LE COLPE DI GIONA


Prendiamo questa volta tra le mani un delizioso libretto dell’Antico Testamento, una specie di parabola in quattro capitoli che vede come protagonista un profeta di nome Giona, vissuto secoli prima della composizione di questa operina (era vissuto nell’VIII sec. a.C., come si dice in 2 Re 15,25, mentre il libro è forse del IV sec. a.C.). Il racconto esemplare è ricco di colpi di scena e di spunti esotici. Non manca nemmeno un pizzico di ironia quando, in apertura, si descrive Giona che, «sceso nella stiva della nave, si conca e s’addormenta profondamente», mentre i marinai pagani, «pieni di timore nei confronti del Signore, offrono sacrifici e fanno voti» (1,5.16) per placare il fortunale che si era scatenato.
Questo, infatti, è un racconto di mare ed è divenuto popolare per il pesce mostruoso, simbolo del caos acquatico distruttore e del giudizio divino, trasformato dalla tradizione in una balena, come dice il titolo di un famoso “spiritual” americano, Jonah and the whale. Il nome del profeta, in ebraico Jonah, significa “colomba”, ma egli è più simile a un falco integralista. Infatti non si rassegna che Dio lo mandi a predicare la conversione proprio a Ninive, la capitale degli Assiri, la città nemica di Israele per eccellenza.
È per questo che egli s’imbarca su «una nave di Tarshish», cioè su una specie di transatiantico battente bandiera fenicia, per avviarsi al lato opposto del mondo: se Ninive era a est, Tarshish era forse Gibilterra (o la Sardegna) e quindi a ovest. Si tratta, dunque, di un profeta renitente alla chiamata che non condivide l’eccessiva bontà di Dio, «misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che si lascia troppo impietosire dopo aver minacciato il giudizio» (4,2). Costretto, comunque, a recarsi a Ninive, rimane deluso perché quei pagani si convertono alla sua predicazione.
Il libro finisce, allora, con una specie di parabola in azione, quella dell’albero di ricino, del verme e del vento caldo - che invitiamo a leggere nel capitolo 4- e con una domanda che Dio rivolge al profeta ma anche a tutti i lettori chiusi di mentalità, incapaci di vedere il bene che c’è fuori del loro piccolo mondo, della loro comunità e della stessa loro fede: «Giona, non dovrei aver pietà di Ninive, grande città, nella quale risiedono più di 120.000 abitanti e una grande quantità di animali» (4,11).
Naturalmente un racconto pieno di colpi di scena come quello di Giona ha conquistato da sempre l’arte. Il profeta appare già nel Sarcofago del Laterano del III sec.; è dipinto da Michelangelo sulla volta della Sistina come un giovane che discute con Dio gesticolando (accanto a lui ci sono i simboli dell’albero di ricino e del pesce); Correggio sulla cupola di San Giovanni Evangelista a Parma e Rubens in una tela di Nancy lo immaginano vecchio e barbuto, mentre Jan Bruegel lo presenta nella scena del “vomito” della balena sulla spiaggia. Ma, scegliendo tra le decine e decine di testimonianze letterarie, vorrei ricordare solo l’attualizzazione dell’antica parabola fatta da due scrittori contemporanei. Nel 1900 il belga Iwan Gilkin in un romanzo lo ritrae come l’eroe militarista e razzista, convinto della necessità della guerra per eliminare le orde barbariche dall’Europa; nel 1940, in un poema, l’ungherese Mihaly Babits, invece, trasforma Giona in un intellettuale colpevole davanti ai crimini del nazismo.