fiammeggiante, una voce era scesa dal cielo e si era divisa nel dialetto proprio degli spettatori». Ecco anche l’unità delle lingue, nell’armonia ritrovata, capace di cancellare la Babele dei popoli (Genesi 11).