COME UOMO TRAFITTO


Non possiamo non ritornare su Giobbe, il libro biblico a cui abbiamo dedicato l’ultima puntata della
nostra rubrica. Il grande filosofo danese Soeren Kierkegaard (1813-1855), che ha messo in filigrana a una sua opera, La ripresa, il libro di Giobbe, confessava: «Se non avessi Giobbe! Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore... Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la sua lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima».
Il testo poetico che, come è noto, fiorisce su un’antica parabola in prosa ha al centro il mistero di Dio che s’interseca, si scontra e s’intreccia col mistero dell’uomo e del male. La ricerca di Giobbe non si accontenta di spiegazioni di seconda mano o dei ritratti di Dio che gli offrono i tre amici Elifaz, Bildad e Zofar, ai quali in finale si aggiungerà Elihu. Essi incarnano la teologia ufficiale, convinta di imprigionare Dio e il suo agire nel perimetro della ragione umana e degli schemi teologici.
Giobbe, invece, affronta un viaggio libero verso il mistero, spoglio di tutto, senza le convenienze di una religione che ti dà premi o consolazioni. E in questo itinerario scatta anche la protesta, anzi la reazione quasi blasfema contro un Dio amato ma crudele e muto. Si hanno così pagine roventi come questa: «Ero sereno e Dio mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore» (16,12-14).
Le immagini sono potenti ma anche scandalose. Non è più il Dio liberatore dell’Esodo ma un tiranno perverso, un soldato barbaro che frantuma il cranio delle sue vittime con una mazza come fa il faraone sui “piloni” dei templi egizi e nella cosiddetta “tavolozza di Narmer” conservata al Museo del Cairo. In una mostruosa gara al bersaglio, Dio coi suoi arcieri — simili a quelli del palazzo reale di Persepoli in Iran — colpisce l’uomo negli organi vitali, nei reni, nella bile, nella carne. Eppure, di fronte a questo Dio-belva «contro di me digrigna i denti, contro di me il mio Nemico affila gli occhi» 16,9), Giobbe non può fare a meno di sperare in lui.
E alla fine l’incontro avviene in una delle pagine più splendide del libro, i due discorsi di Dio: il primo nelle 16 scene cosmiche (4 x 4, come i punti cardinali, simbolo di totalità) dei capitoli 38-39 e il secondo nei due quadri terribili e grandiosi dei capitoli 40-41 ove appaiono sulla ribalta Behemot e Leviatan che incarnano le forze oscure dell’essere e della storia che Dio, Signore supremo, controlla. Sarà allora Giobbe che tacerà, dopo aver confessato: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5).